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sabato 25 aprile 2020

Quattro epigrammi di Fenoglio

giovedì 23 aprile 2020

Giorgio il megalomartire

23 aprile - San Giorgio, cavaliere (III secolo).

[2012]. San Giorgio un giorno s'è stufato, di ammazzare draghi e salvare fanciulle che poi alla fine si sposano sempre con coltivatori diretti e fanno tre bambini. San Giorgio di Portogallo. Di Ferrara. San Giorgio di San Giorgio a Cremano. Un giorno ha spento la sveglia ed è rimasto a letto, lo ha chiamato la segretaria verso le 8.05.

“Cavaliere, tutto bene?”
“Insomma”.
“Cavaliere lei forse non si ricorda ma stamattina avevamo un appuntamento per le otto, c'è un drago nel Polesine, una dozzina di fonti da bonificare, e inoltre...”
“Il drago nel Polesine, ricordo benissimo”.
“Cavaliere c'è qualcosa che non va?”
“Sono un po' depresso Teresa”.
“Si mette in mutua? In aspettativa? Cavaliere mi scusi eh, ma io a quest'ora lo devo sapere, se devo chiamare un supplente...”
“Sì, ecco, chiamate Demetrio”.
“Cavaliere, Demetrio è morto”.
Clic.

San Giorgio di Lituania. Di Catalogna. Di Reggio di Calabria. Un giorno si è stufato e basta. Hai voglia a dire la vocazione. Cos'è poi questa famosa vocazione? Siamo bambini di campagna, ci sbucciamo i ginocchi sulla ghiaia, un giorno arriva la fanfara: arruolati nella cavalleria! Girerai il mondo! Ucciderai i draghi, salverai le fanciulle! Bivaccherai sulle vette più alte!

“Si suona la chitarra nei bivacchi?”
“Prima si ammazzano i draghi, poi si suona la chitarra”.
“Cosa sono i draghi?”
“Sono bestie cattive sputafuoco, minacciano le nobili fanciulle, quando sono giovani guizzano un po' ma li trafiggi facile”.

Allora, tanto per cominciare non è vero che sputano fuoco. Forse una volta, sicuramente nelle favole. È un modo romantico di nascondere la prosaica verità, ovvero che i draghi hanno un alito pestilenziale, se sbuffano sai di fogna per tre settimane. Sono bestie anfibie ma non si lavano, anzi sporcano dappertutto, si installano in un fiume e ci fanno palude. E gli escrementi, quando ti arruolano non ti parlano mai degli escrementi. Tonnellate da smaltire, e mai – mai – mai! una sola pentola d'oro. Al limite qualche minorenne impaurita e incrostata dai liquami che non ti dice grazie. Giorgio cova il dubbio che alle tizie il drago sotto sotto piaccia. Coi genitori non lo ammetteranno mai, ma... È quel tipo di mostro virile che si fa strada nel parcheggio delle scuole con un sei marce scoppiettante, il maschio alfa, le ragazzine fiutano il testosterone e la morchia, una cosa che fa ribrezzo. Giorgio certe mattine sotto l'elmo vorrebbe portare la mascherina, si è anche informato, pare non si possa.

“Che figura ci facciamo con gli utenti”.
“Sono allergico al polline”.
“Tu sei San Giorgio, il Megalomartire”.
“Ma infatti, sono già morto di choc anafilattico sotto Diocleziano”.

San Giorgio di Georgia, Caucaso. San Giorgio di Georgia, USA. San Giorgio in Campobasso. Non è che rivanghi così spesso i vecchi tempi. Quando i draghi erano verdi e non marron, e sprigionavano una deliziosa fiammella al sentor di diavolina, te la ricordi Demetrio l'odore della diavolina a Champorcher -

“Giorgio, la devi smettere di parlarne con me. Io sono morto, non sta bene”.
“Come sarebbe a dire che sei morto, scusa, quando sarebbe successa questa cosa”.
“Una sera eravamo usciti, con Michele e Gabriele, un drago è spuntato da una curva”.
“Una curva. Sempre una curva. Ma si può sapere cosa ci stanno a fare tutte queste curve in Terrasanta”.
“Giorgio non fare il cretino. Tirati su”.
“Demetrio ma tu ci pensi mai a me?”
“Non è che uno nella mia condizione può pensare o non pensare, eh, non è così che funziona”.
“Perché io a te ci penso tutti i giorni”.
“Tutti i giorni tu pensi alla morte, che è una cosa diversa. Datti una mossa”.
“Ah io vorrei tornare anche solo per un dì lassù nella valle alpina”.
“Renditi utile. C’è un drago da ammazzare a Vieste”.
“Là tra gli alti abeti ed i rododendri in fior, distendermi a terra e…”
“Fai bene a cantare. I cavalieri sorridono e cantano nelle difficoltà”.
“Mi sono rotto i coglioni, Demetrio”.
“È una mattina come un’altra, nuvoloso tendente al bello, apri i biscotti al cioccolato”.
“Non mi piacciono i biscotti al cioccolato”.
“Alla fine li mangiavi”.
“Li mangiavo perché io sono così, io non mi lamento, sono laborioso ed economo, se in cambusa c’erano solo biscotti al cioccolato perché a te piacevano, a te, non c’era ragione perché non li mangiassi anch’io, però, se devo dire la mia, i biscotti al cioccolato non sono i miei preferiti, va bene? Ma perdio, sono un adulto ormai, avrò ben il diritto…”
“Apri i tarallucci”.

Io sono San Giorgio, il Megalomartire. Sono morto tre volte, tre volte resuscitato. Mi hanno tagliato in due e mi sono ricucito. Cavati gli occhi, mozzata la lingua, di’ un supplizio a caso, me l'han fatto. La cistifellea? Senza anestesia. L’altro giorno il dentista mi ha guardato il molare 35 e ha detto “una cosa da niente”, poi mi ha conficcato nella gengiva un perno grosso come un picchetto da tenda. Non è che mi lamento, ma sai cos’è una colica renale? È peggio di una colica biliare. Sai cos’è una colica biliare? Ho l’anemia mediterranea. Tutta una serie di dermatiti misteriose. Sono allergico alle noccioline. All’uva passa. Alle mele. Alla buccia delle arance. Ho l’intestino rapsodico e il cuore asincrono, non tiene il tempo, me lo sento continuamente in petto, l’altro giorno mi faceva anche un po’ male e il medico mi ha mandato al pronto soccorso, mi hanno detto che non era infarto. Come sarebbe a dire non è un infarto? Poteva essere un infarto? Sono sempre stanco. Mi avrà morso un drago malarico, che vi devo dire. Gli antistaminici mi deprimono. Le droghe causano sonnolenza. Io volevo solo fare il chitarrista.

Ammazzare i draghi dicono che è un bel mestiere, che uno lo deve fare per passione, per la gioia di lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato, come no, la gioia di spalare tonnellate di merda per utenti che non si ricordano nemmeno come si coniuga il verbo ringraziare. La paga, ora non vorrei rivangare, però è una vergogna. E i draghi sempre più grossi. Ogni anno che viene ce n’è di più. Alla fine, sai cosa ti viene da pensare? Che l’errore sono io. Se non ci fossi io, tutte le mattine, a tappare un’emergenza, col dito nella falla della fogna, forse si accorgerebbero che c’è un problema, forse la puzza diventerebbe insostenibile, forse la pentola scoppierebbe, lo vedi che alla fine è tutta colpa mia Demetrio?

“Non so, non rispondo”.
Dai che lo sai.
“Vai pure avanti così, fatti dare la ragione dai morti, complimenti”.

San Giorgio d’Inghilterra, dove non mi pregano più. San Giorgio di Genova, ma lì fanno finta di non riconoscermi. Sono nato da nessuna parte in particolare, sono morto sotto Diocleziano come tutti. Sono sempre esistito, i miei maestri si chiamano Perseo e Marduk. Non li vado a trovare spesso, vivono in campagna, hanno fatto dozzine di bambini che hanno reso centinaia di nipoti. Tutti cortesi, amanti della natura, puri di pensieri parole azioni. All’Accademia dormivo in camerata con San Maurizio e San Martino. Sono ancora miei amici su facebook, a volte a tarda ora ci linchiamo vecchi canti di bivacco che troviamo su youtube.

“Senti, non te l’ho mai chiesto, ma sei stato tu quella sera a Crocette, a farmi lo scherzo della spada?”
“Che spada?”
“A Crocette di Pavullo, una sera. Ci eravamo appena coricati, e nel buio davanti a me all’improvviso è apparsa una spada di luce”.
“Perché non hai detto niente?”
“Pensavo che uno di voi due mi stesse facendo uno scherzo con la torcia elettrica”.
“Io no di sicuro”.
“Sarà stato Martino”.
“Martino è morto”.
“Ma piantala”.
“Un drago non ha visto uno stop”.
“Comincio ad averne abbastanza”.
“Sarà stata la luce di sicurezza, a volte si illuminano all’improvviso”.
“Era più affusolata, una specie di spada”.
“E poi? È scomparsa?”
“Tre volte si è accesa, due volte si è spenta”.
“Il riflesso di fari di auto in curva dalla fessura degli scuri della finestra. Ma cos’è successo la terza volta?”
“Non lo so, mi sono voltato”.
“Cosa hai fatto?”
“Mi sono voltato, di solito dormo pancia in giù”.
“E se era Dio?”
“Non era Dio, adesso Dio fa gli scherzi con le torce elettriche, andiamo. Era Martino. Oppure eri tu”.
“Non ero io”.
“Non ti ricordi, capirai, uno scherzo con la torcia che hai fatto a dieci anni”.
“Hai paura di aver deluso Dio?”
“È Dio, se ne sarà fatto una ragione”.

Drin!
“Pronto”.
“Cavaliere buongiorno, le volevo dire per quel drago in Polesine, abbiamo risolto”.
“Avete trovato Demetrio?”
“No abbiamo chiesto a Perseo”.
“A Perseo? Quel Perseo? Ma è in pensione!”
“Ci aveva detto che in caso di emergenza potevamo chiamarlo, così…”
“Ma non potete… ma guardate che è una cosa… cioè ma lo capite cosa state rischiando? Ha tremilacinquecento anni e pretendete che vada ad ammazzare un drago, un drago di adesso? Ma non sa neanche più come sono fatti, ci vien fuori un disastro”.

“Cavaliere, cosa dobbiamo fare, lei è depresso e a noi serviva un supplente”.
“Ma uno giovane”.
“Graduatoria esaurita”.
“Teresa mi sta prendendo in giro”.
“Vuole venire qua a vedere?”
“No voglio stare a letto! Perché sono depresso! Ho sempre sonno!”
“Come vuole cavaliere, si ricordi solo di portare il certificato e rendere la spada”.
“La spada”.
“Le passo Perseo”.
“Cosa? No”.
“Non vuole parlare con Perseo?”
“Vaffanculo, no. Lo mandi a casa. Gli dica di salutarmi i nipoti, tutti e centocinque”.
“Ci va lei allora in Polesine?”
“Vaffanculo sì, ci vado io”.
“Lei però non dovrebbe parlarmi così. Dovrebbe essere più cortese”.
“Vaffanculo sì, dovrei essere cortese e amico di tutti, perché sono San Giorgio Ammazzadraghi, tutti i giorni mi sveglio e ne ammazzo un paio, tutti i giorni spalo la merda, questo sono io, va bene? San Giorgio degli arcieri, San Giorgio Cavaliere, San Giorgio degli scout, sono pronto. Seppellitemi impiccato al mio stendardo. Bianco e rosso.

martedì 21 aprile 2020

Le canzoni dei Beatles (#120-111)

Mezzo secolo fa usciva McCartney, il primo disco solista dell'omonimo bassista dei Beatles, e i giornalisti di tutto il mondo scoprivano dalla cartella stampa che Paul McCartney non era più interessato a lavorare coi compagni; ovvero che i Beatles si erano sciolti: ovvero McCartney aveva bruciato John Lennon che da mesi aveva già lasciato il gruppo ma aveva accettato di tenere nascosta la notizia. L'altro ieri invece il Post ha compiuto dieci anni, auguri! Quindi, se i miei calcoli sono precisi, ci sono stati ben quarant'anni senza né Beatles né Post, ma per fortuna è acqua passata, ora potete leggere sul Post l'interminabile classifica dei 250 pezzi dei Beatles, abbiamo appena scavallato la metà, dai che da qui in poi è tutta discesa...

