Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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sabato 23 dicembre 2006

- non è Natale se non è relativista culturale

Gli spettri dei Natali passati

Tutti mangiamo il panettone a Natale, ma solo i credenti sanno perché lo mangiano. Non è che il loro panettone sia necessariamente piú buono di quello dei non credenti: è semplicemente piú ragionevole.
(Cardinale Biffi)

1) Publio Plinio a Domizio Rufo:
"Carissimo, ti auguro con questa epistola di trascorrere un buon Natale del Sole. Non so da voi, ma qui a Mediolanum ormai lo festeggiano tutti: persino i cristiani! Sì, anche quella setta di santoni pseudoebrei, gli adoratori dei crocefissi, dopo qualche resistenza ormai si sono decisi a festeggiare come tutti gli altri.
Non c’è che da apprezzare la saggezza del nostro grande imperatore Aureliano, che volle rendere ufficiale la festa, l’ottavo giorno prima delle Calende di Gennaio. Noi cittadini dell’impero siamo diversi per lingua, razza e religione, ma tutti siamo scaldati dallo stesso Sole, che dopo il freddissimo Solstizio d’Inverno ora ricomincia timidamente a riallungare le giornate. Né Aureliano volle inventarsi una Festa di sana pianta, ma lungamente studiò il problema coi suoi collaboratori, scoprendo che la festa della Rinascita del Sole è la più universale; anche se alcuni lo chiamano Mitra, altri Elagabal, altri Helios: in fin dei conti è sempre lo stesso per tutti, e tutti ugualmente ci riscalda.

Solo i cristiani, nella loro superstizione, sono convinti di non adorarlo. Ho appreso da un mio servo, che partecipa alle loro riunioni, che pure loro mangiano gli stessi dolci impastati con frutta candita e miele: ma non per festeggiare il Sole a cui devono la frutta e i fiori, bensì la nascita del loro Dio, o profeta (essi non hanno chiara la distinzione tra i termini), Gesù Cristo.
Confesso di essere affascinato dall’ignoranza che nutrono per la loro stessa religione. Avendo dato un’occhiata, per curiosità, ai loro libri sacri, so bene che in nessun giorno del calendario è fissata la data di nascita del loro eroe. Stavo quasi per dirlo al mio servo, ma a che pro? Non sa leggere. Ma lasciamolo pure mangiare il suo pane dolce e i suoi canditi, anche se ignora l’autentico significato di ciò che fa".

2) Ebrhardt a Kwenghjil
"Gran figlio di vacca visigota e padre ignoto, come va? Spero che in Hispania faccia meno freddo che qui. Tra un po’, grazie al cielo, le giornate si riallungheranno. Nel frattempo io me ne resto accampato in questa nebbiosa valle padana. E mi si gelano i coglioni.
Mi gelano anche perché la mia Orda ha deciso di convertirsi in blocco a quella religione del menga, il Cristianesimo.
Dicono che conviene farsi amici i vescovi, che sono i veri capi delle città. Mah. Fosse per me avrei giù brindato coi loro teschi disossati, ma forse hanno ragione. Ci vuole gente che sappia amministrare tutto questo casino.
Del resto mi conosci, io di religione mi sono sempre interessato quanto bastava per portare le fanciulle alle orge. Però, boia d’un Thor, non toccatemi Odino! Te lo ricordi, Kwenghjil, quando eravamo bambini e la mamma ci diceva di mettere fuori gli stivali pieni di carote per il cavallo del dio Odino?
Era due giorni dopo il solstizio d’inverno, come oggi. Nella notte lunghissima il dio con la barba bianca portava gli eroi caduti a una battuta di caccia. E quando si fermava alla nostra stalla, dovevamo essere a letto e non fiatare, se volevamo che ci riempisse gli stivali di nocciole al miele e altre leccornie.
E adesso mi spieghi, Kwenghjil? Se mi converto al cristianesimo, cosa ci racconto al mio nipotino? Ha il diritto di credere in Odino anche lui, o no?
Ieri sera l’ho preso davanti al fuoco e ho attaccato con la storia del dio che cavalca nella notte. Si è messo a piangere come un puledrino! Ben ti sta, mi ha detto mia moglie. Basta con queste storie di Dei barbari a cavallo, mi dice, sei vecchio, aggiornati! Se non fossi il vecchione che sono l’avrei impalata lì dov’era! E invece l’ho lasciata fare: ha preso in braccio il marmocchio e (non credevo alle mie orecchie) ha completato il racconto spiegando che Odino era un dio cattivo e feroce, che abitava nei boschi, ma poi ha incontrato un tale San Nikolao, Santa Nicola, non so, che ha convertito pure lui, e da allora è buono e porta i dolci dal camino!
...E poi dimmi se a uno non devono gelarsi le palle. Dove sono finite le tradizioni dei nostri padri? È tutta una schifezza. Meno male che posso mangiarmi ancora le mie nocciole al miele. Le mangio alla tua salute, vecchio scannagalline".


3) Ing. Taddei Barnaba a Dott. Taddei Luciano
"Ciao dutùr, spero che ti passi un buon Natale. Qui a Milano è un freddo cane come sempre (e poi dicono il riscaldamento globale, bah). Ma se Dio vuole, da qui in poi ci si riallungheranno le giornate.
Ti saluta anche tuo nipote – perlomeno ti saluterebbe, se riuscissimo a staccarlo da quella plaistescion rivoluzionaria che gli hai regalato. Che sia l’ultima volta: siamo seriamente preoccupati. Da mezzanotte alle nove del mattino è rimasto lì impalato a dimenarsi davanti al televisore. Al che mia moglie gli ha detto: “Ma devi proprio giocarci da solo? Perché non inviti i tuoi amici?”
Gli amici di mio figlio: un cinese, un turco e un Di Gennaro. Tre ore chiusi nella stanza a dar di matto con quell’affare. A un certo punto blocco mia moglie nel corridoio con in mano un vassoio di panettone: ma sei sicura? Le ho detto io. E se è contro la loro religione?
Ma che religione e religione, fa lei. È un dolce, non lo proibisce nessuno. Appunto, faccio io, è un dolce di Natale, cosa vuoi che sappiano in Cina? Loro mica ci credono, in Babbo Natale. E poi c’è un turco, figurati.
Proprio in quel momento dal bagno salta fuori Giampiero, e alza le spalle: Papà, dice, veramente Babbo Natale viene dalla Turchia. Ma che Turchia e Turchia, dico io, chi te le racconta queste cose? La prof di religione, dice lui. Ci ha spiegato che Babbo Natale è San Nicola, e San Nicola è nato in una città che adesso è in Turchia. Ah, sì? Vorrà dire che l’anno prossimo ti esentiamo dalla materia, visto che la tua prof non sa nemmeno che San Nicola sta a Bari!
E vai!, ha detto lui. Che stronzetto ho messo al mondo.
Alla fine se lo sono sbafato, il panettone. Glie n’è fregato assai, di sapere perché lo mangiano. Che mondo. Che mondo.
Speriamo in un po’ di sole".
(...E un buon Natale di Sole a tutti quanti).

giovedì 21 dicembre 2006

- I scratch a living, it ain't easy

Disco 2006

Non è che non piacerebbe anche a me, stilare la top 10 dei dischi dell’anno. Se solo quest’anno fossi riuscito ad ascoltarne 10.

La verità è che ho raccolto solo qualche canzone sparsa qua e là, e non ha molto senso metterle in ordine. Tutto quello che riesco ad allestire è una piccola cerimonia per… la Canzone dell’Anno.

Ma intendiamoci, la Canzone dell’Anno 2006 non è la più bella del 2006, non ci tengo ad essere fatto a pezzi. La mia preferita, se proprio v’interessa, è Young folks, un inno al rapporto di coppia contro tutto e contro tutti. O perlomeno così ho voluto capirla (e fischiettarla) io. Chi non l’ha mai ascoltata non ha da rimproverarsi, fa ancora in tempo a documentarsi (via polaroid ovviamente, è roba svedese). Ma non credo che a molti Young folks possa ricordare particolarmente il 2006.

La Canzone dell’Anno, invece, è la canzone che dovrebbe aiutarci a capire che razza di anno è stato questo. Va pescata nell’heavy rotation delle radio o di MTV: tutti dovrebbero averla sentita almeno una volta. Probabilmente è un pezzo in inglese, eppure dovremmo aver capito almeno il ritornello. Per fare un esempio, la filastrocca sulle biciclette a Pechino. Abbiamo tutti capito che sono nove milioni. Ecco. Il 2006 è stato l’anno in cui ci siamo resi conto che a Pechino ci sono nove milioni di ciclisti (molti in procinto di motorizzarsi), “It's a thing we can't deny”. Non resta che amarsi fino alla morte. Così forse Katie Melua potrebbe aver cantato la Canzone dell’Anno. Se la metafora politica non fosse stiracchiata assai.

E allora? Probabilmente bisognerebbe incoronare Lily Allen, ha messo d’accordo fin troppa gente. In settembre, mentre cercavo di risintonizzare l’autoradio abbandonata per due mesi in un parcheggio, non facevo che saltare di Smile in Smile, roba da piangere. E pensare che fino a qualche mese prima era un pezzo su MySpace. Già. E “L’inno dei mondiali po-po-po-po-po” era ancora “Seven Nation Army”. Quel tipo di cose che succedevano nel 2006. Ok, vada per Lily Allen, persona dell’anno. Ma davvero non c’era niente di meglio in giro?

Io mi butto. Secondo me la canzone dell’anno è Cash Machine. Probabilmente non ve la ricordavate più. Ma dovreste averla sentita, almeno una volta: io per esempio la stavo ascoltando mentre decollavo da Bologna, quest’estate. Gli Hard-Fi sono l’ennesimo gruppo inglese: non suonano nulla di particolarmente originale, e anche il pezzo non è un capolavoro. Niente da ballare o fischiettare. Ma ti rimane in testa.


E dopo un po’ germoglia. Sapete com’è l’inglese, per noi. Molti messaggi ci arrivano per via subliminale. Ci metti un po’ a renderti conto di un fatto banalissimo: Cash Machine è una canzone sul denaro. Su quanto sia frustrante non averne.

Go to a cash machine
To get a ticket home
Message on the screen
Says don't make plans, you're broke

Da quand’è che non si parlava di denaro in questi termini, nelle hit parade? Per quanto mi sforzi a me non viene in mente altro che Mick Hucknall quando cantava Money’s to tight to mention. E poi basta, fine, il pop ha goduto vent’anni di paghette garantite. Finché un bel giorno questo ragazzino inglese arriva davanti al bancomat e…

I scratch a living, it ain't easy
You know it's a drag
I'm always paying, never making
But you can't look back
I wonder if I'll ever get
To where I want to be
Better believe it
I'm working for the cash machine

Non sono versi immortali, è un grido di dolore abbastanza banale: come ogni dolore, del resto. Viene il giorno in cui ti accorgi che il bancomat non lavora per te: sei tu che lavori per lui. Quel giorno per molti è arrivato nel 2006. E nel video – tenetevi forte – ci sono gli operai! In pieno giorno, su MTV, gli Hard Fi travestiti da minatori fabbricano le odiose banconote. Se siamo tutti imprenditori di noi stessi, siamo anche gli operai di noi stessi. Siamo da una parte e dall’altra di quello sportello. Si chiama alienazione, e il pop non ne parlava da un pezzo.

