From Integration to Revelation, 2003 (seconda parte)
Riassunto della prima: cresciuto nella convinzione di dover studiare la cultura popolare in tutte le sue forme, secondo l'esempio luminoso di Roland Barthes e Umberto Eco, il nostro eroe soccombe ingloriosamente davanti all'idea di ciucciarsi una sola puntata dell'Isola dei Famosi. Ma cosa gli è successo?
Credo che sia, prima di tutto, un problema di feedback.
Non so se questo esempio chiarirà il problema, ma proviamo. All’inizio del Novecento un medico austriaco costruisce, sulla base di osservazioni condotte sui pazienti e una buona dose di intuizioni personali, una teoria che chiama psicoanalisi. La psicoanalisi è un metodo di diagnosi e cura di alcune malattie mentali, basato tra l’altro sull’interpretazione dei sogni, che gode nei decenni successivi di un incredibile successo. Questo successo, in parte, falsifica la psicanalisi stessa. Sì, perché dal momento in cui i pazienti dello psicanalista conoscono già l’opera di Freud, e sanno quali sogni sognare per ottenere dal loro medico la diagnosi desiderata, la psicoanalisi smette di essere un metodo di cura e diventa, parzialmente, una psicosi collettiva, in cui migliaia di pazienti in tutto il mondo non fanno che personalizzare le intuizioni e le visioni di Sigmund Freud.
Allo stesso modo il libro di Barthes, che per la prima volta cercava di decifrare i procedimenti ancora empirici e intuitivi della pubblicità, del design, della moda, conteneva nel ’57 molte verità, che hanno smesso di essere tali nel momento in cui gli operatori della pubblicità, del design e della moda hanno iniziato a tenere Mythologies sul comodino. C’è stata un’involuzione del marketing, che è forse quella descritta da Naomi Klein, per cui i pubblicitari hanno smesso di preoccuparsi di vendere i loro prodotti, e si sono concentrati nella produzione di messaggi decifrabili secondo le intuizioni e le visioni di Roland Barthes. Il Marketing è entrato nella sua fase manieristica: il suo problema non è più vendere prodotti (quali prodotti?), ma qualificarsi come Marketing, obbedire alle regole auree del Marketing, alcune delle quali codificate proprio in Mythologies. Così, da una parte potremmo concludere amaramente che il Mitologo è stato Integrato: voleva smontare il sistema, il sistema lo ha utilizzato come manuale di montaggio. Ma anche gli Integrati sono stati Mitologizzati: non vendono più prodotti, bensì mitologie.
Nel frattempo, Mythologies continua a vendere. E ogni ristampa Einaudi è un’occasione per mettere in copertina qualche oggetto vintage che nel ’57 era ancora un semplice articolo di consumo, e che anche grazie a Barthes si è trasformato in un feticcio che rende più appetibile il volume sugli scaffali della libreria (la “mitica” Déesse…). Così come Batman e Robin, ridicoli supereroi di un’età ingenua, fanno capolino sulla copertina della versione tascabile anni ’80 di Apocalittici e Integrati. Da oggetto di analisi semiotica a testimonial della semiotica popolare: ne hai fatta di strada, uomo pipistrello!
Di questa frastornante psicosi collettiva (il feedback è il fischio che si ottiene mettendo un microfono davanti al suo stesso amplificatore), in Italia ci siamo tenuti la parte peggiore. Succede sempre così: se in Europa lanciano il proletariato, noi ci attacchiamo al sottoproletariato. Il risultato è che oggi, oltre alla inutile e boriosa torre d’avorio degli intellettuali apocalittici alla Ceronetti o alla Citati, abbiamo un’altrettanto inutile torre di guano di professionisti del trash, cultori di Alvaro Vitali, Ciprì e Maresco, eccetera. Ma Alvaro Vitali è un feticcio tanto quanto lo è il Marcel Proust di Citati. Sostenere che le sue gag ci aiutino a capire la società italiana degli anni Settanta è un buffo paravento a cui nessuno crede davvero. Di solito Vitali ci piace perché faceva il bambino quando noi eravamo bambini (esattamente come Citati fa l'intellettuale di quando volevamo fare gli intellettuali).
Però almeno Vitali non finge di essere quello che non è – una categoria della contemporaneità, da studiare e interpretare. Ma il problema della nostra televisione è proprio questo. Non che rutti e scoreggi (il che comunque dopo un poco stanca). Ma che si consideri lo specchio fedele, ruttante e scoreggiante, della nostra società, quando invece tende sempre più a essere un circuito chiuso di poche facce note. Anche i reality show, teoricamente aperti alla “gente”, come ha osservato Serra, selezionano per il piccolo schermo personaggi unicamente adatti a essere selezionati sul piccolo schermo, in un circolo vizioso e anche un po’ viziato. Così che non solo ci troviamo condannati ad assistere a rutti e scoregge, ma siamo anche esortati a credere che rutti e scoregge siano la proiezione dei nostri desideri, del nostro universo mentale. È tempo di dire no: non è più vero, almeno da quando avete smesso di fare televisione e avete cominciato a fare sociologia della televisione.
