Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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lunedì 28 ottobre 2024

L'altro Giuda

28 ottobre: San Giuda apostolo (I secolo), (non quel Giuda, l'altro).

Antoon Van Dyck, 1616
Oggi è San Giuda, auguri a tutti i Giuda, ma immagino non ce ne siano molti a festeggiare. È abbastanza comprensibile che il nome del traditore di Gesù non abbia avuto molto successo tra i cristiani, mentre era con ogni probabilità il nome più diffuso tra gli ebrei al tempo di Gesù – che del resto più che ebrei venivano chiamati Giudei. Giudea era la provincia governata da Ponzio Pilato: gli abitanti si consideravano israeliti perché discendenti di Giacobbe detto Israele, ma quest'ultimo aveva avuto dodici figli, progenitori delle omonime dodici tribù. La tribù di Giuda, nella quale sarebbe confluita quella di Beniamino, era l'unica – se si eccettua la casta sacerdotale dei leviti – ad avere conservato la propria identità dopo l'esilio in Babilonia: le altre tribù non si sapeva bene dove fossero, e vengono tuttora chiamate le "dieci tribù perdute". Insomma Giuda era il nome più giudeo in assoluto, e non è affatto strano che fosse condiviso da ben due dei dodici apostoli – del resto anche Simone e Giacomo erano doppioni. In Marco e Matteo però la lista conta solo un Giuda, l'Iscariota. È Luca il primo a menzionare un altro Giuda, detto "di Giacomo" – il che non ci aiuta certo a identificarlo, vista la quantità di Giacomi intorno a Gesù. 

Giuda potrebbe essere fratello o figlio di uno dei due apostoli, e/o del Giacomo che negli Atti è chiamato "fratello del Signore" e che sembra aver retto la chiesa di Gerusalemme dopo la partenza di Pietro. Giuda insomma potrebbe essere fratellastro o cugino di Gesù, ma nessun evangelista sembra voler calcare troppo su questo dettaglio: per Gesù i legami di sangue non erano così importanti. Gli altri due evangelisti sinottici, in luogo di questo Giuda di Giacomo, inseriscono un Taddeo ("Di gran cuore"), per cui spesso San Giuda viene chiamato San Giuda Taddeo o semplicemente Taddeo. L'ultimo evangelista, Giovanni, ricorda tra i commensali dell'ultima cena un Giuda "non Iscariota", ed è l'unico a dargli voce, soltanto per chiedere al Signore: "Come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?" Un'ottima domanda, a cui il Signore risponde in modo abbastanza elusivo ("Se uno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio l'amerà, e noi verremo da lui e dimoreremo presso di lui"). 

Giuda è menzionato di nuovo da Luca negli Atti degli Apostoli, tra i Dodici che ricevono lo Spirito Santo durante la Pentecoste: dopodiché perdiamo le sue tracce. L'imbarazzante omonimia col traditore di Gesù gli ha impedito di diventare un santo veramente popolare, al punto che nessuna Chiesa sembra reclamare il possesso delle sue reliquie. Qualche leggenda lo vuole missionario e martire in Armenia, insieme a un altro apostolo di secondo piano, Simone detto lo Zelota. A lui è attribuita anche una breve lettera verso la fine del Nuovo Testamento, in cui si mette in guardia una comunità della presenza di individui empi e dissoluti che vogliono spingere i credenti a rinnegare Gesù Cristo. Ha tutta l'aria di una polemica eresiologica, il che ci fa sospettare che la lettera sia stata scritta già nel secondo secolo, e quindi non da uno degli apostoli di Gesù. La cosa paradossale è che l'autore, mentre cerca di difendere un'ortodossia, svela una cultura molto sospetta, e la conoscenza di testi che la Chiesa aveva già rigettato come apocrifi, ad esempio il Libro di Enoch. In effetti è l'unico testo della Bibbia in cui si faccia esplicita menzione di quella famosa ribellione angelica che sarebbe terminata con la condanna inappellabile per gli angeli ribelli. C'è chi ha accusato l'autore di essersi firmato Giuda per millantare la propria vicinanza al cerchio più ristretto dei seguaci di Gesù, però bisogna anche dire che Giuda era ancora un nome molto diffuso nel I secolo: non c'è motivo di pensare che non si tratti di un banale caso di omonimia.

