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In principio forse c'erano le orme di due piedini in una lastra di basalto lavico. La trovate ancora oggi a Bolsena, nella grotta di Santa Cristina: vi si accede dall'omonima basilica. Si tratta di un reperto singolare, ma non così eccezionale: anche solo in Italia di tracce umane nella pietra lavica ne abbiamo trovate diverse, al punto da farci pensare che forse non siano tutte orme di malcapitati che sfuggono da un'eruzione imprevista. Attorno a un paleovulcano casertano sono state rinvenute addirittura impronte in salita: ovvero, chi le ha lasciate stava andando verso l'eruzione. Doveva evidentemente avere degli ottimi motivi (che ci sfuggono) ed essere munito di qualche specie di zoccolo – e infatti le orme sono prive delle fessure tra le dita. Anche i piedini di Bolsena sembrano essere calzati. Le impronte sono un po' troppo profonde per essere state lasciate da un viandante frettoloso, ma probabilmente la pietra è stata in seguito levigata per evidenziare tracce che in origine erano più leggere. Siccome il basalto grigio è tipico della zona, chi ha lasciato le orme dovrebbe essere passato nei pressi quando almeno uno dei sette crateri vulcanici era ancora attivo: minimo trecentomila anni fa. Troppo presto per gli homo sapiens e anche per i Neanderthal; potrebbero essere orme di altre creature viventi, poi ritoccate dall'uomo in un secondo momento: oppure tracce di un più antico nostro progenitore, un homo heidelbergensis già molto curioso dei fenomeni vulcanici, e in grado di confezionare calzature già discretamente efficaci. O una progenitrice: per secoli in effetti la taglia ha fatto pensare che si trattasse di piedi femminili. Con l'avvento del cristianesimo, almeno a partire dal IV secolo, diventeranno i piedi di Santa Cristina, impressi sulla pietra a cui era legata e che, nell'intenzione del padre, avrebbe dovuto portarla col suo peso nel fondo del lago. Ma Dio aveva altri piani: la pietra diventò un galleggiante di una consistenza abbastanza morbida, su cui Cristina avrebbe lasciato le sue impronte. Il nucleo primario della sua leggenda potrebbe essere questo: c'erano due orme nella pietra, nessun vulcano attivo da centinaia di migliaia di anni, qualcuno sentiva la necessità di spiegare la cosa.
Cristina morta, scultura di Benedetto Buglioni, Basilica di Santa Cristina, Bolsena. |
Rivediamola. Il fatto che alcuni martirologi greci ne collochino il martirio a Tiro, in Libano, potrebbe essere il risultato di un malinteso dovuto a un'abbreviazione ("Tyr"), che in un manoscritto perduto avrebbe alluso alla Tyrrhenia, la regione degli Etruschi. Sin da bambina, Cristina è consacrata dal padre agli dei pagani e reclusa come vergine vestale, in una torre, come Santa Barbara. Ma essendo segretamente cristiana, Cristina gli dei pagani non li sopporta e anzi ne distrugge le statue, come Santa Marciana. Il padre – ufficiale dell'esercito – si arrabbia molto contro questa undicenne impertinente, e ne diventa il più violento persecutore: la fa flagellare e la condanna al supplizio della ruota, come Santa Caterina: niente da fare, tre angeli scendono dal cielo e la guariscono. È a quel punto che il padre propone di legarla alla pietra (nei quadri di solito è una mola) e buttarla nel lago: ma Cristina si salva anche stavolta. Il fatto che il padre muoia a questo punto dalla rabbia (mentre la figlia se la ride) è un altro indizio a favore dell'ipotesi che in un primo momento la leggenda finisse qui, e che l'episodio del tentato annegamento ne fosse il punto cruciale. Ma non bastava: anche gli agiografi devono dare alla gente quello che la gente vuole, e la gente a quanto pare vuole più supplizi. E anche più miracoli, certo. Ma soprattutto più supplizi.
