Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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mercoledì 6 novembre 2024

Pavia è una provincia della mente


Tutti con in mano birra e Camogli / noi senza fidanzate troie né mogli. Sidney Sibilia continua a raccontare la stessa storia, il che non è per forza un male, finché la sa raccontare. Ci sono scelte che a questo punto dobbiamo accettare come autoriali, ad esempio il fatto che non senta la necessità di costruire un personaggio femminile non dico complesso (neanche i personaggi maschili sono molto complessi), ma almeno un filo simpatico. Era una cosa che saltava agli occhi già al secondo Smetto quando voglio, nel momento in cui persino la necessità di raddoppiare i membri della banda non portava all'ingresso di nessun cervello in fuga femminile: in un film di simpatici mascalzoni le donne dovevano restare esclusivamente Principi di Realtà incarnati, poliziotte o fidanzate incazzose. In dieci anni Sibilia avrebbe avuto tutto il tempo per imbarcare qualche ragazza terribile nelle sue ciurme di simpatici corsari, ma se controllate non è successo, anzi il contrario: mentre Hollywood insiste nel tentativo di portare le donne a vedere i supereroi ficcando attrici donne nei costumi da supereroi, Sibilia persiste ostinato in un immaginario anni '80 in cui le ragazze sono confinate ai bordi della storia, donzelle da salvare o trofei da conquistare. La Silvia dell'Uomo ragno è persino più antipatica della Gabriella dell'Isola delle rose: gli sceneggiatori non si preoccupano nemmeno di occultare quanto il suo interesse per Max sia proporzionale al successo commerciale di quest'ultimo. Le storie di Sibilia, dobbiamo accettarlo, sono storie di maschi: forse non è in grado di raccontarne altre, forse filano così bene proprio perché non prova nemmeno a farle diverse. E anche al pubblico femminile piacciono così, mi pare.

– Potrebbe essere una forzatura considerare Hanno ucciso l'Uomo Ragno come un prodotto di Sidney Sibilia, che credo abbia diretto solo la prima puntata. E però tutta la serie aderisce perfettamente a un genere che ha inventato lui, e che malgrado funzioni così bene, continua a girare quasi solo lui: come definirla, una storia alla Sibilia? È indicativo che in italiano non mi venga in mente nessuna etichetta, e in inglese subito una: Rag to Riches, dalla miseria al successo. (È indicativo che in italiano un modo di dire similmente allitterante indichi la situazione inversa: dalle stelle alle stalle). Dove la miseria iniziale non è certo quella dei romanzi anglofoni ottocenteschi; è più una marginalità, una provincialità, dalla quale i protagonisti lottano per affrancarsi con mezzi quasi sempre scorretti: i cervelli in fuga di Smetto quando voglio sintetizzavano molecole proibite, l'ingegnere matto dell'Isola delle Rose costruiva una piattaforma esentasse, Erry taroccava le cassette, e gli 883... no, gli 883 non hanno fatto quasi niente di male, dai. O no? Perché a volte mi viene il dubbio di averli odiati molto, ma a questo punto non ne sono più sicuro.


Ma chi sarai per fare questo a me. Guardando Hanno ucciso l'Uomo Ragno, mi sono reso conto che conoscevo tutte le canzoni del loro primo disco. Questo è imbarazzante. Ufficialmente io appartengo a quella comunità di persone che gli 883, all'inizio dei Novanta, "non li calcolavano", non riuscivano nemmeno a disprezzarli: erano semplicemente non-musica. Anche dopo le rivalutazioni di rito, credevo di aver sempre provato nei loro confronti una gamma di emozioni che va dall'indifferenza al fastidio. Il fastidio, in particolare, dipende dall'estrema cantabilità dei loro pezzi, che mi restano in testa per settimane intere; l'unica possibilità è sempre stata cambiare immediatamente la frequenza appena li sentivo arrivare, ed evitare come la peste ogni network che frequentavano, ovvero tutti. Dunque io da trent'anni mi sto raccontando di avere sempre evitato gli 883; e tuttavia questo "fastidio" non è mai diventato "odio", come avveniva anche solo pochi anni prima per contenuti merceologicamente simili: tuttora io so di avere odiato il giovane Jovanotti, con un'intensità che lascia tuttora alcune tracce nella mia psiche. Laddove no, non ho mai odiato Max Pezzali, perché avrei dovuto? La spiegazione che mi sono sempre dato è cronologica: quando sentii Non me la menare su K Rock Scandiano, io avevo già 18 anni. Non potevo che considerarla roba da ragazzini, e perché mai avrei dovuto prendermela coi ragazzini? Jovanotti era diverso, era un coetaneo che faceva lo scemo, sembrava volerti cavare gli schiaffi dalle mani a forza di sorrisi idioti. Gli 883 sono stati forse il primo prodotto che sembrava destinato a una generazione più giovane. Detestarli sarebbe stato come strappare caramelle ai bambini. D'altro canto, non potevo neanche permettermi di ascoltare un ragazzo più o meno della mia età che cantava "a me piacciono le birre scure e le moto da James Dean" senza provare vergogna per lui. Avrei ascoltato altro, francamente non ricordo nemmeno cosa. I Soundgarden, o gli Stone Roses. 