 Puntate precedenti: (#254-235)(#234-225)(#224-215)(#200-181)(#180-166), (#165-156)(#155-146)(#145-136), (#135-121)
La playlist su Spotify




120. Good Morning Good Morning (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Heart Club's Band, 1967).

Lo sanno tutti che non c'è niente da fare. È tutto chiuso, tutto una rovina. Tutti quelli che vedi sono mezzi addormentati e tu sei da solo, sei in strada. Ma è ancora Sgt Pepper questo? Sì e no. Per quanto sia ancora considerato unanimemente il "concept album" dei Beatles, non è poi così chiaro quale sia questo Concetto. Né fu di molto aiuto John Lennon in una delle sue ultime interviste: lo chiamano il primo concept album, ma "non va da nessuna parte: funziona perché noi abbiamo sempre detto che funziona". Il che alla fine è un po' vero, non dite di no. L'idea di un carosello di canzoni cantate da un complessino, il Club dei Cuori Spezzati del Sergente Pepe, è una suggestione che funziona soprattutto grazie al packaging, la copertina e gli accessori, insomma è una cosa che ci è stata venduta (e siamo stati tutti felici di comprarcela). La suggestione è sostenuta dalle prime due canzoni, la prima delle quali dà il titolo e viene ripresa verso la fine del disco: tutti gli altri pezzi avrebbero potuto stare in qualsiasi altro album, sosteneva Lennon 13 anni più tardi; in particolare le sue non le aveva certo scritte per il Club del Sergente Pepe. O no?

L'artista Peter Blake posa di fianco a una copia dell'album dei Beatles
Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, di cui disegnò la copertina nel 1967.

Sembra facile liquidare il "concept" come la classica idea di Paul, sviluppata solo a metà e accettata abbastanza passivamente dai colleghi: quel che succederà senz'altro di lì a pochi mesi col Magical Mystery Tour. E quindi avremmo Paul tutto eccitato dall'idea di travestirsi (in qualcuno vagamente simile al padre da giovane), Ringo sempre pronto a recitare il suo siparietto, John e George ancora disposti a sopportare i travestimenti anche perché mentalmente un po' lontani, John a causa della quotidiana ingestione di LSD, George in piena fase trascendentale-orientale. Se queste sono le premesse non è nemmeno così paradossale che le canzoni più estreme e memorabili siano quelle degli ultimi due: Lucy, Within You Without You, A Day in the Life sono decisamente i numeri in cui il travestimento dell'orchestrina cade del tutto.

E invece Good Morning Good Morning cos'è? È un brano di John, con un importante contributo di George alla chitarra e ai cori, che ci racconta una storia completamente diversa: in realtà un Concetto unitario c'era (anche se non è esattamente quello che siamo soliti associare al disco), e John cercò di svilupparlo, sforzandosi almeno quanto Paul: ci sono almeno un paio di brani di John che tutto sommato sarebbe stato difficile trovare in altri dischi dei Beatles, e che sono funzionali a creare e mantenere una determinata atmosfera: uno è Being for the Benefit of Mr Kite, l'altro è Good Morning. E per quanto la classifica ci dica che sono i due brani più deboli del disco, credo siano anche fondamentali per arrivare al famoso Concetto. Che senso aveva travestirsi, nel 1967, per i Beatles?

Apparentemente è un modo per osare qualcosa di più, e da questo punto di vista Good Morning non delude: è probabilmente il brano con più salti di tempo registrato dai Quattro fino a quel momento (se non in assoluto), anche se Ringo accetta qualsiasi sfida senza fare una piega. Quello che l'ascoltatore di oggi rischia di non percepire – in particolare l'ascoltatore italiano – non è tanto lo sperimentalismo quanto la declinazione sentimentale di tutto il progetto: una specifica atmosfera settentrionale, che in questo brano è resa, per esempio, dagli ottoni. In realtà dovremmo saperlo sin dall'inizio che la Banda del Club dei Cuori Eccetera è una vera banda con gli ottoni – anche se dopo il primo brano non si sono sentiti poi così spesso. Quello che forse ci sfugge è che questo tipo di banda evoca, almeno nei Quattro, i chioschi nei parchi delle città dell'Inghilterra del Nord: proprio come le aiuole fiorite nella copertina, e gli spettacoli itineranti: tutto un folklore di provincia di cui i Quattro sentivano la nostalgia già da qualche tempo (almeno da In My Life), e che aveva già ispirato Penny Lane e Strawberry Fields. Se assumiamo che il Concetto originale non fosse tanto l'orchestrina del Sergente con le sue buffe casacche, ma il luogo che quelle buffe casacche evocavano, ovvero Liverpool (e più in generale il Nord), molti più pezzi vanno al loro posto, sia sul versante di Paul (She's Leaving Home), sia su quello di John, che con Good Morning ci consegna un interessante commiato, prima della reprise finale (A Day in the Life è un bonus di lusso: era stata incisa prima del concepimento del Concetto).

Good Morning è in effetti un modo abbastanza interessante di terminare quell'escursione nella nostalgia che avrebbe potuto essere Sgt Pepper: è il momento in cui in certi film il bianco e nero cede ai colori e si passa dallo ieri all'oggi. Salvo che si tratta di un oggi distopico in cui John non è diventato il cantante più famoso del mondo ma più naturalmente un modesto impiegato di Liverpool che suona per hobby la tromba nell'orchestrina al sabato pomeriggio. Good Morning è la giornata qualsiasi di quest'uomo qualsiasi: colazione alle sette, un jingle alla tv che ti rimane in testa tutto il giorno (Good Morning era il jingle di una marca di cereali), una modica dose di disperazione da centellinare fino a sera, la consapevolezza che tutti alla fine stanno male come lui, e una passeggiata fino alla vecchia scuola. Chissà se John ha mai potuto tornarci, alla vecchia scuola: giusto per constatare che non era cambiato nulla. L'incedere sbilenco della strofa è una dichiarazione di inadeguatezza: Lennon non ce l'avrebbe fatta, a vivere la vita di tutti noi. Per lui ogni tanto serve una battuta in più, quella in cui Ringo picchia la grancassa. Non è la banda ad accelerare all'improvviso ("People running round it's five o'clock"): è lui che a un certo punto s'incanta e tutto intorno a lui sembra mettersi a correre.


Di solito si racconta che McCartney concepì Sgt Pepper's come risposta a Pet Sounds, ma l'idea di partire col canto del gallo e fare entrare le bestie sul finale fu di John, e sembra decisamente una bonaria presa in giro del finale di Pet Sounds. Un'altra cosa che si racconta è che Paul voleva anche raccogliere la sfida di Freak Out!, lo sconcertante esordio dei Mothers di Frank Zappa, ma se c'è un brano vagamente freakouteggiante in Sgt Pepper's, è proprio Good Morning. Insomma John c'era ancora, nella Banda: più di quanto in seguito avrebbe preferito ricordare. Tutto questo ricordare Liverpool del resto non gli impediva di vivere il suo presente di divo a Londra, ovvero di andare alle feste sperando di trovare quella giapponese benedetta. Go to a show, you hope she goes. Ma d'altro canto non era sempre stato così? Anche ai vecchi tempi di Liverpool, non era sempre stato il ragazzo che se ne andava dalle feste perché "lei" non c'è?


119. There's a Place (Lennon-McCartney, Please Please Me).

There'll be no sad tomorrow. Quante rime "sorrow/tomorrow" sono concesse a un cantautore? Lennon e McCartney si giocarono la prima relativamente presto, ma forse ne valeva la pena. Nel loro album di esordio  There's a Place è il trampolino su cui John monta lasciandosi alle spalle A Taste of Honey e prende la rincorsa prima di tuffarsi in Twist and Shout; comincia con un gorgheggio che sembra prendersi gioco di quelli della canzone precedente ("the-e-e-ere") ma rivela subito dopo al suo interno l'irresistibile vitalità di quella progressione I-IV-V che trionferà nel brano successivo. È il breve intermezzo tra due cover che segnalano gli estremi raggiunti dai due interpreti: le ambizioni confidenziali di Paul che intona Honey e la deriva sciamannata di John in Twist and Shout. In mezzo c'è questa canzone apparentemente semplice che testimonia i punti di forza e quelli deboli dei due apprendisti autori. Se dando un'occhiata al testo lo vogliamo considerare un brano introspettivo, un tentativo di dimostrare che sotto quelle allegre zazzere c'erano cervelli pensanti e occasionalmente sofferenti, There's a Place è abbastanza un fallimento (e dimostra anche perché i Quattro ritenessero necessario ricorrere a cover come Honey per presidiare anche questo specifico settore). Nel 1963 i Beatles non ce la fanno proprio a sembrar tristi – e dire che il loro look ad Amburgo era stato modellato su quello dei giovani esistenzialisti che si portavano i testi di Sartre e Camus al caffè. Ecco, tra i tanti stimoli captati un po' dappertutto, questo aveva lasciato i segni più superficiali: a questa altezza l'idea di un "luogo nella mente" in cui ritrovare la serenità interiore è declinato nel modo più trito e adolescenziale possibile: è il luogo dove penso a te, alle parole che mi dici (e alle "cose che fai"). Insomma magari quando si erano messi a scrivere There's a Place si erano veramente detti: proviamo a fare qualcosa di un po' più serio ("we were getting a bit more cerebral", scrive McCartney nella sua biografia). Niente da fare. Più che le parole, è la musica che tradisce un'impazienza, una gioia di cantare in coro con l'usuale spregio per le convenzioni armoniche e ritmiche (quelle terzine servite qua e là da Ringo e assecondate dai cori).



Ricapitolando There's a Place è un tentativo di canzone confidenziale che scade quasi subito nel teenpop: d'altro canto: che razza di teenpop. Da un punto di vista musicale, quel che combinano i tre cantanti coi cori è particolarmente sofisticato (quando John canta "when I'm alone", Paul lo lascia solo davvero); quanto al testo, con una straordinaria economia di parole inquadra una definizione di amore comprensibile e accettabile per gli adolescenti – e non era poi così scontato, nel 1963, che due ventenni sessualmente svezzati nei quartieri portuali di Amburgo riuscissero a conservare uno sguardo così ingenuo, fresco, sulla questione. Quell'idea di amore che ci si crea rimuginando nella propria cameretta interiore sulle cose che lui/lei ha detto, che lui/lei ha fatto. Il bridge è un po' più retorico, con quella rima sorrow/tomorrow che, potrei giocarci del denaro, è una trovata di Paul.


