Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

venerdì 29 settembre 2017

La tavernetta degli specchi

The Traveling Wilburys, Vol. 1 (1988)
(Il disco precedente: Dylan and the Dead.
Il prossimo è Oh Mercy, oh, finalmente).

Ma Orbison andava al di là di tutti i generi, folk, country, rock and roll o qualunque altra cosa. Mescolava tutti gli stili, compresi quelli che non erano ancora stati inventati. In un verso cantava veramente da cattivo, in quello dopo se ne usciva con un falsetto alla Frankie Valli. Con Roy non si sapeva mai se stavi ascoltando del mariachi o un'opera lirica. Teneva sulle spine. La sua era un'offerta di grasso e di sangue. Sembrava che cantasse dalla cima del monte Olimpo ed era meglio starlo a sentire perché diceva sul serio. [...] Adesso cantava con un'estensione di tre o quattro ottave, roba da farti spingere la macchina giù per la scarpata e non pensarci più. Cantava come un professionista del crimine. 



La storia è nota, ma si racconta lo stesso volentieri. Nella primavera del 1988, George Harrison è improvvisamente tornato alla ribalta. Il suo nuovo disco, Cloud Nine, prodotto da Jeff Lynne (chi?), è andato al numero uno negli USA, soprattutto grazie alla cover di Got My Mind Set On You, un pezzo che cura la nostalgia per i Beatles mediante robuste iniezioni di cose persino precedenti ai Beatles. Nel primo videoclip, Harrison e Lynne suonano tra gli ingranaggi di un videojukebox a manovella: i loro anni Cinquanta ormai sono un'idea depurata di ogni nostalgia, un giocattolo per bambini che non sanno chi è Elvis ma a quel ritmo muoveranno i piedi comunque. Numero 1 negli USA. La Warner è entusiasta e vuole estrarre un altro 12 pollici, ma serve un riempitivo per il lato B. Harrison è in California e sa che anche Lynne è nei paraggi, così lo chiama: dobbiamo incidere un pezzo al volo, tu adesso cosa stai facendo? Lynne ormai è tutto preso dal rock'n'roll, sta producendo il nuovo disco di Roy Orbison, eccentrica leggenda vivente anche se non vende un disco da anni. Roy Orbison! Wow! invita anche lui. Potremmo registrare a Malibu da Bob Dylan, lui ha quello studio in garage che di sicuro non sta usando nessuno. Il problema è che non ho chitarre con me, l'ho lasciata a casa di Tom Petty l'altra sera, beh, ma invito pure lui. Due giorni dopo i Traveling Wilburys sono appena nati e hanno appena registrato il loro più grande successo, Handle With Care, che oggi è una curiosità ma lanciò il 33 giri oltre i tre dischi di platino. Dylan tre dischi di platino non li vedeva dal 1971.

You can sit around and wait for the phone to ring (End of the Line)
Waiting for someone to tell you everything (End of the Line)
Sit around and wonder what tomorrow will bring (End of the Line)
Maybe a diamond ring?

Questo però lo avremmo scoperto in seguito. All'inizio c'era soltanto un video, in cui George Harrison intonava una di quelle canzoni alla George Harrison: semplici, meditate, disarmanti. La stessa vena serena e irresistibile di Here Comes the Sun, While My Guitar, Sweet Lord. Va avanti per otto versi, e se tutta la canzone fosse soltanto la ripetizione di quegli otto versi, avrebbe già un suo senso. Ma subito dopo entra Roy Orbison, che nel 1988 senz'altro non conoscevo. Il video mi forniva degli indizi: un profugo dagli anni Cinquanta, un sosia di Elvis sopravvissuto al suo personaggio? Gli basta aprire la bocca per trasformare una melodia tardobeatlesiana in qualcosa di completamente diverso, ha una voce cromata come una Triumph, si sente nell'aria un vago sentore di giacca di pelle, hamburger e frullato alla fragola. Sono passati trenta secondi ed è già una canzone molto strana, un patchwork come ne incidevano i Beatles verso la fine, giusto vent'anni prima - ma ecco che entrano Dylan e Petty, insieme. Petty segue la sua guida, il suo mentore, e Dylan... cosa vuoi che faccia Dylan? Dylan stecca.



Everybody's
got somebody
to leeeeeeeeeeeean on

Unghie sulla lavagna, la specialità della casa. Sono tra amici, si divertono, che può fare Dylan in queste situazioni se non trovare l'unica nota dissonante? Petty invece no: lo segue eppure non stecca, come fa? Anni di allenamento, probabilmente.

All'inizio pensavo di non farlo, un pezzo sui Traveling Wilburys. In fondo fu un'avventura estemporanea, una festicciola protratta per dieci giorni (ma quanti buoni dischi Dylan li ha registrati anche in meno tempo?) Magari avrei aggiunto da qualche parte un postcriptum: ah, nel 1988 ha anche inciso qualche canzone tra amici e ci ha guadagnato più che in cinque anni di dischi e concerti. Poi mi sono ricordato che c'era un sacco di cose da raccontare. Di certi album non sai veramente cosa dire, ma non è il caso di quelli dei Traveling Wilburys. Sono dischi interessanti. Avanzi di canzoni montati assieme in fretta, per la gioia del musicologo dilettante. Handle With Care è l'esempio migliore: gran parte del divertimento consiste nella facilità in cui puoi scomporre il prodotto in fattori primi. Qui c'è l'eccipiente Beatles, qui c'è la base rockabilly, qui c'è la guarnizione: Dylan che stecca. È come smontare un lego. È facile. Ma ti fa sentire un ingegnere.

Di solito cominciava su un registro basso, appena udibile. Per un po' ci rimaneva, poi cominciava con i suoi stupefacenti istrionismi. La sua voce avrebbe dato la scossa a un cadavere. Si finiva con il mormorare a se stessi: "Non ci posso credere". Le sue erano canzoni dentro canzoni. Passavano dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica. Orbison era terribilmente serio, non c'era niente di adolescenziale in quello che faceva. Alla radio non c'era nessuno come lui. Io ascoltavo e aspettavo un'altra canzone, ma a paragone di Roy il resto dei programmi veniva dritto dalle terre della noia, roba flaccida, senza spina dorsale, fatta per chi non aveva un cervello. 



Tra i tributi più sorprendenti che Dylan offre in Chronicles, c'è senz'altro quello a Roy Orbison. Sul serio, chi l'avrebbe detto che il giovane Dylan lo apprezzasse così tanto? Non potrebbe essere uno di quei ricordi che si aggiustano a posteriori? Apparentemente in Orbison c'era tutto quello che Dylan non aveva e non aveva mai dato l'impressione di voler cercare: tanto per cominciare la voce impostata ed estesa su quattro ottave. Un'attitudine melodrammatica che negli anni Cinquanta aveva contagiato i rockers, ma proprio il successo di Beatles (e di Dylan) avrebbe estromesso dalle classifiche. E una vena barocca nella costruzione delle canzoni, piccole sinfonie in cui strofe e ritornelli si intrecciavano in strutture molto più complesse del necessario. Tutto questo aveva reso Orbison un personaggio unico ai suoi tempi, ma anche un ingrediente ideale per il metodo di lavoro dei Wilburys: improvvisare dei riff e montarli assieme. Si potrebbe dire dei brani più collettivi dei Willburys quel che Dylan dice delle canzoni di Orbison: canzoni dentro canzoni, dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica - oppure una logica c'è, come in Handle With Care, ma Dylan non la capisce e la smonta senza neanche accorgersene (Dylan, ricordiamo, è il compositore che incise sei dischi prima di scoprire il middle-eight, e che in John Wesley Harding aveva abolito i ritornelli). Malgrado l'ammirazione (reciproca?), Dylan e Orbison non duettano mai. Sembrano veramente inconciliabili, l'acqua e l'olio. Nei brani in cui canta Orbison, Dylan quasi scompare. Nel brano più dylaniano del mazzo, Tweeter and the Monkey Man, Orbison scompare davvero, abbastanza misteriosamente (magari era in bagno mentre registravano, va' a sapere). Sono loro i due veri monumenti da maneggiare con cura: Harrison - che ha venduto più di entrambi messi insieme - è più duttile, la sua voce è iconica, ma non è un fossile vivente. Quella di Orbison lo era, e anche quella di Dylan, nel 1988, sembrava a un passo dal diventarlo.

Ama il tuo corpo sexy, la tua mente sporcacciona.
Ama quando lo stringi e lo afferri dal didietro.
Uuuuuh, baby, che bella cosa sei!
Voglio proprio presentarti a questa gang di amici miei...

Traveling Wilburys Vol. 1 è una serata con gli amici. Ci sono canzoni che hanno un senso soltanto mentre le canti in coro e dev'essere un coro maschile - un pezzo autocommiserante come Congratulations, se Dylan l'avesse inciso in Down in the Groove o Knock Out Loaded, magari con moglie e suocera in sottofondo, non si sarebbe potuto sopportare. Ma qui siamo al banco del bar, Dylan può lagnarsi quanto vuole, i fratelli W ascoltano, cantano il ritornello e versano da bere. Se invece è in vena di scherzare, finalmente ha dei compari che lo capiscono - se è vero che Dirty World nacque da una sua idea di "fare una cosa alla Prince". Ovviamente non saltò fuori una canzone di Prince, ma quelle poche strofe sguaiate sono assolutamente dylaniane: la disinvoltura inspiegabile con cui passa dalla terza alla prima persona singolare, e quella litote ("non c'è assolutamente niente di te che non gli piaccia") che è proprio il modo con cui si esprime con sé stesso - molti anni dopo, a un giornalista che gli chiedeva di Alicia Keys, avrebbe usato praticamente le stesse parole.

Maybe somewhere down the road aways (end of the line)
You'll think of me, wonder where I am these days (end of the line)
Maybe somewhere down the road when somebody plays (end of the line)
Purple haze?

