Qualcuno se l’è presa. Mi spiace. Non credevo di risultare così offensivo. Mi appello al Primo Emendamento.
Qualcuno poi mi dà dell’ignorante, perché non conosco Tocqueville. Vorrà dire che mi... rileggerò Tocqueville. Anzi, già che ci siamo:
Basic Culture Simulator: speciale Alexis-Charles-Henri Clérel de Tocqueville
Classe 1805. Figlio di conti, esercitando la professione di magistrato si scopre di fede liberale e litiga coi genitori (che erano stati incarcerati ai tempi della Rivoluzione). Decide così di cambiare aria, e a 26 anni si fa sponsorizzare dal Ministero degli Interni un viaggio studio negli Stati Uniti. L’idea iniziale era di studiare il sistema penitenziario americano (già a quei tempi le galere americane attiravano l’attenzione internazionale). Ma una volta sbarcato nel Nuovo Mondo, Tocqueville si rivela un reporter dalla curiosità insaziabile: si fa accompagnare dal Canada all’Ohio, intervista chiunque gli capiti a tiro, raccoglie quintali di appunti su ogni aspetto della cultura americana, del diritto, della religione, dell’economia. Il risultato di tante ricerche sarà il best seller internazionale La democrazia in America (1835-1840), ma giù in Biblioteca non l’avevano, stasera devo ripiegare sul pur godibilissimo Viaggio negli Stati Uniti, la raccolta degli appunti a cura di Emilio Faccioli (Nuova Universale Einaudi, Torino 1990).
Come ogni viaggiatore onesto, Tocqueville parte con dei pregiudizi dichiarati, ed è ansioso di ridiscuterli a ogni passo. Il suo sguardo è disincantato, il suo approccio ai problemi meravigliosamente pragmatico. Per dimostrare i cattivi effetti della schiavitù, non c’è niente di meglio che confrontare due Stati confinanti, il Kentucky schiavista e l’Ohio non schiavista:
Là il lavoro è disprezzato, qui è tenuto in grande considerazione. Là domina la pigrizia, qui un’attività sfrenata. Il Kentucky non accoglie emigranti, l’Ohio attira a sé gli abitanti industriosi da ogni parte dell’Unione… (Seconda conversazione con Mr. Walker, pag. 94).
Tocqueville osserva con stupore la società americana: una società composita, ma priva di grandi demarcazioni di classe, dove nessuno ha una carrozza privata e il servo mangia a tavola col padrone; una società tenuta insieme da un solo grande principio: “l’interesse”.
È un mondo che Tocqueville senza dubbio ammira, ma che riesce a descrivere senza il minimo timore reverenziale. Per lui il popolo americano, “considerato nel suo complesso… è il popolo che possiede l’educazione politico-pratica più evoluta”. Eppure è il popolo che sta costruendo la sua ricchezza su un genocidio: Tocqueville ha la sensazione di assistere in diretta all’estinzione dei nativi americani. A questa tragedia Tocqueville dedica alcune pagine struggenti. Quando si imbatte, per esempio, in una delegazione di Irochesi:
Eppure quegli esseri deboli e depravati appartenevano a una delle tribù più famose dell’antico mondo americano. Avevamo davanti, è penoso dirlo, gli ultimi avanzi di quella celebre Confederazione degli Irochesi la cui matura saggezza non era meno famosa del loro coraggio e che per molto tempo furono l’ago della bilancia fra le due più grandi nazioni europee. […]
Alla sera uscimmo dalla città e a poca distanza dalle ultime case scorgemmo un Indiano sdraiato sul bordo della strada. Era un uomo giovane e stava così immobile che lo credemmo morto. Qualche gemito soffocato che sfuggiva penosamente dal suo petto ci rivelò che viveva ancora e che lottava contro la pericolosa ubbriachezza causata dall’acquavite. Il sole era già tramontato e il terreno diventava sempre più umido. Tutto lasciava credere che quel disgraziato sarebbe morto lì se nessuno l’avesse soccorso in tempo. A quell’ora gli Indiani lasciavano Buffalo per rientrare al villaggio e ogni tanto qualche gruppetto ci passava accanto. Si avvicinavano, rivoltavano brutalmente il corpo del compatriota per sapere chi fosse e poi se ne andavano senza degnarsi di rispondere ai nostri avvertimenti. Per lo più, erano ubbriachi anche loro.
[Arriva una squaw che infierisce sul poveretto con calci e pugni, Alexis riesce a mandarla via con le buone].
Ritornati in città parlammo a parecchi del giovane Indiano, descrivendo il pericolo mortale che stava correndo. Ci offrimmo anche di sostenere le spese di un suo ricovero, ma fu tutto inutile. Non riuscimmo a convincere nessuno a interessarsene. Qualcuno diceva: “Gli Indiani sono abituati a ubriacarsi e a dormire per terra. Non muoiono per così poco” Altri ammettevano che poteva anche morire, ma gli si leggeva in viso quello che pensavano […]: “Cosa vale la vita di un Indiano?” Questo era il sentimento di fondo condiviso da tutti. In una società così civile, così austera, così pedante in tema di morale e di virtù, affiora una totale insensibilità, una specie di egoismo freddo e implacabile quando il problema riguarda gli indiani d’America […] Quante volte durante i nostri viaggi abbiamo incontrato onesti cittadini che alla sera tranquillamente seduti vicino al focolare ci dicevano: “Il numero degli Indiani va diminuendo di giorno in giorno. Non è che li combattiamo spesso con le armi, ma l’acquavite che vendiamo loro a poco prezzo li stermina tutti gli anni molto di più di quanto farebbero le armi. Queste terre ci appartengono, – aggiungevano. – Dio non ha concesso ai primi abitanti la capacità di civilizzarsi e quindi li ha destinati a essere inevitabilmente distrutti. I veri padroni di questo continente sono quelli che sanno sfruttare le sue ricchezze”.
Soddisfatto di questo modo di ragionare, l’Americano va in chiesa dove ascolta un ministro del vangelo affermare che tutti gli uomini sono fratelli e che l’essere eterno che li ha creati secondo un identico modello ha imposto a tutti il dovere di aiutarsi reciprocamente (pag. 371).
In un’altra stesura, Tocqueville, ancora più cattivo, mette in bocca al colono le parole: “Del resto non voglio impicciarmene, non farò niente contro di loro, mi limiterò a fornirli di tutto quanto servirà a distruggerli più alla svelta. Col tempo avrò le loro terre e non sarò colpevole della loro morte” (pag. 216).
Mi piace Tocqueville. È un osservatore spietato. Inciampa in un genocidio e lo mette a fuoco. Sa distinguere la retorica della civiltà dalla violenza dei fatti. È un’ottima lettura, ringrazio chi me l’ha consigliata.
Mi fornisce perfino qualche spunto per leggere il presente: per esempio, perché i palestinesi innervosiscono tanto i Neoconi? Forse perché non consumano acquavite, non si ritirano nelle riserve, preferiscono ammazzare e farsi ammazzare. Certo, è molto incivile da parte loro.
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