E allora come mai quel primo disco lo so quasi a memoria?

Basta uscire più di dieci chilometri / Che noi stronzi ci perdiamo. C'è una spiegazione quasi convincente, ovvero: mi avevano bocciato alla prova pratica per la patente. Il primo disco degli 883 esce in un momento in cui non ho ancora il controllo dell'autoradio, e tuttavia esco due o tre sere alla settimana. E siccome vivo in provincia, "uscire" significa infilarsi nell'auto di un coetaneo, sperando che sappia guidare, una cosa che a rifletterci mi dà ancora oggi brividi retroattivi. Il primo disco degli 883 è una delle cassette che imparo a memoria sul sedile posteriore dei miei amici o amiche. Se penso a un altro disco che ho conosciuto in questo modo, mi viene in mente il primo di Ligabue. Non coincidentalmente, in entrambi i dischi c'è almeno un brano che sembra parlare di "noi" che ci aggiriamo nella provincia di notte cercando la vita (e scansando la morte a ogni sorpasso). Ma se la comitiva di Sogni di rock'n'roll sembra quella dei miei amici più vecchi ("qualcuno ha imbarcato, il più scemo le ha prese e ha una faccia così"), quelli di Con un deca e di Rotta per casa di Dio sono di un lustro più giovani, e completamente sterilizzati: nessuno imbarca, nessuno le prende, è tutta gente ancora orfana della sala giochi. Sogni di rock'n'roll mi commuove al primo ascolto, Con un deca mi deprime. Forse per lo stesso motivo per cui a tutti oggi piace rivalutarla. Magari oggi vi piace riconoscervi nelle foto brufolose di quegli anni, ma gli specchi non sono belli quando ti arrivano in faccia senza preavviso. Ligabue ci consentiva di immaginarci un po' più stagionati, un po' più vissuti. Questa casa non è un albergo ci ricordava che vivevamo ancora coi nostri genitori.

Aeroplano che te ne vai / lontano da qui chissà cosa vedrai. C'è un'altra spiegazione ideologica. Oggi se un cantante riesce a specchiare due o tre atteggiamenti della sua generazione, ne siamo già abbastanza contenti. Nel 1992 non mi bastava. Ero esigente. Avevo degli ideali, non mi ricordo neanche quali, in ogni caso non tolleravo la mediocrità. I cantanti avrebbero dovuto cambiare il mondo, o almeno provarci; questo Pezzali che si struggeva perché a Pavia c'erano poche discoteche mi ispirava un disgusto abbastanza ideologico. Doveva sembrarmi un involucro vuoto; la sua adolescenza era una sala giochi, il suo obiettivo una discoteca piena di tipe in tacchi alti. Tutto qui, in confronto Ligabue era un esistenzialista. Nel frattempo crescevo, mi diplomavo, università, e intanto facevo volontariato nell'Agesci. Un altro flash: io che tiro giù testo e accordi di Aeroplano per cantarla coi lupetti. I lupetti (10-13 anni) volevano cantare Aeroplano, e io acconsento ad accompagnarli con la chitarra. Capite cosa fa il volontariato alla gente. 

Ma non so se crederci o no. I personaggi di Sibilia vogliono evadere da una mediocrità che può essere economica (Smetto quando voglio), culturale (Mixed by Erry), o... geografica? Hanno ucciso l'Uomo Ragno potrebbe essere sottotitolata 1991 fuga da Pavia. A differenza di tanti altri eroi che "hanno un sogno", per buona parte del percorso Max non sa nemmeno esattamente cosa vuole. Tutti in quegli anni credevamo di poter fare i musicisti e i cantanti: lui nemmeno tanto, sembra arrivarci per caso (un altro flash: a vent'anni finisco di scrivere una canzone. Non so più perché mi ostino a scriverle, tutti i gruppi si sono sciolti, non ho un target preciso, mi aggiro esausto in un sogno troppo inflazionato. La registro, la riascolto. Non è male, è molto cantabile. In effetti è troppo cantabile. Sembra un pezzo di Pezzali. Smetto di scrivere canzoni. Maledetto Aeroplano). 