"Wilburys" deriverebbe da un'espressione spesso usata
da Harrison e Lynne durante le sessioni:
We'll bury it in the mix, "questo lo seppelliremo nel missaggio".
La tavernetta dei Wilburys è un labirinto di specchi. Sembrano davvero tutti fratelli, come raccontavano - magari di madri diverse, ma in qualche strano modo si assomigliano più di quanto dovrebbero assomigliarsi i vecchi amici. C'è una lingua comune - un rock and roll ancestrale che era poi l'unica lingua che ormai Dylan riuscisse a parlare in Down in the Groove. Ci sono fazioni consolidate e imprevedibili alleanze trasversali. Da una parte il ramo inglese, il vecchio saggio George e il fratellino Lynne, cresciuto alla sua ombra: le intuizioni del maggiore le ha trasformate in trucchi di laboratorio. Dall'altra il ramo americano: il vecchio e bizzoso Bob, padrone di casa (però gli ospiti sono arrivati in una settimana in cui era di buon umore, scherzava con tutti e lasciava che gli smontassero le canzoni). Il fratellino Tom gli assomiglia, nella voce e nella fisionomia. Ma è cresciuto in anni diversi e forse ci si è ambientato meglio: a questo punto della storia vende più dischi del maggiore e ha una voce più sicura. Però si porta ancora in tour il fratellone, ormai è un portafortuna. Tra inglesi e americani ondeggia Roy, la scheggia impazzita. Non si sa bene da dove viene e soprattutto dov'è stato per tutti gli anni da Oh, Pretty Woman (1964) in poi. Davo per scontato che ci fossero state brutte storie di alcool o peggio - in fondo un tizio che perde la moglie in un incidente in moto, e mentre è in tour all'estero viene informato che la sua casa è bruciata con due figli dentro avrebbe avuto qualche motivo per lasciarsi andare. Ma semplicemente non è successo, Roy Orbison non si è mai ritirato dalle scene. Erano le scene che gli si erano progressivamente ritirate sotto i piedi: dai palazzetti ai teatri di provincia alle sagre di paese. Eppure non aveva mai smesso di cantare e incidere. A un certo punto aveva dovuto registrare da capo i suoi vecchi successi perché l'etichetta che possedeva i master era in bancarotta e minacciava di distruggerli. Ogni tanto qualche superstar riscopriva una sua canzone e il conto in banca ne traeva un subitaneo giovamento - qualche anno prima i Van Halen avevano rifatto Pretty Woman, caccia via. E nel 1980 aveva fatto un tour trionfale in Bulgaria. Ma dal cono d'ombra c'era uscito grazie al cinema: David Lynch aveva abbinato In Dreams, senza il suo permesso, allo psicopatico interpretato da Dennis Hopper in Velluto Blu - come trovare una lametta in un hamburger. Era un modo un po' macabro di tornare alla ribalta, ma bisognava sfruttarlo, magari trovando un produttore che lo svecchiasse un po'. Jeff Lynne? Beh, se aveva funzionato con George Harrison...

Well it's all right, even if you're old and gray
Well it's all right, you still got something to say
Well it's all right, remember to live and let live
Well it's all right, the best you can do is forgive

I Wilburys, ripetiamo, sono Bob Dylan (Lucky Wilbury), George Harrison (Nelson Wilbury), Roy Orbison (Lefty Wilbury), Tom Petty (Charlie T. Wilbury) e Jeff Lynne (Otis). I primi due li conoscono tutti; Orbison è quello di Pretty Woman; di Tom Petty qualche canzone in radio passa ancora, ma Jeff Lynne insomma chi è? Non vale googlare (continua sul Post...)

giovedì 28 settembre 2017

Grillo non è Hitler, che gran consolazione

A questo punto se fossi Grillo e sentissi Gianluigi Paragone chiamare il Movimento Cinque Stelle un “movimento bambino” (“non ha ancora capito le regole del mondo degli adulti… ma le capirà”) mi sentirei un po’ a disagio. Sono ormai dieci anni che si parla del Movimento col VaffaDay. E dieci anni fa non c’era il PD, Forza Italia si chiamava il Popolo delle Libertà, il leader del centrosinistra era Romano Prodi, Silvio Berlusconi era felicemente sposato. Insomma, ne abbiamo avuto di tempo per combinare qualcosa. Perché continuano a trattarci come bambini? Forse perché strilliamo tanto e non è mai chiaro cosa vogliamo? Perché poi tutti (anche i nostri elettori) sono convinti che siamo antivaccinisti, quando invece abbiamo una posizione molto più matura e articolata? Perché tutti ci credono anti-euro, quando invece vogliamo soltanto indire un referendum consultivo?



C’è anche da dire che se fossi in Grillo, e se fossi dotato della stessa franchezza di Grillo, a questo punto avrei qualche difficoltà a passare davanti a uno specchio la mattina... (su Thevision c'è un altro pezzo mio, s'intitola: Il M5S ha fermato l'estrema destra perché l'ha resa superflua).

Ormai sono dieci anni che sostengo la Rivoluzione, che propino il Movimento, e ok, non è che la gente abbia smesso di comprarsi il pacco: ma cosa ho concluso? Dopo dieci anni passati a parlare di democrazia della Rete, democrazia dal basso, indico le primarie e partecipano in trentamila. Il sito è un colabrodo, il “sistema operativo” non è un sistema e non è operativo. In teoria siamo il popolo della Rete, in pratica qualsiasi pischello può bucarci il firewall ed eleggere Valentina Nappi, che poi in effetti non sarebbe neanche l’opzione peggiore. Nel frattempo a Roma le zanzare diffondono la Chikungunya, perché la giunta di sconosciuti signori del M5S trova queste esotiche malattie preferibili a una disinfestazione coi pesticidi. Quanto a me, se fossi in Grillo, sarei esausto di tutto il carrozzone, ma ormai scendere è impossibile, mi verrebbero a prendere a casa con le torce. Per cui ok, retrospettivamente l’idea di far pubblicità ai miei spettacoli creando una parodia di movimento politico è stata un buon affare per me, sebbene un disastro per il mio Paese. D’altro canto…

(D’altro canto che?)

…d’altro canto c’è chi ha fatto di peggio.

(Ma chi?)

Ma non saprei, per esempio… Adolf Hitler!

Funziona sempre. Provateci un domani, quando parcheggerete il vostro SUV sulle strisce dei disabili ricordate ai passanti scandalizzati che alla vostra età, Hitler, i disabili li faceva ammazzare! Non vi fa sentire meglio? No, vero? Quanto dev’essere bassa l’autostima di una persona che per sentirsi meglio di qualcuno deve scomodare Hitler? Ed è un paragone che Grillo fa abitualmente. È il sistema che usa per trarsi d’impaccio, forse anche con la sua coscienza: è vero, ho fatto una cazzata, però… non l’avessi fatta io, sarebbero arrivati i nazisti! Siamo il famoso Argine all’Estrema Destra!





Ma cos’è un argine? Una barriera solida, di terra o cemento, che impedisce a un corso d’acqua di dilagare. Il Movimento Cinque Stelle, col suo NonStatuto e il suo NonSistemaOperativo, può essere in qualche modo paragonato a una barriera solida? Non ha piuttosto una consistenza porosa e malleabile? In altre parole: chi ci assicura che il Movimento Cinque Stelle, ormai un grande partito gestito da una piccola azienda a conduzione familiare, non sia in qualsiasi momento scalabile?

Grillo, sì, non sei Adolf Hitler, se questo ti fa sentire un po’ più in pace con te stesso continua pure a ripetertelo. Ma neanche il Partito Nazionalsocialista era Adolf Hitler: lui è arrivato in un secondo momento, all’inizio probabilmente era un infiltrato. Il punto è che non ci mise poi così tanto a fare di quel partito di reduci una pallina di pongo nelle sue mani: chi ci assicura che il tuo giocattolo, il giorno che te ne sarai stancato – e te ne sei già stancato – non possa finire nelle mani di un personaggio altrettanto psicopatico?

Impossibile, dirai tu: queste sono cose che succedono solo nei film, nella storia del Novecento, e nei film sulla storia del Novecento. Ok, un esempio un po’ più attuale: hai visto cos’è successo ad Alternative für Deutschland? Magari ne hai sentito parlare, visto che a Bruxelles siete partner. Sì: l’unica europarlamentare superstite alla scissione del 2014, Sua Altezza Beatrix Von Storch, fa parte del gruppo EFDD con voi del M5S e quei buontemponi brexiters dell’UKIP.

No, sul serio, la storia del partito di destra il cui successo sta terrorizzando tutti gli osservatori – ma che alla fine prende più o meno gli stessi voti che dovrebbe prendere un Salvini in Italia – è veramente suggestiva. È come Fare per Fermare il Declino. Ve lo ricordate Fare per Fermare il Declino? È come se un partito di economisti superliberali, invece di esplodere in una bolla dell’inconsistenza dei titoli accademici di Oscar Giannino, fosse stato colonizzato da avanzi di Lega e neofascisti o postfascisti, tutti uniti da un sacro furore antislamico e anti-migranti. Che è successo? Niente di nuovo. Non è la prima volta infatti che gli xenofobi tedeschi si agglutinano intorno a un partito che non è dichiaratamente di estrema destra, ma che dà la sensazione di poter superare lo sbarramento a destra dei Cristiano Democratici. Negli anni ‘80/’90, per un po’, andarono forte i Republikaner, adesso tocca a questo AfD che all’inizio era un partito di economisti nemmeno contrari all’Unione Europea, ma desiderosi di sbatter fuori i PIGS dell’Europa meridionale. Un partito che insomma serviva da sponda alla Merkel quando dovette mostrare fermezza coi greci in bancarotta. Mentre ora, dopo due scissioni – l’ultima avvenuta all’indomani delle elezioni – AfD è un partito di islamofobi terrorizzati dalle moschee, che servirà da sponda alla Merkel quando chiederà un giro di vite alle frontiere. Magari anche i fondatori dell’AfD, all’inizio, credevano di arginare qualcosa. Magari anche loro, oggi, contemplando il pasticcio, possono sempre guardarsi allo specchio e dire: però Hitler alla mia età ha fatto aprire Auschwitz.

Dopodiché siamo d’accordo, Grillo non è Hitler: ma l’avrebbe saputo riconoscere, in una birreria di Monaco, nel 1919? Avrebbe capito quanto erano pericolosi i suoi sproloqui contro il complotto giudaico-massonico dei banchieri? O non lo avrebbe trovato promettente, genuino, irresistibile, con quella rabbia che funziona così bene davanti ai microfoni e su internet? Con quei discorsi un po’ paranoici da ignorante ma perfetti da linkare sulla vecchia colonnina di destra di beppegrillo.it? “Un bambino”, avrebbe detto Paragone: lasciategli dire fregnacce, vedrete che imparerà. Sì. L’ultima volta fu un disastro mondiale, speriamo che sia una di quelle volte che la storia si ripete solo in farsa.

lunedì 25 settembre 2017

Tom Cruise spaccia (ma non aspira)

Barry Seal - una storia americana (American Made, Doug Liman, 2017).