Giovan Francesco d'Avanzarano (1459) |
Cristina, insomma, prima di diventare una santa potrebbe essere stata una dea e questo spiegherebbe il nome – un anacronismo enorme, se davvero l'avesse scelto un padre fieramente pagano. Ma se Cristina era la dea Angizia, è possibile che nel momento di trasformarla in una santa, i fedeli non si siano rassegnati subito all'idea di venerare una vergine tra tante. A Sepino, in provincia di Campobasso, l'anniversario dell'ingresso delle reliquie nella chiesa del Salvatore è festeggiata come una seconda epifania: alla santa viene offerto su un vassoio oro, incenso e mirra. Sono i doni dei Magi a Gesù Cristo; Cristina significa ovviamente "di Cristo", ma è anche il nome femminile più prossimo a Cristo stesso: non una martire qualsiasi, ma una semidivinità che racchiude tutte le martiri, ne patisce tutti i supplizi e come Cristo resuscita ed è resuscitata.
Tornando alla leggenda, Cristina deve patire ancora la mutilazione delle mammelle (come Sant'Agata) e della lingua: quest'ultima viene scagliata dalla santa contro il boia, accecandolo. Infine viene trafitta nella gola dagli arcieri (come San Sebastiano). In questo modo i bolsenesi riunivano in una sola figura la protettrice dai morsi di serpente, dalle infezioni del cavo orale, nonché la patrona dei mugnai (perché era stata legata a una macina), dei marinai e degli arcieri. Con tutto questo, sarebbero riusciti a farsi sottrarre le reliquie nell'XI secolo da due pellegrini che le avrebbero portate, appunto, a Sepino; da lì poi i resti (fatta eccezione per un braccio, rimasto a Sepino) sarebbero giunti a Palermo, dove Cristina conobbe un momento di grande popolarità a Palermo, prima della riscoperta di Santa Rosalia. Ai bolsenesi restava la lastra, che per secoli fu usata come pietra di altare; ma era già stata sostituita nel 1263, quando davanti agli occhi di Pietro di Praga (che segretamente dubitava del sacramento dell'Eucarestia) un'ostia avrebbe gocciolato sangue sulla lastra marmorea dell'altare, che è tuttora custodita nella stessa cappella e che ha un po' eclissato il più antico culto per le orme della santa. Segno che le antiche tradizioni locali cominciavano a essere meno comprese, e che il borgo sentiva la necessità di collegarsi alla religiosità ufficiale, e alla gerarchia romana.
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Catacombe di Anagni. |
Elia è il protagonista di una delle pagine più poetiche della Bibbia – per lo meno oggi a noi suona poetica; chissà come suonava quand'è stata scritta, ma insomma nel capitolo 19 del primo libro dei Re, Elia è così preoccupato per la situazione che decide di andare a trovare il Signore direttamente sull'Oreb/Sinai, dove Egli aveva già parlato a Mosè. È il primo dopo Mosè a salire sul monte. Dopo 40 giorni e 40 notti di cammino e una breve anticamera in una grotta, una voce gli dice di uscire e fermarsi alla presenza del Signore. "Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l'udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all'ingresso della caverna".
Questo Dio, che dopo aver promesso fuochi e fulmini si manifesta con una brezza leggera, è molto poetico, ma ciò che reputiamo 'poetico' molto spesso non è che il fraintendimento di una frase o di un segno che hanno perso il loro significato originario: come se la poesia fosse quel che resta di una preghiera quando non credi più nel dio a cui era indirizzata. Forse l'autore pativa il caldo come noi e voleva semplicemente farci notare come non ci sia nulla di più divino di un filo di vento fresco; forse era un monoteista duro e puro e ci teneva a distinguere la Divinità dagli elementi della natura (Dio manda il fuoco, ma non è il fuoco; manda il terremoto, ma non è il terremoto, ecc); distinzione quanto mai necessaria nelle storie di Elia, profeta associato al fuoco e alla folgore, il quale più di una volta dà la sensazione di non essere esattamente un uomo, o almeno di esserlo diventato solo a un certo punto della tradizione. Un bel paradosso, dal momento che di questa tradizione Elia è arcigno difensore.
