Marciare o marcire
Quello che mi sarebbe piaciuto sentire, il giorno dopo, non sono i soliti dibattiti intorno alle cifre (tra due e tre milioni sembra che non faccia una grande differenza), e nemmeno il solito Bertinotti raggiante che annuncia: “È nato un nuovo soggetto politico” (un altro? Ma non era nato l’anno scorso, o l’anno prima?)
Quello che mi piacerebbe sentire, o leggere, e che non ho trovato (ma onestamente non ho cercato molto), è una riflessione scientifica su questo fatto: in Italia, da due o tre anni a questa parte, si radunano in piazza folle oceaniche. Perché?
La prima risposta spontanea è che si tratta di un momento storico senza precedenti, ma se abbiamo un po’ di memoria e di onestà intellettuale dobbiamo ammettere che l’unica cosa speciale di questo momento storico è il fatto che lo stiamo vivendo adesso. Per il resto, l’inverno 2002-2003 sembra un collage di momenti storici del passato: c’è una guerra nel golfo alle porte (come 12 anni fa) e Berlusconi al governo (come 9 anni fa). Anche 12 e 9 anni fa si organizzavano manifestazioni nazionali. Ma non riuscivano così oceaniche. Cos’è cambiato, esattamente?
C’è chi spiega il fenomeno come una reazione al “vuoto della politica” (come ad esempio Ilvo Diamanti sulla Repubblica di domenica (“Quel vuoto della politica che crea partecipazione”):
È che il linguaggio della politica prevalente, inaridito, povero, chiuso, genera claustrofobia politica; e suscita una diffusa domanda di partecipazione e condivisione fuori e oltre i modelli tradizionali
Non mi basta. Da quando sto al mondo sento dire che il linguaggio della politica è inaridito, povero, chiuso, claustrofobico; però è solo da due anni che mi ritrovo in strade e piazze insieme a milioni di persone. Dev’esserci qualcosa di nuovo, perché la crisi (anche economica) dei grandi partiti di massa dura da più di quindici anni. E in ogni caso non mi sembrerebbe un motivo a favore, al contrario.
Proviamo a sgomberare il campo da ogni residuato ideologico. Se tanta gente si ritrova in piazza, non sarà per una mera questione tecnica? Forse che l’innovazione tecnologica lo ha reso in qualche modo più facile? Per quanto riguarda i trasporti, no di certo: viaggiare in treno o in corriera continua a essere – per i manifestanti – comodo, costoso e pericoloso. (Ogni volta che scendo da una corriera mi vien voglia di baciare il suolo. Sabato il nostro conducente si era perso nel Raccordo Anulare, e abbiamo sorpassato un’altra corriera che aveva tamponato una volante della polizia).
L’unica vera innovazione che mi viene in mente sono i cellulari. Molta gente, che forse prima avrebbe avuto paura di perdersi nella folla e non ritrovare più la sua comitiva, oggi non conosce più questo tipo di paura: s’infila il cellulare nello zaino e va nella manifestazione. Salvo bestemmiare, perché in un caso su tre la rete non tiene e il caos diventa generale: a parte questo, il corteo è diventata una di quelle situzioni che non riesci più a immaginare senza cellulare (“ma come diavolo facevano prima?”)
Già che ci siamo, potremmo timidamente suggerire che anche Internet c’entri in qualche modo. Gli organi di partito non esistono più (a stento esistono ancora i partiti), i grandi leader hanno altro da fare che invitare alle adunate (tipo brigare per un posto in prima fila da Vespa): ma le mailing list arrivano ogni giorno a centinaia di migliaia di italiani. Magari non le leggiamo, ma le teniamo lì: quando poi ci ricordiamo che il tal giorno c’è una manifestazione, le informazioni pratiche le andiamo a cercare nella nostra casella. È solo un esempio.
In generale, Internet ti abitua a dialogare con persone che non abitano nella tua città, a pensare, se non globale, per lo meno nazionale. E qui si potrebbe parlare anche dei bloggatori, e di quanto gli piaccia andare alle manifestazioni e incontrarsi di persona (e organizzare dei progetti, come è successo con l’UBW): con l’avvertenza che i blog non rappresentano che un millesimo del fenomeno.
È possibile, poi, che molta gente vada tutta assieme nello stesso posto perché si diverte? Ammetto che la mia idea di divertimento è molto lontana dal marciare in una ressa di migliaia di persone: ma forse se sommassimo tutte le nostre idee di divertimento e le dividessimo per ciascuno di noi, il risultato sarebbe una cosa del genere. In corteo ci si trova ormai di tutto, e mescolato: sabato, cercando di entrare in Piazza San Giovanni, ci siamo incastrati tra i manifestanti del centro islamico di Bergamo che inscenavano il funerale di un bambino; più indietro c’erano ragazzi accampati sul furgone di un sound system che sembravano venire da un rave, anzi esserci; più indietro ancora boy scout, pensionati, lo SLAI Cobas che gridava “datti una mossa classe operaia”, ma come rivendicazioni era rimasta al pacchetto Treu.
È possibile che tutta questa gente sia in grado di fare qualcosa insieme, a parte marciare? Credo di no. Ed è forse per questo che continuiamo a marciare: perché è l’unica cosa che ci riesce bene. Per questo ogni volta Bertinotti saluta la nascita di un nuovo soggetto politico che, a parte nascere, riesce a fare ben poco.
Triste ironia, per un movimento pacifista e anche un po’ anarcoide: condannati a marciare compatti, per dimostrare (anche a noi stessi) che esistiamo.
Poi, appena il corteo si scioglie, ripartono i dibattiti, i distinguo, le polemiche, i rancori. Ne è prova il dopo-23 marzo: è passato quasi un anno da quando “la manifestazione più grande del dopoguerra” (perché, prima le facevano più grandi?) in mezza giornata ha detto no alla riforma sull’articolo 18. Il contenuto della manifestazione era chiaro e condiviso, lo schiaffo al governo fu sonoro e ben piazzato. Berlusconi smise di parlare di riforma del lavoro e iniziò a preoccuparsi d’altro. Bertinotti salutò la nascita, ecc..
Oggi potremmo cantare vittoria. E invece no. Il fronte che un anno fa era compatto si è già spezzato, grazie al referendum sull’estensione dei diritti. Referendum promosso anche da Rifondazione.
A me non dispiace marciare, anche se non posso dire di divertirmi. Non mi dà fastidio se molta gente intorno a me non sa che altro fare, a parte marciare: forse non lo so neanch’io. Quello che m’infastidisce è vedere persone che hanno le idee chiare su cosa intendono fare: intendono marciare. Se possibile, in testa, sennò nel mezzo, ma comunque marciare. Il problema di passare a una fase successiva non li tocca, non c’è mai una fase successiva, ogni giorno è un buon giorno per nascere. Anche cambiare il mondo, non è necessario, quel che è importante sono le loro ragioni, la loro identità. Che il mondo se ne vada a p u t t a n e, loro avevano ragione, loro lo sapevano. Avevano ragione sin dai tempi del pacchetto Treu, prima del Kossovo e del Vietnam, l’avevano prima che noialtri nascessimo. E del resto, noialtri cosa vuoi che ne sappiamo: nasciamo tutti i giorni, quindi siamo anche nati ieri. Auguri a tutti.
che il primo che mi dice qualcosa sulla bandiera appesa al balcone chiamo i miei amici, e occhio che sono centodieci milioni...
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