Una volta ero un pilota. In una vita precedente. 
E proprio quando pensavate di aver visto tutti i Tom Cruise possibili, ecco a voi, in anteprima rispetto agli Stati Uniti, il Tom Cruise disonesto!

"L'avevamo già visto in Collateral".

Beh, ma quello era un killer, questo... questo è un simpatico cialtrone!

"Edge of Tomorrow".

No, no, questo è più manigoldo, questo...

"La mummia".

Questo fa sul serio, capite? Questo spaccia la droga!

"La droga? Tom Cruise?"

Non ve l'aspettavate, eh? "Tom Cruise" e "droga" nella stessa frase sono un colpo basso, non dite di no.

"Si drogava già in Minority Report".

Sì, no, ma stavolta non è che si droghi. La spaccia soltanto.

"Cosa vuol dire che la spaccia soltanto?"

Beh è colombiana di Medellin, dai, cosa pretendi, che la sniffi sul grande schermo? È pur sempre Tom Cruise.

È il caso di dire: che botta.

Se anche non andrete a vedere Barry Seal, c'è una scena che vi ricorderete perché compare in tutti i trailer, anche nelle pubblicità. C'è Tom Cruise che fa un atterraggio di fortuna in un sobborgo; c'è Tom Cruise che smonta dall'aeroplano tutto infarinato di cocaina con una valigia ricolma di dollari. È davvero il nocciolo di tutto il film: c'è l'aeroplano, ci sono i soldi, c'è la coca, c'è Tom Cruise che in un qualche modo ci salta fuori sempre (quasi). È anche l'unica scena che suggerisce che qualche granello di cocaina potrebbe essere stato inavvertitamente inspirato dal narcotrafficante interpretato da Tom Cruise. L'unica. E allora, signori, magari di narcotraffico non siamo così esperti, ma ormai di film ne abbiamo visti tanti. Anche prima dell'attuale inflazione di Escobar al cinema, c'era stato Blow, lo Scarface di De Palma, c'era stato Goodfellas con quella scena in cui Liotta se la prende con l'amante perché quando confeziona le dosi lascia polvere dappertutto. È cocaina, è bianca e granulosa, se soffi fa una nuvola, è quasi impossibile viverci in mezzo e non tirarne mai. Neanche un po'. Capita solo nelle fiabe - quelle che probabilmente i vecchi narcos raccontano ai bambini - il nonno era un capocartello, ma era pulito come appena nato - nelle fiabe e nei film con Tom Cruise.

Ci ho messo un po' a capire cosa non mi stesse convincendo in Barry Seal. Negli USA - dove deve ancora uscire - magari farà un po' di rumore perché... (continua su +eventi!) perché sostiene papale papale che la cocaina di Medellin entrasse in America grazie a una ditta basata in Arkansas che conosceva le rotte della DEA e della FBI dal momento che faceva lavoretti sporchi per la CIA e la CIA le aveva passato i tracciati. Che mentre Reagan dichiarava la Guerra alle Droghe, qualcuno forse nello stesso edificio considerasse l'invasione di colombiana purissima il prezzo da pagare per reprimere i sandinisti in Nicaragua. I sandinisti sono rimasti al potere, la cocaina è diventata un consumo di massa, la CIA si è allontanata fischiettando, e in tutto questo Barry Seal cosa rappresenta? Una pedina che si credeva furba ma che alla fine ha lavorato per tutti e non è riuscito a portarsi dietro nulla. Un tipo di personaggio che non è poi così nuovo per Tom Cruise - e allora perché stavolta manca qualcosa alla classica parabola del bravo-ragazzo-che-scopre-il-malaffare? Perché Barry Seal non raggiunge non dico i livelli di Wolf of Wall Street, ma a un certo punto fatica a mantenere il passo non certo da fuoriclasse di War Dogs?



Potrei tagliare corto e dire: Scorsese. Scorsese questi film li sa fare, gli altri no. Ma credo di averlo già scritto quattro o cinque volte, temo sia l'ora di approfondire. C'è che Scorsese è un tossico. Oddio spero non mi denunci. Magari ha smesso da anni, ma dentro di sé c'è un meccanismo che continua a girare. Gira a vuoto, ma gira. Tom Cruise ha altre stravaganze, ma quel meccanismo non ce l'ha. O non vuole mostrarlo, il che per un attore è imperdonabile. Magari gli piaceva il soggetto - un fattorino dei cieli che frega la Cia per conto dei colombiani e poi viceversa - magari voleva il suo Wolf of Wall Street personale. Però non voleva abbassarsi a tirare coca per tutto il film, ed è qui che casca l'asino. Il suo personaggio resta un'amabile faccia da schiaffi che passa la vita a mettersi nei guai senza un perché. Per un biplano ultraveloce? Una cadillac da regalare alla moglie? una villa con piscina a Mena, Arkansas? Non sembra davvero valerne la pena. La canonica scena "aiuto non so più dove mettere i soldi", che in Wolf varcava le soglie del grottesco, qui finisce per sottolineare l'assurdità della situazione: quanti ripostigli deve trovare Barry per le sue mazzette prima di capire che non potrà mai spenderle? La droga serve anche a questo: a bruciare i surplus in una nuvola gaia di euforia, a creare in individui non apparentemente cattivi quell'abisso da cui poi nascono le idee più disperate e geniali. Ma Barry non si droga. L'unico buon motivo per cui insiste a schivare l'artiglieria sandinista e gli elicotteri della DEA è che si diverte un casino. E naturalmente ha moglie e figli da mantenere - eh già, la famiglia, quanti crimini in tuo nome. Ma sul serio non c'è altro, nemmeno una scappatella con una hostess, niente. Cruise voleva fare il narcotrafficante ma anche il buon padre di famiglia.

Alla fine Barry Seal resta una pagina di storia interessante (anche se un po' fabbricata a posteriori: del resto quando c'è di mezzo la CIA l'unica verità è nel tritadocumenti). Non è però il film promesso, quello in cui finalmente Cruise si toglie la maschera da bravo ragazzo e ci mostra le turpitudini di cui è capace. Tutto il contrario: la maschera è più stretta del solito, non passa neanche un granello di polvere. Barry Seal è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 20:00 e 22:40; al Vittoria di Bra alle 21:00; al Fiamma di Cuneo alle 21:10; al Multilanghe di Dogliani alle 21:30; ai Portici di Fossano alle 18:30 e alle 21:15; al Cinema Italia di Saluzzo alle 22:15.

sabato 23 settembre 2017

Dal vivo col Morto

Dylan and the Dead (1989, ma registrato nel 1987!)
(Il disco precedente: Down in the Groove
Poi c'è una cosa che non è esattamente un disco di Bob Dylan).

