L'idea è sempre quella di trovare un santo interessante al giorno, ma il calendario non sempre si presta. Ci sono periodi in cui è più dura, ed è interessante cercare di capire il perché. Spesso ha a che vedere con una festa importante, che è come se per qualche giorno assorbisse tutta la santità circostante: la novena di Natale, o di Pentecoste (che ogni anno cade in una domenica diversa, ma sempre a cavallo tra maggio e giugno). La quaresima meriterebbe un discorso a parte, proprio perché per lungo tempo è stato un periodo in cui non si celebravano le feste dei santi – ma anche per questo motivo, è un periodo dell'anno che ha trattenuto soltanto santi stravaganti, irregolari, e quindi un po' più interessanti di altri. All'inizio di novembre succede forse l'opposto: la festa di Tutti i Santi attira a sé, per qualche giorno, una pletora di santi quasi anonimi, ormai dimenticati: quel tipo di santi di cui nei martirologi più completi resiste appena una riga. Sono i santi che si festeggiano il primo novembre perché, semplicemente, non ci ricordiamo più quando siano morti, ovvero quando siano nati in cielo (dei santi si festeggia la data più luttuosa, che per loro è il compleanno). Oppure si festeggiano il cinque novembre, che in molte diocesi era la festa delle reliquie; vale a dire il momento in cui venivano tirati fuori dagli scaffali della sacrestia certi reperti polverosi, ossa o brandelli di saio di persone di cui non resisteva nient'altro, a volte nemmeno un nome. Questa dimenticanza a volte sembrava intollerabile, per cui capitava che un canonico si inventasse, oltre al nome, almeno una rapida storia per spiegare come mai quelle reliquie erano arrivate lì; ma senza esagerare. Per esempio:
5 novembre: San Celestino a Pontremoli.
Questo San Celestino non si chiamava senz'altro così: il nome gli fu assegnato da papa Clemente XI quando il corpo fu ritrovato nelle catacombe romane, accanto a un vaso che probabilmente ne aveva conservato il sangue e che consentiva di identificarlo come un martire dei primi secoli. Essendo un martire era in cielo, e quindi in mancanza di altri nomi lo si poteva chiamare Celestino. Qualche anno più tardi (1731) arrivò in Lunigiana sotto forma di dono della curia romana per la nuova chiesa che si stava erigendo (Santa Maria del Popolo) che nel 1797 sarebbe diventata la sede della nuova diocesi di Pontremoli. Quest'ultima in seguito è stata fusa con la diocesi di Massa e Carrara, che il 5 novembre festeggia tutti i suoi santi, compreso Celestino, forse il più misterioso di tutti.
5 novembre: Santa Comasia vergine e martire, patrona della pioggia
Di lei non sappiamo nemmeno il nome: “Comasia” deriverebbe da “come che sia” o da un termine greco per “traslazione solenne”. L’unica cosa chiara è che ogni volta che provavano a tirarne fuori i sacri resti – li avevano trovati sulla Nomentana, ma per qualche motivo avevano deciso di portarli a Martina Franca (TA) – scendeva una gran pioggia; tant’è che da quelle parti quando piove si dice a' ssòt u curpe de Santa Cumasie, “è uscito il corpo di Santa Comasia”. Dal tardo Seicento le reliquie vengono effettivamente estratte in situazioni di siccità: l’ultima volta nell’anno 2000.
5 novembre: Santa Trofimena di Patti, vergine e martire
Nella storia di Santa Trofimena ci sono tanti dettagli che non tornano, ma non si può negare che lo spunto iniziale sia suggestivo: un'urna che affiora dal mare, davanti a Minori, nella costiera Amalfitana. È il 5 novembre del 640: una lavandaia che è andata a lavare alla foce fiume Reginna si mette all'improvviso a strillare: non riesce più a muovere le braccia, è paralizzata. I compaesani accorrono ma non riescono a capire, finché i sacerdoti non si rendono conto che la pietra di marmo su cui batteva i panni è una lastra di marmo, e non una lastra qualsiasi; è parte di un intero sarcofago, e reca persino una profetica iscrizione in latino (che trascrivo in una versione italiana)
“Tu che brami saper chi l'urna honori,
Giace Trofima qui, ha in fronte e al pari
di Martire e di Vergine gl'allori:
Mentr'ella i fieri editti, e gli'empij altari
sfugge, e'l sicanio lido, e i genitori,
Si suena in mezzo al mar da crudi acciari;
a Reginna le membra, a Dio die' l'alma
Gode hor con Christo in Cielo eterna calma.
[Tu che cerchi di conoscere i motivi dell’arrivo di quest’urna sappi che qui riposano le membra pie e intatte del corpo di Trofimena Martire e Vergine, Ella, fin quando durarono i costumi di un tempo scellerato, evitò i falsi idoli del mondo sfuggendo, come devota fanciulla, ai genitori siciliani. Riposò in mezzo al mare, offrì le membra ai Minoresi e l’anima a Dio. Di qui è andata a godere tra i profumati spazi di Cristo].