118. I'm Looking Through You (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965)

Pensavo di sapere tutto di te, ma cosa sapevo? Quanti versi scemi può farsi perdonare Paul McCartney anche solo per avere scritto questo (e anche quel "Love has a nasty way of disappearing overnight" non è così male). I'm looking through you fa parte di quelle che potremmo definire le sue liriche del disamore, un gruppo che include senz'altro What You're Doing For No One. Sia Paul e John stavano sperimentando il disamore in quegli anni, anche se partendo da posizioni divergenti. È un sentimento molto meno cantabile dell'amore: quest'ultimo si può tranquillamente fingere se c'è da scrivere un successo al volo, gli scaffali sono pieni di frasi fatte da montare a piacimento. Ma se scrivi di disamore è perché proprio non ne puoi fare a meno: ti tocca di essere sincero, e I'm Looking Through You possiede proprio quella caratteristica lucidità disarmante dei testi più sinceri di Paul, dove il problema non è tanto il fatto che una ragazza non lo ami più, ma una più generica sensazione di fastidio: le cose non stanno andando come Paul aveva previsto che andassero e questo rende Paul nervoso. Magari gli complica il sonno, e sappiamo che Paul compone quando dorme.



La lavorazione di I'm Looking Through You è una storia complessa e non del tutto chiarita: se fosse stata incisa come nell'outtake di Anthology 2 sarebbe stata una delle più strane canzone dei Beatles fino a quel momento. Da una parte una strofa melodica, arpeggiata, con una progressione vagamente barocca, in cui Paul esprime con disappunto la sua frustrazione e la sua diffidenza – e benché dica cose come "You don't sound different but I've learned the game", non ci viene il minimo sospetto che possa finire male come capita nelle coeve canzoni gelose di John. Finché però Paul urla "You're not the same!", e a questo punto inopinatamente partiva un giro di blues strumentale in dodici battute, scandito dalla chitarra solista di George e da un accordo di Hammond suonato da Ringo (sul quale dovremo tornare perché, per usare un'espressione che prima o poi sul Post volevo scrivere, è un giallo). Forse un tentativo per esprimere un certo tipo di rabbia virile in modo non verbale? C'è un tipo di rancore che John riusciva a esprimere a parole e che Paul preferiva affidare al blues?

Questo tipo di incastri erano una relativa novità per i Beatles – forse il primo in assoluto fu We Can Work It Out, a cui stavano lavorando nello stesso periodo. E mentre ci lavoravano non potevano sapere che We Can Work It Out sarebbe piaciuta alle radio più dell'altro brano del singolo, Day Tripper, per cui lo stesso Paul a un certo punto potrebbe essersi domandato se non stava guardando un po' troppo oltre, se non era meglio togliere il giro blues e introdurre un classico bridge alla Beatles. Rimane comunque nella versione finale l'idea abbastanza originale di terminare la strofa con questo La-La martellante, suonato, ripeto, da Ringo all'organo Hammond. Lo ripeto perché c'è tutta una corrente di pensiero che si rifiuta di credere che Ringo suoni l'Hammond in I'm Looking Through You, malgrado le note di copertina (che del resto in tanti altri casi non risultano affidabili). Non si tratta di beatlemani della domenica: persino Mark Lewisohn non lo sente, e chi sono io per smentire il supremo Lewisohn? Però Pollack lo sente, e con le mie umili orecchie lo sento pure io: è un organo che fa semplicemente LA-LA, ha una funzione eminentemente ritmica, per cui davvero non ci vuole molta fantasia nell'immaginare che lo suoni Ringo, magari perché in studio aveva finito i fumetti da leggere e si annoiava. Questa idea della tastiera suonata come uno strumento di percussione mi piace troppo per dare non dare retta a Pollack, anche se avrei preferito che fosse l'unica sperimentazione percussionistica della canzone (quei battiti di mano che nella versione rimasterizzata mi frastornano). D'altro canto, che ne sappiamo? "Pensavo di conoscervi, ma cosa ne sapevo?"



Mentre componeva Paul potrebbe persino non essersi accorto che "to look through" in inglese ha due significati: "ti guardo attraverso", nel senso che ti guardo dentro (e ti vedo cambiata), oppure che non ti guardo affatto, è come se tu non ci fossi, non sei più quella di una volta e quindi ormai sei invisibile, sto già guardando qual che mi aspetta dopo.


117. Fixing a Hole  (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Heart Club's Band, 1967).

"I'm painting the room in a colourful way". Per quasi tutte le canzoni dei Beatles c'è almeno una storia sbagliata, inventata in fretta da qualcuno che doveva sollevare una polemica. Nel caso di Fixing a Hole, l'idea davvero bizzarra che "riparare un buco da cui entra la pioggia" fosse un modo per descrivere un'iniezione di eroina. Non ha senso la metafora, non s'intona col mood della canzone, è veramente un'idea sciocca.



Per quasi tutte le canzoni dei Beatles c'è una storia che sembra più verosimile, messa in giro da qualche osservatore più attento e che però – come succede spesso alle storie troppo verosimili – è altrettanto falsa: l'idea che Fixing alludesse ai lavori di restauro necessari per rendere abitabile la fattoria scozzese che Paul si era comprato. E già ci immaginiamo un Paul neorurale che irride le complicazioni londinesi, le vaghe lusinghe del successo e si consacra alle gioie virili del bricolage – salvo che Paul in Scozia ci si sarebbe ritirato con Linda solo due anni dopo.

Per quasi tutte le canzoni dei Beatles, infine, c'è una testimonianza dell'autore, che però non è sempre il testimone affidabile: e così scopriamo infine che Paul stava parlando della gioia di passare del tempo con sé stesso e una generosa scorta di cannabis nel suo appartamento in Cavendish Avenue. Ma sarà vero? Perché sembra proprio una soluzione di compromesso tra le due storie precedenti, come se qualcuno si stesse impegnando a non deludere nessuno, e Paul a volte lo sappiamo che ha paura di deludere qualcuno. In ogni caso è una canzone che difende un approccio positivo e rilassato, scritto da una star che non deve più preoccuparsi di...? Jane Asher? Di far parte di un gruppo da cui fino a pochi prima ci si aspettavano centinaia di concerti e due dischi all'anno? In effetti se pensiamo alla loro agenda ci dev'essere stato un notevole rallentamento tra 1966 e 1967, una bolla di pace tra i tumulti della Beatlemania e la crisi successiva alla morte di Brian Epstein. Gli altri tre si dedicano alla famiglia, Paul si ritrova lo scapolo d'oro del gruppo e ne approfitta. Si rilassa e mette nel cassetto tutta quella poetica sulla frustrazione sentimentale che pure gli aveva dettato ottime canzoni negli ultimi dischi, da Yesterday a I'm Looking Through You a For No One. Rimane invece sulla tavolozza quell'ottimismo sgargiante che da solo rischia di frastornare gli ospiti, ma Paul non sempre se ne rende conto. Il mondo sta per prendere fuoco, ma lui non se la passa così male e non capisce cos'abbiano gli altri per tormentarsi.

Paul e Heather tra i fiori (Linda sta scattando).
Devo confessare un rapporto difficile con Fixing a Hole. Per molto tempo, in quanto aspirante beatlemane, mi è stato chiesto di credere che Sgt Pepper era il loro capolavoro, e per molto tempo ci ho creduto. Ma da qualche parte nella mia fede c'era evidentemente un'infiltrazione, una trave marcia, un buco che nessuno ha riparato. Poi c'è stata la fase iconoclasta, in cui andavo in giro a dire ahah, ma sul serio pensate che Sgt Pepper sia un capolavoro? Cioè ma avete presente che c'è Fixing a Hole? Secondo voi il capolavoro dei Beatles può davvero essere il disco che contiene Fixing a Hole? Ora, a risentirla non mi sembra affatto una cattiva canzone. Magari non è nemmeno la peggiore del disco. Ci sono in effetti motivi per trovarla antipatica, e a guardare a fondo sono più o meno i motivi per cui i Beatles a un certo punto si sono sciolti: erano già tutti lì a guardarli bene, in quel buco che Paul era convinto di dover riparare.

Fixing è un manifesto all'ottimismo in un momento in cui la scena musicale/giovanile non ne sente il minimo bisogno: nell'anno in cui incuba la rivolta, escono i primi dischi di Jimi Hendrix e dei Doors, Paul sembra proiettare già un sé stesso pronto a un buen retiro in campagna, incredulo che qualcuno non venga a chiedergli una mano per sistemare qualcosa. Fixing è un paradosso: è una canzone che rappresenta assolutamente i Beatles di Sgt Pepper, ovvero i Beatles del 1967, e allo stesso tempo è un brano che in Sgt Pepper non si capisce bene che cosa ci faccia. Incisa abbastanza rapidamente all'inizio dei lavori, prima che perfezionismo e sperimentalismo prendessero la mano, Fixing costituisce con il solco precedente, Getting Better, una specie di Dittico dell'ottimismo, ma laddove Getting poteva ancora vagamente rientrare nel Concetto di un disco liverpooliano, rivolto a rileggere il passato ("I used to be angry at school") per fare la pace col Presente, Fixing a Hole col Passato non ha più niente a che vedere: è Paul che ci tiene a farci sapere che sta bene anche se è da due anni che non suona più dal vivo – insiste un po' troppo su questo fatto di stare bene, perché l'ascoltatore non cominci a farsi tentare dal dubbio. Fixing, ad ascoltarla senza pregiudizio, è una partitura abbastanza complessa: contrappone una strofa vagamente jazz a un bridge molto più semplice e cantabile e sono esattamente quei due aspetti di Paul con cui gli ascoltatori non mccartneyani fanno più fatica a riconciliarsi: le ambizioni jazz e i ritornelli leziosi – in altre canzoni Paul li miscela con elementi più eterogenei, un rock qua, un blues là, in Fixing no. A tenergli compagnia c'è la chitarra di Harrison che invece di stemperare, sottolinea i contrasti: sofisticata nella strofa, pedestre nel bridge. Alla fine Fixing rimane per me un piccolo mistero. Non mi è mai sembrata degna di Sgt Pepper, ma forse da Sgt Pepper mi aspettavo troppo. Forse in un altro disco l'avrei apprezzata di più, ma non riesco a immaginare un altro disco adatto a lei.



116. Glass Onion (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)

I've told you about Strawberry Fields. Nasce tutto da quel verso, magari buttato fuori al volo in attesa di sostituirlo con qualcosa di nuovo (come ai tempi di "Scrambled Eggs"), e che invece ad ogni prova rispunta sempre più necessario, icastico, non c'è niente da fare, la canzone dovrà parlare di nuovo di Strawberry Fields. E a questo punto tanto vale saltare lo squalo, costruire tutta una continuity, come si dice oggi, infilarci anche il Tricheco e Lady Madonna, rimescolare con qualche elemento nuovo, e trasformarla in una parodia dei Beatles più lisergici ("glass onion" è qualsiasi vetro a forma di bulbo, sia caraffa che lampadina, ma ovviamente possiamo anche immaginare una "cipolla di vetro"). Anzi no, una satira di chi cerca di capire i testi dei Beatles, chi non si rassegna al fatto che siano soltanto grumi di parole messe insieme in dormiveglia da due o tre ventenni con ampio accesso a sostanze ricreative. John Lennon ha sempre disprezzato chi cercava di intellettualizzarlo, sin da quel povero critico musicale che aveva trovato una cadenza eolia in Not A Second Time. Lennon non poteva sapere nel 1968 che alla fine sarebbe stato costretto lui stesso a trovare significati per quegli stessi grumi di parole: che per più di un decennio nessun intervistatore lo avrebbe lasciato parlare senza chiedergli il significato recondito di questa o quella canzone. Così, dopo aver preso in giro gli ascoltatori con un testo deliberatamente nonsense, Lennon sarebbe stato costretto di lì a poco a strizzare il nonsense come una rapa per trovarci una stilla di senso: a rivelare che "the walrus was Paul" alluderebbe in un qualche modo al suo proposito di lasciare i Beatles: un modo per salutarlo (ma anche per liquidare una ditta in cui si riconosceva più, con tutte le suppellettili e quel costume da tricheco che nel film era stato proprio Paul a indossare, perché ci entrava meglio).