Nella terza strofa il dramma diventa famigliare. “What am I gonna do? My girlfriend's test turned blue!” Levare le tende perché non puoi permetterti “di essere un papà”? È una mia impressione, o fino a qualche anno fa sarebbe stato incantabile? Pensate solo al 2005, quando i Kaiser Chiefs cantavano “and my parents love me, that’s enough love for me”. È stato un anno lungo. Qualcuno ha scollinato. Il pezzo finisce intonando un coro normalissimo, ma che potrebbe venire da un vecchio blues del Delta: There's a hole in my pocket, my pocket, my pocket. Non è un capolavoro, no. Ma Cash machine è la Canzone del 2006.

E poi – ma questo forse l’ho sentito solo io – c’è quel vago suono di armonica, all’inizio, che per un attimo ti fa sentire di nuovo tra una track e l’altra di Sandinista! Davvero, soltanto una frazione di secondo. Ma sarebbe stato bello se un giorno qualcuno ripartisse da lì.

martedì 19 dicembre 2006

- uomo dell'anno, proprio io

Big in 2006

Oddio, c’è da stappare lo spumante.
Lo avevo preso per Natale, ma a questo punto.

Non credevo di meritarmelo, davvero. Ma se insistete non posso che ringraziare tutti gli amici che mi hanno incoraggiato e spronato anche quando io stesso mi stavo stancando di cazzeggiare davanti al computer.
Credevo di rubare tempo a cose più nobili, pensate.
E invece eccomi qua: Uomo Dell’Anno. Quando lo saprà la mia mamma. Ehi, mamma, hai visto? ce l’ho fatta!

Che fare ora? Mah, direi di continuare così. Senza esagerare. O credermi chissachì. Io resto quel sano ragazzo di provincia che avete imparato ad apprezzare – e tuttavia, se al Time oltre a osannarmi mi leggessero con più attenzione, comprese le ultimissime cose che ho scritto, saprebbero che mettere uno schermo in copertina è un’operazione fortemente ambigua. E poi, che tipo di schermo, lo avete visto? In realtà è più simile a una postazione televisiva, coi comandi di YouTube. Un’incarnazione sinistra: “ok, uomo dell’anno, sei forte, hai condiviso un sacco di pensieri e commenti; ora rilassati che arrivano i video, e di qui a qualche anno saranno sempre più interessanti e professionali”.

Adesso che ci penso, tra un paio di settimane sarò l’Uomo dell’Anno Scorso.
Rimetto in frigo lo spumante.

Lo ammetto, mi imbarazza un po’. Io mi considero un uomo a tutto tondo, sapete. Non passo mica tutto il giorno davanti a uno schermo, io. Vivo in mezzo alla gente. E ok, capisco, tutto l’inviluppo dei miei rapporti umani sulla copertina di Time non ci stava, ma fotografarmi così, proprio nella situazione di massima solitudine…

Non mi va. C’è questo luogo comune, duro a morire, dell’internauta solitario e segaiolo. Si organizzano anche convegni di psicologi, molto preoccupati dalla tendenza di questi internauti a comunicare tra loro stando a casa. Per essere psicologi, bisogna dire che sono un po’ ossessionati dalla fisicità. Se la prendono con Internet perché adesso comunichiamo con Internet, ma probabilmente qualche anno fa se la sarebbero presa con il telefono. E prima ancora con l’alfabeto Morse e ancor di più coi rapporti epistolari, che incoraggiavano le persone a vivere rapporti virtuali e fittizi e gli impedivano di uscire in strada e toccarsi tra loro. Probabilmente non bisognava inventare la scrittura; maledetto il primo uomo che invece di tirare i capelli alla sua favorita ha fatto un segno sulla parete.

Sono baggianate. Noi non siamo soli. Coltiviamo un sacco di rapporti, grazie a Internet. Tutti vogliono parlare con noi, perché siamo gli Uomini dell’Anno! Per undici giorni ancora.

Vabbè, sì, dovrei essere felice, ma… è che proprio oggi ho fatto un salto su Indymedia Italia, ed era chiusa. Che tempismo, eh? Chiudere qualche settimana prima l’incoronazione del Time. E dire che prima di tante chiacchiere sul Web 2.0, c’era semplicemente l’intuizione di Indy: Don’t hate the media, become the media. Sostituire alla paranoia anti-sistema degli anni Novanta una sana pratica di controinformazione quotidiana. È quello che ha iniziato a fare Indy in Italia nel 2001. È quello che ora stanno facendo i blog (mica tutti, anzi pochi). Perché i blog sono sopravvissuti? Perché sono piccoli e personali. Indy invece aveva un’ambiguità fondamentale. Era un sito collettivo, ma chi era il collettivo? Da qualche parte c’era un “noi”; perlomeno c’era il tentativo di costruire un “noi”. Ma non era facile. Col tempo la bacheca libera a tutti (il newswire) si è rilevato uno strumento troppo grezzo. A volte un boomerang: si andava su Indymedia in cerca di sciocchezze per screditare un intero movimento. Era troppo facile e non costava nulla.

I blog invece sopravvivono. Perché sono piccoli e individuali: ognuno si prende la responsabilità del suo orticello. Io potrei mettermi a cantare le lodi di questa rivoluzione pacifica: la piccola proprietà intellettuale. Ma da qualche di tempo a questa parte sto dubitando di tutti i discorsi stile “piccolo è bello”. I blog hanno un limite strutturale.

Sono davvero siti individuali. Se siete curiosi di queste cose potete andarvi a vedere le mappe di BlogBabel pubblicate dal Sole 24 Ore (e da Qix). Descrivono un universo corpuscolare. Solitudine no, assolutamente: anzi, milioni di relazioni; ma tra corpuscoli. Indymedia veniva davvero da un mondo diverso. Vi ricordate la parola tormentone del movimento nel 2001-02? voi no, io sì: era “moltitudine”. Il movimento cercava di federare, inglobare, associare persone diverse; sotto sotto c’era ancora la vecchia ambizione novecentesca di vederli sfilare compatti. E qualche volta è successo: abbiamo sfilato compatti. Ma ormai sono cose che lasciamo ai berlusconidi.

Siamo polvere di stelle; molto bene; e abbiamo intenzione di diventare qualcos’altro? Non lo so. Per quanto mi riguarda, può darsi che il blog sia il mio limite strutturale. Non riesco a fare nulla di meglio. Non riesco a dire nulla che non passi dal mio “Io”; non sono affatto solo, conosco un sacco di gente, ma con nessuno tento più di costruire un “noi”. Sarà anche pigrizia da parte mia. Invecchio, sapete. Ma ero grande, nel 2006.

sabato 16 dicembre 2006

- compra Leonardo compra Leonardo compra

Natale ormai è qua e come tutti gli anni non riuscite a trovare nulla per la cognata
Che non passi sotto silenzio: Leonardo, il miglior blogger d'Italia e presumibilmente del mondo, ha raccolto ed editato alcuni dei suoi post in un libro. Conoscendolo, un'opera assolutamente imperdibile. Non ci ho ancora messo le mani su, ma l'ordine è già partito. Seguite l'esempio, non ne rimarrete delusi.

Inkiostro (che ringrazio)
(Segnalatemi le vostre stroncature di Storia d'Italia a rovescio, non siate timidi. Al limite vanno bene anche i complimenti).

giovedì 14 dicembre 2006

- o quanta species cerebrum non habet

Specchio riflesso


Si passano degli anni, ultimamente, davanti a uno schermo, con l’aria di cercare chissà cosa. Verità, probabilmente: previsioni, revisioni, sunti, tracce del passaggio del mondo. Stasera però mi è venuto in mente cosa voleva dire “schermo”, all’inizio. Voleva dire maschera. Maschera protettiva.

Naturalmente questo non significa nulla. Capita che le parole cambino il loro significato nei secoli, embè? Pasticciare con le etimologie è da sfigati, se non ti chiami Heidegger (e anche se). Tanto più che il mio Zingarelli mi dà una radice longobarda, skirmjan (tirare di scherma, proteggere). I Longobardi, capito? Devono averci lasciato tre parole in croce, e una sola riassume tv, computer, playstation, videofonino: “schermo”.
E vuol dire “maschera”. Ti dà il rovescio di quel che cerchi. Del resto anche lo specchio, non fa lo stesso?

Sembra un discorso da risvolto Adelphi, ma io in realtà avevo in mente le pubblicità del grana. Se ne parlava l’altro giorno da Inkiostro (il più grande blog del sistema solare e, auspicabilmente, della galassia). Il dilemma è noto a chiunque abbia spinto un carrello della spesa almeno una volta nella vita: in Italia esistono sostanzialmente due formaggi grana. Il Parmigiano Reggiano è buono, il Grana Padano è cheap. Che fare? Spendere meno o gustare di più? La gola ha i suoi diritti, ma solo oltre una certa soglia. L’ISTAT, se la dirigessi io, terrebbe un bel riflettore puntato sul reparto latticini: chi passa al Parmigiano, ha trovato un impiego stabile; chi passa al Grana, lo ha perso (se avete grattugiato del parmigiano sui maccheroni mentre eravate Cocoprò, siete dei maledetti irresponsabili. Se continuate a spolverare grana sulle lasagne ora che avete la Tredicesima, siete tirchi e punto).

Tutto questo si riflette nelle pubblicità. Ma all’incontrario: il Grana Padano si maschera da prodotto di lusso, concupito da vitelloni eleganti e modelle brasiliane. E intanto il Parmigiano sbraca, si dà al trash anni Ottanta, riprende i Ricchi e Poveri, la famiglia Addams e il carnevale di Viareggio. Il party a base di Grana Padano è la vita dei ricchi come l’immaginano i poveri; le coreografie del Parmigiano Reggiano sono una sontuosa citazione dell’intrattenimento di bassa qualità. Tutto questo che senso ha? Forse nessuno. Forse cercano entrambi di allargare il loro bacino di utenza. Ma se è normale che il Grana Padano cerchi di darsi un tono (anche maldestramente), il caso del Parmigiano stupisce. Siamo davanti a un imputtanimento consapevole, ed è una cosa che dà da pensare (un po’ come per Lindo Ferretti). Abbiamo visto tutto in questi anni, ma un prodotto che cerca consapevolmente di peggiorare la propria immagine è ancora cosa rara (“Scordiamoci tutte quelle menate sulla qualità! Facciamo cantare i bambini! Pa-pa-pa-pa-parmigiano re…”)

In realtà io scrivo accecato dall’ira, perché gli ufficiali del marketing del consorzio hanno da tempo accantonato il mio testimonial preferito, la Vacca Volante. Quella che cercava in ogni modo di entrare nel recinto delle vacche da parmigiano, ma ogni volta veniva respinta dalla malasorte, mentre il contadino la sfotteva col tormentone: “No-o! Non so cosa mangi!”
La vacca non era trash, era animazione di qualità con tutti i ritmi giusti. Citava i Looney Tunes, scusate se è poco. Ma è vero quel che mi disse una volta la Laura: era una pubblicità razzista. C’è un recinto, e c’è una vacca che non può entrare. Perché è povera, perché è nata sul lato sbagliato del recinto, perché ha ingerito mangime non tracciabile. La Vacca è simpatica, ma è un frutto delle fobie dell’Europa post-encefacilite spongiforme. La sua pazzia è sospetta. Tutto dev’essere tranquillo, ordinato, tracciato. L’ordine è qualità. Noi vogliamo bere il latte di mucche tranquille e ordinarie. Stiamo chiudendo l’Europa in un recinto, perché abbiamo paura dei poveri e dei pazzi che non si sa cosa mangino.
Ma poi, davanti allo schermo, tifiamo per la Vacca Volante. Perché lo schermo è fatto così: ci racconta l’opposto di quello che già sappiamo. E forse è stato così sempre: il primo eroe animato è stato un topo. Non la creatura immaginaria e stilizzata che è adesso: a quei tempi il topo era un animale tristemente familiare, il peggiore inquilino di tutte le case. La gente passava il tempo a dare la caccia allo scroccone schifoso e impestato. Ma poi andava al cinema, e tifava per Jerry contro Tom. Questo è lo schermo. E voi vi fidate di quel che vi trovate scritto davanti al naso. No. Credete piuttosto al contrario.

martedì 12 dicembre 2006

- viens ma petite fille dans mon comic strip

Chiama Carlotta, disperata: “l’iscrizione! Ti sei ricordato l’iscrizione?”
A che, a cosa? “L’iscrizione all’anno accademico”. No. Nessuno mi ha… ma quando scade? “Domani! Prendi il treno! Il taxi! Il flipper! Ricordati il libretto! Il tesserino! La ricevuta della rata! La marca da bollo! Hai pagato la rata? Hai fatto firmare il libretto? Domani! Scade domani!”
Io cosa posso fare? Prendo il treno, col mio tesserino e libretto, pago la rata, la marca da bollo, e poi passo in facoltà a farmi stampare la domanda d’iscrizione.