L'iscrizione spiega provvidenzialmente tutto quello che serve sapere: Trofimena è stata martirizzata in Sicilia (a Patti, oggi provincia di Messina, dove però di lei nessuno aveva sentito parlare) ed era stata sepolta in mare in un... sarcofago. Ecco, tra le cose che non tornano c'è questa idea del sarcofago di marmo che avrebbe galleggiato per secoli tra la Sicilia e la costiera amalfitana, dove l'iscrizione prevedeva già che sarebbe arrivato. È pur vero che si tratta di una leggenda di santi, dove tutto per definizione è possibile, ma un altro dettaglio dissonante è che il sarcofago è più volte definito "urna". Le urne però in epoca antica non erano sarcofagi, ma vasi cinerari: molto più trasportabili, e perfino in grado di galleggiare. Non si può escludere che a Minori ne abbiano trovato uno, magari trascinato dalla corrente in seguito a un naufragio. Avete presente quelli che chiedono di disperdere le proprie ceneri su una bella spiaggia – magari già in epoca antica la Costiera era un luogo dei luoghi preferiti per questa specifica forma di turismo funerario. Dopodiché l'urna cade in mare, ma siccome dentro c'è un po' d'aria non rimane sul fondo, e qualche decennio o secolo dopo viene rinvenuta dai pescatori di Minori, o magari proprio da una lavandaia: come ogni ritrovamento ha qualcosa di meraviglioso, anche se in sé l'oggetto non sembra particolarmente prezioso. Succedesse oggi, si invierebbe a un museo; ma nell'Alto Medioevo la cosa più logica è portarla nel luogo in cui tutti possono entrare e vederla, ovvero la chiesa. Una volta portato l'oggetto in chiesa, è fatale che diventi un oggetto di culto, salvo un piccolo problema che pescatori e lavandaie non si erano subito posti, ma i sacerdoti sì: ovvero, se si tratta di un'urna cineraria, non può essere un oggetto di venerazione, perché i cristiani non adorano le ceneri; anzi, poiché credono nella resurrezione dei corpi, hanno smesso di bruciare i cadaveri e ci tengono viceversa a conservarli il più possibile. Dunque sì, le reliquie di una santa potrebbero essere affiorate dal mare: ma non in un'urna, o meglio l'"urna" nel racconto deve diventare un sarcofago di marmo: e tanto peggio per la verosimiglianza. Del resto l'unica fonte è una Historia Inventionis ac Traslationi et Miracula Sanctae Trofimenis composta da un autore anonimo all'inizio del secolo X. Per qualche secolo il manoscritto rimane al sicuro nell'archivio vescovile di Minori (sì, Minori per secoli fu una diocesi con un suo vescovo). Nel 1658 fu inviato all'abate Ferdinando Ughelli, che a Roma stava compilando l'Italia sacra, quel monumento di erudizione grazie al quale conosciamo migliaia di storie come quella di Santa Trofimena; motivo per cui Ughelli è stimato e riverito da ogni storico e storiografo, e tuttavia bisogna ammettere che dopo il 1658 del manoscritto si è persa ogni traccia, insomma l'abate ha avuto il grosso merito di trascriverlo, ma si è perso l'originale. Chi non fa non falla, e Ughelli ha fatto tantissimo.
Tutto comunque lascia intendere che già sul manoscritto per "urna" si intendesse una tomba entro la quale il corpo della vergine e martire doveva essersi conservato perfettamente. Anzi l'agiografo sembra tenere particolarmente a questa cosa, e prosegue spiegando che l'unico modo per trasportare un sarcofago piccolo, ma pesante, fu farlo trascinare da due giovenche bianche che non erano mai state soggiogate, ovvero sottoposte al giogo: il che è senz'altro un modo di alludere alla purezza virginale della santa, ma anche di insistere sul fatto che non si trattava di una semplice urna cineraria, ma di una tomba intera, contenente una santa conservata il più perfettamente possibile: e dal carattere poco incline ai compromessi. Due secoli più tardi (838), in effetti, quando un altro vescovo decide di spostare la reliquia ad Amalfi per evitare che cada nelle grinfie dei longobardi di Benevento, Trofimena gli appare in sogno vestita in un mantello rosso, rimproverandolo per la profanazione e predicendo non solo la sua morte violenta, ma che il cadavere del vescovo sarà dato in pasto ai cani; dal che viene spontaneo concludere che l'Historia sia stata redatta da un longobardo, o comunque da un agiografo che li stimava parecchio, e che approvava la successiva traslazione della tomba a Benevento. L'anno successivo comunque il vescovo decise di rendere ai minoresi almeno metà delle reliquie; la santa nel frattempo era apparsa al sacerdote Costantino, custode della chiesa di Santa Trofimena a Minori, salvo che dopo il furto delle reliquie non gli sembrava che ci fosse più nulla da custodire e aveva smesso persino di dire messa. Non importa (gli avrebbe detto Trofimena alle prime luci dell'alba): anche se non sono più qui col mio corpo, sono qui col mio spirito, e nel mare "rosseggia il mio sangue, ch'io sparsi largamente dalle mie vene in mezzo al mare per amore del mio sposo Giesù". Ma il miracolo più interessante, almeno da un punto di vista storico, è la guarigione di una certa Teodonanda. Prima di ottenere la grazia dalla santa, proprio alla foce del fiume Reginna, Teodonanda in effetti era stata condotta dai genitori e dal promesso sposo a Salerno, dove i medici avevano consultato "immensa volumina", senza però trovare un rimedio alla malattia. È una delle più antiche testimonianze della presenza a Salerno di un corso di studi di medicina.
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