Un'altra possibilità – che rientra nella casistica delle storie un po' troppo verosimili per essere vere – è che dopo aver buttato lì citazioni carroliane a caso in I Am the Walrus, Lennon avesse riletto Alice (o almeno visto il film) e riflettuto sul fatto che il Tricheco era il grasso profittatore. "Avrei dovuto cantare I am the Carpenter", disse per scherzo in una delle ultime interviste, ed erano già 13 anni che continuava a spremere senso dai testi che aveva improvvisato al microfono da ragazzo. Un contrappasso più che sufficiente, per chi aveva irriso i suoi interpreti con Glass Onion.



(Molti avranno già notato che "il joint a coda di rondine", oltre a uno specifico tipo di plinto molto apprezzato in carpenteria, potrebbe essere un doppio joint, un doppio cannone. Ma qualcuno ha osato aggiungere che "trying to make a dove-tail joint", cioè "tentare di rollare un doppio cannone", un cannone che possa essere fumato da due bocche contemporaneamente, potrebbe alludere alle difficoltà di proseguire il sodalizio compositivo tra Lennon-carpentiere e Paul-tricheco? La scrivo io, dai. Ricordatevi di linkarmi).

La tendenza a sovrainterpretare è innata. È l'effetto collaterale di un vantaggio evolutivo, come la pareidolia. Se siamo al mondo in questo preciso momento è perché molti nostri antenati seppero interpretare dei segni prima di altri che magari finirono travolti da milioni di catastrofi naturali – o semplicemente non sapevano interpretare i comportamenti dell'altro sesso e quindi ebbero meno opportunità di trasmettere i loro geni. I nostri progenitori invece tendevano a interpretare tutto, magari a volte esageravano e al minimo rumore nella valle scappavano per paura di una valanga, ma in questo modo effettivamente evitarono abbastanza valanghe e magari commisero anche parecchie gaffe durante i rituali di accoppiamento, ma chi non fa non falla e loro fecero abbastanza da portarci qui, e adesso noi non è che possiamo liberarci di Glass Onion dicendo semplicemente che non ha senso, eh no. Tutto deve avere un senso, siamo programmati per trovarne uno, abbiamo persino inventato la psicanalisi per trovare un senso ai sogni e ai lapsus e alle canzoni scritte con le prime parole che ti vengono in mente. Per cui se nel 1968 John Lennon si mette ad abbozzare una canzone partendo da un'altra canzone, "I've told you about Strawberry Fields"; se poi non riesce a sostituire quella frase e alla fine decide di inciderla, è perché evidentemente ha la sensazione di non riuscire a trovare niente di meglio.

Non è che non abbia più niente da dire, ma c'era un filone preciso della sua ispirazione che si stava esaurendo (in coincidenza magari casuale con la fine della storia d'amore con l'LSD): il surrealismo psichedelico. È un genere che Lennon in realtà praticò appena per una manciata d'anni e una manciata di canzoni – diciamo da Tomorrow Never Knows ad Across the Universe: ma sono tra le sue più apprezzate, dai critici ancora più che dal pubblico (vedrete quanto troveremo in alto Strawberry Fields o A Day in the Life). È un genere comunque da cui Lennon sentiva già di volersi allontanare dopo I Am the Walrus, anzi forse I Am the Walrus era già un'autoparodia, o comunque un tentativo di far esplodere il congegno dall'interno. Glass Onion è il terzo brano del Disco Bianco, e coi due precedenti sembra volerci dire che la musica è davvero cambiata: alle giocolerie armoniche di Walrus subentra una gabbia di accordi non banale ma molto più limitata, che ci lascia insoddisfatti come forse è previsto che ci dobbiamo sentire. È l'arrangiamento, soprattutto, a dirci che la psichedelia è finita: al diradarsi delle nebbie acide ritroviamo la cara vecchia formazione a quattro, due chitarre un basso e la batteria. C'è ancora qualche intruso orchestrale, e quando nel finale prendono il sopravvento, sembrano già un souvenir del passato: quel tipico suono che tutti identificano coi Beatles, si era ascoltato per la prima volta nel dicembre 1966 (Strawberry Fields) e nel novembre 1968 suonava già vecchio.



115. Cry Baby Cry (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)



Fa' in modo che tua madre sospiri. Lei è grande, la sa lunga lei. Non so se mi è già capitato di scriverlo, ma il Disco Bianco è una festa. Almeno per un'ora è un disco pieno di gente allegra che fa casino e combina disastri. Poi succede qualcosa – come succede sempre alla fine di una festa. Niente di necessariamente drammatico: magari sono semplicemente tornati i genitori e bisogna pulire. Oppure siamo noi i genitori e mentre salutiamo gli ultimi amici dobbiamo salire a cantare qualche ninna-nanna. Il quarto lato contiene effettivamente un paio di ninne nanne, intervallate da quegli interminabili otto minuti di caos che potrebbero anche rappresentare il primo dormiveglia, il momento in cui dai rumori in sottofondo prende forma un sogno. È un'idea come un'altra, ma non mi sarebbe mai venuta se prima di quegli otto minuti non ci fosse Cry Baby Cry, la canzone che condensa tutta l'atmosfera del quarto lato, una malinconia che lascia un sapore amaro e ti fa veramente venir voglia di buttarti a letto e sperare che domani le cose vadano meglio. Lenonn cerca di usare la linea di basso cromaticamente discendente che Harrison sta sfruttando in While My Guitar e Savoy Truffle, ma pasticcia gli accordi e il risultato è più inquietante. Cry a dire il vero è la più ironica delle ninne-nanne: invece di dire "dormi", dice "piangi, sveglia tua madre, lei è abbastanza grande per saperne di più", un ritornello che suonerebbe angoscioso anche se non fossimo al corrente del complicato rapporto di Lennon con la madre: qual è il problema per cui vale la pena di svegliarla? Un brutto sogno? ce la siamo fatta addosso? ci sentiamo soli in un mondo ostile? abbiamo capito che la festa è finita e non saremo più Beatles a lungo – anzi non lo siamo mai stati, è stato tutto un sogno, una recita di marionette, di re e regine di cartone? E qualcuno può riportarmi nel posto in cui provengo, chiede Paul all'improvviso, ed è l'ultima volta che sentiamo la sua voce in tutto il disco, mentre comincia il rumore. È anche l'ultimo vero brano del disco suonato dai Quattro come un gruppo, con la stessa professionalità un po' passiva dei famigliari che sparecchiano in silenzio. George suona poche note ma ci stanno tutte, Paul armonizza poco ma ma al momento giusto, e la sua coda fa venire i brividi. Non so che dire, per quanto caotico il Disco Bianco sembra avere una vita propria, molto più di tanti concept album – d'altro canto non siamo tutti pasticciati e caotici? Quante domande. Meglio svegliare la mamma, lei è grande, ne saprà di certo qualcosa.

(E ora mettiamo in giro un altro po' di sovrainterpretazioni: il Re è John, o almeno tale si considerava all'interno del gruppo, da cui la strisciante sensazione di essere stato spodestato e ritrovarsi sempre più spesso in cucina a lavorare per la Regina, la quale ovviamente è Paul, tutta presa a compiacere i "bambini del Re", ovvero i fans dei Beatles; nota: John non dice che siano figli anche della regina. La duchessa è Ringo, sempre sorridente ma in ritardo; il duca è George, i suoi problemi coi messaggi potrebbero alludere alle sue pretese di entrare in comunicazione con il Trascendente, o anche solo di farsi sentire dai colleghi in sala di registrazione. Tutto questo non può andare avanti molto, e a mezzanotte una tavola rotonda al buio decreterà che la farsa e finita: piangi, bambino, piangi, e fa' in modo che tua madre sospiri).


114. Oh! Darling (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969)

Quando hai detto che non avevi più bisogno di me, lo sai? Sono quasi crollato, e ho pianto (o ho "quasi pianto"?) Oh! Darling è una seduta di coppia sotto forma di pastiche doo-wop, dove ovviamente per "coppia" bisogna intendere il sodalizio artistico e umano Lennon-McCartney. Tutto chiaro adesso? bene, passiamo alla prossima – no, scusate, ma ci sono canzoni in cui ho paura di addentrarmi perché davvero ci si potrebbe scrivere un breve saggio sopra, o un lungo romanzo, e non sono necessariamente le più famose o le più complicate.

Prendi Oh! Darling: all'apparenza è solo un numero doo-wop; ti immagini davvero Paul dire: facciamo un pezzo alla Platters, e John rispondere Beh, perché no. Non è banale rammentare che John amava il doo-wop e apprezzava Oh! Darling, e almeno una volta espresse il rimpianto di non averla cantata lui "Era più il mio stile che il suo. Ma l'aveva scritta lui, quindi al diavolo, l'ha cantata lui. Però se avesse avuto un po' di buon senso, me l'avrebbe fatta cantare". Dopo aver detto questa cosa all'intervistatore, John ride, e ci spezza il cuore perché davvero, come poteva non capire? Come poteva rifiutarsi di capire che Paul stava cantando Oh! Darling proprio a lui? "When you told me you didn't need me anymore, you know I nearly broke down and cried..." poteva essere più esplicito di così col suo partner, questo povero ragazzo? Oh tesoro, se mi lasci io non ce la farò mai da solo, credici se te lo dico. John non solo non ci crede, ma neanche si accorge che la canzone parla di lui, parla a lui.

È la tragedia di Paul: si è inventato così tante storie che nessuno si aspetta più da lui la verità. D'altro canto Oh! Darling sembra volersi presentare esattamente come un algido esercizio di stile: non tanto una parodia, quanto una celebrazione, un monumento al doo-wop eseguito con tecniche innovative ma rispettose dei contenuti storici. La chitarra di George, in particolare, al primo ascolto sembra quasi voler sabotare l'operazione, e invece è funzionale a creare il particolare pathos della canzone. Sembrerebbe tutto comunque molto meccanico se al di sopra degli strumenti non divampasse la voce di Paul, nella sua prestazione più sofferta ed efficace. Sappiamo che ci mise settimane a registrarla; che veniva ad Abbey Road in anticipo ogni apposta per mantenere la voce roca tipica delle prime ore del mattino; e forse per non farsi vedere dal collega ed ex amico mentre si strappava il cuore a forza di urla.



La complessa relazione tra John e Paul, se fossero due millenial, si definirebbe bromance. In Oh!, Darling c'è quasi tutto quello che puoi aspettarti da una storia di bromance. La nostalgia per il passato irripetibile vissuto assieme quando ancora il sesso non era così importante da poterli allontanare: Paul tornava ogni mattina davanti al microfono nella speranza di poter ritrovare anche solo per un momento quella voce roca che ai bei tempi gli era valsa i complimenti di Little Richard ("anni fa l'avrei fatta in un attimo"). Il cameratismo, diciamo pure l'amore fraterno, ma attorcigliato inestricabilmente a una radice d'invidia: Paul vuole cantare una canzone alla John, la vuole cantare per John, ma la vuole cantare anche meglio di lui. Oh! Darling è un progetto lungamente studiato a tavolino che dovrebbe consentirgli di ottenere finalmente una prestazione vocale paragonabile a quella ottenuta in fretta e furia una notte di sei anni prima dal John febbricitante che al primo colpo aveva inciso Twist And Shout.