Due discoteche, centosei farmacie. Quel che Pezzali ha chiaro sin da subito è che non vuole studiare e non vuole lavorare, perlomeno non nel dignitosissimo negozio di suo padre. E ce l'ha con Pavia, ce l'ha con la provincia, dove "non succede mai niente". Una cosa che in quegli anni ho sentito dire da centinaia di persone, che si incontravano in posti dove stava succedendo qualcosa. Un altro flash. Ho lasciato lo scoutismo, ho fondato un circolo culturale con ex compagni di liceo. Fondiamo una rivista, poi ne fondiamo un altra, cominciamo ad attirare un po' di gente. A un certo punto arriva un coetaneo altissimo che s'intende già di musica, mi sembra di conoscerlo perché ai concerti la sua testa spunta sempre tra me e il palco. Ci spiega, dati alla mano, che viviamo in una delle zone più interessanti del mondo per offerta musicale. Ci guardiamo smarriti: siamo in via Giardini, tutt'intorno c'è Modena, tutt'intorno c'è la provincia di Modena. Sbagliato, ci spiega paziente il giovane Damir Ivic: tutto intorno a noi c'è una conurbazione che da Bologna arriva almeno fino a Reggio, dove nel giro di una sera un automunito può spostarsi dal Link al Maffia e godere di una varietà di proposte che si può paragonare solo a quella di Londra (o forse Berlino). Quindi, insomma, cos'è la provincia? È vivere su un'autostrada piena di possibilità, e concedersi il lusso di ignorarle ? In Italia sicuramente esistono province vere, lontane centinaia di chilometri dal progresso economico e culturale: ma non era la realtà mia, o di Pezzali. Si potrebbe argomentare il contrario: gli 883 ce la fanno perché la loro supposta provincialità si può aggirare in cinquanta minuti d'autostrada, che in quei beati anni senza autovelox di notte potevano contrarsi fino a una mezz'ora. Mentre si strugge perché "in questa città non c'è niente", i suoi coetanei probabilmente gravitano già su Milano due o tre sere a settimana, o si godono il clima della città universitaria. Il "niente" che opprime gli 883 è qualcosa di più profondo che anticipa il sottovuoto spinto di molti interpreti della generazione successiva; è uno spazio arredato con accessori/feticci quasi sempre immaginari, in cui ogni tanto irrompe una realtà di mediocrità sconfinata e sconfortante: tappetini nuovi e arbre magique. È una qualità essere i portavoce di una generazione, se poi di quella generazione restituisci un ritratto piatto e sconfortante? 

Appuntamento alle nove e mezza ma io / L'ultimo flash: alla biblioteca Delfini appena aperta attacco una pezza a una ragazza, o forse è lei che attacca me. In ogni caso le propongo una serata al Circolo Left di Ponte Alto, dove al mercoledì non si balla lo ska, bensì c'è Tommaso Labranca che presenta a una dozzina di persone Andy Warhol era un coatto, leggendoci una disamina di Sei un mito che ricordo ancora. Era probabilmente la prima volta che riuscivo a portare fuori una ragazza. A Modena, anzi a Ponte Alto. Il mercoledì sera. Tommaso Labranca in carne ossa faceva l'esegesi degli 883. Ci credevamo in provincia, ci crediamo ancora.

martedì 5 novembre 2024

Spogliarsi in novembre a Teheran

Lei ha lineamenti dolci; le altre un nasone, ehm, diciamo medio-orientale. 

No, ma io sono sicuro che visti da una certa distanza, noi (occidentali) risultiamo abbastanza strani. Faccio un esempio.

Immaginate di vedere una donna seminuda in giro per la vostra città, in un giorno di novembre non troppo caldo come questo. Cosa fareste? Magari niente. Cosa pensereste? Che la ragazza ha un problema, e che forse bisognerebbe avvisare qualcuno, un vigile il pronto soccorso. 

Certo, non si potrebbe escludere il movente politico: magari è seminuda in segno di protesta per, boh, l'inquinamento, il riscaldamento globale. Ragioni persino condivisibili, ma lo stesso non vi sembrerebbe il caso di andare in giro così. Cosa può ottenere, a parte un malanno? No, a ogni buon conto davvero è meglio chiamare i vigili. Ecco.

Immaginate la stessa donna seminuda in giro per Teheran, ed ecco, è un'eroina. Teheran è a mille metri sul mare, a novembre può fare abbastanza freddo, e però improvvisamente non avete dubbi: se si è spogliata è per protestare contro un regime maschilista e teocratico. Non solo, ma la sua protesta solitaria ha comunque un senso.  E chi ha chiamato le guardie è un infame perpetuatore di un regime teocratico e maschilista. Ora.

Non voglio farvi la morale, sono d'accordo anch'io che il contesto è tutto. Lo stesso gesto può essere follia a Vigevano ed eroismo a Teheran, lo capisco. E persino la follia, può avere a Teheran delle ragioni profonde che a Vigevano non sarebbero ammissibili. Vi capisco e vi capirò anche la prossima volta che una ragazza a Vigevano farà una mattana per protestare contro il riscaldamento globale o qualche genocidio, e voi le riderete in faccia perché certe forme di protesta sono sciocche ecc. Ma sentite questa:

Mettete che dopodomani, a urne chiuse, gli iraniani decidano davvero di bombardare seriamente Israele; e mettiamo che Israele nei giorni seguenti si senta obbligato a rispondere. La ragazza, nel frattempo, che fine avrà fatto? Magari sarà in una struttura carcerario-manicomiale, ecco, è la classica struttura che l'esercito iraniano potrebbe usare per scudare un obiettivo militare che gli israeliani avrebbero tutto il diritto di distruggere. 

Così, ricapitolando: una ragazza, se si spoglia a novembre, sembra un po' pazza.
Se si spoglia a novembre per una causa, comunque un po' pazza.
Se si spoglia a novembre per una causa a Teheran, è un'eroina. 
Se si spoglia a novembre per una causa a Teheran e la internano sopra un obiettivo militare... non è più niente che valga la pena di difendere, anzi, cambiamo discorso.