Il suo nome non può non ricordarci quello del Dio-Sole dei Greci, Helios: costui porta la luce sulla terra guidando un carro infuocato nel cielo, un'immagine tipica del folklore indeuropeo con cui gli ebrei avrebbero potuto venire in contatto durante la dominazione persiana. Elia invece salirà in cielo, primo tra i mortali, su un "carro infuocato". Ma forse è solo una coincidenza: in ebraico il suo nome non ha niente a che vedere col sole, bensì contiene in poche lettere due volte il nome di Dio. È un manifesto preciso: El è Yah, ovvero Elohim e JHVH, i due nomi che nella Torah sono usati per indicare la divinità, sono lo stesso Dio, il quale essendo il punto di partenza di tutti i significati non può che essere definito in modo ricorsivo: Dio è dio, l'Ente è colui che è, e a Mosè lo aveva pur detto: io sono colui che sono.
"Dio è il Signore": sembra una tautologia, ma nel IX secolo avanti Cristo, nel regno settentrionale di Israele (separato dal regno di Giuda, da Gerusalemme in giù), il monoteismo non se la sta passando così bene: il re Acab ha sposato una principessa-sacerdotessa fenicia, Gezabele, e sta promuovendo il culto fenicio di Baal, dio del tono e della folgore: ed ecco che il passo riportato sopra assume un significato diverso. Anche Elia ha la facoltà di scagliare folgori; questo non fa di lui ovviamente un Dio (solo El è Yah!), ma forse gli va stretta anche la definizione di profeta. I profeti per lo più si lamentano; indirizzano ai potenti della terra lunghe tirate grevi di minacce; Dio parla loro attraverso illuminazioni o visioni. Anche Elia qualche volte si lamenta e minaccia re Acab e consorte, ma in linea di massima è un uomo d'azione, che mostra il potere dell'unico Dio compiendo straordinari prodigi. Anche il suo rapporto con Dio non sembra indiretto e sfuggente come quello dei suoi colleghi: Elia non ha visioni, se vuole sapere cosa Dio vuole da lui deve andarlo a trovare (sull'Oreb). Sul monte Elia non riceve illuminazioni, non sperimenta visioni; Dio gli parla come un boss a un sottoposto, impartendo ordini secchi e chiari. Più che coi Profeti, Dio tende a comportarsi così con gli angeli. Esseri soprannaturali, non necessariamente alati, ma di certo esecutori materiali della volontà di Dio, che molto spesso prevede stragi e distruzione. Condividono tutti la radice "El" nel nome (Michele, Gabriele, Raffaele); in particolare Elia sembra la risposta alla domanda contenuta nel nome dell'arcangelo Michele, "chi è come Dio"? JHVH è Dio: gli altri non sono nemmeno Dei, bensì falsi idoli. È un'idea rivoluzionaria, che Elia propone in un momento in cui si dà per scontato che ogni popolo abbia i suoi Dei, e che gli incontri/scontri tra due culture contemplino l'ampliamento sincretico dei rispettivi pantheon. No, obietta Elia: esiste un solo Dio (il suo), e non si difende con le parole, ma coi fatti: sfidando i sacerdoti di Baal a incenerire, con la sola forza delle preghiere, una vittima sacrificale. I sacerdoti provano ogni espediente (incluse non meglio specificate automutilazioni), ma non ottengono nulla. Elia invece ci riesce al primo colpo: è il passo della Bibbia che più somiglia a un moderno esperimento scientifico, anche se purtroppo non replicabile. Elia punisce i sacerdoti di Baal "scannandoli" tutti e 450, il che ci fa di nuovo sospettare che più che di un profeta si tratti di una creatura angelica, magari equipaggiata con una spada fiammeggiante o qualche altra arma molto efficiente. Anche perché, una volta compiuta la sua missione, Elia è rapito al cielo da un carro di fuoco: destino unico per un profeta dell'Antico Testamento. Questa miracolosa assunzione in cielo – la prima della Bibbia – è la radice di tutta l'ipotesi messianica (se Elia non è morto, forse un giorno tornerà) nonché della leggenda dell'ebreo errante (se Elia non è morto, dov'è? forse sta vagando su questa terra). Il testimone diretto del prodigio, il discepolo Eliseo, ne proseguirà l'opera, compiendo anche lui miracoli spettacolari che però spesso sembrano coppie sospette dei prodigi del vecchio maestro14 luglio: San Camillo de Lellis (1550-1614), infermiere.
