Stile balneare
Quest'estate voglio andare al mare / per le vacanze è una frase molto banale, che descrive un desiderio altrettanto banale. Tanta banalità può essere fortemente sospetta, ma anche no. Dipenderà da come intendiamo gli anni Ottanta: età dell'oro o del fango, da un punto di vista infantile o senile. Da quello infantile, non c'è dubbio che quell'estate volessimo andare al mare per le vacanze (e "sopra i ponti delle autostrade c'è qualcuno fermo che ci saluta").
Da un punto di vista senile, non dimentichiamoci che il 1982 era un anno già saturo di messaggi. Canzoni sulla spiaggia se ne cantavano da trent'anni (con alcuni capolavori inarrivabili: sei diventata nera come il carbon, sapore di sale sapore di te, un bacio a labbra salate, un fuoco quattro risate a far l’amore giù al faro). Giuni Russo si trova sul palcoscenico in un momento in cui già sembra impossibile aggiungere qualcosa di nuovo. Si aggiunga che la Storia era finita più o meno in quegli anni: negli arsenali c'era già abbastanza potenziale da spazzare l'intero genere umano in mezz'ora (appena di 3 miliardi e mezzo di persone). La contestazione, gli anni di piombo, l'eroina. Ma quest'estate voglio andare al mare, per le vacanze.
(Gli anni Ottanta come una vacanza, un piccolo break della Storia, tra un massacro e l'altro).
La frase è un esempio di grado zero dell'ironia: c'è solo se vuoi trovarcela. Ma se non vuoi, se non t'interessa, se non sei abbastanza colto o raffinato o smaliziato per capirla, essa semplicemente non c'è, e la canzone resta ugualmente godibile. Il genio del Battiato tra '79 e '83 è tutto qui: si potevano fare canzoni sciocche che sembrassero incredibilmente smaliziate, ma che vendessero come canzoncine sciocche, semplicemente montando rammenti da altre canzoni, altri successi per l'estate. Quando neanche il montaggio funziona, si può essere semplicemente sé stessi, o una versione un po' più banale di sé stessi. Giuni, che ti va di fare quest'estate? Mah, quest'estate voglio andare al mare.
Il successo di Battiato / Russo è del 1982: un anno in cui tutti gli italiani hanno avuto almeno un'occasione per riflettere sull'aspetto terribilmente banale che può assumere la felicità. (Campioni del Mondo! Campioni del Mondo! Campioni del Mondo!) L'anno dopo Umberto Eco pubblica su "Alfabeta" le Postille a "Il nome della Rosa", in cui definisce pulitamente la sua idea di postmoderno. Innanzitutto "il post-moderno non è una categoria circoscrivibile cronologicamente, ma una categoria spirituale […] un modo di operare. Potremmo dire che ogni epoca ha il proprio post-moderno". Ogni volta che la coda della storia si fa troppo pesante ("Il passato ci condiziona, ci sta addosso, ci ricatta"), e la tentazione di tagliarla di netto (il moderno, l'avanguardia) si rivela fallimentare, ecco che "la risposta post-moderna al moderno consiste nel riconoscere che il passato, visto che non può essere distrutto perché la sua distruzione porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non innocente".
Nella pratica, Eco pensa di riutilizzare Liala
Penso all'atteggiamento post-moderno come a quello di chi ami una donna, molto colta, e che sappia che non può dirle "ti amo disperatamente", perché lui sa che lei sa (e che lei sa che lui sa) che queste frasi le ha già scritte Liala. Tuttavia c'è una soluzione. Potrà dire: "come direbbe Liala, ti amo disperatamente". A questo punto, avendo evitata la falsa innocenza, avendo detto chiaramente che non si può più parlare in modo innocente, costui avrà però detto alla donna ciò che voleva dirle: che la ama, ma che la ama in un'epoca di innocenza perduta. Se la donna sta al gioco, avrà ricevuto una dichiarazione d'amore, ugualmente. Nessuno dei due interlocutori si sentirà innocente, entrambi avranno accettato la sfida del passato, del già detto che non si può eliminare, entrambi giocheranno coscientemente e con piacere al gioco dell'ironia… Ma entrambi saranno riusciti ancora una volta a parlare d'amore.
Implicita, nell'esempio di Eco, una meditazione su cultura e… come chiamarlo, "amore"? Mah, chiamiamolo "bisogno". Mentre la cultura si avvita su sé stessa e genera gusti sempre più complessi (ma è un progresso verso il silenzio, perché ogni scrittore, da Liala in poi, non aggiunge parole, ma le toglie all'innamorato 'moderno' che non può dirle perché sono già state scritte da qualche parte), i nostri bisogni rimangono tutto sommato gli stessi: amarsi, parlare d'amore. Negli '80 la "donna molto colta" (e il suo uomo) non possono più ripetere le frasi di Liala, eppure hanno gli stessi bisogni dei lettori di Liala di 30-40 anni prima. Il post-moderno ovvia a questa divaricazione tra gusto (sempre più sofisticato) e bisogno (più o meno sempre lo stesso, e banale). Dando per scontato qualcosa di fondamentale: che dei nostri bisogni, anche in assenza di un'educazione cattolica, noi ci vergogniamo. Non fosse altro che per la loro banalità. Ci vergogniamo, sì, ma in qualche modo dobbiamo venire a patti con loro. Anche a costo di saccheggiare Liala.