Per cui insomma secondo me risulteremmo strani, noi occidentali. Visti da una certa distanza. Ma quella distanza sembra che non l'abbiamo più a disposizione, ed è un peccato. 



venerdì 1 novembre 2024

Siamo tutti antisemiti


La campagna di diffamazione nei confronti di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati, va inserita nella più ampia battaglia che Israele sta conducendo contro l'ONU. A sua volta questa battaglia non è che uno degli episodi più significativi della guerra tra Israele e la realtà – non essendo in fin dei conti l'ONU che una vaga autorità sovranazionale, con poteri nulli o molto blandi, ma che non può che ratificare l'evidenza: ad esempio se c'è un genocidio, non può impedirsi di notarlo ed esprimere crescente preoccupazione. Questo è intollerabile per il movimento sionista, che si ritiene ormai al di sopra di qualsiasi giudizio: ogni critica, anche quando priva di conseguenze, è comunque una minaccia alla sua stessa esistenza, e la sua stessa esistenza è prioritaria rispetto a ogni altro fenomeno (in particolare rispetto all'esistenza del popolo palestinese: ma persino la vita di centinaia di ebrei può essere serenamente sacrificata). L'Onu, che non ha ancora accettato tutto questo, non può che essere una "palude antisemita", le sue agenzie covi di terroristi, tra cui quella Francesca Albanese che ha l'impudenza di documentare il genocidio in rapporti sempre più cospicui e puntuali. E siccome chi ha la pazienza di ascoltare l'Albanese e di leggere quel che scrive non vi troverà una sola parola di odio nei confronti degli ebrei, non resta che allargare la definizione di antisemitismo, di modo che includa qualsiasi tipo di critica nei confronti di qualsiasi cosa Israele possa avere mai fatto o possa fare da qui in poi. 

Non è nemmeno una novità; negli ultimi vent'anni l'etichetta "antisemita" è stata appioppata con tale disinvoltura da perdere ogni pregnanza, come succede alle parole che ci fioriscono troppo spesso sulle labbra. La deriva semantica è andata di pari passo con l'affermarsi della "Definizione operativa di antisemitismo" dell'IHRA. Questa definizione ha una lunga storia, su cui non mi dilungo; diciamo che si tratta di una risposta pseudo-istituzionale a una domanda che durante la Seconda Intifada diventava sempre più pressante: preso atto che l'antisemitismo è sempre e comunque da condannare, cos'è questo antisemitismo? Domanda più che legittima: il problema è che forse non è stata posta alle persone giuste. La Definizione è un pasticcio, non sono il primo a dirlo né il più competente; ma credo sia utile ricordarlo, perché c'è chi continua a impugnarla come se fosse uno strumento affilato e non una pistola di gomma. Qualche giorno fa un radiologo di Toronto ha avvertito l'Albanese che se tentasse di venire in città, potrebbe essere arrestata: e perché? Perché in Canada la Definizione operativa di antisemitismo è legge. E benché gli sia stato prontamente obiettato che no, la Definizione è per definizione "non-legally binding", ormai la pista era tracciata e molti montoni hanno ritenuto necessario accodarsi.

Per aver ricordato a italiani e tedeschi le politiche genocide del loro passato, Francesca Albanese è stata accusata di "holocaust inversion", che non è una mossa speciale in un gioco di ruolo, ma una violazione del penultimo comma della Definizione: quello che ci ricorda che "Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti" è antisemitismo. Quindi anche ricordare agli italiani che in passato hanno commesso un genocidio è antisemitismo? Sì, nel momento in cui gli italiani oggi sono alleati degli israeliani. Più che un rapporto di causa-effetto qui siamo alla libera associazione di idee: ogni volta che in una conversazione ti viene in mente l'Olocausto, potresti essere antisemita. Ora devo confessare una cosa.

Per molti anni – troppi – ho cercato di rispettare la Definizione, come se fosse una cosa seria. Mi era sembrata da subito un po' parziale e discutibile, ma credevo che criticarla sarebbe stato controproducente. Pensavo invece che rispettandola io avrei reso le mie critiche a Israele inattaccabili anche dal più parziale degli osservatori. In un mondo che aveva ormai fatto del '900 il suo testo sacro, e in cui il nazismo veniva tranquillamente definito Male Assoluto, la pietra di paragone con cui misurare gli altri Mali Relativi, io rinunciavo a ricorrervi per... fair play. Stavo insomma commettendo l'errore che così spesso rimprovero agli altri: accettare le regole del gioco che mi impone l'avversario, confidando di essere comunque in grado di batterlo, perché? Probabilmente perché mi credevo in possesso di prodigiose capacità dialettiche che avrebbero trionfato contro ogni ostacolo e cattiva fede. L'IHRA mi chiedeva di non paragonare "la politica israeliana contemporanea" a quella dei nazisti? Ok, non l'avrei fatto, in fondo la reductio ad Hitlerum è sempre la mossa di chi ha scarsa immaginazione, scarsa cultura, io invece avrei paragonato Israele a Sparta, toh. (Nello stesso periodo Netanyahu ci informava che l'Olocausto era un piano escogitato dal Gran Muftì di Gerusalemme). 