E di tutto questo John nemmeno si accorge, preso com'è dai suoi problemi che non sono più i problemi di Paul. Ce lo eravamo sempre immaginato, ma poi lo abbiamo sentito in Anthology 3: al termine di una versione cantata in coppia nei giorni difficili delle prove ai Twickenham Studios (una versione in cui davvero quei due sembrano di nuovo intendersi al volo come ai vecchi tempi) John si rimette di nuovo davanti al microfono e con un tono serioso, quasi da cronista, annuncia: ho appena sentito che la pratica del divorzio di Ono si è conclusa. Per poi riattaccare con Oh Darling, ma cambiandone le parole – ed è una coltellata alla schiena, tanto più dolorosa quanto inconsapevole: Sono libero! Stamattina! La ragazza, dice l'avvocato, è tutto OK! Credimi quando ti dico, I'll never do you no harm. Ora rifletteteci. C'è gente che si porta l'amante nel letto nuziale, sono cose che possono capitare a chiunque; ma avete mai visto una persona a cui hanno scritto una canzone d'amore riprendere la stessa canzone e usarla per dichiarare il proprio amore a qualcun altro? E tutto questo farlo in presenza di chi quella canzone l'ha scritta? Quanto bisogna essere crudeli per fare uno scherzo del genere? E a John venivano spontanei.



113. Mean Mr. Mustard (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).

Uno dei pezzi meravigliosamente sghembi composti da Lennon in India; scartato per il Bianco, ripreso a Twickenham durante le session per il progetto Get Back!, montato poi nel medley di Abbey Road e liquidato quasi subito da Lennon come "a bit of crap". Mean Mr Mustard in effetti è uno di quegli episodi che sconfessa una delle leggi fondamentali della beatlologia, ovvero: John parla in prima persona, Paul in terza. Paul si inventa storielle buffe su personaggi immaginari, John li detesta e vuole solo essere sincero su quel che sente e vede intorno a sé – beh, non è così vero. Non c'è dubbio che Paul sia il più bozzettistico dei due, ma di personaggi ne ha inventati anche John e non dobbiamo pensare che siano tutte proiezioni del suo ego: dopotutto il tricheco era Paul. E poi c'è Doctor Robert, Mr Kite, Polythene Pam... Il Sordido Signor Senape ci trattiene per appena un minuto, ma lascia il segno: sembra già pronto per diventare il cattivo di un musical (cosa che tra l'altro gli sarebbe successa, ma è una circostanza che i beatlemani preferiscono dimenticare). C'è una corrispondenza diretta, felice, tra musica e contenuto: ci sembra di vedere il Signor Senape incespicare mentre ascoltiamo John che canta Mean Mister Mustard sleeps in the park
Shaves in the dark trying to save paper. Quattro sillabe atone e poi un accento (sleeps), tre sillabe atone e un altro accento (shaves). È una prosodia dinoccolata e irresistibile che non ha veri precedenti, e riavvicina Lennon ai coetanei inglesi più stralunati: il Syd Barrett di The Madcap Laughs, certe cose dei Kinks di quel periodo. Sono cose strambe e simpatiche che venivano abbastanza spontanee a Lennon quando Lennon era nella cabina di comando di un gruppo che valeva milioni di sterline e da cui ci si aspettava un successo radiofonico ogni tre mesi. Quando finalmente ne uscì fuori, quando infine fu libero di cantare quel che voleva... non ne scrisse praticamente più.


112. Martha My Dear (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)

Sei sempre stata la mia ispirazione, ricordati di me. Non è ironico che una delle più disarmanti  e sofisticate canzoni d'amore Paul l'abbia scritta per il suo bobtail? Sì e no, in fondo non abbiamo inventato gli animali domestici proprio per sembrare più simpatici a noi stessi e agli altri mentre li vezzeggiamo? O forse per dare sfogo ai lati meno presentabili delle nostre necessità emotive. Chi si lascerebbe carezzare all'infinito e grattare dietro le orecchie, chi si lascerebbe dire "hold your head up you silly girl" (un attimo prima di "you have always been my inspiration"?)

Martha My Dear è una delle canzoni di Paul in cui molti ascoltatori non riescono a sentire gli altri tre Beatles (George c'è di sicuro, Ringo molto probabilmente, John non pervenuto). Non solo, ma Paul ha sempre sentito la necessità di precisare che il pianoforte lo suonava lui, malgrado fosse un pezzo difficile per lui, e in questo paradosso (comporre canzoni che non sempre si è in grado di eseguire) sta probabilmente il segreto della musica dei Beatles: in un mondo dove ogni appartamento rispettabile aveva un pianoforte, nessuno dei Quattro sentì mai l'esigenza di imparare a suonarlo decentemente – quello che lo suonava più spesso era il più tecnicamente limitato, John Lennon, e forse proprio perché per suonare quell'affare nei Beatles ci voleva più imprudenza che tecnica. E ciononostante il pianoforte rimase fino alla fine lo strumento preferito da John Paul e George per comporre: come se scrivere musica significasse dimenticare anche quel poco che della musica si sa, e aprirsi un varco nel silenzio, alla cieca.

Stavolta ad esempio Paul scopre (o riscopre) l'incanto speciale degli accordi in minore settima e costruisce un brano che ancora oggi è la croce e la delizia dei beatlemani col pianoforte in casa. La sua partitura viene trasformata dagli orchestrali di George Martin in un tripudio in technicolor in cui basta chiudere gli occhi per immaginare i titoli iniziali di un film di quegli anni; l'atmosfera è forse un filo più bacharachiana che beatlesiana, ma in un carosello come il Disco Bianco non stona affatto, anzi: i colori per un attimo sono quelli giusti, ingialliti esattamente come li sbiadiva una polaroid. Anche il fatto che la sinfonia duri così poco –  e in quel poco concentri così tante trovate – la rende a mio avviso uno dei brani più deliziosi del disco, e quindi dei Beatles. Sì, Paul ha scritto cose più ambiziose, ma chiedetelo a un fotografo: è più facile ritrarre una persona mentre accarezza una fidanzata o mentre accarezza un cane? Col cane si viene meglio, è tutto più spontaneo, più allegro, lo spettatore si sente meno terzo incomodo, va' a sapere.


111. Polythene Pam (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).

Yes, you could say she was attractively built... John Lennon è stato punk prima di te: ha composto Polythene Pam. È anche stato indierock prima di te (And Your Bird Can Sing), è stato grunge (She Said She Said), è stato jungle (Tomorrow Never Knows). Potrebbe anche avere inventato lo ska bianco, se è davvero sua l'idea di ritmare Obladì Obladà in quel modo. E in quasi tutti questi casi non aveva affatto chiara la direzione che stava prendendo, e non è mai apparso molto soddisfatto dei risultati. Che differenza con l'autocompiacimento di Paul mentre, poniamo, progetta a tavolino di battere il record mondiale di distorsione con Helter Skelter. Gli esperimenti di Paul, molto più ragionati, ottengono sempre qualcosa di compiuto ma finiscono quasi tutti per guardare al passato, mentre quelli di John a volte non portano a niente e a volte aprono finestre sul futuro.

Ci sono precisi motivi sociali, estetici, persino economici, per cui per passare dai power chords degli Who a quelli dei Sex Pistols ci sono voluti quasi 10 anni e un cambio generazionale. Oppure semplicemente era un gradino che toccava salire a John Lennon, e John Lennon ha preferito ritirarsi a vita privata. In Polythene Pam c'è l'attitudine, la voglia di graffiare, la fissa per i fetish, insomma è già tutto pronto per le spille e per le borchie... e invece niente, scusate, stavamo solo scherzando, passiamo ora la linea a zio Paul, vai col liscio. Polythene Pam è il pepe del medley di Abbey Road e uno dei minuti più belli e irruenti del disco: uno squarcio su un universo musicale molto di là da venire che Lennon avrebbe appena fatto in tempo a vedere e ascoltare. Una delle cose più incredibili è che per quanto faccia tutto per sembrare un brano semplice di tre accordi, ne contiene più del doppio e combinati in modo molto più complesso di quanto possa ascoltare al primo, al secondo, al millesimo ascolto, è da trent'anni che ci provo e continuo a sbagliare gli accordi di Plythene Pam. Si dice spesso che per fare punk bastano tre accordi, ma è un'idea abbastanza accademica: c'è gente che studia sodo per anni per imparare a martellare quei tre accordi in modo rigorosamente punk. John ce ne ficca otto perché se ne frega, di accordi ne ha quanti ne vuole e se gli va li mette tutti, yeah! yeah! yeah!

venerdì 17 aprile 2020

Kateri, il giglio dei Mohawk

La cresta che in italiano chiamiamo "moicana", in realtà è mohawk. I moicani erano loro nemici e avevano i capelli lunghi.
17 aprile - Santa Kateri Tekakwitha (1656-1680), vergine mohawk

[2014]. Di solito gli irochesi attaccano su due fronti; accerchiano il villaggio; uccidono i guerrieri feriti, gli anziani, i bambini troppo piccoli e in generale chi non reggerebbe la fatica di un lungo viaggio a piedi. Ai restanti prigionieri viene tagliato un dito a scopo di identificazione; nel frattempo un messaggero viene mandato al villaggio per avvertire che la piccola guerra è andata bene. Lungo il cammino i prigionieri che cadono vengono terminati rapidamente a colpi d'ascia e abbandonati insepolti. Quando finalmente arrivano al villaggio, un capannello di osservatori si fa avanti per percuoterli un po'. Vengono spogliati e torturati con più professionalità dalle donne, specie le più anziane ed esperte. A questo punto venivano nutriti e potevano riposare; quindi erano fortemente invitati a danzare in cerchio mentre il consiglio del villaggio deliberava sul loro destino. I nuclei famigliari che avevano avuto un lutto recente avevano la facoltà di adottare uno dei prigionieri, che in caso contrario veniva ulteriormente torturato, ucciso e parzialmente mangiato. Il prigioniero adottato diventava membro della famiglia a tutti gli effetti, e dalla sua disponibilità a impersonare il parente precedente morto in guerra o in malattia dipendeva la sua sopravvivenza: se non riusciva a integrarsi poteva essere ucciso anche dopo qualche anno. Anche la madre di Kateri Tekakwitha divenne mohawk in questo modo, quando era bambina. Di nascita era algonchina, di una tribù cattolica e filofrancese; gli irochesi (di cui i mohawk facevano parte) in questa fase acquistavano armi da olandesi e inglesi, e attaccavano i francesi che si ostinavano a comprare pelli di castoro da altri popoli.

Le "longhouse" irochesi, condomini plurifamigliari (anche la Conferazione delle Sei Nazioni era concepita come una longhouse; i mohawk guardavano la porta orientale).
Gli irochesi erano tutto meno che un popolo in simbiosi con la natura. Giunti da sud nel medioevo, miravano a diventare la potenza egemone di tutta la zona tra i Grandi Laghi e il Mississippi che in alcune mappe europee si chiamava invece Nuova Francia. La loro idea di egemonia prevedeva il genocidio e l'assimilazione delle tribù nemiche. Da un punto di vista economico, miravano al monopolio della vendita di pelli del castoro gli europei, e questo era un buon motivo per combattere contro le tribù alleate dei francesi. Pazienza se nel frattempo la caccia sistematica dell'animale lo stava portando all'estinzione in una vasta porzione del suo habitat. Cacciatori e guerrieri erano costretti a viaggi sempre più lunghi, il che aumentava il prestigio e l'importanza delle donne che restavano a casa. Alle donne appartenevano terreni e abitazioni; soltanto loro conoscevano i misteri delle "tre sorelle" (mais, fagioli, zucche), senza le quali anche i più potenti guerrieri non avrebbero saputo come riempire la scodella quotidiana. E tuttavia le donne dovevano sposarsi e avere figli: era l'unico destino concesso. L'infertilità era connessa con la stregoneria e con altre sciagure. D'altro canto, divorziare sembrava straordinariamente facile: bastava posare i mocassini del marito fuori dalla casa.

