Traffico di senso: la parola “Cultura”
La parola “cultura” ha un’enorme pregnanza di significati, ed è al centro di infiniti dibattiti. Eppure fino a qualche anno fa non avevo problemi a maneggiarla.
Davo per scontato che “Cultura” fosse sinonimo di “conoscenza”, “educazione”, “civiltà”.
Una classica opposizione era quella tra “natura/cultura” (che a seconda dei casi poteva anche diventare “eredità/ambiente”).
Oggi mi sembra che il significato della parola, nel suo uso comune, sia impercettibilmente mutato, seguendo una certa tendenza politica. Se in precedenza la “cultura” poteva essere considerata, magari ingenuamente un concetto progressista, oggi a rivendicare il diritto a “riscoprire la propria cultura” sono soprattutto quei movimenti che potremmo chiamare identitari, perché insistono sul valore dell’identità, dell’appartenenza. Parlano di cultura i leghisti, quando si radunano sul Po; parlano di cultura i cattolici, invece di insistere sulla fede (anche fede e cultura un tempo potevano essere considerati antinomici); parlano di cultura i postfascisti (e non scendono in dettaglio)… e poi, di riflesso, parlano di “cultura” e “radici” varie realtà anche a sinistra (vedi pochi giorni fa l’anniversario della scissione di Livorno): ma è il segno appunto di un ripiegamento, di un fare quadrato su un passato remoto che dovrebbe dare un senso al presente.
Così lentamente, ma inesorabilmente, “cultura” diventa il primo termine di nuove antinomie: “cultura/modernità”, “cultura/globalizzazione”, perfino “cultura/progresso” a guardar bene.
Un libro che ci fa discutere è “The clash of civilizations”: dove il termine “civilization”, che lo si voglia tradurre “cultura” o “civiltà” e già completamente riciclato in questo senso.
Volendo riassumere alcuni passaggi di questa progressiva deriva della parola “cultura”:
1. La cultura non è appannaggio di un’élite, ma di qualsiasi comunità.
2. Non esiste una sola cultura, ma ne esistono tante.
3. Nessuna cultura ha il diritto di imporsi sulle altre.
(Fin qui, come si vede, restiamo in un’ottica progressista: la scoperta delle culture popolari, la difesa delle minoranze, ecc.).
4. Ogni cultura ha diritto di difendere la propria identità dagli attacchi dell’esterno.
5. Ogni cultura ha il diritto di rifiutare gli apporti dell’esterno.
6. Il progresso, la globalizzazione, l’immigrazione, minacciano l’identità delle culture.
(Siamo in questa fase. La seguente, se il pendolo non si sbriga a oscillare, potrebbe essere sintetizzata in questi paradossi:)
7. Ogni cultura è incomunicabile e incomprensibile alle altre.
8. La cultura è innata (se non è comunicabile, essa non può che provenirci dalla nascita; e infatti si è ariani, o celti, ecc. per nascita, e non serve studiare, anzi lo studio è rischioso, perché può portare alla conoscenza di altre culture).
9. Ogni cultura è in lotta con le altre per la sopravvivenza: ma siccome le culture non sono comunicabili, questa lotta non può basarsi sulla forza di convinzione, ma soltanto sulla riproduzione forzata e sul genocidio.
Il punto 9 potrebbe sembrare esageratamente apocalittico, non fosse che il Novecento è stato un secolo di genocidi (alcuni sono in corso tuttora).
Quanto alla riproduzione forzata, si veda come la maggior parte delle comunità integraliste rifiutino di praticare il controllo delle nascite. Quello della Chiesa cattolica è il caso più eclatante… avremo occasione di riparlarne.
È interessante come in un tempo relativamente breve l’uso di una parola possa trasformarsi in qualcosa di così diverso… oggi tutti vogliamo tornare alle nostre radici: recuperare una cultura ancestrale che nessuno ci ha mai insegnato, e che ci appartiene per solo diritto di nascita. Le minoranze non sono meno aggressive delle maggioranze in questa riscoperta dei dialetti, delle identità, delle appartenenze. Meglio ancora se di queste culture ne abbiamo due, perché siamo meticci (e intimamente ne soffriamo, ovvio: l’inevitabile ‘lacerazione’), o perché siamo nati in un posto e cresciuti in un altro, e quindi in entrambi possiamo rivendicare la nostra estraneità, quando serve.
è il padre di tutti i pipponi sul concetto di Cultura: a distanza di anni mi sembra ancora un buon esempio di chiarezza d'esposizione.
RispondiEliminaStavo studiando per il concorso, e ne approfittavo per mettere in discussione tutta la mia "cultura": cos'è che "conoscevo" realmente?
In seguito mi sembra di aver girato sempre intorno alla stessa idea: quella che chiamiamo Cultura è proprio quello che abbiamo deciso di dare per scontato (e che quindi non conosciamo). E' il paradosso per cui oggi Vittorio Feltri e i suoi lettori sono diventati buoni esegeti del Corano, e ancora non hanno aperto una Bibbia.
L'altra definizione interessante, quella di "Traffico di senso", è rimasta in ombra: ed è un peccato. Ero affascinato dal fatto che le parole, nel tempo, cambino di senso, per cui molto spesso il dialogo tra noi e i nostri antenati sia reso impossibile da questo *traffico* di significati che viaggiano da una parola all'altra.
Per fare un esempio non so più quanto preciso, "gelosia" è una parola di origine biblica: all'inizio si riferiva alla gelosia di Dio nei confronti dell'uomo ("Non avrai altro Dio all'infuori di me!") All'inizio, anche parlando di gelosia degli uomini, la si paragonava alla gelosia divina.
Finché a un certo punto (quando?) "gelosia" ha assunto il significato di un sentimento del tutto umano, troppo umano. E a quel punto, se rileggiamo la Bibbia, dove dice "Io sono un Dio geloso", ci sembra che Jahve faccia una scenata in un interno borghese. La "gelosia" umana ci impedisce di capire cosa fosse, esattamente, la "gelosia" divina.