Nota bene: continuo a pensare che il paragone diretto tra Shoah e Nakba sia fuorviante. Non ho intenzione di chiamare nazisti gli israeliani che radono al suolo Libano e Palestina; peraltro credo che ormai non ce ne sia bisogno, le atrocità che commettono sono molto meglio documentate di quelle dei vecchi documentari in bianco e nero. Detto questo no, in coscienza non posso accettare che "Fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti" sia antisemitismo. Sarà pessima propaganda, criticabile in quanto tale (come d'altro canto è criticabile chi paragona ai nazisti i combattenti palestinesi), ma vorrei una volta tanto ricordare che l'antisemitismo è, letteralmente, l'odio nei confronti degli ebrei. Gli ebrei sono senz'altro un insieme complesso di persone, che forse elude qualsiasi definizione univoca (una religione, ma anche una comunità laica, in certi periodi un gruppo etnico), ma non possono essere ridotti in buona fede alla "politica israeliana contemporanea" qualsiasi essa sia. Persino se volessimo confondere ebrei e israeliani (e non ci è concesso), ebbene non è mai successo che il 100% degli israeliani approvasse le politiche del governo... e a proposito: perché non ci è concesso confondere ebrei e israeliani? 

Perché i due insiemi non coincidono, come dovrebbe essere chiaro a chiunque avesse frequentato la scuola dell'obbligo con profitto; ma anche perché l'ultimo comma della Dichiarazione afferma che "Considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele" equivale ad antisemitismo. Esatto, i due ultimi comma della Dichiarazione si contraddicono tra loro in modo così palese da farci dubitare che chi li ha messi vicini non abbia semplicemente voluto prendere in giro chiunque tenti di prendere la Dichiarazione sul Serio. Prima ci viene detto che criticare in un certo modo la politica israeliana è antisemitismo; in seguito ci viene ricordato che confondere Israele con gli ebrei è antisemitismo. Ne dobbiamo concludere che siamo tutti antisemiti, compreso chi ha stilato la Dichiarazione; sicuramente chi la prende per oro colato; il che mi induce a dissociarmi, troppo tardi ma meglio che mai (continua). 

giovedì 31 ottobre 2024

Il diavolo è il mio architetto

31 ottobre: San Volfango (924-994), vescovo di Ratisbona che fece costruire una chiesa al diavolo, ed esistono architetti peggiori. 


Michael Pacher

Volfango è uno dei santi più popolari della Germania cattolica, il che meriterebbe un discorso a parte, nel senso che la Germania cattolica mi sembra un corpo mutilato a cui non è stato concesso di evolversi; è una sensazione che dovrei verificare sul campo e non ne avrò mai il tempo, ma qui più che altrove mi sembra più facile imbattersi in leggende medievali che medievali sono rimaste: oggi sono buone da rivendere come aneddoti, o per valorizzare qualche sito turistico – ma la sensazione è che già nel Medioevo la loro funzione fosse la stessa. Il caso di Volfango è esemplare: si legge ad esempio un po' dappertutto che fu il vescovo che "fece costruire al diavolo una chiesa", anche se poi nessun sito in italiano riporta la leggenda per esteso. Si tratta in sostanza di una storia messa in giro per reclamizzare un santuario, da gente che Volfango non sapeva più nemmeno chi fosse: un nome sul calendario la cui vita si poteva riscrivere a piacere. Del Volfango storico, invece, cosa sappiamo? 

Rampollo di buona famiglia, Volfango rinnega gli studi brillanti, rinuncia a una cattedra episcopale a Treviri ed entra nel monastero di Einsiedeln. Ci resta sei anni e poi scopre una vocazione all'apostolato che lo porta in luoghi ancora selvaggi e non cristianizzati (la Boemia e la Pannonia che qualcuno comincia a chiamare Ungheria, in quanto gli Ungari vi si sono appena installati). Come missionario però Volfango non ottiene risultati apprezzabili, e così ripara in Baviera, dove gli viene offerta la cattedra di Ratisbona. Stavolta Volfango accetta, ma continua a vestirsi e comportarsi da monaco, rifuggendo le glorie del ministero. In una fase in cui i vescovi ragionano da feudatari e tendono ad accrescere i territori di loro competenza, Volfango si comporta nel modo opposto e acconsente a scorporare dalla sua diocesi l'enorme provincia della Boemia, "cosi che la Chiesa li rinvigorisca". Volfango insomma aveva capito che se siamo tutti utili, nessuno è necessario; e che da qualche parte in Boemia prima o poi sarebbe arrivato un evangelizzatore migliore di lui. 

Passato a miglior vita nel 994, nel giro di cinquant'anni Volfango era già stato canonizzato, dopodiché per un paio di secoli fu sostanzialmente dimenticato. La sua riscoperta è dovuta al progressivo affermarsi di un santuario presso un lago salisburghese, l'Abersee, che a un certo punto diventa Wolfgangsee. Probabilmente per dare lustro al santuario (o per reclamarlo come proprio) i monaci della vicina abbazia di Mondsee cominciano a sostenere che sia stato fondato da Volfango, durante un periodo di eremitaggio che non risulta dalle biografie. 