Erano anni che il pubblico veniva regolarmente rifornito di mie registrazioni su disco, ma le mie esibizioni dal vivo non riuscivano mai a catturare lo spirito intimo delle canzoni. Non riuscivo a dar loro il giro giusto. Un certo senso di intimità, insieme a molte altre cose, era sparito. Per gli ascoltatori doveva essere stato come arrancare tra i campi abbandonati ed erba morta. [...] Sempre prolifico ma mai preciso, troppe distrazioni avevano trasformato il mio sentiero musicale in una giungla di viticci. Avevo seguito regole ben consolidate, e non avevano funzionato. Le finestre erano rimaste inchiodate per anni, coprendosi di ragnatele, e io ne avevo piena coscienza.  (Chronicles I).
Mentre stavamo lavorando a Dylan and the Dead, avemmo un'esperienza davvero strana. Andammo a casa sua a Malibu... dove lui aveva sette od otto di questi enormi cani, credo fossero mastini o roba del genere. Appena arrivati, i cani circondarono le mostre auto, e lui venne a prenderci e ci portò in questa enorme casa che sembrava un castello - sai, un grande caminetto, pareti in legno, un soffitto altissimo... Su un tavolo c'era uno stereo a cassette portatile, di quelli da trentanove dollari, nel quale ficcò la cassetta del disco, la fece andare e quindi disse: "Non pensate che la voce sia mixata un po' troppo alta in quel brano? Così ce ne restammo lì ad ascoltare quello che sarebbe diventato uno dei nostri dischi che suonava su quell'aggeggio da due soldi, e lui proseguì dicendo che, a suo parere, ci volevano un po' più di bassi". (Jerry Garcia, leader dei Grateful Dead, citato in Jokerman da Clinton Heylin (che non sopporta né lui né i Dead).
Tra tanti forse è il più ricco di citazioni dei musicisti, quelle che alla fine ci interessano davvero.
Tra tanti forse è il più ricco di citazioni dei musicisti, quelle che alla fine ci interessano davvero.
(È da un anno ormai che ascolto Dylan in macchina. Solo i bassi di Dylan and the Dead mi hanno fatto vibrare il cruscotto).
Non si esce vivi dagli anni Ottanta. Dopo aver mangiato la polvere, dopo esser sceso nella buca, c'è un'ultima tappa che Dylan deve percorrere, e noi con lui. Come Ulisse prima di noi, come Dante Alighieri, scenderemo nel mondo sotterraneo, incontreremo... la Morte!
Ah ah ah, capito la battuta? I "Grateful Dead" sono... la Morte!
"Il morto".
"Eh?"
"Dead vuol non vuol dire Morte, al massimo vuol dire il morto".
"Vabbe', dai, quasi".
Cercavo di trovare una soluzione ma sembrava che nessuna formula fosse disponibile. Forse, se avessi capito cosa stava per succedere, avrei aggiustato le cose finché ero in tempo, ma non mi ero accorto di niente. L'epoca in cui ogni mio concerto era occasione di grandi sommovimenti aveva subìto una brusca frenata, e ormai si era quasi fermata. Troppe volte mi ero dato da solo la zappa sui piedi. È bello sapere che sei una leggenda, e la gente è disposta a pagare per vederla, ma per la maggior parte della gente una volta è abbastanza. Bisogna saper onorare gli impegni, non sprecare il proprio tempo e quello degli altri. Non ero sparito dalla scena ma la strada si era ristretta, si era quasi interrotta e invece avrebbe dovuto essere ben larga. Non me ne ero ancora andato, stavo solo gironzolando giù all'ingresso. Dentro di me c'era una persona che io dovevo ritrovare. (Chronicles, I).
No, sul serio, pensavate che non saremmo scesi più in basso di Down in the Groove? Anch'io per un attimo - poi ho dato un'occhiata al calendario e ommioddio, c'è il live coi Grateful Dead. Ma è proprio il caso? Non si può far finta di niente? No eh? beh, almeno stavolta il titolo si scrive da solo.Verrà la Morte e... farà un disco di Dylan! Dylan suona a Morto! Ti va di suonare con Dylan? Manco morto! Forse non tutti sanno che i Grateful Dead scelsero quel loro nome così caratteristico, che attira tutti questi simpatici giochi di parole, aprendo due volte a caso un dizionario: il che dimostra che la scaramanzia non è proprio una caratteristica culturale degli americani (del resto è gente che da duecento anni tiene 13 strisce nella bandiera, respect. Gli europei la bandiera a 13 stelle non la vollero).
I Grateful Dead ai tempi del misfatto.
I Grateful Dead ai tempi del misfatto.
Insomma questi aprirono il dizionario a caso, uscì "morto" e dissero "ok, perché no?" E venticinque anni più tardi incontrarono un Dylan nel momento più difficile della sua carriera, gli propose di fare una mezza di concerti assieme e di nuovo dissero "ok, perché no?" Anche se da lì in poi le versioni non combaciano. Per Garcia - che aveva anche lui i suoi problemi di salute - si trattò di una cosa abbastanza estemporanea: Dylan era in giro dall'anno prima con gli Heartbreakers di Tom Petty; avevano anche fatto qualche data insieme ai Dead, che avevano già da anni pezzi di Dylan in scaletta. Era la cosa più naturale del mondo che ogni tanto Dylan uscisse coi Dead per i bis. L'estate successiva, prima di partire con gli Heartbreakers per le città del vasto mondo (Tel Aviv, Gerusalemme, Modena), Dylan fece una mezza dozzina di date in America con i soli Grateful in luglio, una specie di estensione dei bis del True Confession Tour. I biglietti si vendettero facilmente - i Dead erano una certezza, da questo punto di vista; le recensioni non furono cattive; l'unico problema è che come al solito Dylan non riusciva a fissarsi su una scaletta breve, e così a Garcia e alla sua squadra di onesti operai del rock da stadio impose di provare un centinaio di canzoni. Tanta fatica, per ritrovarsi poi a jammare senza fantasia sulle solite All Along the Watchtower e Knockin' on Heaven's Door ("like so many times before", canta nel ritornello un Dylan ormai esasperato). Fu una storia abbastanza breve e non così insoddisfacente, né per Dylan, né per i Grateful Dead, né per il pubblico. Il disco invece uscì solo nel 1989 ed è terribile.
Non riuscivo a superare gli ostacoli, tutto era a pezzi. Le mie stesse canzoni mi erano divenute estranee. Non avevo la capacità di toccare i loro nervi scoperti, non riuscivo a scendere sotto la loro superficie. Il mio momento era passato. Nel mio intimo, il mio canto mi risuonava vuoto e io non vedevo l'ora di ritirarmi e piegare le tende. 
Esistono dischi inutili (Dylan ne ha fatti) ed esistono dischi dannosi. Dylan and the Dead fu un danno inestimabile per la sua carriera. Pubblicato quando ormai quelle sei date erano un lontano e non irrinunciabile ricordo, non si può certo dire che contribuì a ripristinare la credibilità dell'autore. Ma soprattutto finì per andare comunque in classifica e togliere spazio alla promozione del vero disco che Dylan avrebbe fatto uscire da lì a poco, Oh Mercy: il disco che doveva rappresentare il rilancio e che vendette molto meno di quanto previsto. Il disastro lasciò il segno al punto che dopo Dylan and the Dead la Columbia non avrebbe più commercializzato live di Dylan - fatta eccezione per l'Unplugged della serie MTV e qualche oggetto di repertorio per collezionisti. Quasi si fosse davvero ritirato, come pensava seriamente di fare dopo il tour con gli Heartbreakers. Mentre sappiamo che è successo il contrario: già l'anno successivo, con una band ridotta all'osso, avrebbe fatto ottanta date: e da lì in poi non ha più smesso. Ma se dal 1988 in poi si è trasformato in un vero e proprio artista itinerante, senza più accusare quell'insofferenza cronica che lo aveva accompagnato sin dalle prime fasi della carriera, in un qualche modo lo deve ai Grateful Dead e a quel piccolo tour che fecero nel luglio 1986. Se fu il punto più basso della sua carriera, fu il momento in cui finalmente toccò il fondale e riuscì a trovare la forza per risalire. È più o meno quel che racconta in Chronicles, dopo aver tratteggiato in un paio di pagine di schiettezza disarmante l'autoritratto di un divo alla frutta, in crisi di mezza età. "Molte volte, prima di uno spettacolo, a un passo dal palco, mi sorprendevo a pensare che non stavo tenendo fede alla promessa che avevo fatto a me stesso. Che promessa fosse non lo ricordavo con precisione, ma sapevo che stava da qualche parte nel passato". Credo che valga anche per la gente comune: quel momento a metà dei quaranta in cui ci guardiamo allo specchio e non ci domandiamo più: "sto tenendo fede alla mia promessa?", ma piuttosto: "che promessa era?" (continua sul Post)

giovedì 21 settembre 2017

Comunicatori che ci comunicano che lo Ius Soli è comunicato male


Ogni volta che mi capita di preparare una visita d’istruzione all’estero, so già che ci sarà almeno un mio studente che dovrò lasciare a casa perché non ha i documenti per l’espatrio. Immaginate la situazione: due ragazzi uguali, nati nella stessa città (la mia), che vanno nella stessa scuola, pisciano nello stesso gabinetto (meglio se non contemporaneamente), ma che non hanno lo stesso diritto di andare in Costa Azzurra, perché? Perché uno ha i genitori, per dire, moldavi e l’altro rumeni. Quindi il secondo ha i documenti per andare in gita e il primo no. Al primo cosa posso dire? Mi dispiace, ho visto che ti impegni e mi stai pure simpatico, ma i tuoi genitori sono nati a est del fiume Prut a quanto pare la cosa è molto importante; infatti chi viene da oltre il fiume Prut è una minaccia per la nostra identità, nel senso che può anche lavorare e pagare le nostre tasse, ma suo figlio in gita in Francia, eh no. È una pura assurdità, che almeno un partito (il PD) aveva promesso di eliminare, con una legge (il cosiddetto Ius Soli) che questa settimana con ogni probabilità si impantanerà in Senato e molto difficilmente nella prossima legislatura qualcuno avrà le palle di riproporre. E questo perché?
Forse perché negli ultimi mesi alcune testate si sono messe a pompare al massimo un certo sentimento xenofobo, inventandosi una specie di invasione africana che – dati alla mano – non esiste?

(Ciao. Su TheVision c'è un pezzo mio, si chiama Che c***o sta combinando il Pd con lo Ius Soli ma ce l'ho più col Corriere che col Pd. Non è che uno può sempre prendersela col Pd. Ok, un'altra volta me la prendo col Pd).

martedì 19 settembre 2017

La sublime arte del lobbying

Miss Sloane: giochi di potere (John Madden, 2017).


Sai perché i buoni perdono sempre (no, non al cinema, nella realtà)? Perché non sono abbastanza cinici. Non solo hanno quelle cose fastidiose che si chiamano "sentimenti", ma non sanno nemmeno sfruttarli: li nascondono, ricacciano le lacrime e cercano di sembrare razionali. Si aspettano che qualcuno gliene riconosca un merito. Sono sempre un passo indietro, sempre affannati nel tentativo di svelare l'ennesima trappola dei malvagi, invece di mettersi a elaborare trappole in cui qualche malvagio per una volta possa cadere. Per dirlo con una parola: sai perché i buoni perdono sempre nella realtà? Perché sono buoni. Ma se fossero i più cinici del mazzo, se vendessero i sentimenti propri e altrui a un tanto al chilo, se giocassero d'anticipo, che spettacolo sarebbe. Purtroppo nella realtà non può succedere. Al cinema, però...


Sai perché l'Europacorps di Luc Besson non sbaglia quasi un colpo al botteghino? Perché parte sempre da modelli collaudati - perlopiù americani - e li carica all'inverosimile, come neanche gli autoctoni osano. La loro America è sostanzialmente un sogno - un sogno nutrito di film americani, storie americane, serie americane. Ma se un giorno, invece di scopiazzare gli action per pensionati o i cinecomics o le commediole a base di animali parlanti, volessero cimentarsi con cose più cervellotiche, come quelle serie politiche ambientate a Washington dove tutti i politici e i lobbisti parlano a cento all'ora, che il pubblico raffinato si scarica coi sottotitoli e poi passa il tempo a leggere i sottotitoli? Se invece di fare il verso a Star Wars per una volta tentassero di fare il verso ad Aaron Sorkin o a House of Cards: cosa succederebbe? Che razza di film super-cerebrale, straparlato, implausibile ma irresistibile ci salterebbe fuori? Un film come Miss Sloane, diretto imprevedibilmente da John Madden (Shakespeare in Love, i Marigold Hotel) scritto da un esordiente e imbottito di intrighi e scene madri, ambientato in quell'America dirigenziale che si vede sempre nelle serie tv, quei palazzi tutti ascensori enormi e uffici a vetro. Una storia che parla del lobbysmo americano come se fosse l'epica Greca, un mondo che forse da qualche parte è esistito ma ormai è solo una metafora, un'iperbole, una scena trasparente dove mettere a galleggiare personaggi tragici. Un film che dopo cinque minuti ha già infilato un'interrogazione al Congresso e un dialogo tra due personaggi sulla via del gabinetto in cui si citano, tra le altre cose, Socrate, la Nutella e l'olio di palma. I debiti sorkiniani si saldano anche in sede casting, dove rivediamo almeno due volti di Newsroom, la dolce Alison Pill e li grande Sam Waterson: quest'ultimo in particolare piazzato in modo strategico, una specie di garanzia di genuinità di un prodotto (che tanto genuino magari non è, ma come si fa a non cedere davanti alla faccia del buon vecchio Waterson? Continua su +eventi!)