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San Camillo salva gli ammalati dell'Ospedale di San Spirito durante l'inondazione del Tevere del 1598. (Pierre Hubert Subleyras). |
10 luglio: Sante Rufina e Seconda, martiri (III secolo)
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Cianfanelli: Lucia e l'Innominato. |
Oltre a non essere né esperto né appassionato, sono proprio scettico sul concetto di martirio: e se un imperatore dopodomani mi costringesse a bruciare incenso agli dei per non perdere il posto di lavoro, credo che apostaterei senza molto sforzo. Magari canticchiando quel vecchio De Andrè che poi è Brassens: Moriamo per delle idee, sì, ma di morte lenta. E quindi perché mi metto a parlare di gente che per le idee si fa bastonare a morte? Beh insomma, lo sapete com'è andata. O no? Forse no, dopotutto è una storia che ormai va avanti da anni. Un giorno ho avuto la bella idea di mettermi a scrivere dei santi del giorno: non ero un esperto ma non intendevo nemmeno scriverne in modo così professionale. Volevo trovare una nicchia, una scusa per avere qualcosa da scrivere quasi tutti i giorni, e l'oroscopo era già preso. Poi certo, venivo da una serie di discussioni (anche su questo blog) che mi avevano dato la sensazione di possedere un punto di vista sulla religione cristiana abbastanza originale; per tanti motivi potevo ritenermene fortemente critico, ma a differenza di tanti critici, la conoscevo. Capivo il significato di certi discorsi che molti miei coetanei ostentavano di ignorare; il che mi permetteva di argomentare in modo più sottile, forse più penetrante (con gli anni ho poi scoperto che non è che ne sapessi granché, ma è così che funziona. Qualcosa nel frattempo l'ho imparato).
Questo avveniva negli anni Dieci, quando il concetto di martirio in Occidente aveva già perso ogni aura di eroismo: i "martiri" sui giornali erano i jihadisti, gente che dirottava aerei o saliva sui mezzi con pettorine esplosive. Tuttora l'idea di morire per le proprie idee riscuote poca simpatia: centinaia di giornalisti possono venire eliminati a Gaza senza che il loro sacrificio passi per eroismo. L'unico reparto mediatico che riconosce ancora una certa nobiltà al martirio è la cronaca nera: lo si vede a ogni femminicidio. Alla fine Rufina e Seconda sono sante più attuali di tante altre, eppure per qualche motivo non ce ne accorgiamo. Soffriamo, credo, di una certa difficoltà a decifrare un passato anche molto più recente. Più ripetiamo di appartenere a una Grande Tradizione Culturale Occidentale, meno ci accorgiamo di quanto ce ne stiamo allontanando.
È una cosa che mi sono messo a pensare mentre leggevo il libretto di Francesco Piccolo sui "personaggi maschili nella letteratura italiana". È un testo che mi lascia fortemente perplesso, se non altro per la superficialità intenzionale dell'autore, che di fronte ad alcune delle pagine più lette e più studiate del nostro canone, decide (sottolineo: decide) di leggerle in un modo che definirei riduzionista, come esempi di maschilismo violento e irredimibile. "È per questo motivo che il titolo di questo libro è una frase tra quelle indimenticabili della letteratura italiana, ed è pronunciata da una donna, Lucia, nel punto più estremo dello sfinimento e dell'arrendevolezza". Piccolo – che presumo abbia conosciuto i Promessi Sposi per la prima volta nella famosa scuola gentiliana di cui si racconta che gli insegnanti ammorbassero gli studenti con infiniti temi sulla "spiritualità nel Manzoni" è convinto di questa cosa: che Lucia dica "Son qui: mi ammazzi" perché non ne può più e vuole arrendersi. Lo scrive nel titolo, nella prefazione, e poi nel capitolo specifico. "Lucia è sfinita, indifesa; la sua è una resa totale". "Dopo essersi difesa dalle molestie di don Rodrigo, qui Lucia riconosce una forza, una potenza che lei non può combattere, e si abbandona"... "è consapevole di essere giunta davanti al punto più alto del potere che le è consentito di conoscere, e allo stesso tempo sa di essere caduta nel punto più