Volfango avrebbe scelto il luogo dove edificare la chiesa lanciando un'accetta dal monte soprastante – antico cerimoniale d'origine pagana. Da qui un proliferare di leggende non troppo originali; quando Dio gli chiede di edificare una chiesa da solo, Volf tira un pugno a una roccia dalla disperazione, o forse per spaccarsi la mano: ma Dio la sa più lunga e la roccia diventa gommosa. Volf allora decide di soddisfare la richiesta divina facendo un patto col diavolo, il che è abbastanza incoerente e veramente poco consono a un vescovo-monaco; comunque il diavolo in questione è il solito fesso disposto a costruire qualsiasi cosa in cambio dell'anima del primo cristiano che entri nell'edificio. Ma certo, dice Volf, e firma il contratto; poi esce a cacciare un lupo, lo traveste da pellegrino, e quando la chiesa è pronta lo fa entrare per primo. Il diavolo è talmente ghiotto di anime che si getta sul lupo senza accorgersi del travestimento, da cui una zuffa tremenda e da quella volta in poi il diavolo non ha costruito più chiese, che persino a Renzo Piano le fanno fare ma lui no, basta, non lo fregano più. Nei Paesi di lingua tedesca, Volfango è patrono di diverse categorie professionali, e soprattutto dei taglialegna, per via dell'accetta.


mercoledì 30 ottobre 2024

Il crollo della mente democratica

 


– Come ogni bisestile al Ponte dei Morti eccoci qui, a pregare gli dei che non ci mandino altri quattro anni di sventura. Non tanto gli dei, quanto gli elettori statunitensi, i quali però sono altrettanto capricciosi e quasi onnipotenti, per cui in effetti che differenza fa? I nostri nipoti ci giudicheranno molto diversi dai popolani che aspettavano nel Rinascimento la fumata bianca, o nel medioevo che le campane squillassero a festa perché era nato un re? La razionalità è molto sopravvalutata, questa è la lezione che tiriamo dagli ultimi due secoli di Storia, che forse per coincidenza sono stati due secoli molto americani. È veramente assurdo pensare che il destino della terra dipenda dall'umore di un allevatore della Pennsylvania; veramente assurdo ma assolutamente vero, da cui la domanda: com'è possibile che sia andata a finire così? O è stato sempre così, salvo che non ci era ancora chiaro (per cui dovremmo quanto meno salutare lo svelamento)? O in realtà non è affatto così, le elezioni USA non essendo che una bizzarra e sempre più grottesca liturgia, al termine della quale le decisioni verranno prese sempre dallo stesso deep state – che però non ne azzecca una comunque? Non ne ho la minima idea. 

– Non ho neanche la minima idea di chi vincerà stavolta l'ennesimo round tra il Male e il Meno Peggio, e a proposito: trovo incredibile, complottisticamente incredibile, che di quadriennio in quadriennio le elezioni diventino sempre più contese e incerte – voglio dire, quante probabilità dovrebbero esserci che l'ago della bilancia debba sempre sospendersi al centro esatto? È come se nel caos crescente gli elettori USA tendessero invece a un equilibrio che in qualsiasi altra elezione avrebbe un senso; e invece duecento anni fa hanno deciso che avrebbero eletto una carica monocratica e niente, non li smuovi, sono sicuri di avere il sistema migliore al mondo e chi li può contraddire. È un sistema che carica su un solo uomo una quantità di potere crescente e intollerabile, una spada di Damocle che farebbe impazzire anche chi non avesse i problemi geriatrici di un Trump; o forse i problemi di un Trump (e di un Biden) sono quello che li immunizza dalla tensione che avrebbe ucciso chiunque altro al loro posto. O forse la tensione li ha già uccisi dentro: vuoi vedere che la demenza senile sia una malattia professionale.


– Kamala Harris invece è viva, ma questo fa di lei una candidata credibile? Lo è diventata senza nemmeno disputare delle primarie che probabilmente avrebbe perso. Con lei, fanno otto anni che i Democratici non riescono a esprimere un leader carismatico; nemmeno quando il competitor è un pagliaccio. Del resto da un leader carismatico ci si aspetterebbe che fosse in grado di cambiare le cose, e questo forse è il pensiero che sta paralizzando la mente democratica: l'idea che prima o poi le cose debbano cambiare, e che tocchi a loro cambiarle. Affrontare la crisi climatica, con i mutamenti drastici che porterà nei comparti industriali ed energetici? Accettare l'emergere di nuove potenze economiche più che militari (ma anche militari), non necessariamente rivali, ma che da qui in poi non consentiranno più agli USA di assumersi quel ruolo di gendarme mondiale che Bush Primo si caricò sulle spalle e che Biden non riesce a scrollarsi? Mettere almeno una pezza ai buchi che Biden ha fatto ovunque? A differenza del suo boss, Kamala Harris conserva le risorse intellettive necessarie a rendersi conto che l'amministrazione che rappresenta è responsabile di un genocidio in Palestina e di una guerra su larga scala in Europa. Trump ha almeno la scusa di non capire cosa succede dove e perché – dopodiché, tra un demente e un criminale immagino che il criminale sia la scelta più razionale: d'altro canto, guarda dove ci ha portato tutto questo raziocinio. Probabilmente se fossi cittadino USA alla fine voterei comunque per la Harris, per il semplice motivo che me lo chiede Bernie Sanders. Se mi sforzo, qualche motivo per preferirla a Trump lo trovo. La deriva ormai esplicitamente nazista di tanti sostenitori di quest'ultimo; il rischio (ormai concretizzato) di una Corte Suprema blindata a destra nei decenni a venire; l'idea che il tizio possa mettersi a improvvisare sul fronte di quella che tra Ucraina e Iran sembra sempre più una guerra mondiale: certo che alla fine sceglierei la Harris. Ma con la consapevolezza di dover scegliere il genocida più efficiente, quello che sporcherà meno. 