Di solito è raffigurata senza i segni del vaiolo, con tratti somatici quasi europei (del resto dopo la morte ai gesuiti sembrava "più chiara").
non molto credibile
Kateri però non voleva sposarsi. Quando le presentarono un pretendente (a 14 o a 17 anni), se la squagliò senza tante cerimonie. Ora faccio l'avvocato del diavolo: Kateri non era un buon partito. Non per via delle origine algonchine, dal momento che l'abitudine a rimpolpare le famiglie con prigionieri di altre tribù aveva reso gli irochesi un melting pot più amalgamato del nostro: dopo l'epidemia del vaiolo del 1662 gli etnologi calcolano che il 90% dei mohawk non fossero di origine mohawk.

Nella stessa epidemia però Kateri aveva perso la famiglia e la bellezza: i segni del vaiolo le sfiguravano la fronte. Aveva anche una vista assai debole, il che non le impediva di essere un'artigiana molto abile. La zia che l'allevava non aveva probabilmente né l'interesse né la possibilità di trovarle un guerriero bello e forte: bisognava arrangiarsi. Le fonti gesuite ovviamente non scrivono così, bensì:
Tekakwitha crebbe senza scuola e senza studio, amante soltanto della solitudine e del lavoro, ma la grazia di Dio la condusse per vie misteriose alla pratica eroica di tutte le virtù, specialmente di quella più sconosciuta agli Indiani, la castità.
E può anche darsi che abbiano ragione; che Kateri non disprezzasse unicamente il suo promesso sposo, ma il matrimonio e il congiungimento carnale in sé. Persone del genere esistono in tutte le culture e a tutte le latitudini. Fu la scelta di non sposarsi - che nella cultura mohawk l'avrebbe portata dritta a un'accusa di stregoneria - ad avvicinarla ai "vestenera", i missionari gesuiti. Ogni villaggio ne aveva uno: lo prevedeva una clausola di una pace da poco firmata coi francesi. Qui bisognerebbe aprire una parentesi enorme sul ruolo dei gesuiti, che abbinavano a una devozione fanatica una duttilità etnologica veramente in anticipo sui tempi. Ovunque arrivano - e arrivano ovunque, sprezzanti dei rischi di martirio - i gesuiti sanno di non trovarsi semplicemente in mezzo a selvaggi, ma al cospetto di culture da interpretare e studiare. Saranno i primi a pubblicare grammatiche giapponesi e azteche; ma a differenza degli antropologi di oggi, che sono portati a considerare ogni popolo come una nicchia da preservare, anche a costo di impedirsi di conoscerla, i gesuiti sono in missione per conto di Dio. La cultura che si portano con sé, dall'Europa sconvolta dalle guerre di religione, la vogliono spargere nel Nuovo Mondo, innestandola su piante autoctone ed esotiche, nella speranza che da qualche parte nella foresta o nella jungla nasca qualcosa di simile a un regno dei cieli, o anche solo una Repubblica di Indios conversi come in Paraguay. Anche in Nuova Francia erano riusciti a farsi intestare delle seignuries, dei feudi. Il piano era infettare le Sei Nazioni come un virus, portando armi e sacramenti.

Un po' più realistico.
più credibile
Quando aveva 12 anni, nel suo villaggio a Caughnawaga si celebrò la decennale festa dei morti. Il cerimoniale prevedeva la riesumazione di tutti i cadaveri morti durante il decennio, i cui spiriti finalmente avrebbero potuto volare verso ovest. Il vestenera Padre Pierron si oppose all’usanza, contestandone la logica: se i vostri morti devono volare, perché li seppellite? Se li seppellite, perché poi li riscoperchiate? E anche da un punto di vista igienico, c’è il rischio di epidemie. Era un discorso pericoloso, e Pierron poté proseguirlo soltanto grazie all’intercessione del capo Oneida Garakontié. L’episodio ci è utile per capire la forza della penetrazione gesuita: Pierron riuscì a convincere i capi a non celebrare la festa, a non onorare più il dio della guerra e a non intraprendere più iniziative belliche sulla base dei sogni. In cambio i francesi si impegnavano ad acquistare castori e a vendere armi da fuoco. In sostanza era la liquidazione della cultura guerriera irochese, ma in quel momento dovette sembrare un buon affare. Garakontié si convertì l’anno dopo; Ganeagowa – il capovillaggio di Caughnawaga nel 1671, dopo aver stabilito una rotta commerciale con un accampamento francese sulle rive del San Lorenzo.

Nei villaggi Mohawk nasceva la contrapposizione tra clan filo-francesi e filo-inglesi. I francesizzanti erano cattolici e meglio armati: i gesuiti riuscivano anche a trafficare armi, benché la cosa non andasse a genio alle guarnigioni francesi. I filo-inglesi difendevano le tradizioni, i riti degli antenati; e anche l’alleanza con gli europei protestanti era a quel punto una tradizione secolare (i protestanti non avevano mai cercato di evangelizzarli; al massimo di ubriacarli con l’acqua-di-fuoco). Gli zii di Kateri erano filo-inglesi e non consentivano ai gesuiti di entrare nella loro casa. D’altro canto erano spesso fuori loro, lo zio a caccia e la zia nell’orto; i gesuiti invece erano liberi di curiosare a casa di chiunque, e presto o tardi padre Jacques Lamberville incontrò anche la diciottenne Kateri.

Facciata della basilica di Sainte-Anne-de-Beaupré, dalle parti di Quebec City.
Facciata della basilica di
Sainte-Anne-de-Beaupré,
dalle parti di Quebec City.
Fu subito deliziato dalle virtù di una ragazza che fino a quel momento non aveva mai studiato dottrina: difficilmente poteva conservare qualche ricordo della madre, morta quando aveva quattro anni, e comunque già in precedenza assimilata alla cultura mohawk. Ma i gesuiti erano diversi da tutte le persone che Kateri aveva conosciuto: non si sposavano, non avevano figli; Kateri desiderava un destino simile. Lamberville fu talmente impressionato dalla sua vocazione da impartirle il battesimo dopo appena un anno di catechismo. Era un evento eccezionale: i gesuiti non avevano molta fiducia nella costanza degli amerindi e li battezzavano soltanto sul letto di morte. Kateri era diversa. Fu Lamberville a darle quel nome, la versione mohawk di “Caterina”, in onore dell’anoressica di Siena. Non sappiamo come si chiamasse in precedenza.

Le fonti gesuite raccontano con dovizia di particolari la vita difficile della conversa Kateri, perseguitata da zie e zii che la volevano sposa e pagana. Monelli del villaggio assoldati per insultarla e prenderla a sassate “al grido di cristiana”. Aggressori inviati dallo zio a “minacciarla di morte facendole roteare una scure sopra il capo”, a cui avrebbe risposto: “Eccomi pronta. Puoi togliermi la vita, ma non la fede”. L’atmosfera diventò veramente pesante solo quando qualcuno mise in giro la voce di una tresca col padre adottivo. Discutendo in pubblico, Kateri lo aveva nominato senza soggiungere, secondo l’uso, l’espressione “mio padre”. Per qualche vecchia malelingua di famiglia questo equivaleva a un’ammissione di colpa.

Ai mohawk filofrancesi, quando se la vedevano brutta, restava la possibilità di scappare nel Canada francese. I gesuiti li aspettavano a braccia aperte: il villaggio che avevano fondato per loro vicino a Salto San Luigi si chiamava Caughnawaga, come quello vecchio dall’altra parte del fiume. Kateri arrivò nel 1677, con una lettera di raccomandazione di padre Jacques.
“Caterina Tekakwitha viene a Salto San Luigi. Vi prego di volervi interessare della sua direzione. Conoscerete presto il dono che vi facciamo; è un tesoro”.
I gesuiti di Salto San Luigi non conobbero mai veramente Tekakwitha. Esteriormente, non fece nulla per deludere le aspettative di chi si immaginava un miracolo di castità, il “giglio dei mohawk”. Le pratiche sadomasochistiche che già probabilmente aveva coltivato al villaggio rimasero confinate all’ambito delle sue nuove amiche, tra cui Anastasia Tegonhatsiongo, che aveva conosciuto sua madre, e l’amica del cuore Maria Teresa Tegaiaguenta. Padre Pierre Chaulenec scrive dell’entusiasmo con cui Kateri si accostò al sacramento della Prima Comunione; della sua dedizione al lavoro e alla preghiera; del pudore che le infiammava il volto vaioloso ogni volta che udiva un complimento. Solo di sfuggita accenna alla sua passione per il flagello, durante sessioni che prevedevano tra le millecento e le milleduecento frustate.

Alla ricerca di un terreno comune, uomini gesuiti e donne irochesi lo avevano trovato nel masochismo. Cholenec aveva introdotto flagelli, cilici e cinture di ferro, nella speranza di soppiantare le torture tradizionali. D’altro canto i convertiti e le convertite avevano la sensazione che i gesuiti non raccontassero tutta la storia. L’idea che il dolore auto-inflitto portasse a un’alterazione della coscienza simile a uno stato mistico era già presente nella loro cultura originale: i flagelli dei gesuiti sembravano suggerire la stessa idea, ma i vestenera sembravano restii a condividere tutti i loro segreti. Nel frattempo Anastasia aveva fondato una confraternita di donne che metteva insieme il meglio delle torture europee e amerindie. Kateri dormiva su un tappeto di spine; si praticava tagli rituali; si bruciava con carboni ardenti e si gettava nel fiume in pieno inverno. Nel giro di quattro inverni era morta: aveva 24 anni. I gesuiti al suo capezzale raccontano che il volto, dopo la morte, perse ogni segno del vaiolo e divenne bellissimo. Anastasia la vide risorta ai piedi del suo stesso letto, con in mano una croce luminosa. Maria Teresa udì soltanto la sua voce nel bosco: Di’ al padre che vado in cielo, Adieu. Sulla sua tomba scrissero Ownkeonweke Katsitsiio Teonsitsianekaron, “il più bel fiore mai cresciuto tra i pellerossa”.

La sua venerazione, immediatamente promossa dai gesuiti, incontrò numerosi ostacoli: nel Settecento dopo la guerra dei Sette anni i francesi abbandonarono il Nordamerica; nel frattempo l’ordine gesuita veniva sciolto. Anche gli irochesi furono sconfitti da George Washington (“il Distruttore di Città”). Nel Settecento viene ricordato almeno un miracolo – necessario per qualunque causa di canonizzazione: un gesuita avrebbe curato un bambino protestante dal vaiolo con un frammento ligneo della bara di Kateri – prima però il bambino aveva dovuto convertirsi al cattolicesimo.