basso, perché alla fine non ha più la forza e la possibilità di ribellarsi. È completamente nelle mani dell'innominato". Piccolo scrive così.Manzoni invece scrive: "Son qui: m'ammazzi". Che considerato il contesto, e considerata la cultura di Manzoni e dei suoi lettori, non si può davvero definire una frase arrendevole. Tutto il contrario: è una frase eroica, che potrebbe stare sulle labbra di una martire del calendario. Hic sum tibi necanda, qualcosa del genere, qualche agiografo una frase del genere l'avrà scritta (e qualche martire l'avrà detta). Centinaia di esempi che Manzoni aveva in mente, perché per lui il cristianesimo era una cosa seria, una scelta di vita, una cultura da riscoprire e da rivivificare. Per Piccolo no. Piccolo sembra non intenzionato a capire che per Lucia scegliere di essere ammazzati è un'opzione; Lucia ne aveva altre a disposizione, ma non le sceglie, perché non è la tipica ragazza incauta che si fida del ganzo sbagliato e finisce in prima pagina, bensì l'eroina di un romanzo cattolico che sta per salvare un criminale dalla dannazione eterna. Basterebbe anche solo dare un'occhiata più attenta alla pagina in cui Lucia pronuncia le famose parole, in risposta a un Innominato che nasconde il suo turbamento sotto una sollecitudine orribilmente maliziosa: "Alzatevi, chè non voglio farvi del male... e posso farvi del bene". Che razza di bene potrebbe fare, l'Innominato, a Lucia che ha appena fatto rapire?
Di fronte a questa possibilità, che l'Innominato invece di farle del male voglia farle "del bene", Lucia non si alza (sdegnando l'Innominato che si trova costretto a ripetere l'invito: non ci è abituato; nessuno osa comportarsi così in sua presenza). Lucia si drizza un po', ma rimane "inginocchioni", e pronuncia la fatidica frase "giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine": ma è essa stessa un'immagine. Diciamola tutta: è un santino. L'Innominato, di cui Lucia ignora i contorcimenti interiori, le ha proposto due pillole: una farebbe "male" (torture, violenze, morte), l'altra farebbe "bene": seduzione, atti impuri, compromissione. Lucia decide, in perfetta coerenza con la propria fede e la propria condotta: non voglio il tuo "bene" (ovvero: non voglio essere compromessa da te, non voglio essere la tua amante o l'amante di uno dei tuoi associati). Preferisco decisamente il tuo "male": ammazzami.
È sfinita, Lucia? Sì. È senza difese? Apparentemente. Ma cosa succede subito dopo? Chi è che comincia subito a manipolare l'altro, a partire dall'altra frase famosa "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia"? Chi è che deve scappare trafelato e poi non riuscirà a dormire tutta la notte? Chi è che a un certo punto della notte ricorda le stesse parole e si rende conto che non suonano "con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno di autorità, e che insieme induceva una lontana speranza"? Chi è che vince, qui? Certe volte Manzoni ama l'ambiguità, ma qui davvero no, non poteva essere più smaccato: qui c'è una donna che salva l'anima a un uomo. Non è tecnicamente una santa, anzi proprio quella notte commetterà l'unico vero errore che Manzoni le concede in tutto il romanzo; ma non importa così tanto perché attraverso la sua figura imperfetta sta transitando la grazia, la verità, la via. Il romanzo perlomeno la mette così, dopodiché possiamo anche decidere che non ci interessa più, che preferiamo ritagliarne soltanto qualche situazione qua e là e dimenticare il quadro d'insieme. Piccolo lo sa benissimo, che Lucia è tutt'altro che una sciacquetta in completa balia di un boss, ma decide che non è importante, perché? Perché a lui interessano i personaggi maschili violenti: deve documentarli, deve raccontarli, deve spiegare che siamo tutti così, e questa necessità di autodafé non gli consente nemmeno di notare l'eroismo di una martire. Lo deve negare. Spostati, santa, che con la tua coerenza eroica non ci fai vedere la malvagità degli uomini. Di fronte a Lucia persino l'Innominato si è arreso; e invece Piccolo ci passa sopra.