– L'amministrazione democratica, ci dicono, ha ottenuto grandi risultati per quanto riguarda l'economia. Ci fa tanto piacere; nel frattempo i giovani ucraini sono decimati, la Germania è in stato confusionale, la Corea del Nord combatte per la prima volta su un fronte europeo, i talebani hanno vietato la diffusione della voce femminile (sì, anche il ritorno dei talebani a Kabul è responsabilità dell'amministrazione Biden), i turchi fanno quel che gli pare in Kurdistan e d'altro canto che gli vuoi dire, nel mentre che Israele bombarda al tappeto Gaza e Palestina e dichiara guerra alle Nazioni Unite? Però l'economia tira, ebbene, magari c'era modo di farla tirare senza precipitare il mondo in questa catastrofe. Tutto questo, duole dirlo, è successo nei quattro anni di Biden e sarebbe successo anche senza la parentesi di Trump – stava a Biden tentare un riavvicinamento all'Iran che avrebbe allentato la tensione in Medio Oriente, e non l'ha fatto. Stava a Biden sbloccare la questione palestinese, ma siamo onesti: nemmeno Obama ci aveva provato, cosa avrebbe potuto fare il vecchietto? Stava a Biden evitare che il ritiro dall'Afganistan diventasse una rotta, e non l'ha evitato. Stava a Biden evitare che la tensione in Donbass degenerasse in guerra aperta, ed eccoci qui. Nemmeno Nixon presenta ai posteri un conto tanto sanguinoso, o almeno bisogna ammettere che i massacri perpetrati in America Latina durante l'amministrazione Nixon almeno portavano vantaggi concreti; laddove è veramente difficile capire quali vantaggi strategici siano arrivati a Washington dalla guerra in Ucraina o dal genocidio palestinese. Non dico che siano guerre perse, non è affatto detto che alla fine non le vinceranno: ma sono guerre terribilmente stupide. Potrebbe averle davvero prese un anziano in stato confusionale, o comunque una classe dirigente anziana, abbandonata alla sua inerzia.

– Otto anni fa Trump era ancora considerato un outsider rispetto al ventre molle del Partito Repubblicano; oggi né è il volto più presentabile (il meno peggio!), e la sua stramberia può essere recepita dagli elettori come rassicurante: il ricordo di quattro anni in cui tutto sembrava più semplice. Nel frattempo l'emergenza climatica comincerà a presentare il conto, il che metterà a seria prova la tenuta di tutte le democrazie – non solo gli USA. Ne abbiamo avuto un timidissimo assaggio durante il covid, per cui se vogliamo farci un'idea di come reagirà alla crisi un'eventuale amministrazione Trump2, dobbiamo ricordare come reagì nei mesi del covid. Grosso modo, come tutti i governi occidentali; con qualche lentezza, senza troppo rivendicare le sospensioni delle libertà individuali, ma la paventata fuga nella Negazione non ci fu. Il mondo non è un romanzo di David Foster Wallace, anche se le somiglianze sono innegabili. È chiaro che al suo posto preferirei un presidente che metta al primo punto all'ordine del giorno la fine della dipendenza dagli idrocarburi, ma è anche chiaro che Kamala Harris non è quella presidente.

– Una postilla su Elon Musk, che abbiamo canzonato per quattro anni perché si era comprato quella sola di Twitter, e adesso magari ci vince le elezioni. Può darsi che il capitalismo, nella sua accelerazione, abbia già raggiunto la velocità di fuga dalla realtà, per cui passeremo gli ultimi anni prima dell'estinzione di massa a finanziare missioni su Marte a un bambinone bianco un po' sudafricano. Se andrà così, non potremo dire di non essercene accorti in tempo. Avevamo tutti gli strumenti per frenare in corsa, tranne forse la volontà. Non siamo quel tipo di specie che frena, anche quando i segnali sono chiarissimi. Le formiche forse avrebbero fatto di meglio; forse faranno di meglio. Di noi magari non resterà che qualche razzetto inutile in un posto dove nessuno potrà respirare per trovarlo.

martedì 29 ottobre 2024

La fuga di Narcisso

29 ottobre: San Narcisso (96-212), patriarca dimissionario di Gerusalemme 


Non so a voi, ma a me Eusebio da Cesarea non convince mai del tutto. C'entrerà anche l'età, invecchiando si diventa diffidenti. Ci si interessa alla cronaca nera, dentro la nostra testa comincia a prendere forma un archivio, e questa cosa dell'allontanamento volontario di San Narcisso dalla cattedra di Gerusalemme ci fa suonare un campanello d'allarme di cui fino a qualche anno fa non eravamo forniti. 