In Comic Sans.
Il Comic Sans è un font relativamente giovane, al centro di una feroce controversia tra i grafici e il resto del mondo. I grafici, infatti, lo odiano. Al punto di avere attivato una campagna internazionale di denigrazione, attraverso un sito internet (Ban Comic Sans: eliminiamo il Comic Sans). In un primo momento i grafici se l’erano presa direttamente con l’inventore del Font, Vincent Connare (forse lo stipendiato più odiato della Microsoft dopo Bill Gates). Connare si è difeso, spiegando che lui aveva semplicemente disegnato un font ‘simpatico’ da usare per fumetti e cartoni animati, e non si aspettava di trovarlo sui Menu dei ristoranti, come in seguito è accaduto.

In classe è un casino, perché, perché. Ci sono tanti perché, ma sostanzialmente la classe è un casino perché il cinesino non capisce niente. Di niente. In matematica ragiona, in italiano schizza dalla sedia, e prendilo. È una trottola, un cartone, non capisce niente e la colpa sarebbe mia. Ho chiamato il padre, è venuto col traduttore. Ho iniziato a spiegare, al traduttore è squillato il telefono. Io cosa posso fare? Dico: bisogna alfabetizzarlo da capo, non sa l’italiano. Strano, alle elementari è uscito con Buono. Con Buono? Alle elementari? Vado a controllare la pagella. È la sua. C’è scritto: Italiano Buono.

In Comic Sans.
Il problema è proprio questo: che mentre i grafici di tutto il mondo lo odiano, il resto del mondo lo ama alla follia, e lo usa in qualsiasi situazione, il più delle volte a sproposito. Perché? Perché… è troppo ‘simpatico’, troppo ‘carino’. Disgustosamente carino.

Ti hanno fregato il portafoglio? Ti hanno fatto un verbale? Era un verbale in comic sans? Non è nulla. Una volta ho sentito dire di uno stupro verbalizzato dai carabinieri in comic sans – ma su google non c’è, e poi comunque in google chi ci crede (credete a Facci).

E all’inizio può essere divertente, vivere in un mondo di cartone. Dove i pezzi di carta più importanti sono scritti con le scritte dei fumetti. Ti aspetti da un momento all’altro uno she-bam, un blop, un pow, un whizz.

Ma alla lunga stanca. E' un mondo in cui niente viene preso veramente sul serio. I documenti, i verbali, i voti delle maestre. Tutto carino, tutto buffo, voglio morire. Sul serio, lo farei. Ho solo un dubbio che mi trattiene, ovvero:

Il mio nome. Sulla lapide.
In che font...

martedì 5 dicembre 2006

- oh! battagliero

Uno sguardo ardito e fiero che rincorre l'aldilà

Io non volevo troppo parlarne, ma è vero che in questi fine settimana, in queste nebbiose città cispadane, la gente col bicchiere in mano guarda il cielo o guarda i portici e non fa che chiedersi: hai visto che fine ha fatto Lindo? C’è qualcosa che possiamo fare? Per lui? O per non diventare come lui?

Non lo saverà dal cero / il suo lucido pensiero

A domanda rispondo che l’unico vero vaccino a quel che è successo a Lindo (la vocazione fulminante) andava preso da bambini. Si chiama catechismo, è abbastanza duro da mandar giù, ma se ti fai la trafila regolare dalla prima confessione alla Cresima, ti puoi considerare abbastanza immunizzato. E allora lo vedete che serve, il catechismo? E i sacramenti? Non solo per conoscere Gesù, ma per assuefarsi ai preti. Hai paura di soccombere al fascino dei preti? Vent’anni di messe alla domenica, e non ci pensi più. Nessun campanaro è mai stato fatto santo, che io sappia.
E questo ci pone un problema, amici emiliani. Siamo stati un po’ svogliati negli ultimi cinquant’anni. Quello che è successo a Lindo può davvero succedere a chiunque. Non siamo vaccinati alla vocazione. Al primo incidente, alla prima malattia grave, c’è il rischio che cadiamo come pere. Fortuna che abbiamo dei buoni ospedali.

Fortuna? Lindo è stato salvato dalla scienza, e si è convertito alla religione: così la scienza impara, a salvare i vecchi punk. Ora combatte l’uso delle staminali: guai se un giorno la gente soffrisse meno di quel che ha sofferto lui. Tutto questo è persino buffo da quanto è ingiusto: perché non succede mai il contrario? Avete mai sentito parlare di un malato salvato da Padre Pio che si converte alla ricerca scientifica e lascia tutti i suoi averi a Telethon?

Rispettoso e lusinghero il giudizio che si dà

Io non volevo troppo parlarne: chi è Lindo, dopotutto, perché me ne freghi di lui? Chi l'ha visto un po' più da vicino non credo sia troppo stupito. Lui sul misticismo ci ha sempre giocato: a fine anni Novanta venne a Modena a leggere vangeli apocrifi in una chiesa sconsacrata. Penserete a una provocazione profana, e invece no: la chiesa era l’aula magna della fondazione-collegio San Carlo, un’istituzione culturale, ed era piena di signore impellicciate e giovani in tenuta alternativa. Tutti assieme, perché questa è l’Emilia, e nelle sue contraddizioni placide Lindo ci sguazzava. Ma a noi stava bene così, pensavamo fosse una posa, un gioco. Se invece diventa una cosa seria, ci restiamo male. Interessante, no?

Ci restiamo male perché da qualche parte abbiamo letto che Lindo è uno di noi, che quel che succede a lui ha senso per voi. Ma dov’è scritto, esattamente? Quand’è che Lindo ha cominciato ad appartenerci?
C’è un po’ di confusione: abbiamo sovrapposto alcune cose. Negli anni Novanta il famoso crollo delle ideologie, bla bla, è stato cauterizzato con una botta di autoindulgenza padana. Quanto siamo simpatici noi emiliani, un po’ comunisti un po’ anche no, con Ligabue e Guccini e tutte le pubblicità di roba da mangiare in tv. E va bene.

Un giaccone color nero / marca la diversità

Ma Lindo non c’entra. Passava di lì per caso, e a osservarlo bene era chiaro che se ne sarebbe andato da qualche altra parte. Lui veniva dagli anni Ottanta, e negli anni Ottanta chiedeva una mano per bruciare il piano padano. I suoi ’80 non erano quel paradisino di plastica e gel che ci raccontano su MTV: erano quelli dell’eroina e dei bombardieri su Beirut. La sua Emilia era una patria paranoica, i circoli Arci lampi nella notte privi di qualunque poesia crepuscolare, un mondo che si sgretola e rotola via (narcotico, frenetico, smanioso, eccitante). Una terra piatta senza connessioni, dov’è impossibile incontrare davvero le persone: Lindo non smette di ricordare che i CCCP sono nati a Berlino, come se solo a Berlino due reggiani potessero incontrarsi davvero e combinare qualcosa.

Né un manipolo guerriero / lo potrà resuscitar

Lindo era punk: di quel punk intellettualoide, situazionista, che andava in quegli anni, e che noi non riusciamo più a capire, da tanto lo abbiamo metabolizzato. Adesso a Reggio ci sono gli Offlaga Disco Pax: un gruppo che tratta l'Emilia '80 come la piccola terra perduta, il Canavese di Gozzano. Sono molto simpatici, ma Ferretti non era così. Lui voleva essere davvero sgradevole, e noi ci siamo sforzati di farcelo piacere: se non è un equivoco questo. Quando provocava lo prendevamo seriamente: quando era serio, ci piaceva pensare che scherzasse. Bene, adesso è serio.

...E a me scappa da ridere. Dopo tanti anni di parrocchia li conosco, i convertiti. Intorno a loro c’è sempre una nuvola di zelo esilarante.
Pensate solo a Giuliano Ferrara, che in mancanza di meglio elegge Lindo Ferretti musa dei Teocon, con relativo effetto-Barney sulla redazione del Foglio. Pensate ai redattori costretti ad ascoltare e commentare con aria ispirata Affinità-divergenze tra il compagno Togliatti e noi. Beh, non è fantastico?
Potete prendervelo Lindo, mica è nostro. Non è di nessuno. Potete usarlo come megafono, probabilmente s’incepperà, pazienza. Fatene quel che volete, ma sappiate che c’è una cosa che non riuscirete mai a fargli fare: tenere una nota. Quello è stonato. Una missione impossibile, anche per la Madonna di Civitavecchia. O no?

Corre in cielo corre in cielo...
Oh! Battagliero.

mercoledì 29 novembre 2006

- compra Leonardo compra Leonardo compra

Non è che per caso non vi siete ancora ricordati di...


Leonardo ha pubblicato "Storia d'Italia a rovescio", e l'ho comprato. Non mi sono comportato molto diversamente da quelli che avevano in testa altri editori, mesi fa. Però ho l'attenuante: Leonardo è tecnicamente un blog, ma il suo autore lo usa in maniera tutta sua, molto poco blogger. Innanzitutto è molto poco modaiolo, poi è logorroico, poi non ha granché di personale. Per certi versi, lui ha tenuto un blog per anni per allenarsi a scrivere un libro: l'ha scritto giorno dopo giorno e poi se l'è trovato fra le mani.

Dimensioni blog (che ringrazio)
(Segnalatemi le vostre stroncature di Storia d'Italia a rovescio, non siate timidi. Al limite vanno bene anche i complimenti).

martedì 28 novembre 2006

- il fumo non previene l'alzheimer

Smoking ('s) for dummies

Ma voi lo sapevate che chi fuma ha meno probabilità di ammalarsi di alzheimer? No? Non lo sapevate? Meglio così. Perché non è vero. Il fumo non previene l’alzheimer.

Però c’è gente che ne è convinta. E non sono mica pochi, eh. Parecchi tra loro - non sorprendentemente - fumano.
Io l’ho scoperto la settimana scorsa, curiosando tra i commenti di Macchianera. Macchianera è il secondo blog in Italia per popolarità, secondo alcune classifica (il primo è Beppegrillo.it, ovviamente). Naturalmente questo non significa che un commento di Macchianera sia in qualche modo autorevole, anzi. Però è ben indicizzato.