"Noi possiamo arrestare il tempo a questa battuta e non andare oltre, perché è in quell'istante che l'uomo ha potere totale sulla donna inginocchiata a lui. L'innominato può decidere di fare di Lucia quello che vuole: ammazzarla, farla stuprare da don Rodrigo, stuprarla lui stesso se lo desidera; imprigionarla, baciarla, picchiarla, tormentarla [abbiamo capito, Piccolo: perché tanta ridondanza?]; e può anche decidere di cambiare le sorti della contadina e quindi, di conseguenza, del romanzo – come infatti farà. Ma è il potere incontrastato nelle mani dell'innominato (il fatto che sia senza nome lo rende ancora più assoluto come maschio) ciò che leggiamo da adolescenti".
Qui, se ho capito bene, e spero di no, Piccolo ci dice che da adolescenti la scena di Lucia "inginocchioni" disperata davanti all'Innominato ci ha eccitato, al punto che il seguito del capitolo resta in standby come certe videocassette che venivano visionate solo fino a un certo momento. Credo che a questo si debba l'insistenza con cui in un saggio brevissimo Piccolo si mette a spiegare quante e quali cose l'Innominato possa fare alla "poverina" invece di lasciarsi convertire come voleva l'autore: ammazzarla, stuprarla anzi no farla stuprare (cuck!), imprigionarla, baciarla, picchiarla, sembrano davvero le clip su una piattaforma per adulti proposte un po' alla rinfusa, prima lo stupro e poi i baci e poi di nuovo i tormenti. È l'allestimento di un piccolo set sadomaso che lo devo confessare, il mattino in cui affrontammo il capitolo XXI al liceo mi sfuggì: forse sonnecchiavo, o avevo fame. Ero adolescente e mi eccitavo per qualsiasi cosa, ma ogni maschio può solo portare la propria esperienza: con me la Lucia inginocchioni non funzionò. Magari non feci caso all'eroismo, ma nemmeno all'erotismo.
C'è qualcosa di deprimente in tutto questo: duecento anni fa Manzoni ci ha mostrato una ragazza che con la forza della sua fede trasforma un uomo violento; duecento anni dopo Piccolo lo rilegge e riesce solo a trovare l'uomo violento, irredimibile. Gli interessa soltanto quello, né sa più trovare una strategia di redenzione. Qualcuno magari lo considererà un progresso. Certo, è molto più furbo delle scrittrici che un anno fa denunciavano nelle opere del canone letterario dei "modelli di comportamento" patriarcali; non affermerebbe nemmeno sotto tortura che Manzoni sia uno scrittore maschilista da cancellare dai manuali (magari non gli dispiace che chi la pensa così cerchi il suo pamphlet in libreria). Nel frattempo però lo fraintende completamente, e consapevolmente. Non vuole capire Lucia, che gli sembra "spenta, mediocre, passiva"; una che piuttosto di farsi toccare da un signore potente preferisce farsi ammazzare. Non gli interessa. Forse non ha veramente mai dovuto affrontare quel famoso tema sulla spiritualità in Manzoni – o forse ne ha scritti troppi, non lo so. Ma insomma, questo è l'Occidente. Appendiamo ancora al muro un calendario pieno di martiri, e non capiamo più che senso abbiano.
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Francobollo commemorativo per il centenario della nascita |
Tra i tanti nomi che gli occidentali hanno messo sul mappamondo, per lo più a caso e senza troppo preoccuparsi se avessero un senso, "Melanesia" sembra avere maggior possibilità di sopravvivere. È un nome che viene dal greco, il che gli dà un sapore più scientifico che coloniale; lo coniò l'esploratore francese Jules Dumont d'Urville, che verso il 1830 sentiva la necessità di differenziare l'area delle "tante isole" (già conosciuta come Polinesia) da quella abitata da persone di pelle molto più scura: le isole dei neri (mélas in greco). E benché in seguito il concetto sia stato messo in forte discussione dagli antropologi, a livello popolare resiste: i melanesiani sono i neri d'Oceania. Vivono in isole relativamente lontane tra loro, parlano lingue molto diverse, e il loro DNA racconta di rapporti piuttosto complicati con altre popolazioni asiatiche e polinesiane. Pure, il fatto che il colore della pelle li identifichi non dispiace; tanto che quando la maggior parte delle piccole nazioni hanno deciso di associarsi in un'organizzazione intergovernativa, l'aggettivo "Melanesian" è comparso per la prima volta nei documenti ufficiali: da quarant'anni l'associazione si chiama Melanesian Sperhead Group.