Ma Miss Sloane è soprattutto il film in cui Jessica Chastain può finalmente recitare a ruota libera, nel ruolo paradossale di lobbysta stronza che decide di passare dalla parte dei buoni - senza smettere di essere stronza, semplicemente trovando un fine nobile a i suoi stronzissimi mezzi. In fondo il suo ruolo non è molto diverso da quello già interpretato in Zero Dark Thirty - una donna super-determinata che fa di una singola missione lo scopo della vita - ma quello era un film realistico, o meglio le tentava tutte per presentarsi come tale. Miss Sloane è ambientato nella magica America sognata a un oceano di distanza, malgrado molti ingredienti della trama siano presi da scandali realmente avvenuti e documentati. L'eroina del film della Bigelow, in confronto a Miss Sloane, è statica come un'icona: qui la Chastain parla e straparla, teoricamente è dura come un diamante ma poi s'infrange come un cristallo, ogni tanto si fa un pianto o una crisi di rabbia ma poi si scopre che tutti gli apparenti fallimenti erano previsti. Miss Sloane è un surrogato europeo di Sorkin che coi tempi che corrono non possiamo permetterci di snobbare. Ovviamente non scorre bene come l'originale, ma è comunque uno spasso. Purtroppo il pubblico non ha gradito: Sloane è costato 13 milioni di dollari e fin qui ne ha raccolti solo nove. Nel frattempo Luc Besson sta per fare uscire il suo nuovo cinecomic fantascientifico. Sarà un baraccone pazzesco e sì, forse ho più voglia di vederlo che il prossimo Star Wars. Miss Sloane è all'Aurora di Savigliano alle 21.

sabato 16 settembre 2017

Cominciando a scavare (negli anni Ottanta)

Down in the Groove (1988, ma registrato l'anno prima)
(Il disco precedente: Knocked Out Loaded
Il disco successivo: Dylan and the Dead).

L'altra sera mi hanno mandato a prendere due cose al mcdonald e niente, mentre ero in coda ne ho approfittato per riascoltarmi uno dei dischi di Bob Dylan che frequento di meno, più per pregiudizio che per altro: Down in the Groove. Dopo un po' mi sono accorto di una cosa effettivamente incredibile: Dylan stava cantando Rank Strangers to Me, ovvero l'ultimo brano - per dire quanto può essere lenta la fila al McDrive di Carpi, è una vergogna, andate da Scazza. Mezz'ora di coda e poi ti chiedono di ripetere l'ordine - e una volta su due si scordano il dessert nell'happy meal - prima dell'alternanza scuola-lavoro queste cose non succedevano. In compenso, per la prima volta nella mia vita, ho ascoltato davvero il tanto bistrattato Down in the Groove. E ho scoperto, indovinate un po'? Che è un capolavoro?
groove: 1. scanalatura, incavo, solco, canale, traccia; (Mineralogia) galleria, pozzo.
2. (senso figurato) routine, tran-tran.
3. La parte centrale dell'area di strike nel baseball, dove è più facile colpire il lancio.
4. ritmo particolarmente marcato e piacevole (Dal Wikizionario).
Proprio così.


E la copertina, mi raccomando, sfuocata e sgranata.
Proprio quando tutti ormai lo consideravano finito, bollito, al tappeto, la reliquia pittoresca di un passato nemmeno così tanto interessante, Bob Dylan, il grande Bob Dylan, si risvegliò dal suo torpore, si fece un giro tra vecchi punk ormai abbastanza stagionati per suonare rockabilly, e incise il suo Capolavoro Sconosciuto degli Anni Ottanta. Quello di cui nessuno vi ha mai parlato. Il disco in cui misero le mani Sex Pistols, Clash, Eric Clapton, Sly e Robbie, Grateful Dead, una piccola enciclopedia del rock di ogni tempo, del rock senza tempo. No, nessuno vi ha mai detto che queste dieci brevi canzoni sono il vero Nuovo Testamento di Dylan, quello che ti fa rileggere tutti i testi precedenti in un modo diverso. Nessuno ha mai ammesso che il rock'n'roll finisce esattamente nel momento in cui Dylan consegna ai posteri le sue versioni di Let's Stick Together Sally Sue Brown, integrandole con le altrettanto definitive SilvioUgliest Girl in the World e  Had a Dream About You Baby. Ma se nessuno vi ha mai rivelato che le ballate più struggenti di Dylan sono proprio in questo misconosciuto album, che la sua Shenandoah è la migliore di tutte le Shenandoah possibili, che Rank Stranger to Me è un finale struggente ma è Death is Not the End la vera grande ultima canzone di Bob Dylan; se nessuno vi ha mai detto tutte queste cose un motivo c'è.

Ed è che sono un mucchio di fregnacce.

Down in the Groove non è il capolavoro sconosciuto di Dylan. Scusate. Ci ho provato. È che qualche estate fa, per gioco, avevo provato a stroncare tutti i dischi dei Beatles, e mi ero divertito molto. Più il disco era famoso e celebrato, più funzionava la stroncatura. Siccome lo stesso gioco con Dylan non avrebbe senso (tutti stroncano i dischi di Dylan - non sei un vero dylanita se non ne hai demoliti almeno un paio) mi sono chiesto se in questo caso la sfida non sarebbe stata il contrario: riuscire a scrivere di ogni ciofeca come se si trattasse di un capolavoro. Ma a quanto pare è molto più difficile - insomma, uno cosa può dire di Let's Stick Together fatta da Dylan? È l'arcinota Let's Stick Together, è suonata in modo professionale e... trascinante? Abbastanza trascinante? Nel nugolo delle versioni di Let's Stick Together si segnala perché è appunto cantata da Bob Dylan, con la sua voce molto peculiare e non troppo fuori forma. Niente di terribile. Se avessi le palette di Ballando con le Stelle alzerei un sei, magari un sette di incoraggiamento. Se nel 1988 l'avessi ascoltata per radio, magari in coda a Fisherman's Blues dei Waterboys o Talkin'bout a Revolution di Tracy Chapman, non avrei cambiato frequenza sbadigliando? Se ne avessi intravisto l'oscura e dimessa copertina in una vetrina di un negozio di dischi - e forse la vidi davvero - tra Lovesexy Justice for All It Takes a Nation of Millions e quel disco dei Pet Shop Boys col monoscopio ultracolorato, lo avrei preso in mano? Perché? Per far colpo su chi? Nemmeno sul nonno.


Questo a dire il vero potrebbe essere il grande merito di Down in the Groove: è il disco con cui Dylan, dopo qualche tentativo più o meno fruttuoso di aggiornarsi ai gusti del tempo (e a un metodo di lavoro in sala di incisione che era agli antipodi della sua sensibilità), si allontana definitivamente in direzione del passato. Oggi sembra l'equazione più scontata del mondo, Dylan=Passato. Già le ultime pagine dell'intervista nel booklet di Biograph sembravano lo sfogo di un vecchietto ai giardini: una volta le cose erano diverse, si registrava alla svelta e con più feeling, oggi è tutto prefabbricato ecc ecc ecc. (il Dylan che dichiarava queste cose, ricordiamo, aveva 30 in meno di quello di adesso). E però dopo la fase gospel Dylan ci aveva pure provato, a vivere negli anni Ottanta. Si era comprato quelle buffe giacche e aveva lavorato coi produttori sulla cresta dell'onda. Aveva persino tentato qualche timido approccio alla scena postpunk. Tutto questo, all'altezza di Down the Groove, sembra già dimenticato, almeno dopo la seconda traccia - uno dei brani più assurdi e imbarazzati mai registrati da Dylan, When Did You Leave Heaven, un vecchio blues che Dylan disseziona spietato e sventato come un bambino che fa a pezzi una lucertola: toglie la melodia, toglie il tempo, e lascia che musicisti e tecnici del suono raccattino i resti e provino a metterli assieme. When You Leave Heaven è l'ultimo rigurgito della fase Empire Burlesque: un episodio abbastanza casuale, perché a rammendare il tutto vengono scomodate una specie di synth e soprattutto QUELLA CAZZO DI BATTERIA ELETTRONICA che suona più assurda del solito, visto che Dylan non aveva quel tempo in mente mentre stava cantando (probabilmente non aveva in mente nessun tempo). (Sul serio, uno che fa posto a una canzone del genere su un suo disco ha evidentemente ancora grosse difficoltà a riascoltarsi). Se almeno il testo fosse profondo - ma no, è una serie di frasi d'aggancio che oggi ti costerebbero l'amicizia anche di una 50enne su facebook. "Perché hai lasciato il paradiso? Dove hai messo le ali?" e così via. Ma avete capito dove siamo? Stiamo parlando del brano più brutto di uno dei dischi più brutti di Dylan. Non viene voglia di ascoltarlo, anche solo per capire quanto in basso può scendere il nostro eroe?

Never forget.
Never forget
Il resto del disco non è così orribile - sì, Down in the Groove è deludente anche come disco brutto. In fondo quello che ci aveva tenuto sveglio mentre ascoltavamo i dischi gospel e poi quelli pop era l'incredulità - tutte le maschere che Dylan aveva tentato, così poco credibili che strappavano una risata o almeno un sorrisetto di commiserazione. Down the Groove rinuncia a tutti i travestimenti, tranne uno: il Chiodo. Diciamo che se i dischi brutti di Dylan fossero una famiglia, Down in the Groove sarebbe il ragazzino imbecille in giacca di pelle, nell'angolo della foto, che giocherella col coltello a serramanico finché non si affetta un polpastrello. Rammentate quanto sembrava già indifendibile Dylan, in giacca di pelle, nel video di Tight Connection to My Heart? In Down in the Groove non possiamo non immaginarlo nella stessa giacca, mentre roccheggia e rolleggia e non importa chi stia suonando con lui, davvero: che siano i Grateful Dead, che sia Steve Jones (ex chitarra dei Sex Pistols), Paul Simonon (ex basso dei Clash), Eric Clapton: non ha una grande importanza e non fa una vera differenza. Suonano tutti più o meno uguale, una specie di lingua franca del rock: ad esempio all'inizio di Ugliest Girl puoi sentire qualcuno che scimiotta Honky Tonk Women forse senza neanche accorgersene. Altrove la chitarra ha già quel riverbero tremolato vintage che di lì a pochi mesi Chris Isaak avrebbe reso insopportabile, e sul quale avrebbe puntato molto Daniel Lanois (continua sul Post)

mercoledì 13 settembre 2017

Ballare al volante, ballare al cinema

Baby Driver (Edgar Wright, 2017).