Si parlava di anoressia (cosa c’entra? Nulla) e a un certo punto qualcuno ha tirato fuori questa storia. Io non l’avevo mai sentita, e l’ho trovata abbastanza inverosimile. All’inizio temevo che si trattasse di un’estrapolazione viziata di dati statistici: è chiaro che molti tabagisti non fanno in tempo ad ammalarsi di Alzheimer perché muoiono prima di altri malanni. Ci stavo anche scherzando sopra. È come sostenere che la Jihad islamica previene l’AIDS perché nessun kamikaze islamico è mai morto di AIDS.

Ma mi hanno obiettato che invece si trattava di un fatto noto, acquisito, comprovato da una serie di ricerche mediche. Hanno iniziato a citarmi testate di riviste anglosassoni di medicina. Naturalmente io non potevo leggermele. E continuavo a non fidarmi.

Allora ho fatto una cosa banale banale: una ricerca su Google. Che non è la Bibbia, come tutti sanno. È solo google. Digito: Alzheimer smoking. I primi tre risultati spiegano che il fumo non previene l’alzheimer. Il secondo riporta un’agenzia Reuters che parla di una ricerca condotta da un’università della California. Il terzo è un pezzo della BBC (che non è la Bibbia; però è la BBC) che riporta i risultati di una ricerca condotta dall’Università di Rotterdam nel 1998. Mi sembrava materiale recente e affidabile, per cui non ho perso tempo e ho scritto un pezzo sulla home di Macchianera. Ho scritto che non era vero che il fumo previene l’alzheimer, che si trattava di una stronzata. Apriti cielo.

Si sono offesi in parecchi. Per prima la persona che aveva pronunciato la “stronzata”. Io in realtà non intendevo tirarla in ballo. Mi premeva soltanto affermare con chiarezza, su Macchianera, che l’idea che il fumo prevenga l’alzheimer è una stronzata. La luna era assai più importante del dito. Sono stato senza dubbio brusco e probabilmente arrogante. Perché l’ho fatto?
Perché il fumo è una cosa seria, e il morbo di Alzheimer è una malattia orribile. Ma anche perché Macchianera è un blog molto popolare e molto indicizzato, e i commenti di un blog molto popolare sono il sottobosco ideale per le leggende urbane.

Vi ricordate la faccenda dell’olio di colza, l’anno scorso? Nacque proprio in un ambiente del genere. Un tale divulgò nei commenti di Beppe Grillo una sconcertante rivelazione: l’olio di colza poteva sostituire il gasolio nei motori diesel. Ne parla più nessuno? No, perché anche quella era una sostanziale stronzata. Il motore parte, ma i danni collaterali per il motore sono troppi. Però la notizia era sul sito di Beppe Grillo (molti credettero che fosse proprio di Beppe Grillo): tanta gente la credette degna di fede e si avvelenò il motore convintissima di risparmiare denaro e idrocarburi.

Ora immaginatevi qualcuno, magari un fumatore, che sente dire in un bar (o in una chat, od ovunque) che il “fumo previene l’alzheimer”. Magari vuol saperne di più. Fa una ricerca su google e trova… Macchianera. È un sito molto popolare. È esagerato, da parte mia, immaginare che qualcuno possa leggere un commento apparentemente innocuo e fidarsi? No, credo di no. I vizi sono insidiosi, lo sappiamo tutti. Siamo tutti perennemente in cerca di scuse per cedere. Un fumatore che scopre, su un sito ben frequentato, che il suo vizio può aiutarlo a non ammalarsi di alzheimer, avrà un motivo in più per non smettere. Salvo che in questo modo, secondo le conclusioni dei ricercatori di Rotterdam, potrebbe avere il doppio di possibilità di ammalarsi del morbo di Alzheimer.

La discussione è proseguita con toni molto accesi. Troppo. Alcuni, tra cui Filippo Facci (che agli eccessi della cosiddetta “crociata anti-fumo” ha dedicato un libro) hanno replicato citando fior di ricerche che secondo loro proverebbero il contrario. In realtà, per quanto ho potuto vedere, esse al massimo provano che l’assunzione di nicotina potrebbe prevenire l’alzheimer. Ma parlare di effetti positivi della nicotina non equivale a parlare di effetti positivi del fumo.

Sono stato accusato di non avere competenza medica (da persone che ne sono altrettanto prive). Infatti non ce l’ho, la competenza. Non l’ho nemmeno millantata. Ho attinto a fonti di divulgazione, con lo strumento più elementare del mondo: google. Con la convinzione che se davvero fumare prevenisse l’alzheimer, i divulgatori scientifici di mezzo mondo non si farebbero sfuggire la notizia. Pensare al contrario mi sembra un po’ troppo complottistico. Devo dire che comunque le poche persone che si sono qualificate come competenti hanno detto sostanzialmente la stessa cosa che ho detto io (sotto pseudonimo, però).

C'è chi ha insistito sul fatto che 'su Internet c'è tutto e il contrario di tutto', e persino le ricerche scientifiche direbbero 'tutto e il contrario di tutto'. E se anche fosse? Questo, come minimo, significherebbe che sull'idea del fumo anti-alzheimer non c'è consenso scientifico. E se il consenso non c'è, mi pare giusto ricorrere al principio di precauzione: nel dubbio non fumare.

C’è tuttora chi persiste a equivocare (non necessariamente in buona fede) tra nicotina e fumo. Io non trovo giusto mantenere un atteggiamento così ambiguo su Internet, e in particolare su un sito così ben indicizzato come Macchianera (in questo momento l’XML dei commenti di Macchianera è il terzo risultato su Google Italia per Alzheimer fumo). A un certo punto, di fronte a certi distinguo particolarmente sottili, ho scritto che “Internet è per scemi”. Non è una battuta.

Avete presente la collana “for dummies” (=”per scemi”)? In Italia ho visto soltanto i manuali di informatica. Negli USA invece impazzano manuali for dummies di ogni tipo. Vanno molto forte quelli di medicina e farmacologia, per ovvi motivi. La gente non vuole pagare i dottori e si cura da solo con un manuale “per scemi”.
Ora, Internet, con tutta la più buona volontà, è esattamente la stessa cosa: un enorme manuale “per scemi”. Per quanto voi possiate essere persone di giudizio, se volete veramente approfondire un problema in tutte le sfaccettature, studiate altrove. Se invece venite qui, state cercando risposte facili e sicure. E avete il diritto di averle. Per cui la domanda deve essere posta in modo chiaro e semplice: il fumo previene l’alzheimer, sì o no?
Io dico di no. In attesa (va da sé) che qualcuno mi dimostri il contrario.

giovedì 23 novembre 2006

- venere di caucciù

Just Tell That Kate Moss Ain’t Pretty

Ma al di là di ogni discorso serio in merito, a voi Kate Moss piace? sul serio? Ok, ve la mostrano in tutte le salse, la riconoscete, vi spiegano che è bella, più o meno la stessa trafila della Gioconda. Ma vi eccita? Vi ispira?

A me no. Kate Moss non mi piace. È secca, è cruda, è morta.
Se Kate Moss ci provasse con me, non ci starei.
Se Kate Moss insistesse con gentilezza, forse cederei; mai stato bravo a dir di no – ma chi l’ha detto che poi ce la farei? Forzato a commettere atti sessuali con Kate Moss, probabilmente mi sorprenderei a chiudere gli occhi e fantasticare sulla vicina di casa chiattona.
Se io e Kate Moss rimanessimo unici superstiti sul pianeta Terra, mi estinguerei. Meglio estinguersi da uomo.
Se smonti la vecchia Barbie di tua sorella, le riempi il bustino di ghiaccio tritato e le sbianchi il bel pigmento rosa, quello che ottieni è più o meno la proiezione plastica di quel che provo per Kate Moss.

E non me ne vergogno. Ci stamperei dei manifesti, se servisse a qualcosa. Maschi di tutto il mondo, ditelo forte e chiaro: Kate Moss è un mucchietto di ossa puzzolenti di Chanel che non ispira sesso a nessuno!

...Ma non serve a niente. Assolutamente. Alle bambine piace Kate Moss, Kate Moss è fatta per piacere alle bambine, e il parere del maschietto non c’entra. Non è il maschietto che costringe la bambina a mutilarsi a morte. La pulsione suicida che porta un’adolescente all’anoressia (sbandate bulimiche annesse) ha assai poco a che fare con l’altro sesso.
(Forse ha più a che fare coi bambolotti. Se passa di qui un esperto di età evolutiva, mi spieghi questa cosa: perché tra l’infanzia e l’adolescenza il bambino e la bambina devono trastullarsi con giocattoli e proiezioni omoerotiche? Perché il bambino deve passare dal bambolo di He-Man alle telecronache di wrestling? Perché la bambina deve diventare una stilista di Barbie e bambolotte consorelle? Era così anche in passato, o è una novità dell’era del caucciù? Non avrà per caso qualcosa a che fare col crollo demografico?)

Il percorso anoressico-bulimico è lastricato di caucciù, riviste patinate, corsi di danza. L’altro sesso è raramente interpellato: a volte è una proiezione remota, il più delle volte semplicemente assente. Del resto è noto: quando alcune di queste amebe ermafrodite, terminato il cursus honorum specifico (concorsi di bellezza, sfilate, ecc) tentano la strada della televisione (dove è ancora il maschio che comanda), devono necessariamente carrozzarsi con quegli attributi sessuali secondari che fino a quel momento erano inutili.

La donna “secondo il maschio” l’abbiamo sotto gli occhi da secoli: da Picasso a Giorgione su su fino alla Venere di Savignano. Se volete è un mostro deforme anche lei, una sovrastruttura maschilista, ecc ecc… ma non somiglia a Kate Moss. Kate Moss è un incubo tutto femminile, questo è il guaio. La prima generazione di donne ad affrancarsi dalle proiezioni maschili ha partorito Kate Moss. Teniamone conto, prima di chiedere ad altre bambine di altri mondi di togliersi il velo.
Non vorrei dover dire che c’è più libertà sotto un velo che in una strada tappezzata di Kate Moss. Sotto un velo fa caldo, questa è l’unica cosa che so dei veli. Ma immagino che possa fare comodo un riparo, quando Kate ti fissa dal cartellone.

***

Ciò che rende tanto angosciosa questa fine 2006, secondo me, è che ormai abbiamo sviluppato un’abilità spaventosa a discutere dei nostri problemi. Ma non abbiamo ancora sviluppato nessuna capacità di risolverli.
Passiamo da uno scandalo all'altro, e sono tutti gravi: la cocaina, il malaffare nel calcio, la camorra, il bullismo, l’anoressia. A volte arrestiamo anche i protagonisti. Qualche vittima sacrificale ogni tanto: Luciano Moggi, gli studenti di Torino. E qualcun altro che se la cava con un quarto d’ora di ignominia: la Gregoraci, Kate Moss. Però i problema li vediamo. Non siamo come gli struzzi, noi. Ci andiamo a sbattere in piena consapevolezza.

Parliamo anche di anoressia in tv! con Bruno Vespa e tre stilisti che garantiscono che la moda non c’entra per niente (“è un problema psicologico”). Gente che spesso in Italia si rifiuta di commerciare la taglia Quarantasei. Persone con nomi e cognomi su capi che non produciamo più, ma che vendono a peso d’oro. Alle nostre bambine. Li vediamo, li conosciamo, sappiamo l’entità del danno che ci arrecano, ma non riusciamo a fermarli. Del resto sono la nostra gloria, il Made in Italy.