Una sociologia di infimo grado, perlopiù, in parte scopiazzata dall’estero e in parte affidata alle intuizioni di qualche vecchio praticone. La televisione italiana è ormai la proiezione delle intuizioni e dei desideri di chi la fa, ed è convinto di farla per il nostro bene, e non lascia che nessun altro la faccia al suo posto. In pratica, quello che va in onda sulla maggior parte dei canali è una proiezione dell’universo mentale di Maurizio Costanzo. Che piaccia o no a qualcun altro a parte lui, l’auditel non lo rileva, e comunque il monopolio non consente alternative. E allora, se permettete, io spengo e vado a leggermi un libro. O scrivo qualcosa su un blog. Già. Ma cosa scrivo?
Il saggio “mitologico” più famoso di Umberto Eco – quello che ha davvero sdoganato la cosiddetta cultura di massa in Italia – è la Fenomenologia di Mike Bongiorno, nel primo Diario Minimo. Il titolo è geniale. Poche parole evocano abissi filosofici profondi come quelli spalancati dal termine “fenomenologia”. Accostando la fenomenologia a un personaggio noto, e così poco “intellettuale” come Mike Bongiorno, si ottiene un effetto surreale. Ma più che l’incontro di un ombrello con un ferro da stiro sulla ben nota tavola operatoria, il pensiero corra alla rima gozzaniana di Nietszche e camice. Prima di essere critica di costume, la Fenomenologia è piacevole, sorniona letteratura, con qualche venatura crepuscolare. Come Gozzano non poteva più credere in Nietzsche, così viene il sospetto che Eco non credesse più di tanto nel futuro delle fenomenologie (e avrebbe avuto ragione: Hegel è morto, Husserl è morto, Mike Bongiorno sta benissimo: vive e lavora anche per noi).
Ma del resto, Gozzano è molto più simpatico del superuomo, e la fenomenologia di Mike Bongiorno è molto più godibile di quella di Hegel. Forse chi mi ha fatto incontrare la semiotica di Eco così presto sono stati proprio Batman e Robin sulla copertina del tascabile Bompiani. Ecco un libro che prometteva di rendermi più colto, ma nel frattempo continuava a parlarmi delle cose che veramente mi interessavano negli anni Ottanta: fumetti e dischi. Riuscire a costruire fenomenologie sulle cose che mi piacevano era inebriante. E nel frattempo sentivo nominare Kafka e Joyce, quindi era cultura.
In questi giorni mi sto convincendo sempre più che scrivere ha senso solo se ti diverti – per quello che ti pagano. Ora io ho qualche dimestichezza con l’avorio e col guano, e posso imbastire una fenomenologia in una serata, se m’impegno. Posso parlare di Bud Spencer. O posso parlare di Houllebecq. Ma quale dei due discorsi è più divertente?
Forse Houellebecq. Che è letteratura cosiddetta alta, e particolarmente pessimista, antipatica, tragica. Eppure non mi ispira nessun timore reverenziale. Posso parlarne male, se mi va. E comunque vada, ci faccio la figura della persona colta: anche se scrivo una scemenza.
Invece Bud Spencer non posso stroncarlo. Rischierei di esser preso per un Apocalittico, uno che odia la cultura di massa e non guarda la tv. Se scelgo di parlarne debbo per forza parlarne bene. Ma così alla fine non mi diverto più, scusate.
Inoltre, è molto più facile scrivere scemenze su un Autore importante, che cose importanti su dei personaggi scemi. Per cui non me ne vogliate, se invece di cercare di scrivere qualcosa d’intelligente sull’Isola dei Famosi, scriverò un paio d’idiozie su Houellebecq.
Fermo restando che… La “demistificazione”, per usare ancora una parola che comincia a logorarsi, non è un’operazione olimpica. Voglio dire che non posso consentire alla tradizionale opinione che postula un divorzio di natura tra l’oggettività dello scienziato e l’oggettività dello scrittore, come se uno fosse dotato di una “libertà” e l’altro di una “vocazione”, ambedue atte a schivare o a sublimare i limiti reali della loro situazione: pretendo di vivere pienamente la contraddizione del mio tempo, che di un sarcasmo può fare la condizione della verità. (Roland Barthes, 1957. It's been a long time, been a long time, Been a long lonely, lonely, lonely, lonely, lonely time).
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