C'è gente che balla là in strada. Lo fanno di nascosto, non li riconosci - se non dalle cuffiette, e da come tamburellano sul volante al semaforo. Non lo fanno per esprimersi o per esporsi o per piacere a sé stessi: lo fanno e basta, sono nati così, non smetteranno finché gli batte un cuore. Non sono più allegri di te, tutt'altro: c'è chi ha un fischio nella testa, o un dolore che non passa, o un grido che gli urla in testa, una canzone da dimenticare suonandoci sopra migliaia di altre canzoni. C'è gente che balla al volante, e non sono gli autisti peggiori.

Certi film partono talmente forte che è già tanto se non vanno a sbattere. Se dopo un po' sbandano, se forano una gomma e arrivano ai titoli di coda un po' ammaccati, è comunque un piazzamento. Baby Driver parte mollando il freno a mano e sgommando in quinta: infila una delle strade più trafficate di Hollywood (il canovaccio sull'autista delle rapine) ma trovandosi una corsia tutta personale (stavolta l'autista vive in simbiosi con le sue cuffiette, in un mondo tutto suo che va a tempo con la sua playlist). Almeno per mezz'ora gira tutto che è un piacere, con certe controsterzate che strappano l'applauso. Poi comincia a perdere colpi, ma appunto: era previsto. Al punto che viene quasi il dubbio che l'effetto sia voluto, o quanto meno calcolato: che da un certo momento in poi il film stia mettendo in scena proprio la difficoltà di mantenere le attese.


Già ai tempi di Hot Fuzz era abbastanza chiaro quanto Edgar Wright fosse affezionato a quei luoghi comuni del cinema d'azione che apparentemente stava parodiando. Come quello di Tarantino il suo è un cinema al cubo, che vive di riferimenti di riferimenti, e della gioia di saperli rimettere in scena. Baby Driver è una variazione d'autore su un tema rigoroso: man mano che la storia va avanti i margini d'azione si restringono, certi snodi della trama sono quasi tappe obbligate e Wright non fa nulla per occultarcele, anzi è come se le sottolineasse (continua su +eventi!)
La svolta probabilmente è una strana scena in un parcheggio, dove un personaggio che non rivedremo più fa un lungo e discorso sulla carne di maiale, che non ha altro senso che farti pensare a certe vecchie messe in scena di Guy Ritchie - forse è una parodia, forse un omaggio (c'è differenza?) È il momento in cui Jamie Foxx, fino a quel momento quasi un cameo, prende in mano il film e apparentemente lo deraglia. Da lì in poi qualcosa si inceppa, ma non è forse quello che succede in tutti i film sulle rapine? C'è un piano perfetto e a un certo punto qualcosa che va storto. Anche Baby, che nella prima mezz'ora sembrava infallibile, di lì a poco non riuscirà più a far partire una macchina. Ci sarà ancora molta azione, e le canzoni continueranno a ritmarla, ma la freschezza iniziale è andata persa e non poteva che finire così. Baby Driver non è un film sulla perdita dell'innocenza - il personaggio di Ansel Elgort rimane immacolato anche quando si macchia di sangue - ma su un altro sintomo della crescita: la fine del senso di onnipotenza. Il musical si interrompe, le macchine non seguono più il groove, tutto crolla e chi ha deciso di seguirti, o in un momento di debolezza, di coprirti, forse ha commesso il suo più grande errore.



Baby Driver ha una trama molto semplice, portata avanti da personaggi la cui biografia si potrebbe scrivere su un tovagliolo. Questo lo aggiungo per chi nei giorni scorsi si è lamentato, per esempio, della scarsa profondità dei personaggi di Dunkirk - allora, forse è meglio rammentare che al cinema le storie durano in media due ore, nelle quali l'approfondimento dei personaggi non è sempre la priorità. Se davvero è quel che vi interessa, forse è meglio se restate a casa e vi leggete un libro - oppure vi sparate una stagione di una serie in venti puntate dove di sicuro ci sarà tanto spazio per approfondire i personaggi, sviscerarli, ribaltarli e ricomporli a piacere - viene il sospetto che chi trova il cinema superficiale, oggi, si stia aspettando qualcosa che al cinema più di tanto non si può trovare. E che da parte sua lo stesso cinema di intrattenimento stia prendendo un'altra direzione - che poi è una banale strategia di sopravvivenza: visto che non si può rivaleggiare con la serialità, si tende all'estremo opposto: alla rapidità, alla stilizzazione. Baby Driver Dunkirk sono due film diversissimi, ma accomunati dalla volontà esibita di essere oggetti cinematografici. In entrambi i casi la colonna sonora è fondamentale. Nel caso di Baby Driver, Wright mette a frutto la vecchia lezione di Tarantino: se c'è una cosa che piace agli spettatori in sala, è scoprire o riscoprire qualche vecchia canzone. Perché è vero che c'è gente che balla ai semafori: ma anche in sala, quando si spengono le luci. Baby Driver è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:10, 22:40); ai Portici di Fossano (21:15); al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).

sabato 9 settembre 2017

Giù al tappeto negli anni Ottanta

Knocked Out Loaded (1986)
(Il disco precedente: Biograph.
Il disco successivo: Down in the Groove).
Il film andò male ai botteghini,
secondo gli esperti anche a causa
dei baffi di Gregory Peck.
"I tuoi baffi ci sono costati milioni",
gli avrebbe detto un produttore.
C'è un western che ho visto una volta, su un pistolero che attraversava il deserto. L'uomo era Gregory Peck, però coi baffi. Era il più bravo di tutti ma si era rotto i coglioni - a una certa età succede. Non ne poteva più delle sparatorie, non trovava più niente di eccitante nei duelli al sole, e soprattutto non poteva più soffrire il modo in cui ti fissano i più giovani - quel modo che hanno di sgranare gli occhi dalla sorpresa, poi subito di stringerli per metterti a fuoco, per assicurarsi che sei proprio lo stesso tizio ritratto sulla taglia - e intanto senza accorgersene hanno già la mano sulla fondina. Che supplizio, che rottura, i ragazzini che vogliono farti fuori per farsi un nome. Chissà se sono mai stato uno di loro.
Mi è venuta in mente questa cosa mentre ridavo un'occhiata a uno dei documenti più penosi che un dylanita possa reperire su Youtube - qualcuno avrà già indovinato. Mettiamola così: qual è l'evento più glorioso nella storia del rock degli anni Ottanta, quello che segna uno spartiacque che è ancora visibile da qui, oggi? Senza dubbio il Live Aid, proprio nel bel mezzo del decennio: estate 1985. È la fine ufficiale del cinismo punk e post-punk; l'apparizione abbastanza improvvisa di una nuova sensibilità più filantropica che politica. I nuovi eroi da palcoscenico non vogliono soltanto vendere dischi ed essere adorati dal pubblico pagante: vogliono essere buoni. Salvare il mondo. Proprio lo sporco mondo che fino a qualche anno fa andava bruciato, improvvisamente nel 1985 diventa cosa sacra e degna di essere salvata. Bob Geldof è il profeta, Bono il Messia, Freddy Mercury il ladrone pentito eccetera eccetera. Ma chi è che fino all'ultimo momento cercò di rovinare la festa? Senza cattiveria, ma con l'intuitiva ostinazione di chi sembra essere nato per mettere a disagio la gente alle cerimonie? Un aiutino: in fondo alla scaletta, nel set di Philadelphia, c'era il grande Bob Dylan.
Anche se forse non se ne rendeva conto. Non era il solo: il ive Aid esplose in maniera abbastanza imprevista. Fino a pochi giorni prima ne parlavano soltanto gli addetti ai lavori e il giorno dopo sui quotidiani era diventato lo show del secolo. Dylan arrivò sul set senza una band, con una vaghissima idea di cosa fosse stato organizzato e perché, in uno dei periodi più confusi della sua carriera; ma invece di fare la cosa più semplice (portarsi una chitarra, un'armonica, suonare la fottuta Blowing in the Wind e buonanotte - magari con Peter, Paul e Mary che si erano riuniti per l'occasione) decise di accollarsi Keith Richards e Ron Wood, in un momento in cui i Rolling Stones sembravano separati in casa: Mick Jagger aveva appena duettato con Tina Turner sullo stesso palco. L'approccio è quello di tre amici che dopo l'ammazzacaffè si fanno prestare le chitarre e strimpellano la prima cosa che gli viene in mente. Il problema è che i tre amici sono Bob-Coscienza-della-Sua-Generazione e i due chitarristi della band più famosa del mondo: a presentarli c'è Jack Nicholson e a guardarli strimpellare il mondo intero. Insomma forse presero la cosa un po' sottogamba. A causa del peso dei loro nomi erano stati inseriti in scaletta verso la fine: non solo il pubblico era esausto, ma dietro le quinte c'era già chi brindava e festeggiava (oppure il coro di USA For Africa che stava facendo le prove: ognuno la racconta diversa e ritiene che gli ubriachi fossero gli altri). Wood e Richards sono abituati a capirsi al volo, ma dovrebbero prima capire cosa vuol fare Dylan, che sta in mezzo, non riesce a sentirsi in spia e rompe addirittura una corda - al che Wood gli presta la sua chitarra e in attesa del rimpiazzo resta sul palco a gesticolare come un ragazzino. Dietro c'è un gran baccano. Blowing in the Wind stavolta è veramente fottuta, chitarre scordate, uno strazio.
 
Gregory Peck, negli anni di KO Loaded, faceva Lincoln nella serie TV "Il buio e il grigio" (e com'è ovvio ricordava terribilmente il capitano Achab).