Siamo cresciuti male, sarà questo. Da una parte la tv ci ha insegnato a cercare tutto il piacere nel nostro corpo: gonfiarlo, asciugarlo, trasformarlo nel nostro bambolotto di caucciù preferito. Dall’altra parte il Papa ci sconsigliava l’uso dell’unico pezzo di caucciù che ci avrebbe permesso di scoprire un po’ di piacere (protetto) in qualcun altro. Per fortuna le cose cambiano. O no? La tv si parla addosso, ma non cambia mai. Ormai fa quasi prima a cambiare idea il Papa. E ho detto tutto.

martedì 21 novembre 2006

- non smontare la Barbie di tua sorella

Alla corte della Donna Ragno

- Attenzione: Andropausa

Più o meno fino ai 12 anni, un maschietto non trova nella femmina nulla di realmente interessante. È una creatura insensata che gioca morbosamente con le bambole e si fissa la punta delle scarpine. Non ci si capisce nulla. Forse non c’è nulla da capire.
Quel che accade dopo i 12 anni è materia per gli endocrinologi. L’ormone insorge, avvampa, intorbida la consapevolezza. Non si tratta tanto di cercar di capire quanto di cercar di toccare. Ci si illude nel frattempo d’esser bestie razionali, di progredire anche nella conoscenza, e forse è così, ma forse anche no. Nel bene o male si comunica, ci si scrivono le mail, si fanno passeggiate assieme, si ha la sensazione di capirsi. Fino a un certo punto è anche bello, eh. E poi finisce.

Quando? Mah diciamo che a un certo punto dei trenta, finisce. L’ormone ha scollinato; la donna, pur continuando ad essere appetibile, smette d’un tratto d’esser comprensibile (lo è mai stata?). Un giorno come un altro ti trovi davanti a una vetrina, o al cinema, e ti trovi davanti… una creatura insensata che gioca morbosamente con gli accessori e si fissa la punta delle scarpine. Et voilà, il cerchio della non-conoscenza è chiuso.


- Gli uomini e le donne sono uguali (ma sono diversi)

Non si tratta di superiorità, signore e signorine. Si tratta di alterità, pane per i denti delle professioniste dei gender studies. Del resto non sarà vero anche per voi? Per un certo periodo di tempo ci siamo trovati comprensibili, ma adesso è finita. Si può andare ancora d’accordo? Magari sì, ma sarà una contrattazione quotidiana: se tu mi accompagni a vedere Spider Man, io verrò a vedere Marie Antoinette. Tu fingerai di credere agli assunti intellettuali del mio ex bambolotto di plastica preferito (dai grandi poteri derivano grandi responsabilità) e io fingerò di credere agli assunti intellettuali della tua Barbie alla Corte del Re Sole; e non farò molta fatica, visto che più o meno è la stessa musica: dai grandi poteri derivano grandi responsabilità. Sembra proprio che i nostri coetanei americani non sappiano dirci altro. Ehi, sveglia ragazzi, non siete sempre per forza così potenti: ogni tanto perdete anche le guerre. Sì, anche voi.


- Come dei simbolici Big Jim

Però su qualcosa avete ragione: in occidente abbiamo un problema coi nostri bambolotti. Piuttosto di separarci da loro, li intellettualizziamo. Per cui ok, Marie Antoinette è la versione intellettuale di Barbie e le 12 principesse danzanti: contiene tutta una serie di metafore politiche ed esistenziali che ci farà discutere per una settimana. Anzi, mi sbilancio. Questo film ci sopravviverà, e di parecchio.
Un giorno Marie Antoinette sarà materia di studio per un popolo di un colore e di una lingua diverso dal nostro. Un signore punterà il righello sull’acconciatura di Kirsten Dunst e dirà: vedete, all’inizio del Ventunesimo secolo gli Occidentali si sentivano così. Una casta chiusa, incipriata e segregata dalla massa degli oppressi. Vecchi ruderi, puttanieri o beghine; oppure giovani signori patiti di caccia e di biliardo, ma tutti assolutamente consapevoli della propria inutilità. Da qualche parte nella campagna d’occidente, masse di selvaggi incatenati coltivavano i pomodori e realizzavano i prodotti di haute couture che Marie e le sue amichette erano condannate a consumare in grande quantità. Per far girare l’economia. L’Altro, il Lavoratore, l’Operaio, è sempre più invisibile. Sofia Coppola non riesce nemmeno a inquadrarlo in piena luce. Solo il chiasso, un chiasso spaventoso, che sale lentamente, più forte di qualsiasi playlist, un muro d’odio che ci attende da qualche parte lungo questa strada. Lo sappiamo.

E siccome lo sappiamo, e non possiamo farci nulla, che si fa?
1-2-3: shopping!


- Quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni

Il limite dell’intellettualizzazione del bambolotto è appunto questa: puoi coprirlo di sfighe e autocoscienze finché vuoi, ma il messaggio di Spider Man resta sempre “wow, che figo arrampicarsi su per i grattacieli”. Allo stesso modo, puoi scalfire Marie con mille chiavi di lettura intellettualissime e concettualissime, ma l’unica che fa scattar la serratura è: “wow, che figo essere principessa! Quante scarpe, quanti dolci, quanti cortigiani chiacchieroni!” C’è anche Ken versione stallone svedese.

Eppure, sotto sotto, Marie sarebbe una ragazza alla buona (anche Peter Parker vorrebbe soltanto essere un nerd del dipartimento di chimica, come no). In un attimo di stanchezza rilancia la moda dell’Arcadia (il Twee del Settecento). Le dame di corte si travestono da pastorelle, mungono le vacche e leggono Rousseau. Ma è solo un attimo. Può Peter Parker ignorare il suo destino di salvatore del mondo? Può Marie realmente resistere a quel bisogno di scarpe che non vuole sentire ragioni? Ok, la mezz’ora di approfondimento è finita. Si riparte col bambolotto.


- She’s got the worst taste in music

E fosse solo un bambolotto, il problema dei trentenni. Il guaio è che col tempo i giocattoli si accumulano. Il più pernicioso è l’Ipod: ci ha trasformati tutti in dj solipsisti da strapazzo, non necessariamente bravi. Sofia Coppola, per esempio, sotto i colonnati di Versailles è libera di ascoltare gli Strokes, ma è una cosa sua e unicamente sua: perché vuole impormela? O devo, anche qui, pescare una metafora? Posso anche provarci, ma non rischio di intellettualizzare eccessivamente una selezione random? “Gli anacronismi sono voluti”, ci mancherebbe altro. Ma oltre a fare i pugni con ogni buon gusto, funzionano? Vent’anni fa a Milos Forman bastava giocare un po’ coi parrucchini di Amadeus per farlo sembrare una rockstar neoromantica; invece Marie Antoinette cosa sarebbe? Una punk, perché balla Siouxsie? A questo punto facciamo come al tempo delle mele: ognuno venga al cinema con le cuffiette sue. Libero di trovare ogni sorta di accostamento. Saranno tutti originali e ci assomiglieranno.


- “La morte di una persona è una tragedia”

Il bambino chiede “come va a finire?”, la bambina: “che numero portava la principessa?”
Se vent’anni dopo la bambina porta il bambino al cinema a vedere un film storico, quest’ultimo non riconosce la Storia. Ogni spunto narrativo sembra trasformato in tappezzeria. Tutto è superficie, atmosfera. La Du Barry (magistralmente interpretata da Asia Argento, l’orgoglio del cinema italiano all’estero) ridotta a mignottona figurante: ma come? era la principale protagonista del mobbing di corte, l’altoparlante che mise in giro tante frottole che la rivoluzione avrebbe amplificato.
E ancora il bimbo si domanda: perché chiudere il film proprio là dove la storia di Marie comincia a farsi interessante? Quella notte a Versailles, per esempio, il linciaggio fu sfiorato davvero di poco. E poi? La gente esce dal cinema con la sensazione che Marie sia già sul primo gradino del patibolo. Per niente: stava andando a regnare da sovrana costituzionale alle Tuilleries, nel bel mezzo di Parigi, dove senza dubbio si sarebbe annoiata di meno. Gli ultimi mesi di vita della regina sono un incubo, però Marie li vive da donna adulta. Non è una Claretta Petacci che segue l’uomo della sua vita fino in fondo; è una degna rappresentante dell’ancien régime che tradirà il suo giuramento ai francesi, venderà il suo popolo allo straniero (suo fratello) e tenterà la fuga travestita. Certo, se oggi ci commuove Saddam Hussein, figurarsi una madre di famiglia. A dimostrazione del vecchio proverbio: uccidere una persona è una tragedia (specie se la persona in questione è una principessa, un despota, insomma un Vip); affamare un popolo è solo statistica.


- Dopo di me, il diluvioMettiamola così: io non ho visto Marie Antoinette. Non ne ero capace. Probabilmente è un bel film. Il futuro è delle donne, che leggono di più, hanno più gusto per gli accostamenti e meno inclinazione per i giocattoli pericolosi, armi e motori. Tra due secoli qualche ricercatrice scoverà la cache del mio blog e non ci troverà niente di interessante. Le schiferà il template.
Nel frattempo io continuo ad aver bisogno di donne: amiche, fidanzate, mamme, non potrei vivere senza queste presenze che non capisco. Passo la mia vita in una tappezzeria incomprensibile, ignorando tutto quello che sarebbe importante sapere, chi lo sa? Forse Marie Antoinette sono io. Perciò m'inchino a tutte voi, abbiate pietà. Non sono cattivo. Sono solo cresciuto in un mondo un po' così.

giovedì 16 novembre 2006

- leggete Gomorra

Gomorra, Italia

Aprendo Gomorra è difficile reprimere il sospetto: quanto c’era di vero, e quanto di marketing, nella campagna per concedere una scorta all’autore? Saviano non l'aveva chiesta, e almeno in un primo tempo non la voleva; il suo libro è un atto di accusa e di sfida, ma non dice nulla di veramente nuovo; nulla che non ci sia capitato di orecchiare qua e là sui giornali e persino in tv. Nomi e cognomi ce n’è, ma perlopiù di condannati o latitanti; il quadro finale risulta frammentario, soprattutto per la mancanza di quella Teoria Unificata del Complotto che il lettore italiano si attende ormai per assuefazione. Nessun grande vecchio qui: solo un’anarchia feudale sfarinata in centinaia di territori e dinastie che Saviano nemmeno tenta di ricostruire. Davvero ha senso metterlo a tacere? Di storie di camorra tutti si riempiono la bocca. Cosa c'è di così pericoloso proprio in questo libro?

Una risposta, parziale, arriva verso la fine, nel capitolo dedicato all'assassinio di Don Diana: un prete, ma soprattutto un testimone, che credeva nella parola. "Una parola capace di inseguire il percorso del denaro seguendone il tanfo. Si crede che il denaro non abbia odore, ma questo è vero solo nella mano dell'imperatore. Prima che giunga nel suo palmo, pecunia olet. Ed è un puzzo di latrina. Don Peppino operava in una terra dove il denaro reca traccia del suo odore, ma per un attimo. L'istante in cui viene estratto, prima che diventi altro, prima che possa trovare legittimazione".

Più in là si racconta di come finiscano i boss. Chi non muore ammazzato a volte si ricicla come cronachista. Sopravvivono rivendendo allo Stato la loro storia, un complicato meccanismo di potere e denaro, un percorso olfattivo che senza di loro resterebbe sconosciuto. La loro parola è davvero preziosa. Avremmo dovuto smettere, da un pezzo, di chiamarli “pentiti”: solo ai cronisti della domenica può interessare il loro pentimento. Quello che davvero interessa è la competenza, il know-how, la storia di un imprenditore di successo. Nel silenzio generale, i camorristi detengono un bene prezioso.