Anche prima che arrivassero gli europei a spartirsi ogni isola e atollo, con la loro ossessione per le bandierine di colori diversi e i confini territoriali (anche quando il territorio è il mare), i melanesiani non costituivano un insieme definito dal punto di vista culturale. Tra i pochi elementi distintivi, c'era la poligamia, che è tipica delle società tradizionali melanesiane come di quelle mediorientali e africane. In altre parti del mondo la poligamia non è tradizionalmente consentita, e del resto oggi non è riconosciuta legalmente da nessuna legislazione melanesiana. Fino a un secolo fa però era liberamente praticata, come dimostra la vicenda di Peter To Rot, nella Nuova Britannia.
La Nuova Britannia fa parte dell'Arcipelago Bismarck, a est della Papua Nuova Guinea, di cui oggi fa parte dal punto di vista amministrativo. Come il nome lascia facilmente indovinare, l'arcipelago fu colonizzato nel tardo Ottocento dalla marina dell'Impero Tedesco, che essendo arrivato buon ultimo alla spartizione coloniale, raramente metteva le mani su qualcosa di interessante: in questo caso, qualche lotto adatto alla coltivazione intensiva della noce di cocco e un avamposto per un'eventuale incursione in Australia. Durante la Prima Guerra Mondiale accadde l'esatto contrario: furono gli australiani a sbarcare nelle Bismarck, ottenendo nel 1920 un mandato dalla Società delle Nazioni che legalizzava l'occupazione militare. L'isola chimamata Nuovo Meclemburgo fu ribattezzato Nuova Irlanda; la Nuova Pomerania divenne Nuova Britannia. Per qualche perverso motivo mi sembrano nomi meno assurdi.
Nel 1942 i giapponesi invasero l'arcipelago, scacciando rapidamente gli australiani. Una delle prime misura intraprese dalle forze di occupazione fu l'internamento dei missionari cristiani. Peter To Rot è un catechista della Nuova Britannia, figlio di un capotribù che si era convertito più di quarant'anni prima; non è un sacerdote, anzi è sposato con figli, così i giapponesi in un primo momento chiudono un occhio sul fatto che abbia costruito una capanna e la usi a mò di chiesa. Lo scandalo nasce quando un abitante del villaggio, Metepa, che lavora come guardia per i giapponesi, tenta di sequestrare una donna, per sposarsela. Questo è sbagliato in un più di un modo: non solo la signora Mentil è già sposata con un protestante, ma anche Metepa è già sposato con rito religioso. Il piano giapponese di decristianizzazione dell'arcipelago prevede però la reintroduzione della poligamia: una consuetudine, notate, del tutto aliena dai costumi giapponesi, ma con la quale evidentemente i nuovi occupanti speravano di conquistare il consenso degli autoctoni. Non sappiamo quanto funzionò: sicuramente conquistarono il consenso di almeno un predatore sessuale come Metepa. Dopo che Peter manda a monte il suo primo tentativo di sequestrare Mentil, Metepa inizia a lamentarsi di lui coi superiori, che nel Natale del 1944 lo perquisiscono e lo trovano in possesso di materiale religioso. Messo agli arresti, decide di non rinnegare la propria fede anche se è consapevole del rischio: il 6 luglio del '45 avvisa sua madre che il giorno dopo verrà un dottore a dargli una medicina. "Molto strano, dal momento che non sono malato. Temo che sia un trucco". Il sette luglio in effetti muore, per l'effetto di una iniezione letale o strangolato durante le convulsioni causate dall'iniezione. Cinquant'anni dopo è stato beatificato da Giovanni Paolo II durante il suo viaggio in Papua Nuova Guinea.