Dicevo che in quel film Gregory Peck fa il pistolero che non ne può più - attraversa il deserto perché dall'altra parte c'è una donna che amava, addirittura un figlio che non ha mai visto. Tutto quello che vorrebbe è sistemarsi in qualche fattoria. Ma i ragazzini, i ragazzini non lo lasciano in pace. Lo sfidano, si fanno ammazzare, e a quel punto naturalmente salta fuori qualche altro ragazzino che deve vendicare l'amico, il fratello, il cognato: non finisce mai.
La breve apparizione di Dylan al Live Aid si potrebbe anche liquidare così: credeva di essere a una festicciola, si fidava di amici in realtà confusi quasi quanto lui, nessuno gli aveva spiegato che era la vedette finale di un Grande Evento Storico. Insomma un equivoco spiacevole. E però la scaletta suggerisce che non fosse del tutto inconsapevole. Come al solito la cambiò fino all'ultimo momento. Ron Wood racconta che mentre saliva sul palcoscenico lo mandò nel panico proponendo all'improvviso di intonare All I Really Want to Do: una filastrocca che forse i due Stones si erano dimenticati, ma che per Dylan vent'anni prima aveva rappresentato il primo dei tanti disimpegni: quello dal movimento politico. Al Live Aid alla fine Dylan non cantò "voglio solo essere vostro amico", ma la storia di Hollis Brown, il contadino del Midwest che stermina la famiglia e si suicida per la fame. Una scelta non banale e apparentemente appropriata a una sera in cui si raccoglievano fondi per l'Etiopia, senonché al termine Dylan buttò lì che magari un paio di milioni dell'incasso si sarebbero potuti stornare "per pagare l'ipoteca su alcune fattorie che i contadini di qui devono alle banche". Tirava aria di crisi anche nel Midwest rurale: il pubblico della mondovisione magari non ci aveva fatto caso, Dylan sì. Qualche mese dopo Neil Young organizzò addirittura un Farm Aid, che molti considerano direttamente ispirato dalle parole di Dylan: quest'ultimo in quell'occasione si preparò per bene con gli Heartbreakers e fece uno show di ottimo livello. Invece, nella sera in cui si teneva a battesimo il Rock Buono, Dylan arrivò ubriaco come una vecchia rockstar (con una scorta di vecchie rockstar altrettanto ubriache); non urlò "America First!" ma ci andò vicino, e prima di massacrare Blowin' in the Wind inflisse ai due Stones e al pubblico un altro brano del passato remoto, When the Ship Comes In - vi ricordate in quale altra occasione, a dispetto di ogni ragionevolezza, aveva cercato di rovinare una festa con la stessa canzone? La marcia di Washington, esatto. E ora non c'era più Joan Baez a metterci una pezza, ma Ron Wood a fare air guitar. Magari è solo una coincidenza. Ma dopo Washington l'aveva cantata dal vivo soltanto altre due volte; non la tentava da vent'anni e dopo il Live Aid l'avrebbe accantonata per sempre. È un pezzo antipatizzante, che dice che la Salvezza arriva all'improvviso e non fa prigionieri: non è un pranzo di gala né un concertone benefico. Chi ne è degno sarà salvato, gli altri affogheranno. Amen.
E così Gregory Peck attraversava il deserto e arrivava in questa città di compensato - sai quelle cittadine western montate negli studios - e ovviamente la sua vecchia fiamma non voleva parlargli, e il figlio non sapeva chi fosse: e qualcuno aveva un conto in sospeso, o voleva soltanto farsi un nome. Ma forse sarebbe meglio che cominciassi a parlare di Knocked Out Loaded, il disco che Dylan pubblicò un anno dopo il Live Aid, ma che aveva già iniziato a registrare un anno prima, sempre un po' qua e un po' là senza un'idea chiara. Ai tempi pensavo che "knocked out loaded" significasse "carico di knocked out", come un pugile pronto a mandare al tappeto l'avversario: insomma un bel titolo combattivo, ecco un disco che se non state attenti vi prende a pugni! Invece significa l'esatto contrario: allude a un KO ricevuto, si può tradurre "suonato", "al tappeto". Forse non avevo mai fatto caso che verso la fine Dylan canta proprio "I was knocked out and loaded in the naked night". È che forse non ci ero mai arrivato, verso la fine. E dire che è un disco abbastanza breve. È il suo miglior pregio. Stiamo del resto parlando di un disco costruito attorno agli scarti di Empire Burlesque, le canzoni che non era riuscito a terminare in tempo per la scadenza del 1985, integrate con altri esperimenti per lo più infruttuosi del 1986. Siamo insomma al raschio del barile: qualcosa di buono ancora vien su, ma che fatica.
E infatti Gregory Peck, quando alla fine riesce a parlare alla sua ex, cala la maschera e le dice che ha finito con le pistole e i duelli e tutto quanto, e che vuole soltanto sistemarsi. Lei ovviamente è un po' scettica; magari non è la prima volta che lo sente dire: poi nemmeno nei vecchi western in bianco e nero funzionava così, che se dopo dieci anni il pistolero fa un fischio, l'ex ragazza madre è già pronta a perdonargli tutto. Lui se ne rende perfettamente conto, e chiede un anno di tempo. Se tra un anno tornassi, e avessi rigato dritto tutto il tempo, tu me la daresti una possibilità? Capisco che non puoi darmela adesso, e nemmeno promettermela, ma prometti almeno che ci penserai? Messa in questi termini è una proposta che si può dignitosamente accettare - specie se te la propone un pur baffuto Gregory Peck...
 
Un altro relativo pregio di KO Loaded è la disarmante sincerità. Infidels e Empire erano due dischi carichi di ambizioni, in parte giustificate in parte no. C'erano tentativi di suonare professionale, di suonare sofisticato, di suonare moderno. KO suona soltanto... suonato. È il disco di un tizio che di mestiere vende dischi e fa concerti, e prima di cominciare la stagione dei concerti deve fare uscire un disco: che sia ispirato o no. Voi andate tutti i giorni al lavoro ispirati? Dylan nel 1985/86 quasi mai. Il che non significa che non ci andasse: se uno mette in fila tutte le collaborazioni e le incisioni del periodo scopre che non stava fermo un attimo. Gli USA For Africa, il Live Aid, il Farm Aid, gli Artists United Against Apartheid fondati da "Little" Steven Van Zandt e prodotti da Arthur Baker (Dylan per la verità canta soltanto due versi, ma è stato carino da parte sua partecipare. C'era Miles Davis, i Run DMC, e nel disco c'era anche il primo vero pezzo blues degli U2, Silver and Gold, ma cantato da Bono con due amici d'eccezione tirati a lucido: Keith Richards e Ron Wood!) E poi sessioni con Dave Stewart degli Eurythmics, sessioni con gli Heartbreakers, con Al Kooper e T-Bone Burnett, sessioni con chiunque. A Cameron Crowe che lo intervistava per il libretto di Biograph aveva rivelato, con un certo sprezzo del pericolo, che stava accarezzando l'idea di pubblicare un disco di cover. È un'idea che lo aveva già portato al disastro nel 1970, ma forse chissà, col tempo aveva imparato a concentrarsi anche nel compito di interprete da studio, no?
No (continua sul Post).

mercoledì 6 settembre 2017

A Dunkerque il cinema resiste

Dunkirk (Christopher Nolan, 2017)

Bon voyage.
Hai mai visto una spiaggia della Manica, quando il mare è così basso che sembra un deserto? Hai visto la schiuma strisciare spinta dal vento? Hai sentito l'urlo degli Stuka, il gemito di chi sta affogando nella stiva di una nave che cola a picco? Hai guardato il cielo e chiuso gli occhi, pensando che stavolta toccava a te? Sai quanto poco dista Dover da Dunkerque, una ritirata da una vittoria, un eroe che lotta per resistere da un vigliacco che ha paura di morire, un congegno meccanico di precisione da un capolavoro? Adesso che sai tutte queste cose, perché le hai viste e le hai sentite in un sogno di una settimana, di un giorno, di novanta minuti - torna pure a casa e scrivi che Dunkirk in fondo non è quel gran film che tutti dicono: che non c'è storia e non ci sono personaggi: solo gelidi meccanismi di attesa che scattano senza pietà per intrappolare gli spettatori. Che Nolan, per carità, regista sublime: ma noi volevamo vedere la Seconda Guerra Mondiale, i tedeschi cattivi, gli inglesi flemmatici, i francesi disperati - e lui anche stavolta è come se si mettesse davanti coi suoi trucchi, con le sue musiche a effetto, coi suoi orologi da sincronizzare. Che tanta tecnica può lasciare freddi, tanta lucidità può dare la vertigine: e che la Dunkerque del tuo cuore alla fine resta ancora quella del lungo piano sequenza di Espiazione.

Nell'ultimo momento c'è chi si tappa le orecchie e chi prende la mira.

Ogni sconfitta può sembrare una vittoria, se la inquadri nel modo giusto. Il desiderio condiviso, e comprensibile, di salutare in Dunkirk il film dell'anno, è il rovescio di una constatazione amara: non è che ci siano tutti questi capolavori in giro per le sale ultimamente... (continua su +eventi!)  Sia Hollywood che il cinema d'autore europeo sembrano navigare a vista, mentre le corazzate della serialità televisiva dilagano nel bacino dei giovani spettatori (quelli che se non si fanno una sensibilità cinematografica adesso, tra cinque anni in sala non verranno più: o al massimo per vedere la maxipuntata di un prodotto seriale come un cinecomic). Dunkirk è, tra le altre cose, un disperato manifesto di vitalità del cinema: non tanto per il feticismo della pellicola 70mm, ma per la sintassi così orgogliosamente antitelevisiva. In questo ricorda un film apparentemente diversissimo, Gravity: si tratta di due film brevi, senza tempi morti, che chiedono allo spettatore una specie di apnea: fai un bel respiro e ci risentiamo tra un'ora e mezza. Nolan ci promette lacrime, sudore e sangue (in realtà pochissimo), ma ci dice che la tv non è invincibile, che il cinema resisterà, perché c'è qualcosa che soltanto il cinema può fare.