In questo silenzioso mercato della parola, il libro di Saviano è un tuono e un lampo. La Napoli di cui sentivamo parlare ne esce trasfigurata, come sul negativo della pellicola. Non è una teoria unificata, non è (per fortuna) il romanzone criminale pronto a trasformarsi in epica cinematografica. Ma è la fine di cento luoghi comuni.

- Per esempio: Napoli fannullona.
Gomorra racconta una città, una civiltà intera, in rapida espansione economica e commerciale. C’è tutta la fuliggine e il sudore dei sobborghi industriali dickensiani. Il porto di Napoli è il centro del mondo, non il cuore ma il piloro: tutto ciò che è merce transita da lì. Tessile, droga, armi, turismo, cemento, cemento, cemento, per finire con l’industria lucrosa dello stoccaggio rifiuti (Napoli è anche lo sfintere). I campani non stanno con le mani in mano un secondo solo. Ecco una parola che a nord di Caserta risulta ancora scandalosa: ricchezza. Il Meridione non è l’eterno passato dell’Italia, la regione bloccata nel sottosviluppo, imprigionata nelle sue tradizioni. Senza troppo chiasso Saviano capovolge il quadro: il Sud è il futuro dell’Italia, il suo sottosviluppo è funzionale alla produzione, la sua forza lavoro se la batte ad armi pari coi draghi cinesi, le sue cosiddette tradizioni sono quelle modernissime del gangsterismo globale reinventato a Hollywood.

- Un altro esempio: la bella Napoli.
Mentre i telegiornali ci mostrano una Napoli da cartolina che va a piangere la morte del suo re dei guappi, Saviano ci racconta una Napoli che spreme ricchezza dallo sconfinato disprezzo che nutre per sé stessa. I camorristi non amano il loro territorio, né i loro conterranei. Il loro potere è basato sul disprezzo per quello che hanno intorno, la loro ricchezza è basata sull’impoverimento sistematico delle risorse. Non si tratta soltanto di depredare una regione: si tratta di mantenerla, artificialmente, nel Terzo Mondo, quando improvvisamente il Terzo Mondo diventa competitivo. Per reggere la concorrenza con la produzione tessile asiatica, gli opifici casertani devono mantenere paghe da fame. Per garantirsi un bacino di manovalanza disperata, gli impresari del traffico di droga hanno bisogno che Scampia e Secondigliano restino terra di nessuno. Il camorrista inedito che esce dalle ultime pagine del libro di Saviano non è il boss sanguinario, ma lo “stakeholder”, il libero manager dello stoccaggio abusivo che svende la sua stessa terra in proficui lotti di discarica.
(Ti fa schifo questo mestiere? Robbe', ma lo sai che gli stakehoder hanno fatto andare in Europa questo paese di merda? Lo sai o no? Ma lo sai quanti operai hanno avuto il culo salvato dal fatto che io non facevo spendere un cazzo le loro aziende?)

La monnezza ci ha portato in Europa (del resto, avverte Saviano, i padri della nazione sono i palazzinari, altro che Parri ed Einaudi). La città del sole e del mare si è riciclata in pattumiera del mondo, per creare ricchezza che andrà a fruttare altrove: nel nord operoso, o nella Scozia del clan La Torre o sulla costa spagnola, ovunque i boss decideranno di reinvestire e riciclare in imprese, spesso alla luce del sole.

- Infine: l’omertà. Che in Gomorra non è l’antica reazione della piccola comunità che si chiude a riccio, ma un più moderno e neoliberista pensare agli affari propri. Un’omertà che coinvolge tutti noi, anche qui a nord, quando liquidiamo la camorra come sopravvivenza del passato, eterno ritardo del meridione. Una bugia comoda per le nostre velleità di padroncini del mondo, reucci della piccola impresa. Saviano ci grida che è sbagliato: Gomorra non è un mondo a parte, ma è una città del nostro mondo. I suoi traffici sono i nostri traffici, la sua ricchezza è la nostra. Non un passato altrui, ma forse il nostro futuro: un far west tossico, popolato da bulletti senza prospettive, e governato da signori rinchiusi nelle loro ville hollywoodiane nascoste tra i rifiuti.

Di questo ci parla Saviano. Senza i compiacimenti dei professionisti del noir o dei teorici della mitopoiesi, nel suo libro rifonda il suo materialismo sugli odori e le tracce di sangue e denaro. Al centro, finalmente, il vero motore da cui tutto dipende (politica inclusa): la Merce. Per averci raccontato quello che siamo o che diventeremo, per avere spacciato a poco prezzo parola e conoscenza, Saviano è stato minacciato di morte. Ma esiste una minaccia ben peggiore per gente come lui, ed è sempre la stessa: il non esser più letti, il non essere più compresi. Leggete Gomorra.

lunedì 13 novembre 2006

- "se non picchiate il down vi faccio un regalo"

Un lavoro da uomini da persone

Una volta esisteva il Servizio Militare, ora non più. Ma esiste, ancora, la Scuola Media.
La Scuola Media (inferiore) è l'esperienza più borderline che la maggior parte delle persone abbiano la possibilità di compiere nel corso della loro esistenza. Con l'aggravante che dura il triplo di un servizio di leva standard, e si sperimenta in una fase già delicatissima della propria crescita. E uno a volte si chiede perché. Perché esiste la Scuola Media? Siamo sicuri che sia stata disegnata su misura per le esigenze dei prepuberali? La risposta è no. Non siamo sicuri di un bel niente. Ereditiamo la scuola dei nostri padri, che l'avevano ereditata dai nonni, ogni tanto facciamo qualche piccola Riforma che crea più casini che altro. Il risultato di tutti questi piccoli sforzi è la Scuola Media Statale, il piccolo consultorio di quartiere. Un'esperienza non per tutti - anche se forse il problema è proprio quello: il problema è che ci passano tutti.

E' la Scuola dell'Obbligo, ci avete pensato? Obbligo. Ci va il ragazzino minuscolo abusato dai genitori. Ci va il ragazzo maiuscolo che sta cominciando ad abusare a sua volta di qualcun altro.

Ci siate andati anche voi, ma non ve ne ricordate molto bene. Gran parte degli shock che avete ricevuto sono stati coperti da una pietosa copertina che Sigmund Freud chiamò Rimozione. Ogni tanto, se vi chiedete: ma perché sono fatto così male?, provate un attimo a concentrarvi sulla vecchia scuola media del quartiere. Forse no, ma potreste anche scoprire qualcosa.

Io, ogni volta che ci penso, mi ci annego. Ero un ragazzino tutto sommato normodotato, ma mi sembra di aver vissuto nove vite in una volta. Ero nel bronx, ma anche in una campana pressurizzata. Sono stato rapito dagli alieni varie volte, ed essi alieni mi hanno spiegato ogni cosa che so, a differenza dei prof che spesso mi ritrovavano la testa conficcata nel sottobanco.

"Ma dove sei quando ti parlo? Si può sapere dove sei?"

Non si è mai saputo.

In questo far west mentale che è la scuola media, tra bullismo, sopraffazioni e dissociazioni, genitori che menano i figli e meriterebbero di essere menati dagli insegnanti, in questa terra di nessuno tra l'adolescenza e la follia, io ho deciso di lavorare, perché? A volte mi chiedo: perché? Perché non riuscivo più a correggere bozze, ecco perché. Ma ho bisogno come tutti di motivazioni più alte, perciò di fronte a certe notizie e a certe situazioni preferisco incidere sulla mia lavagna morale un inno a Me Stesso:

Io Insegno Nella Scuola Media, Perché è Un Lavoro Da Uomini Veri

Poi ci rifletto un attimo, e con la penna rossa mi correggo:

Io Insegno Nella Scuola Media, Perché è Un Lavoro Da Uomini Veri Donne e Uomini Veri, insomma, persone vere.

E mi piace questa cosa, mi fa sentire John Wayne, e non mi frega se guadagno meno di uno sportellista di banca, vuoi mettere la libertà di cavalcare nelle praterie della malattia mentale e domare i bronchi dodicenni, senza nemmeno la possibilità di frustarli, ma solo in virtù delle tue dubbie doti psicotiche, volevo dire, psicologiche?

Ci farò una maglietta un giorno: Non mi puoi fare male, perché insegno nella Scuola Media. Io sono una persona vera, vivo nel mondo vero, quello dove i down non sono gli eroi da fiction televisiva, ma persone difficili che a volte sanno di ammoniaca e prendono i calci (to kick a man when he's down). Non dico che mi piace, ma è vero. Il mondo è così.

Ed è per questo che me la rido, ah-ah, quando mi mostrano le statistiche sugli impiegati più sottoposti a stress e malattie psichiche. Indovinate un po', sono gli insegnanti. Di scuola media, forse? Meglio non indagare.

Io so di essere sano di mente - a parte quel triennio un po' discutibile a cavallo degli anni Ottanta, del resto i rapimenti alieni ti segnano. Dov'ero rimasto? Ah già. So di essere sano, ma so anche che la possibilità di incontrare un professore insano, alla Scuola Media di oggi, è piuttosto alta.

Quanto alta? Così a occhio direi un insegnante insano ogni duecento. Però attenti, perché magari è un insegnante precario che gira di scuola in scuola, e quindi la possibilità che un giorno incontri i vostri figli non è poi così bassa. Io stesso ricordo di essere stato implorato (da un dirigente scolastico che non specifico) ad accettare una supplenza che, in caso di mio rifiuto, sarebbe andata di diritto a un matto/a (e come si faceva a sapere che era matto/a? Mah. Voci. Magari tutte calunnie, è un brutto mondo, appunto. Ma è vero).

E' la Scuola Media che fa impazzire i prof? Non necessariamente - anche se aiuta. A volte li attira già predisposti a sbroccare. Credo che sia questo il caso della mia collega molisana arrivata da pochi giorni a Milano e già colta in atteggiamenti promiscui con cinque alunni - a nome di tutta la categoria, grazie per averci fatto passare un tranquillo week end di panico e autocoscienza (questo articolo è indecente)

Il Preside, in tv, ci tiene a sottolineare che quella lì manco la conosce, è stata pescata da una graduatoria a cui possono accedere cani e porci purché laureati, non fa parte della storia dell'istituto, ecc. ecc. ecc. Intendiamoci, io al suo posto avrei fatto lo stesso.
Anzi, già che c'ero avrei potuto imbastire una bella polemica sui tagli alle scuole. Perché una scuola di Milano è costretta a raschiare sul barile dei prof non preparati e borderline? Forse perché non ci sono i soldi per assumerne di migliori? Forse perché la paga è comunque cattiva, per cui i prof preparati e sani di mente preferiscono fare gli sportellisti? Forse. Però questo è solo una parte del problema.

In realtà quello che è successo a Milano può succedere ovunque (e probabilmente è già successo), con prof supplenti o prof di ruolo. Perché per accedere all'insegnamento serve un titolo di studio e (a volte) un concorso, ma non è previsto nessun tipo di accertamento psicologico: tutto quello che ti chiedono è un ridicolo "certificato di sana e robusta costituzione", tre righe scritte da un dottore in tre minuti di colloquio (fanno 20 euro, grazie). Lo stesso certificato vale sia per i supplenti che per gli insegnanti di ruolo. Che io sappia non sono previsti accertamenti successivi, per cui è possibilissimo che uno impazzisca in seguito. Per dire, potrebbe anche capitare a me: un giorno caccio un urlo a un cretino in quarta fila che gioca con un aeroplanino, un settore del cervello entra in risonanza con la sonda che gli alieni hanno lasciato lì, e mi trasformo in una belva inumana che appende gli alunni agli attaccapanni (non a norma 626). Sono sicuro che in questo caso il preside in tv dirà che non mi conosce, ero appena arrivato e non aveva la possibilità di verificare il mio stato mentale. Il che, dopo tutto, è vero.