A prendere sul serio la causa di Kateri fu la comunità cattolica statunitense, che a metà Novecento non poteva ancora vantare un santo autoctono. Nel 1943 – un anno delicato per i rapporti con gli USA – Pio XII si limitò a dichiararla venerabile. Persino Giovanni Paolo II, il più grande canonizzatore di tutti i tempi, si contentò di renderla beata, segno che alla gerarchia la ragazza mohawk che amava le frustate non è mai realmente andata a genio. Non le hanno nemmeno dedicato una chiesa: soltanto una cappella nella chiesa di S. Francesco Saverio, a Montreal. Kateri è diventata santa a tutti gli effetti soltanto nel 2012, in una delle ultime cerimonie di canonizzazione celebrate da Benedetto XVI. Oggi il vecchio accampamento di Caughnawaga si trova all’interno dell’area metropolitana di Montreal: vi hanno sede almeno una decina di casinò on line, e pare ci sia un fiorente commercio di sigarette di contrabbando.

Prima ancora che le gerarchie cattoliche si interessassero realmente a lei, nel 1966 Kateri era diventata un’eroina di primo piano nel complesso romanzo di un giovane e brillante scrittore canadese, Beautiful Losers. L’insuccesso spinse il suo autore ad abbandonare la letteratura e a concentrarsi sulle canzoni; peraltro se era riuscito a sfondare Bob Dylan, con quella voce, avevano tutti quantomeno il diritto a provarci, no? Si chiamava Leonard Cohen.

domenica 12 aprile 2020

Quel patrono è nero nero

12 aprile – San Zen(o) di Verona (300-371), nero, nero, comm'a che!


Io non capisco a volte che succede:
Cosa g'avra da rider
che quello che si vede non si crede, non si crede.

Con tutti i posti al mondo, un santo nero
si venera a Verona.
Pensa un po', lo chiaman Zeno;
(o anche Zen: ma meglio Zeno).

Seh, chiamalo anche Zen...
Zen, Zenone o che vuoi te:
che si chiami Giorgio o Antonio,
Pietro, Paolo oppure Zeno,
quel patrono è proprio nero,
nero nero:
pensa te.

Sostengon gli studiosi che è normale:
"Non sono fatti rari, se ne conta centinaia".
Ce n'è tanti in Sicilia, e anche Agostino,
se vuoi farci le pulci, più che bianco è tunisino.

Seh, tunisino, seh...
Seh, siciliano seh...
Che sia punico o abissino, mauritano o brasilero,
c'è a Verona un santo nero, nero, nero!
Pensa te.

Ha detto l'ortolano: beh, vediamo,
perché se ragioniamo questo fatto lo sbrogliamo.
Se l'Adige va in piena, io lo prego.
Di solito funziona; se poi è nero, me ne frego.

Eh, sì, fregatene, vero,
tu, che hai un patrono nero...
Ruba il posto ai santi bianchi! E domani poi tua figlia
avrà nero anche il Romeo che al balcone già si appiglia.

(Buona Pasqua a tutti e scusate, è un periodo così).

lunedì 6 aprile 2020

Il più efferato eccidio



Murder Most Foul (singolo di Bob Dylan, pubblicato all'improvviso il 27/3/2020)

Il disco precedente: (Tempest)
Fu un giorno nero a Dallas, novembre ’63,
giorno d’infamia per l’eternità...



Buongiorno a tutti, mi chiamo Leonardo e se leggete il Post da un po' forse mi conoscete per quella menata interminabile che sto facendo sulle canzoni dei Beatles – ecco, prima di quella ce ne fu ancora più interminabile sui dischi di Bob Dylan: l'idea era scrivere un pezzo su tutti i dischi del premio Nobel più pazzo della storia della Letteratura, uno alla settimana, e dopo un anno non era ancora finita. Gettai la spugna in occasione di Tempest, il suo ultimo disco di inediti. Davanti a me avevo ancora i suoi tre dischi di cover di Sinatra (il terzo dei quali, appena uscito, era triplo) e non sapevo davvero come affrontarli. Del resto intuivo già che sarebbe stato uno sforzo vano: anche se avessi avuto la velocità di reazione di Achille, sapevo che Bob la Tartaruga avrebbe continuato ad allontanarsi: qualche mese dopo uscì un cofanetto imprescindibile sul suo periodo gospel, qualcosa tipo otto cd.

In seguito che altro è uscito, dunque: #1, un'antologia doppia dei live '62-66 (i ventenni che lo andavano a fischiare al tempo oggi si svenano per acquistare i cofanetti deluxe); #2, un disco con le versioni alternative di Blood On the Tracks, che oltre ad avere un indubbio valore storico sono anche un ascolto gradevole per chi non dedica a Dylan la sua esistenza; #3, la colonna sonora del film che Scorsese ha dedicato alla sua Rolling Thunder Revue; #4 un'altra collezione di versioni alternative del suo periodo country, con tanti duetti con Johnny Cash... e poi qualche giorno fa, forse ne avete sentito parlare, sulle piattaforme di streaming è comparsa all'improvviso una cantilena di 16 minuti intitolata Murder Most Foul ("il più efferato delitto" in inglese shakespeariano). Ora, per quanto non sia il più semplice degli ascolti, si tratta del primo inedito di Dylan dopo otto anni: una pausa ancora più lunga di quella che si prese quasi per tutti gli anni Novanta, tra Under the SkyTime Out of Mind. Non che nel frattempo se ne sia stato zitto e fermo, il Bardo:  ha inciso cover su cover e continuato il suo cosiddetto "tour infinito", che negli anni buoni lo ha portato a suonare più di cento concerti all'anno. Murder Most Foul è comunque il primo brano dopo una lunga astinenza volontaria e... dobbiamo proprio dirlo? Potrebbe anche essere l'ultimo.



Dylan in maggio compirà 79 anni. Non è un periodo semplice per gli anziani, questo: soprattutto per gli anziani che non sanno restare fermi e Dylan a volte è sembrato quel tipo di anziano. Un suo ex chitarrista si è già preso il coronavirus dopo aver suonato a un concerto: ci suonava anche Jackson Browne e pare l'abbia preso pure lui. Speriamo che Dylan abbia preferito stare in casa, memore magari di quella brutta istoplasmosi che nel '97 rischiò di fare di Time Out of Mind un disco postumo.

E però anche questa scelta di pubblicare una canzone all'improvviso, proprio adesso... è un brano su Kennedy, realizzato "qualche tempo fa", il che potrebbe voler dire in qualsiasi momento degli ultimi otto anni. Ci sono molti dettagli che fanno pensare che Murder sia più vicino a Tempest di quanto la data di uscita non ci faccia credere. Il più appariscente è il shakespearismo, se il titolo di Tempest era (come Dylan negò) un'allusione all'ultima opera di Shakespeare. Ultimamente Dylan pensa spesso a Shakespeare, non tanto come a un autore da cui prendere in prestito soluzioni, quanto a uno dei pochi colleghi col quale si può ancora confrontare – vedi quel brano spassoso e molto illuminante del suo bigliettino di ringraziamento agli accademici di Svezia, in cui confessa candidamente che dopo aver ricevuto la notizia del premio il primo autore che gli era venuto in mente era quello dell'Amleto, con le sue preoccupazioni più e meno banali (“Voglio veramente ambientarlo in Danimarca?” [...] “Dove posso procurarmi un cranio umano?”). L'avvicinamento ideale a Shakespeare spiega in parte un certo gusto per le descrizioni violente, gli eccidi e le stragi, che è un altro aspetto di Tempest che ritroviamo echeggiato in Murder (l'insistenza sul dettaglio di quel cervello a pezzi). E come in Tempest, Dylan non si preoccupa di esercitare un minimo di violenza anche sull'ascoltatore, infliggendogli un brano lunghissimo in cui la gabbia delle strofe si ripete uguale all'infinito. Murder potrebbe persino essere uno scarto di Tempest, per quel che ne sappiamo: e allora perché pubblicarlo proprio adesso?

Amleto (nel senso di Laurence Olivier)

Un manager accorto – quel tipo di persona che Dylan non ascolta da mezzo secolo – gli avrebbe suggerito di aspettare un anniversario, se non il classico 22 novembre almeno il 29 maggio in cui l'ex presidente avrebbe compiuto 97 anni. Avrebbe avuto senz'altro più copertura, oggi che le canzoni si ascoltano in streaming e un link giusto da un organo d'informazione può voler dire milioni di ascolti in più... ma Dylan non ascolta nessuno, appunto (nemmeno sé stesso: continua a fare concerti proibendo a tutti di registrarli: tra tutti i dischi che pubblica, non esiste un'incisione ufficiale degli ultimi vent'anni di esecuzioni dal vivo). Può darsi che sia il modo tutto suo che ha trovato Dylan per dirci che sta bene – vi ricordate nei primi giorni del lockdown, quando un sacco di vip faceva le dirette streaming? Poi immagino abbiano smesso, io ricordo soltanto Jovanotti che suonava la chitarra per chiunque passasse, una cosa anche simpatica in fondo, una specie di panopticon però coi like e i cuoricini, se uno ha voglia di vedere come sta Jovanotti si sintonizza, ah ecco, suona la chitarra, sembra tutto ok, e Dylan invece? Dylan pubblica sedici minuti di peana sulla morte di Kennedy. Ok.

Ok cosa?

Ok boomer.



Cioè davvero mentre il mondo trema e si domanda come fronteggiare la prima vera pandemia mondiale e tutte le altre crisi economiche e ambientali che ne seguiranno – davvero questo epico reduce dei Sessanta è ancora lì a girare intorno al suo eterno chiodo fisso? Esatto, Dylan è ancora lì e non si muove. La sensazione è proprio quella di non potersi muovere, all'interno di un lockdown mentale che fa impallidire il nostro: poverini, siete in casa da un mese? Io sono rinchiuso nella mia testa da quasi 60 anni. Vi guardate le serie su Netflix? Io guardo il filmato di Zapruder 33 volte in una sera ("È orrendo, un inganno, è crudele, è cattivo, la cosa più brutta che si possa vedere..." ed è l'unica che gli manda in onda il cervello). Murder è una cantilena, non lo dico per offenderla, mi sembra la definizione tecnica più precisa. Una filastrocca tirata per le lunghe da un bambino posseduto. E va bene, illustre Dylan, abbiamo capito che è stato un trauma, il vero choc, la Fine di tutte le Speranze, ma anche l'Inizio, o forse l'Inizio di una cosa che era Finita sul nascere? Un'omega travestita da alfa? L'inizio di una linea temporale sostanzialmente sbagliata da cui Bob ha sempre voluto prendere le distanze – la tempolinea in cui ha rinnegato la sua militanza politica, ha incontrato i Beatles e si è improvvisato rockstar, ha fatto i veri soldi, poi si è quasi ammazzato in moto, ha tentato di nascondersi nel country, eccetera eccetera eccetera. Ecco, tutto questo Dylan sembra considerarlo completamente sbagliato, la deriva inevitabile di quel singolo momento ignominioso in cui spaccarono il cranio al presidente che sfilava per Dallas. Il peccato originale. Siamo perduti da quel momento, sembra volerci dire Dylan: e anche se avesse ragione, sentirla ribadire per sedici minuti non fa esattamente bene all'umore. Non potrebbe semplicemente strimpellare qualcosa come un Jovanotti qualsiasi, giusto per farci sapere che sta bene? No, Dylan è prigioniero di un incubo che torna sempre al momento dello choc primigenio. Se i sintomi nevrotici avessero diritto a una canzone, a Murder Most Foul toccherebbe la coazione a ripetere.