Allo stesso modo, quell'estate, quaranta milioni d'italiani avrebbero avuto voglia di andare al mare, "come direbbe Giuni Russo". Desiderio banale, ma l'importante è che si possa ancora comunicare. La canzone, quella popolare, serve a questo. Battiato lo aveva capito. (In seguito se l'è dimenticato, poi gli è tornato in mente, poi se lo è dimenticato di nuovo, ecc., un po' come tutti).
Il fatto è che il miracolo di "Quest'estate al mare" non era così semplice da replicare. Dall'intro fino al libitum finale, tutta la canzone strizza l'occhio all'ascoltatore: io sono più intelligente di così, con la voce che ho potrei cantare meglio (ma "per regalo voglio un harmonizer con quel trucco che ti sdoppia la voce"). Un tocco di erotismo ambiguo, quel che basta ad ammiccare senza sparire dalla fascia protetta ("per le strade mercenarie del sesso, che procurano fantastiche illusioni…"). Persino un bambino (io) di fronte alla glossolalia esibita degli "ombrelloni oni oni" non può non cedere al sospetto che ci sia qualcosa sotto: qualcosa, ovvio, di più intelligente di così. Anche se tutto sommato non c'era bisogno davvero di produrre qualcosa di intelligente: l'allusione, l'ammiccamento, sono più che sufficienti. L'astuzia dello stile balneare: facciamo i bambini per dimostrare che non siamo più bambini. Oppure: facciamo i piccolo-borghesi per dimostrare che, etc.. Vincente, anche e soprattutto da un punto di vista commerciale: perché queste canzoni mettono d'accordo adulti e bambini, borghesi e snob. Ognuno ha la sua interpretazione, anzi, ancora meglio: ognuno può slittare da un'interpretazione a un'altra, senza che nessuno se ne accorga. Quand'è che abbiamo smesso di cantare "Cuccuruccuccù" perché era un ritornello scemo e ci siamo messi a cantare "Cuccuruccuccù" perché era una canzone malinconica e struggente? In ogni caso, un bambino che canta "Cuccuruccuccù" sembra già più intelligente; un adulto che canta "Cuccuruccuccù" sembra altrettanto scanzonato e intelligente, senza fare niente di particolarmente impegnativo che non sia cantare "Cuccuruccuccù".
Il metodo vantava, ovviamente, ripetuti tentativi di imitazione. "Un'estate al mare" è la matrigna di una serie di canzoni che hanno illuminato le estati '80: ironiche e stupide a scelta. L'estate sta finendo, Maracaibo, mare forza nove, etc.. Queste canzoni tuttora continuano a far ballare i trentenni sulle spiagge: sulla distanza sono sopravvissute al revival delle sigle dei cartoni giapponesi: segno che anche la nostalgia col tempo si fa un po' più sofisticata?
Il ritornello più esemplare mi sembra "Cocco bello / cocco fresco / non è che mi diverta", di Orietta Berti (ma c'è ancora lo zampino di Battiato, sotto pseudonimo). Anche in questo caso, sono possibili infinite letture: non che io mi diverta a cantare queste scemenze; e invece sì, mi diverto un mondo a stare in spiaggia e ascoltare i venditori di cocco in lontananza; oppure, mi diverto un sacco (a cantare e a prendere il sole) ma non ho il coraggio di ammetterlo, etc.. Piccoli pudori dei primi anni '80. Si praticava il banalotto (che non era ancora trash), ma si confessava (o si affettava) un certo imbarazzo. Non si grufolava ancora nel truogolo: quello è venuto dopo.
La stessa Giuni Russo si sentiva probabilmente prigioniera del genere: due anni dopo tentò di imporre un 45 giri con una bella canzone d'atmosfera, poetica, Mediterranea: ma i dj delle radio le preferirono il lato B, Limonata Cha Cha Cha ("Cha Cha Cha / della limonata / Cha Cha Cha / seduti in riva al mar"). Ancora due anni, e poi la resa: nel 1986 Giuni dichiarava di voler fuggire ad Alghero in compagnia dello straniero. Più che giusto che la genitrice non sapesse come si buttava via il talento della figlia.
[continua]
Giuni Russo non ha certo sprecato il suo enorme (unico) talento. Ha rinunciato al facile successo per cantare, con la sua voce ineguagliabile, splendidi pezzi (la sua figura, la sposa, l'addio...). Una voce che dovrebbe essere dichiarata patrimonio nazionale. GRAZIE GIUNI!
RispondiEliminaFILIPPO