Ne ho già parlato, e mi ripeto: in questo mondo assai difficile, l'insegnante è solo. Le sue abilitazioni gli servono a entrare a scuola, ma non a lavorarci. Nessuno sa spiegargli quello che deve fare. Non c'è un metodo condiviso, non ci sono tecniche certificate, non c'è un bel niente di niente, per cui in certe situazioni impazzire il minimo. Ci sarebbe da chiedersi perché non impazziamo tutti. E forse è così: siamo pazzi tutti, ma grazie al cielo la più parte delle volte è una pazzia socialmente utile. Invece appartarci con gli studenti per fare sesso con loro, ci appartiamo per insegnargli la grammatica. Ma il motivo ultimo che ci spinge a farlo è sempre lo stesso: la follia.

martedì 7 novembre 2006

- compra Leonardo compra Leonardo compra

Tra le nuove uscite della collana ScrittoMisto spicca "La storia d'Italia a rovescio" di Leonardo, uno dei blogger più acuti, riflessivi e longevi della blogosfera italiana (Pandemia)

Soprattutto soprammobile

La gente vuole scrivere i libri.
Uno può scrivere dieci cartelle al giorno, ma finché non hai scritto un libro non sei nessuno. Sei un giornalista, orrore, un pubblicista, pfui, o ancor peggio, un blogger. Quanti lettori hai? Due, tre, venticinque? Ah, ne hai trecento? Al giorno? Ma non importa. Non sei nessuno, perché non hai scritto un libro.

La gente vuole scrivere i libri. Se ci pensate, è curioso. È un’esigenza che sfida le leggi più elementari dell’economia, perché la maggior parte degli aspiranti scrittori non solo non si fa illusioni sui guadagni, ma per pubblicare è disposta a pagare.
Questo, almeno fino a dieci anni fa era comprensibile. E se non avessi appunto perso Il pendolo di Foucault (quel polpettone erudito che anticipava e dava una descrizione sociologica del fenomeno Codice-da-Vinci prima ancora del fenomeno medesimo) potrei adesso qui incollarvi una di quelle folgoranti paginette sugli Scrittori a Proprie Spese che per riscattare la propria mediocrità vengono risucchiati da editori senza scrupoli in un gorgo di acquisti d’invenduti. È una storia triste, ma almeno dovrebbe essere una storia vecchia. Adesso c’è Internet! Ci sono i blog, che ti riscattano la mediocrità gratis!

E invece no. Non possiedo statistiche sull’editoria italiana, ma a occhio mi pare che le tipografie continuino a stampare tonnellate d’invenduto. La gente non vuole scrivere i blog, quella è roba per adolescenti in foia, o trentenni in foia, o al limite politici. La gente vuole scrivere i libri, sono i libri che ti fanno scrittore. Perché?

Perché il libro, in sé, è un’invenzione geniale. Lasciate perdere la scrittura, quella c’era da prima (si scorreva sui rotoli di pergamena) e ci sarà anche dopo (si scrolla su Internet). Ma il libro. Internet non ucciderà il libro, rassicuratevi. Il libro vivrà in eterno, o almeno finché vivranno uomini e donne desiderosi di circondarsi di soprammobili: e vivrà precisamente perché non c'è soprammobile più elegante di un libro. Un libro è eloquente (quante parole contiene); allo stesso tempo è allusivo (quanti parole non dice, a lasciarlo in scaffale), e si aggiunga che come soprammobile è anche estremamente comodo: un parallelepipedo si impila e si spolvera con una relativa facilità.

Un oggetto compatto, e allo stesso tempo friabile. Si apre in centinaia di punti diversi, non esiste nulla di così sorprendente in natura. In fondo ogni libro è un pop-up, ogni pagina è una finestra su un mondo un po’ diverso. L'inventore di sottilissimi fogli rettangolari di carta fissati da un solo lato è un genio assoluto, paragonabile soltanto all'inventore della ruota: per quanto le innovazioni tecnologiche la possano rendere più resistente o più morbida, nessuna invenzione renderà la ruota più rotonda di quello che è: allo stesso modo nessuna rivoluzione tecnologica può rendere il libro più eloquente, più allusivo, più comodo.

E soprattutto: su nessun altro soprammobile di casa vostra starebbe bene il nome vostro – o d’un vostro amico – in caratteri cubitali. E invece sul dorso d’un libro un nome ci sta proprio bene, e più sta in grande meglio è. La gente scrive i libri perché sul dorso ci può mettere il nome. Non è che voglia venderti un soprammobile col suo nome – se non ce la fa, al massimo te lo regala.

Io però non te lo regalo mica, caro lettore, il libro con il mio nome sulla copertina. E non voglio neanche chiederti se per favore me lo compri. Poche cerimonie tra noi due: da quanto mi leggi? Due mesi? Sei? Tre anni? Cinque? Per tutto questo tempo mi hai letto gratis.

È chiara la situazione? Quel che ti chiedo di riscattare non è la mia mediocrità (mediocrità?), ma un tuo debito. In questi anni hai comprato tanti libri e giornali che non hai nemmeno letto. Hai pagato il canone Rai. Hai pagato per tante cose molto meno interessanti, meno divertenti e meno riuscite. Ma per Leonardo non hai mai pagato un soldo, mai. Da molto tempo in qua non ti sorbisci nemmeno più il piccolo banner pubblicitario. Come l’aria, il sole, l’amore, così anche Leonardo l’hai avuto gratis et amore dei, e soprattutto perché nessuno è riuscito ancora a fartelo pagare. Ma finalmente, grazie alla favolosa équipe di Scrittomisto, le cose stanno per cambiare. La Storia d’Italia a rovescio sta per uscire, anzi è già uscita, addirittura Rillo l’ha già comprata, e tu che fai? Vuoi arrivare per ultimo?

Del libro cosa c’è da dire. Come tutti i libri di Scrittomisto (mi pare) è nato da un blog, ma cerca finché può di sembrare un libro vero (la parola b*** è quasi bandita). Il materiale è effettivamente già comparso su questo sito negli ultimi cinque anni – ma siete sicuri di averci fatto caso? Ne ho scritto di roba, qui, e più crusca che farina, diciamolo.

L’idea era quella di raccontare la storia recente a rovescio: dalle elezioni del 2006 a quelle del 2001, proprio come se la stessi raccontando a un lettore di blog, che capita su leonardo per caso leggendo il pezzo più recente e poi si mette a scorrere l’archivio. Non è un best of, che non sarei proprio in grado di fare. Non è, ahimè, nemmeno una vera Storia d’Italia: i buchi sono tanti, e si vedono (ma in cento pagine provateci voi). È un libro, un soprammobile elegante, un’idea regalo per le festività natalizie che incombono, ormai. Comprarlo non mi renderà ricco (io sono già ricco dentro) ma vi farà sentire un po’ meno scrocconi nei miei confronti.

Se poi lo ficcate in doppia fila interna sullo scaffale più in alto non mi offendo. Tanto la bottega, qui, è sempre aperta. E prima o poi ripasserete.
E' più forte di voi.

martedì 31 ottobre 2006

- gesù, giuseppe, maria e

Tutti i santi
Giorni di vacanza. Tanto più che qualcuno a caccia di dolcetti è riuscito a scovare pure il nostro citofono.
Così la redazione si allinea al sentimento comune e festeggia Ognissanti con un pezzo di repertorio: I Santi del Mese. E' stato scritto in gennaio per Sacripante!, e doveva essere il primo di una lunga serie di pezzi buffi sui protagonisti del nostro calendario. In seguito però la pregiata rivista on line ha interrotto le pubblicazioni (voglio sperare che Ruini non c'entri per nulla). Devo dire che un po' mi dispiace. Devo anche dire che ero in ritardo cronico con le consegne.

Rileggendolo, ho voluto cambiarlo un po', e così l'ho riscritto. Spero che non ci siano problemi di copyright (sennò lo tolgo).

Santa Brigida di Kildare (1 febbraio)
Appena dico "Santa Brigida", vi sento già sbuffare: "Massì, lo sappiamo, patrona di Svezia e d'Europa: ebbe otto figli, fondò una settantina di monasteri e riempì otto volumi di visioni estatiche". Tutto questo è vero, e anche di più, ma il primo febbraio ricorre un'altra Santa Brigida. Quella di Kildare (Irlanda). Perché l'Irlanda non è solo San Patrizio, sapete.
Ora, questa santa a me sta assai simpatica. Non ebbe molte visioni estatiche, è vero – e di monasteri ne fondò uno solo – ma nell'isola ancora si parla di quella volta che nel Meath “spillò birra da un solo barile per diciotto chiese, in quantità tale che bastò dal Giovedì Santo alla fine del tempo pasquale” (Breviario di Aberdeen). Perciò gli irlandesi la ricordano con una preghiera che dice:

I would like a great lake of beer
for the King of Kings.
I would like to be watching Heaven's family
drinking it through all eternity.


(Vorrei un lago di birra
per il Re dei Re.
Vorrei guardare la famiglia celeste
che ne beve per l'eternità)

Questa visione del paradiso come un pub dove la famiglia degli angeli e dei santi trinca per l'eternità, la dobbiamo a Santa Brigida di Kildare, che Dio l'abbia in gloria. E quando il giorno verrà, che si apriranno le saracinesche del cielo, fa che sia Santa Brigida ad attenderci al bancone celeste. E se la Madonna vorrà offrirci il vino di Cana, noi le diremo: "Tuo figlio ci ha messo l'acqua", ma solo per scherzo, e Brigida spinerà una scura anche per lei, e i protestanti sciacqueranno i bicchieri in cucina, dove sarà pianto e stridore di piatti in eterno nei secoli dei secoli, amen.