Anche l'ascoltatore che ha una certa esperienza delle interminabili litanie di Tempest, ci mette almeno un minuto su sedici a rassegnarsi all'idea che la filastrocca non è l'inizio in sordina di una canzone un po' più strutturata, e che basso chitarra e violoncello continueranno a cincischiare così all'infinito. Murder Most Foul non è solo una canzone che non finisce mai: è anche una canzone che non inizia mai, un'epica interrotta sul proemio, un Amleto senza vendetta, la storia di un Cavaliere che partiva per liberare l'America ma gli sparano alle spalle quando è appena uscito dal ponte levatoio.  Ricorda un poco l'ultima uscita di un altro grande vecchio la cui strada si era appena incrociata con la sua, Martin Scorsese: o perlomeno la mia reazione di fronte a The Irishman non è molto diversa da quella che ho provato ascoltando Murder:  cioè, aspetta, lo stai facendo di nuovo? Ancora mafiosi italoamericani, ancora ammazzamenti barbari, ancora le collusioni tra sindacato e malavita, ancora i teamsters? Ancora Hoffa? Dopo Stallone, dopo Jack Nicholson, ma non ce l'hanno avuto un altro sindacalista gli americani che ci dovete sempre raccontare della misteriosa scomparsa di Hoffa? Ma insomma illustre Scorsese, cosa potrai dirmi che non so già proprio perché me l'hai raccontato tu o qualche tuo sodale? Che altro potrò notare se non che la tua mano si è fatta più statica e pesante, i tuoi attori più legnosi e segnati da rughe contro cui poco può la computergrafica?

Ecco: Dylan, come Scorsese, sembra rassegnato a non poterci raccontare più di quello che ci ha già raccontato – è come l'anziano che proprio nel momento in cui cominciamo ad aver voglia di ascoltare le sue storie, scuote la testa sconsolato: le ha finite, può solo tornare su quelle che ha già raccontato e raccontarle in tono più greve, ogni volta un po' più greve. E sia nel caso di Dylan che nel caso di Scorsese la cosa è vera solo fino a un certo punto, ovvero: Scorsese di film sulla mafia non ne ha girati poi così tanti (eppure sembra l'autorità in materia); prima di The Irishman non aveva in realtà mai raccontato una storia di collusioni tra malavita e sindacato (eppure è come se lo avesse fatto), non aveva mai diretto Al Pacino (che sembra fatto apposta per i suoi film). E anche Dylan, quante canzoni aveva dedicato al caso Kennedy prima di Murder? Forse neanche una. Alcune poesie dattilografate a caldo (la più toccante dedicata a Jacqueline Kennedy), che non si trovano nemmeno nel sito ufficiale, e poi un apparente silenzio di 60 anni. L'idea che Dylan sia da sempre ossessionato dall'assassinio Kennedy è uno strano effetto ottico, un trucco di prospettiva. Proprio come Scorsese, che oltre a tornare su un tema già sviluppato (la mafia), si affida a elementi che già altri hanno reiterato prima di lui, non cita soltanto sé stesso ma anche il Padrino di Coppola e il Sergio Leone di C'era una volta in America; in un modo simile Dylan non sta raccontando l'assassinio Kennedy, ma attingendo dall'enorme mole del racconto collettivo che ne esiste già, piazzando qua e là veri e propri indovinelli per i conoscitori più esperti (nel distico “Slide down the banister, go get your coat/Ferry cross the Mersey and go for the throat" c'è un criptico riferimento a due agenti FBI coinvolti nell'inchiesta, Guy Banister e Dave Ferry).

Chi?

Proprio come Scorsese che non si preoccupa di raccontare un'epopea mafiosa già cristallizzata da altri autori, allo stesso modo Dylan non si preoccupa affatto di ratificare, con Murder Most Foul, una leggenda smentita dagli storici ma in qualche modo più forte dell'evidenza: l'idea che la Beatlemania sia stata la reazione morale del popolo americano – o almeno della gioventù americana – alla morte di Kennedy. È un'idea affascinante che abbiamo sentito raccontare tante volte, forse mai tanto icasticamente quanto nella beatle-biografia di Philip Norman, Shout!
L'America – Brian [Epstein] non lo sapeva ancora – era già sua: si stava avvicinando alla sua conquista, senza accorgersene, mentre, lontano nel Texas, qualcuno puliva e controllava il meccanismo di un fucile ad alta velocità e sceglieva un punto favorevole da cui far fuoco. L'America si arrese a lui quella mattina di Dallas in cui il corteo presidenziale si mise in moto, estremamente fiducioso e aperto alla luce del sole, e un cineamatore, sul bordo del marciapiede, rivolse la sua cinepresa verso la limousine che trasportava un giovane uomo col capo scoperto. Era il 22 novembre, il giorno in cui, in Inghilterra, fu messo in vendita il secondo album dei Beatles...
Questa idea – la Beatlemania come elaborazione del lutto, o forse come mancata elaborazione collettiva del medesimo – è ormai un luogo comune della storia del costume americano; un po' l'equivalente di quando in Italia si racconta che il Sessantotto è finito con Piazza Fontana o gli anni di Piombo col Mundial 1982. Avevo trovato un nome per queste cose – forrestgumpismo, ecco, non era proprio un gran nome, ma Dylan non è mai stato tanto forrestgumpista come in Murder Most Foul, quando dopo due minuti di elegia sembra per un attimo voler ingrandire il campo: "Hush little children you'll understand: the Beatles are comin’, they're gonna hold your hand". A questo punto se non avessimo sentito la stessa leggenda da decine di altre bocche, forse il riferimento ci sfuggirebbe, e invece lo diamo per scontato: hanno ucciso Artù, e ora dal mare arriveranno questi simpatici cavalieri del disimpegno, a incantare e perdere un'intera generazione. E sappiamo anche che Dylan non si sente affatto incolpevole di tutto questo, perché c'era anche lui ad aspettare i Beatles, a offrirgli il primo tiro di joint, convinto che i Beatles conoscessero già le proprietà lenitive della cannabis e che I Want to Hold Your Hand nascondesse riferimenti a tali proprietà. Sappiamo, perché l'abbiamo letto e straletto, che anche se Dylan non ha mai scritto una canzone su Kennedy, ne ha scritte due o tre sulla figuraccia che fece almeno un mese dopo, quando a una cena progressista volevano premiarlo in quanto cantante progressista e lui si mise a dire che si sentiva un po' Oswald e capiva i suoi giovani amici che andavano a Cuba a prendere lezioni di rivoluzione. Sappiamo che quell'episodio non fu (solo) la tipica tirata di un ubriaco che si autopunisce, ma il momento topico di una drammatica svolta di carriera che l'avrebbe portato in pochi mesi da principe del folk militante ritratto su seriosi LP in bianco e nero a rockstar sbruffona con gli occhiali scuri e 45 giri in classifica. Sappiamo tutto questo perché è stato già scritto e riscritto, in una marea di testi che si citano a vicenda, ovvero si tratta di un vero e proprio Canone: il canone dei boomer americani. C'era Kennedy che portava un certo tipo di speranza, ma gli spararono e allora vennero da Liverpool quattro ragazzini con un altro tipo di speranza, e poi fu Woodstock e poi Altamont, Dylan le cita entrambe e chi è previsto sappia non ha bisogno di note a pie' di pagina: è già stato tutto inciso sulla Colonna Traiana dei boomer. In effetti ci sono momenti in cui il citazionismo sembra prendergli la mano, e l'ascoltatore comincia ad avere il sospetto che il vecchio Dylan stia cercando di fare quello che trent'anni fa fece, con più sintesi e sfoggio di virtuosismo, Billy Joel in We Didn't Start the Fire: la storia di una generazione per citazioni, un affresco realizzato con la tecnica del namedropping.



Ci sono in effetti momenti in cui Dylan sembra adottare la stessa tecnica di evocazione di un periodo mediante nomi e frasi fatte, ma in modo meno meccanico e consapevole – a volte sembra condannato a ricorrervi, come il personaggio non troppo secondario della storia che sta raccontando. Lo si sente in alcune citazioni incongrue, che hanno un senso ma allo stesso tempo sembrano maldestre – la più eclatante per me è quella da Tommy degli Who, che se non sbaglio è la prima prova che abbiamo che Dylan abbia mai ascoltato Tommy o qualsiasi altro disco del gruppo di Pete Townshend.
Tommy, mi senti? Sono la Regina dell’Acido,
viaggio in una Lincoln limousine, lunga e nera,
sul sedile posteriore di fianco a mia moglie
e per destinazione l’aldilà.
L'idea che nel percorso verso l'oltretomba il presidente abbia potuto incontrare l'Acida Regina di Tommy sorprende come l'orologio da polso in un peplum romano. Più in là Dylan invita Wolfman Jack, il Dj Lupo Solitario di American Graffiti, a suonare per il funerale: segue una lunga playlist che prende una buona parte del pezzo e identifica un altro canone, quello della musica popolare americana prima della caduta (prima della beatlemania). Tutto abbastanza chiaro salvo che a un certo punto esce fuori... Another One Bites the Dust. A questo punto confesso di avere googlato in lungo e in largo alla ricerca di una canzone americana con lo stesso titolo perché l'idea che in un elenco simile, tra la sigla di Twilight Zone (Ai confini della realtà) e il gospel The Old Rugged Cross, ci fossero i Queen, mi urtava più del proverbiale cavolo a merenda. E invece no, e invece Dylan probabilmente ha in testa proprio i Queen e in particolare quel ritornello decontestualizzato: Eccone un altro che morde la polvere.

Sono dettagli dissonanti, sbavature più o meno consapevoli che in un certo senso ci confortano sul fatto che Dylan è ancora il vecchio Dylan, e non è stato sostituito da un generatore di testi di Dylan. Murder Most Foul ricorda, infine, quella che fino a un mese fa in quanto ultima nella scaletta di Tempest bisognava considerare l'ultima canzone di Bob Dylan, Roll On John. E se da una parte era commovente pensare che Dylan si congedasse dalla scena letteraria con un omaggio all'amico e collega John Lennon, dall'altra lasciava perplessi la confezione dell'omaggio, una specie di trasfigurazione mitica della sua breve vita in cui ogni tanto si infilavano citazioni lennoniane risaputissime e abbastanza fuori contesto ("Come together right now over me" non è proprio la prima cosa che ti verrebbe da cantare a un amico caduto), e poi alla fine senza nessun apparente motivo al mondo un celeberrimo verso di Blake, Tyger, tyger, burning bright... Ecco, in Murder Most Foul c'è la stessa volontà di creare una mitologia partendo da riferimenti che tutti i coetanei di Dylan possono cogliere al volo, con qualche dettaglio dissonante che in un altro autore stonerebbe e basta, ma che in Dylan ci conforta in qualche modo sulla genuinità del prodotto – in fondo è Dylan, ha sempre fatto un po' di casino con nomi e date e luoghi. E quindi insomma alla fine sta bene. Il nostro vecchio Dylan. Sì, da qualche parte nello spaziotempo c'è un Dylan migliore che non ha mai dichiarato di essersi sentito Oswald perché Oswald non ha mai assassinato Kennedy, un Dylan che ha continuato a credere nelle canzoni che cambiano il mondo e magari l'ha pure cambiato e adesso è ministro per l'Agricoltura della Repubblica Socialista Democratica Panamericana. Ma anche il nostro Dylan qualcosa di buono l'ha fatto, dai. Abbiti cura, Stay safe stay observant and may God be with you.



Gli altri dischi di Bob Dylan: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the GrooveDylan and the Dead1988The Traveling Wilburys Vol. 11989Oh Mercy1990Under the Red SkyTraveling Wilburys Vol. 31991The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased)1992Good As I Been to You1993World Gone Wrong, 1994MTV Unplugged1997Time Out of Mind2001“Love and Theft”2006: Modern Times2008Tell Tale Signs2009Together through LifeChristmas in the Heart2012Tempest2020: Murder Most Foul.

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