Eusebio nella sua Historia ecclesiastica ammette che a un certo punto Narcisso fu accusato da almeno di tre testimoni, ma che nessuno volle credere alle accuse "perché la purezza di Narcisso, sotto ogni aspetto illibata, e la sua condotta tutta adorna di virtù risplendevano agli occhi di tutti". Di conseguenza Eusebio sceglie di non riportare le calunnie, e fino a qualche anno fa approvavo la sua scelta: contro diffamatori e pettegoli, la miglior vendetta è il silenzio. 

E però da qualche anno in qua non so cosa mi stia capitando – o forse lo so benissimo – insomma il tempo è un tarlo che mi scava e mi sussurra che se davvero Narcisso fosse stato al di sopra di ogni sospetto, nessuna voce calunniosa avrebbe potuto danneggiarlo. Evidentemente Eusebio, che scrive un secolo dopo e faceva il vescovo anche lui, in un luogo non troppo lontano (Cesarea di Siria) temeva che le accuse dei tre testimoni avrebbero potuto danneggiare la reputazione, anche se non erano mai state suffragate da prove, e anzi confutate dalla stessa giustizia divina. 

I tre testimoni avevano infatti invocato l'ordalia, procedimento non sappiamo quanto abituale nella giustizia ecclesiastica del secondo secolo: dopo aver reso una testimonianza giurata, avevano chiesto a Dio di ucciderli se dicevano il falso. Il primo teste aveva chiesto di morire in un incendio, il secondo in una pestilenza, il terzo mediante accecamento. Eusebio, pur definendoli senza mezzi termini degli spergiuri privi di qualsiasi credibilità, deve ammettere che provocarono le dimissioni di Narcisso. Il quale, riferisce Narcisso, già da anni covava il desiderio di dedicarsi alla "filosofia", ovvero alla vita ascetica: per cui un bel giorno scomparve, e nessuno sapeva più dove fosse. 

Qualche anno fa non ci avrei fatto caso, ma adesso mi sembra una fuga bella e buona. Qualcuno lo aveva accusato di qualcosa di straordinariamente infamante, e Narcisso era fuggito: sotto un tappeto di parole complimentose, Eusebio ci sta raccontando uno scandalo avvenuto nel patriarcato di Gerusalemme. Non posso sapere di cosa era stato accusato, ma dentro di me l'archivio di scandali ecclesiastici si sta già sfogliando da solo: per quali motivi un alto prelato si dimette da una cattedra? Le accuse dovevano essere ben gravi, e forse un po' più circostanziate di quanto scrive Eusebio. Il quale ha un bel da raccontarci della morte miracolosa dei tre testimoni (il primo perì in un incendio, il secondo contrasse un morbo pestilenziale, al che il terzo prese paura e confessò un complotto per diffamare il patriarca, e mentre lo confessava piangeva così forte che perse gli occhi e morì): anche dopo una riabilitazione così plateale, Narcisso restò uccel di bosco. Anzi di deserto. 

I gerosolimitani dovettero nominare un altro patriarca, Dios, a cui succedette rapidamente un tale Germanione e poi un certo Gordio. Quest'ultimo però deve avere avuto altri problemi che Eusebio non spiega, limitandosi a informarci che l'episcopato di Gordio fu bruscamente interrotto dall'improvviso ritorno di Narcisso, ri-acclamato dai gerosolimitani. A questo punto doveva essere molto anziano, magari già ultracentenario, per cui chiamò ad aiutarlo un altro vescovo e non il primo arrivato, ma Alessandro di Cappadocia, che poi diventerà Sant'Alessandro di Gerusalemme. Di lui conserviamo anche un biglietto a certi fedeli egiziani in cui riporta anche i saluti di Narcisso, notando che quest'ultimo aveva compiuto 116 anni. Qualche anno fa mi sarebbe sembrata una semplice esagerazione, ma adesso ho questo famoso campanello che non smette di squillare: un vescovo che scompare nel deserto e poi ricompare anni dopo e ne compie 116? Possibile? 

E se Alessandro avesse portato in città un sosia da manovrare? Oppure Narcisso aveva semplicemente mentito con gli anni per sembrare più vecchio e malato ai tempi della sua prima elezione, proprio come Nino Manfredi nel conclave di Signori e signore buonanotte. In fondo ai tempi chi è che teneva i registri battesimali... gli bastava aver perso i capelli e i denti a quarant'anni, per poter dire in giro di averne sessanta o anche più, quel tipo di prelato con un piede nella fossa che viene nominato per prender tempo – dopodiché miracolosamente ringiovanisce, magari comincia anche a combinare qualche guaio da cinquantenne ancora pimpante, al punto che deve sparire nel deserto – ma alla prima occasione ritorna in città con qualche amico potente, salvo che ufficialmente ormai è decrepito, ma che importa, tanto contro di lui ci sono solo voci non verificabili, e chi vuoi che abbia l'interesse o la curiosità di verificarle? Certo non Eusebio di Cesarea.

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