Sant'Agata (5 febbraio)
Avete presente quel tipo di sante martiri che presentano le proprie mutilazioni su un vassoio – vengono i brividi solo a pensarci. Santa Lucia, per dire, ci tiene un paio d'occhi – quelli che le cavarono i pagani. A Sant'Agata (patrona di Catania e dei pompieri) è andata, se possibile, peggio. Quelle due cose rosa sul vassoio sono… i seni, esatto.
Aveva solo 15 anni, quando il proconsole di Sicilia Quinziano le mise gli occhi addosso: giovane, pura, consacrata a Cristo. Sulle prime la affida a una cortigiana, tale Afrodisia, che cerca di rieducarla ai costumi pagani: festini, banchetti, orge… niente da fare. "Ha la testa più dura della lava dell'Etna", dice Afrodisia, rispedendola al mittente.
Si passa alla tortura. Le stirano le membra, la lacerano con pettini di ferro, la scottano con lamine infuocate. Lei resiste; allora le strappano i seni con enormi tenaglie. Verrà più tardi Gesù bambino a fargliele ricrescere. Infine l'empio Quinziano decide di farla alla brace, ma il suo velo rosso (simbolo di verginità) resiste al fuoco. È il primo tessuto ignifugo della storia. I catanesi lo usano ancora per fermare le eruzioni di lava. È la Santa da invocare in un incendio (ora lo sapete).
Nella chiesa del mio paese c'è un bel quadro di Sant'Agata, col vassoio cancellato da un maldestro restauro ottocentesco. Da ragazzino non mi dispiaceva, pur trovandola un po' piatta. Quando ho saputo, mi sono sentito una merda.
Santi Cirillo e Metodio (14 febbraio)
Oggi, 14 febbraio, mentre tutto il mondo pensa a scambiarsi sciocchi e futili pegni d'amore, i linguisti si segregano in casa, e ricordano i loro Santi, i loro eroi.
I fratelli Cirillo e Metodio evangelizzarono gli Slavi contro tutto e tutti. Quelli non è che non sapessero semplicemente "leggere e scrivere". Non avevano l'idea stessa di scrittura – l'alfabeto. Cirillo e Metodio presero quello greco, lo pasticciarono un po' e lo trasformarono in quell'alfabeto ancora oggi usato da Belgrado a Vladivostok e nelle Stazioni spaziali: il cirillico!
Evangelizzare un popolo barbaro partendo dall'alfabeto dev'esser dura. Ma forse fu peggio convincere i pecoroni delle curie greche e latine che quello che stavano facendo era buono e giusto. Gesù deve parlarti nella tua lingua! Altrimenti che si è fatto uomo a fare?
Per aver alfabetizzato ed evangelizzato un popolo, rischiarono l'eresia. Dovettero combattere fino all'ultimo giorno per veder riconoscere il paleoslavo come lingua liturgica, accanto al latino e al greco.
Cirillo e Metodio sono i patroni dell'Europa, degli ecumenismi, e di tutti i linguisti di buona volontà, osteggiati dall'ottusità umana che ovunque impone regole inutili e lingue morte. Se il vostro partner è un/a linguista, forse avete capito perché oggi non vi ha ancora fatto un regalo ed è così pensoso/a. Vogliategli/le bene.

San Policarpo di Smirne (23 febbraio)
Nella pratica l'occupazione dei Santi in cielo è definibile come intermediazione: si tratta di ricevere le richieste dei devoti e scremarle; inoltrarle all'Autorità competente… un lavoraccio.
Certo, non è che tutti abbiano il daffare di, poniamo, Sant'Antonio da Padova: c'è gente che ha molto più tempo libero, come per es. San Policarpo.
Già l'esser Santo protettore di tutti i Policarpo del mondo non dev'essere un mestiere a tempo pieno. In più, Policarpo viene da Smirne, che nel I sec. poteva anche brulicare di cristiani, ma oggi ci abitano i turchi: quindi, insomma, chi lo conosce? A parte gli agiografi e i compilatori di calendari; chi è che si inginocchia davanti a Policarpo? C'è il santino? Avranno smesso di ristamparlo da un pezzo.
Ne consegue che nel suo ufficio celeste, Policarpo non sa che fare. Una partita a freccette con Sebastiano? Due tiri di scherma con Paolo? Alla lunga deve essersi creato una fama di fancazzista che non merita – in fin dei conti è un Martire, e di quelli tosti. Salì sulla pira di sua sponte, senza farsi nemmeno legare. Insomma, non merita tanta disattenzione.
Un compito per il 23 febbraio: trovare qualcosa da chiedere anche a San Policarpo di Smirne. Era un Santo coraggioso e tenace: non dite che non potrebbe anche lui aiutarvi in qualche cosa. E con lui non dovrebbero esserci i tempi di attesa di San Padre Pio. Santo, santissimo, ci mancherebbe. Ma da lui c'è sempre fila.

venerdì 27 ottobre 2006

- domani all'amore si fa

Menica, menica
(scaricala in lo-fi)

Scarpe nuove mi son messo,
il cappello nero in testa:
devo andare alla Gran Messa
col vestito della festa.

Per sembrare intelligente
curo molto l'espressione,
mentre passo tra la gente
che cammina in processione…

Menica menica, oggi è domenica:
tutti a passeggio si va.
Menica menica, oggi è domenica
Ognun mi saluterà
.

Dopo avere ben mangiato
salto sulla mia Gilera
e mi lancio a perdifiato
verso l'unica Balera.

Ecco là sullo stradone,
con le scarpe di coppale,
tutte fragole e lampone
due ragazze mica male…

Menica menica, oggi è domenica
Festa in paese si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutti a ballare si va


Ecco attacca l'orchestrina
la mazurca indiavolata:
io rimango in magliettina,
lei è già tutta sudata.

A me pare appetitosa,
pur se sa di brillantina;
le sussurro qualche cosa,
lei mi fa una risatina…

Menica menica, oggi è domenica
Oggi all'amore si fa
Menica menica, oggi è domenica
Tutto doman finirà
Finirà
Finirà

***

Come molti, io non sono mai riuscito a trovare l’anima al liscio. Che i miei vecchi trascorressero le rare ore di svago a scimmiottare i valzer della corte di Vienna era un fatto: ma, ecco, era un fatto poco interessante e abbastanza triste, tutto qui. Quale folclore, quale cultura? tre quarti con bassi pompati e arpeggi facili: il nonno del tecno era superficiale quanto il nipote. Si trattava solo di una superficialità diversa: la scimmia ammaestrata che imita i padroni contro la nuova scimmia postmoderna che ritrova la jungla al cocoricò. Io invece ci tenevo ad avere una storia, delle radici, bla, bla.

A proposito delle mie radici: i miei genitori mi hanno lasciato in eredità una sola cassettina: tre pezzi di De Andrè, tre di Paoli, tre di Lauzi. Ritornerai e il Poeta le conoscono tutti. La terza è Menica Menica, e non ho mai trovato qualcuno che la conoscesse – solo qualche rara traccia su e-mule.

Per me è bellissima, e spietata. La provincia è radiografata in tutta la sua nullezza, con un’economia di parole che fa spavento. “Per sembrare intelligente / curo molto l’espressione”… Lauzi non ha nemmeno bisogno di dirlo, che la “gente che cammina in processione” è fatta di tante maschere nude come lui. “Dopo avere ben mangiato”… e lo stomaco ti si riempie come alle due e mezza di un giorno di festa. E basta la parola “Gilera” per annusare il polverone di una strada sterrata, che a un tratto si dirada e nel nulla compare la prima e ultima spiaggia, l’Unica Balera.

Spietato come Flaubert, laconico come Ungaretti. Lui rimane in magliettina, lei è già tutta sudata, e poi via, si fa all’amore. Presto, che domani (non c’è neanche bisogno di dirlo!) è lunedì. E qui improvvisamente la voce si fa più fievole, e ti scarica addosso generazioni intere di pietà e malinconia. Che cosa ti aspettavi? Gratti la brillantina e senti il fieno. Questa è gente che per essere ipocrita e superficiale aveva un solo giorno alla settimana.

De Andrè ci avrebbe messo due strofe in più (Guccini il doppio). Tenco si sarebbe perso per strada a litigare col destino. Lauzi ci mette esattamente tre strofe, tre giri di valzer. Io non sono mai riuscito a trovare un’anima al liscio, finché non ho sentito Menica, Menica. Bruno Lauzi era un poeta, e se n’è andato. Voi passate un buon week end.

giovedì 26 ottobre 2006

- tv news strike (back?)

Subliminews

Anche ieri i giornalisti hanno scioperato e anche ieri, puntualmente, si è verificato quell’inatteso fenomeno: abbiamo visto dei tg normali. Spartani ma impeccabili. Un signore un po’ legnoso leggeva una serie di dispacci di agenzia, senza neanche l’ausilio del gobbo. Un format quasi perfetto nella sua fattura artigianale – non fosse per quegli inutili tre minuti di comunicati e controcomunicati sindacali. E con la scusa che non ci sono sfilate da inquadrare e film da pubblicizzare, avanza anche un po’ di tempo per i cartoni animati.

Da qui una serie di considerazioni, prima della quale: forse mi sto rincoglionendo. E se la pensi come me, o lettore, stiamo rincoglionendo insieme. Invecchiamo, diventiamo reazionari. La nostra idea di “tg normale” è indissolubilmente legata ai tg della nostra infanzia, con una grafica minima o inesistente, e Vespa o Fede o Frajese su uno sfondo grigio che leggevano notizie: tutto quello che potevano fare era leggere notizie. In casa si faceva silenzio, perché se si voleva imparare qualcosa (a quei tempi si desiderava imparare qualcosa), occorreva stare attenti. Come i nostri nonni con le radio. Era il medioevo della multimedialità, ma da qualche parte nella nostra coscienza di rincoglioniti sarà per sempre l’età dell’oro in cui giocavamo coi lego sul tappeto. Si stava meglio.

Seconda considerazione: siamo sicuri che non si stesse davvero meglio? Il tg all’antica aveva un grosso vantaggio: come la radio, potevo ascoltarlo e intanto giocare coi lego. L’apporto visivo era nullo. Oggi siamo costretti a guardare. Ma sarà vero? C’è davvero molto da guardare nei filmati di un qualsiasi tg (anche serio)? Fateci caso: l’80% del materiale visivo consiste in materiale d’archivio, spesso estrapolato dal primo contesto, col risultato di deformare l’informazione. Faccio un esempio: se si parla di un nuovo comunicato di Bin Laden, si andrà a pescare qualche vecchio filmato del califfo del Terrore. Nel medioevo della nostra infanzia si usava aggiungere la scritta “immagini di repertorio”. Oggi no. Oggi la maggior parte dei telespettatori è deliberatamente indotta all’equivoco: Bin Laden è ancora in circolazione, legge discorsi e compare in tv. In realtà non abbiamo più video suoi da un sacco di anni.

È andata così: dopo decenni di multimedialità molto scarsa, la tecnologia ha permesso ai telegiornali di abbinare davvero testi e immagini. Ma la forma più chiara, breve e sintetica per dare le informazioni resta sempre la stessa: farle leggere a qualcuno. Le immagini possono illustrare la notizia, ma restano secondarie. Quello che veicolano, molto spesso, sono messaggi laterali, subliminali: mentre lo speaker ci dice “è uscito un nuovo discorso di Bin Laden”, l’immagine suggerisce: “Bin Laden è sicuramente vivo, guardatelo qui”.

I messaggi subliminali sono allo stesso tempo più suadenti e più difficili da riconoscere, e quindi da criticare. Arrivano spesso prima del messaggio primario – specie da quando nelle nostre case abbiamo smesso di seguire i tg in religioso silenzio. Da quando, cioè, sono diventati contenitori chiassosi di filmati di repertorio, defilés, trailers, videoclip. Il subliminale è talmente debordante da soddisfare totalmente la nostra fame d’informazione. Tant’è che già da parecchi anni i tg hanno messo a disposizione del pubblico più smaliziato uno strumento utilissimo per riconoscere le informazioni pure in mezzo al chiasso: i titoli correnti in fondo alla pagina. Quelli si possono seguire senza disturbare ed essere disturbati anche mentre il resto della famiglia ciarla e sforchetta.

Terza considerazione, assai simile alla prima: sono davvero un reazionario. Immerso come sono in un universo multitasking, mi ostino a credere di poter fare solo una cosa alla volta. Continuo a prediligere strumenti lineari, come la voce dello speaker, o la linea dei titoli che scorre lungo il lato inferiore del video. Tutto quello che il video mi offre di più, lo squalifico come paccottiglia subliminale, buona per ipnotizzare le masse. In realtà i supporti video possono essere molto utili e fornire testimonianze preziose…

Eppure resta l’incontrovertibile verità: un tg di dieci minuti, tutto letto al microfono come ai vecchi tempi, contiene l’esatta quantità di informazione che di solito viene condita con mezz’ora di scemenze. Se ci riflettessero bene, i giornalisti tv, forse troverebbero un altro strumento di lotta.

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