Il fiume di parole, l’acquerugiola di piombo
(con qualche grazie a Casarini)
Dei romanzi bisogna sempre diffidare. Specie di certi romanzi d’oggigiorno, miscele sbarazzine di Storia e finzione, dove tutto sembra sempre tremendamente vero.
Diffidiamo, quindi, di Romanzo Criminale (Giancarlo De Cataldo, Einaudi, 2002): però leggiamolo, in certi punti ne vale la pena. Quando, per esempio, il poliziotto Scialoja riesce a farsi trasferire all’Antiterrorismo (nel ’78, proprio durante il sequestro Moro), restandone subito deluso:
"Le giornate se ne andavano tra una riunione investigativa e l’analisi dei verbosissimi documenti dei collettivi che sorgevano come funghi nel quartiere universitario. E a sera, travestito da ex giovane, assemblee, dove gli toccava familiarizzare con una caterva di ragazzini in fregola di lotta armata, artisti dell’eloquio involuto che spaccavano in quattro il capello dell’aderisco/non aderisco. Velleitari, tardoromantici, a volte involontariamente comici, con quella mania delle sigle e delle accuse da Terza Internazionale. Avanguardia operaia accusa il Movimento studentesco di essere la “nuova polizia”. Lotta continua accusa Ao di essere la “nuova nuova polizia”. Autop accusa Lc di essere la “nuova nuova nuova polizia”. Il tutto sotto gli occhi dell’unica, vera polizia, strategicamente disseminata nei punti cardinali del salotto, dell’aula magna, dello scantinato di turno. Scialoja, che aveva perfino letto il Che, riusciva a comprendere alcune delle loro ragioni. Ma non poteva dimenticare il sangue di via Fani. Quando versi il sangue, passi dalla parte sbagliata".
E attenzione, adesso:
"Scialoja, i brigatisti li immaginava tozzi, quadrati, freddi, meticolosi, banali nel quotidiano, metodici ragionieri del terrore. Se c’era qualcosa da pescare, quello delle barbe, dei toni incazzati e del rito collettivo era sicuramente il mare sbagliato. Questi potevano ammazzarti di citazioni di Marx, Deleuze e Guattari. Quegli altri avevano al massimo il diplomino delle centocinquanta ore e le mani callose, ma smontavano una mitraglietta in quarantacinque secondi. Questi qui erano un fiume di parole. Quegli altri un’acquerugiola di piombo.
Io non so se Sergio Segio abbia ragione, quando dice che “Le Brigate Rosse, sebbene ne siano una componente ultraminoritaria, sono e coabitano nel movimento, hanno infiltrato il sindacalismo di base. Sono interni ai loro luoghi, alle loro sedi, al loro dibattito politico”. In realtà non dice nulla che gli inquirenti non possano confermare: alcune Brigate Rosse circolavano nei luoghi del movimento. Le loro storie politiche – nota sempre Segio, “sono il calco di battaglie e parole d'ordine patrimonio del sindacalismo di base e del movimento della lotta per la casa e quella contro il lavoro interinale”.
Tutto questo è vero, ma è una verità troppo parziale. E non sono io, sono i fatti a mostrare che questo tentativo di infiltrazione non è riuscito, e che i brigatisti sono rimasti gli stessi, vecchi “ragionieri del terrore”, epigoni degli anni di piombo. Segio, come chiunque, crede giusto prendersela con Casarini; lo invita ad “aprire una dura battaglia politica”: sarebbe a dire? Cosa dovrebbe fare, Casarini, prendere distanza dal terrorismo ogni volta che dichiara qualcosa? (ormai ci siamo). Stigmatizzare il primo coglione in fregola rivoluzionaria che scrive su un muro “Gallesi spara ancora”? E in che modo dovrebbe “stigmatizzare”: con le buone, con le cattive? Insomma, Casarini deve diventare (ancor di più di quanto non sia già) il carabiniere del movimento, il capo della nuova nuova nuova nuova polizia? E una volta che Casarini sarà diventato così, di colpo le brutte scritte spariranno dai muri, i ragazzini capiranno che il terrorismo è brutto e marceranno compatti (coi propri corpi) verso il sole dell’avvenire?
Credo di averlo già detto: Casarini ha poche idee, forse sbagliate, ma chiare. Si è ritrovato, in mancanza di meglio, a rappresentare il mondo variegato dei Centri Sociali, che negli anni Novanta galleggiavano nel loro tran-tran autoreferenziale di occupazioni-repressioni-sgomberi-occupazioni-repressioni-sgomberi. È stato forse uno dei primi a rimettere fuori il naso e scoprire obiettivi di portata nazionale, e mondiale: il nuovo zapatismo, la scoperta della globalizzazione, la lotta contro i primi CPT (per la prima volta i giovani dei centri sociali non lottavano per i loro spazi, ma per la libertà di altre persone) e poi contro i grandi vertici: Ocse, Praga, Ventimiglia… (Napoli no)… Genova.
Durante tutto questo tempo, è fuori di discussione che Casarini si sia trovato spesso ad arringare giovani in fregola rivoluzionaria. Ma non ha mai parlato di lotta armata, forse non ha mai nemmeno parlato di rivoluzione. Per la verità, nessuno parla più di rivoluzione in Italia, a parte quello strano uomo che è Sandro Bondi (per lui le Brigate Rosse sono “all’interno del movimento rivoluzionario”: di chi sta parlando?) È una parola che è uscita dall’uso, lentamente ma inesorabilmente, dal 1977 in poi.
Casarini ha fatto forse qualcosa di più: ha cercato un metodo di lotta che non fosse armata, ma che mantenesse almeno un’immagine di radicalità in grado di attirare i ragazzini (perché di questo si tratta, nei centri sociali). Ha trasferito la violenza all’interno del “proprio corpo”: l’esortazione parossistica a ribellarsi col “proprio corpo” equivale al divieto di usare armi di offesa. Su questa “pratica di disobbedienza”, Casarini ha investito la propria immagine pubblica.
È una pratica utile? Dipende dal punto di vista. Farsi massacrare a un blocco non ha impedito nessun grande vertice; ma allo stesso tempo ha cementato un gruppo di persone unite dalla pratica, unite dalle manganellate che si sono prese, unite da una retorica che “rifiuta la dialettica violenza – non violenza” per approdare alla definizione di “disobbedienza”. Tutto questo può sembrare un poco ingenuo, ma non è lotta armata. Anzi, è qualcosa che ha tolto le radici alla lotta armata.
Dopodiché, non siamo obbligati a trovarlo simpatico, Casarini, così come non troviamo simpatici i “velleitari, tardoromantici” movimentisti descritti nel Romanzo Criminale. Ma dobbiamo riconoscere che c’è una bella differenza tra un fiume di parole e un’acquerugiola di piombo: la prima annoia orribilmente, la seconda uccide. Di “ragazzini in fregola rivoluzionaria” ce ne saranno sempre: di terroristi ce ne sono sempre meno. Casarini, Bernocchi, Caruso, potrebbero fare di più? Può darsi: notate però che stanno facendo qualcosa. E che se si meritano critiche, si meritano anche qualche ringraziamento. Per parte mia, almeno: grazie.
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