Sangue e nafta
E però il cinema non è solo Nolan: non sei obbligato a condividere le sue ossessioni; ti è concesso restare diffidente nei confronti di un orologiaio che concepisce ogni film come un meccanismo di precisione. Non tutti vengono perfetti: quando oscillano un po' sbilenchi puoi criticarne i difetti più evidenti, irridere le ambizioni eccessive del progettista. Altre volte sembrano girare a meraviglia, al punto che hai la sensazione che non si fermeranno mai. In questo caso puoi sempre obiettare che non c'è niente di così profondo in un meccanismo che funziona; è vero, c'è un momento vero la fine del film in cui l'ansia per la sorte dei personaggi cede il posto a una strana soddisfazione pre-intellettuale, il sollievo di chi vede un puzzle completarsi tessera dopo tessera, il piacere che si prova a unire i puntini e scoprire il senso del disegno. Non è esattamente quel tipo di sensazione che ci si aspetta di provare mentre l'Inghilterra lotta per la libertà del mondo, ma è qualcosa che rende i film di Nolan diversi da tutti gli altri, e non è poco. Nel momento in cui tutti sembrano considerarci spugne emozionali, da imbevere e strizzare a piacere, lui almeno lavora su stimoli diversi. Alla fine ci strizza anche lui, ma qualcosa rimane. Su quella spiaggia, ci siamo stati. Per una settimana, per un giorno, per un'ora. Abbiamo visto la marea riportare i compagni a riva, abbiamo provato a saltare la fila, abbiamo creduto di potercela fare remando fino a Dover: abbiamo deciso che non entreremo mai più in una camera stagna. E intanto, dall'altra parte, ci siamo chiesti fino a che punto potevamo spingerci senza spia nel serbatoio e senza un sonar per gli U-Boot; il punto in cui il coraggio sarebbe diventato irresponsabilità e follia. Magari Nolan non è tutto il cinema, ma il cinema ha parecchio bisogno di lui. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 21:30, 22:40); Fiamma di Cuneo (21:00); ai Portici di Fossano (21:15), al Cinemà di Savigliano (20:20, 22:30).

sabato 2 settembre 2017

Biografami questo

Biograph (1985: cofanetto con materiale registrato dal 1962 al 1981).

(Il disco precedente: Empire Burlesque.
Il disco successivo: Knocked Out Loaded).

Nel mezzo della notte ti sveglia una cattiva notizia. Qualcuno (al telefono?) ti sta dicendo che Percy, il tuo amico Percy, è in grossi guai. Novantanove anni di carcere! Anche se è notte fonda, scrivi al giudice che sarai al tribunale appena possibile. Il giorno dopo eccoti alla sbarra: cos'è successo? Un incidente, sulla statale, quattro morti, lui era al volante. Omicidio stradale. Va bene, ma novantanove anni? Percy, lo conosco meglio di me stesso, non farebbe male a una mosca! Ma ci sono i testimoni. Posso almeno ricorrere in appello? Troppo tardi. Se ne vada per favore, la seduta è tolta.


Di tante canzoni che ha scritto Dylan, la cosa più simile a un incubo l'ha registrata nel 1964. Si chiama Percy's Song e non è così strano che non l'abbia inclusa in The Times They Are A-changin'. Non solo per la durata - sette interminabili minuti. Che ci avrebbe fatto uno schizzo kafkiano in un album di canzoni d'amore e di protesta? Ma gli incubi invecchiano meglio dei proclami e dei madrigali - in effetti gli incubi non invecchiano, al limite si nascondono nelle fessure; e quando Dylan da qualche parte in un cassetto la ritrovò, Percy's Song era angosciosa e irrisolta come il primo giorno. Forse ai tempi di The Times gli sembrava la sua canzone più antica, più vicina al mistero delle antiche ballate irlandesi da cui mutua la melodia. Nel 1985, quando uscì su Biograph, era una mera curiosità che serviva a rendere più speziato il più grosso Greatest Hits mai pubblicato. A quel punto Percy era già uscita dai cassetti grazie ai Fairport Convention, che ne avevano stemperato l'angoscia con la melodia. Oggi Percy è una delle canzoni più rappresentative del catalogo dylaniano. Potrebbe averla registrata nel 1964, come nel 1994, come ieri. Gli incubi non invecchiano.

- Lay Lady Lay (1969) - Baby, Let Me Follow You Down (1962) - If Not for You (1970) - I'll Be Your Baby Tonight (1968) - I'll Keep It with Mine (1964)Il primo lato del primo disco potrebbe essere una storia d'amore. Lay Lady Lay è un modo molto cinematografico di cominciare, già sul materasso... poi con Baby Let Me Follow comincia il flashback. 

D.W. Griffith quando lavorava alla Biograph.
In inglese, Biograph non vuol dire biografia - sì, anch'io c'ero cascato, e invece no. Per il dizionario Webster on line "biograph" è soltanto un verbo: "biografare". Io biografo, tu biografi, il tale è biografato. Ma all'inizio del Novecento c'era anche il sostantivo, ed era una specie di sinonimo per "cinematografo". L'American Mutoscope and Biograph Company, fondata nel 1895, realizzò più di 3000 corti e 15 lungometraggi, prima di fondersi con la concorrente Edison. È la compagnia nella quale si fece le ossa D.W. Griffith.

Se potessimo mettere il primo disco di Biograph sul piatto, ritroveremmo il Dylan del 1969, che mentre cerca di rendere credibile una svolta country, azzecca un'atmosfera inedita con un brano fatto di slide guitar, bongo e campanaccio. Da lì a poco siamo nel 1962, sui verdi pascoli dell'università di Harvard, Dylan si sta facendo insegnare da Eric Von Schmidt un nuovo giro di accordi. Siamo nel 1970, è passato a salutarlo George Harrison per confermargli che i Beatles si sono davvero sciolti per sempre e per lavorare insieme a una canzone. Siamo nel 1968, la polizia irrompe nelle università e spara agli studenti che non vogliono partire per il Vietnam, ma Dylan vuole soltanto cantare languido I'll Be Your Baby Tonight. Siamo nel 1964, Dylan incontra Nico e le regala I'll Keep It with Mine. Siamo in qualsiasi posto, in qualsiasi momento.
- Mixed-Up Confusion (1962) - Tombstone Blues (1965) - The Groom's Still Waiting at the Altar (1981) - Most Likely You Go Your Way (Live, 1974) - Like a Rolling Stone (1965) - Jet Pilot (1965). È decisamente un lato blues.

NicoChelseaGirlMixed-Up Confusion è in assoluto il primo singolo pubblicato da Dylan, nel dicembre del 1962, e a sorpresa è un rock'n'roll. Una specie. Un esperimento. Non funzionò e dopo poco la Columbia lo ritirò dal commercio - o forse non si diede la pena di commerciarlo troppo. Lo stesso Dylan ha ricordi molto vaghi di tutta la faccenda: un mattino gli telefonano di venire alla Columbia a incidere un singolo con una band. Lui non ha un pezzo pronto e lo scrive sul taxi. Il suo primo disco acustico aveva venduto qualche migliaio di copie, la Columbia non sapeva ancora esattamente cosa fare di lui. Si saranno detti: proviamo il rockabilly (per accorgersi, magari a master già incisi, che in effetti il tizio aveva difficoltà ad andare a tempo con la band). Jet Pilot nel 1985 aveva vent'anni esatti e doveva proprio sembrare un frammento estratto da un cassetto per tappare un buco. Una singola strofa di uno di quei rock-blues torrenziali che nel 1965 gli venivano facili come respirare: l'istantanea di un donnone che fa impazzire tutti i ragazzi del quartiere, tutti piloti da jet che la puntano come un cacciabombardiere - ma se potessero avvicinarsi un po' alla carlinga si accorgerebbero che "non è una donna, è un uomo"! Oggi è rilevante in quanto primo rock in assoluto su un travestito (in anticipo su Lola dei Kinks, che però ebbero il fegato di pubblicarla): veramente troppo poco per assegnare a Dylan una qualche sensibilità queer.

- The Times They Are a-Changin' (1964) - Blowin' in the Wind (1963) - Masters of War (1963) - The Lonesome Death of Hattie Carroll (1964) - Percy's Song (1964). (Se almeno Biograph fosse un caos cronologico totale, uno si metterebbe il cuore in pace: avrà mescolato le canzoni come carte, ok. E invece ci sono intere sequenze che un senso ce l'hanno, ad esempio la seconda facciata del primo disco è tutta di grandi cavalli di battaglia acustici del '63-'64. Come quando la funzione shuffle di uno smartphone sembra volerti dire qualcosa).

chronicles ICi sono vari modi di scrivere una biografia. Il più noioso è senz'altro partire dall'inizio, come David Copperfield: "Vengo al mondo", e proseguire nell'unica direzione consentita. Esistono numerose biografie di Dylan in commercio: cominciano tutte con lui che viene al mondo a Duluth, Minnesota. Anche questa cosa che sto scrivendo alla fine sembrerà una biografia, almeno dal disco più antico a quello appena uscito. E poi esiste l'autobiografia che Dylan ha iniziato a scrivere e che non completerà mai (tutte le autobiografie sono incomplete, se uno ci riflette). Si chiama Chronicles I e comincia con lui che arriva negli studi della Witmark nel 1961. Indugia un po' nei localini del Village finché a un certo punto volti la pagina ed è una rockstar in crisi d'identità, nel 1970: orripilato dalla scena del festival di Woodstock e spaventato dagli hippie che gli entrano in casa. Volti un'altra pagina e sei nel 1986, Dylan si è fatto male a una mano e considera la possibilità di non suonare mai più dal vivo, di non scrivere mai più una canzone. Un'altra pagina ed è di nuovo nei localini del Village. Che senso ha? Nessuno, Dylan semplicemente non è David Copperfield. Ha buttato giù le prime cose che gli venivano in mente finché non ha messo assieme abbastanza pagine. Proprio come quando incide i dischi, già. E non ha messo i capitoli in ordine: non lo ha mai fatto, nemmeno nei suoi Greatest Hits, uno più caotico dell'altro. Perché per Bob Dylan evidentemente il tempo non esiste.

- Lay Down Your Weary Tune (1963) - Subterranean Homesick Blues (1964) - I Don't Believe You (1966) - Visions of Johanna (Live, 1966) - Every Grain of Sand (1981). (Per esempio: secondo me questa facciata non ha nessun senso. Oppure: L'Eden primigenio, la caduta negli inferi sotterranei, e la redenzione! Ma immagino che se pescassi cinque canzoni di Dylan a caso potrei individuare una storia anche più credibile).

Certe canzoni riescono a stupirti anche al millesimo ascolto (continua sul Post).

Altri pezzi