venerdì 25 ottobre 2024

I santi calzolai

25 ottobre: Santi Crispino e Crispiniano, martiri e calzolai (III secolo)

Gruppo scultoreo policromo presso la chiesa di Saint Pantaléon a Troyes (1540-1560)

Noi pochi, noi felici, noi banda di fratelli!
Agli inglesi San Crispino ricorderà invariabilmente la battaglia di Azincourt (1415), il momento più glorioso di quella guerra dei Cent'anni che a quel punto andava avanti già da ottanta; celebre non tanto perché tre quarti di secolo dopo Crécy gli inglesi continuavano a fregare la cavalleria pesante francese più o meno nello stesso modo (pioggia di frecce e poi mischia ravvicinata), ma perché Shakespeare più tardi l'avrebbe eternata mettendo in bocca al suo re ideale, Enrico V, uno dei più celebri discorsi motivazionali. Oggi è San Crispino, dice Enrico ai suoi: chi non vuole combattere vada pure, ma chi resterà se lo ricorderà per tutta la vita, e potrà dire di avere combattuto nel giorno di San Crispino, e sarà fiero di mostrare le sue cicatrici a quelli che si struggeranno di non esserci stati, e tutto quel tipo di retorica che macina carne da cannone da millenni. Agli italiani invece San Crispino ricorda un vino da tavola in cartone. 

Nel resto d'Europa invece Crispino e il suo collega Crispiniano sono soprattutto i santi calzolai. Il loro è il tipico caso di martiri che devono la loro popolarità, più che al martirio, alla professione che a cui sono erano stati originariamente associati. Chi fabbricava e riparava calzature, soprattutto nell'Europa del nord (in Italia erano meno conosciuti) ci teneva ad avere una loro immagine in bottega; se poi la categoria in città aveva una certa importanza e voleva dimostrarlo, facilmente avrebbe commissionato a un pittore una Sacra Conversazione coi due santi calzolai almeno in secondo piano, da sfoggiare nella cattedrale cittadina. Il pittore a quel punto sapeva di dover rendere i due ciabattini riconoscibili in quanto tali; e benché la tradizione più antica li volesse fratelli gemelli, spesso si preferiva dipingerne uno un po' più giovane dell'altro, così come in una bottega c'è sempre un apprendista e un titolare. Del resto "Crispiniano" significa "di Crispino": poteva esserne il figlio, o un ex schiavo rimasto a lavorare con l'ex padrone. Entrambi dovevano avere in mano simboli della professione: chiodi, suole, lame, martelletti, eccetera. 

Le leggende a volte arrivano dopo le immagini, anzi sembrano costruite a partire dalle immagini stesse, per giustificarle; da cui l'equivoco per cui gli strumenti di lavoro vengono interpretati come strumenti di tortura. Ad esempio i carnefici infilano le lame sotto le unghie, ma esse rimbalzano contro il boia; oppure i santi sono costretti a ingoiare piombo fuso, ma un goccio schizza nell'occhio del boia, insomma il boia sembra il cliente impiccione che ficca il naso nel retrobottega e finisce per farsi male.

La passio più antica, che così antica non è (VII secolo al massimo) li vuole martiri a Soissons, capitale della provincia romana detta Gallia Belgica, che rimase uno dei centri più importanti anche nel periodo dei Franchi. A Soissons già nel VI secolo era stata costruita una basilica in loro onore, con un reliquiario realizzato da Sant'Eligio, patrono degli orafi. Il prestigio del luogo di culto declinò quando Carlo Magno decise di spartire le reliquie tra Osnabrück e Roma, dove tuttora sono custodite nella chiesa di San Lorenzo in Panisperna. 

A Soissons Crispino e Crispiniano sarebbero giunti da Roma, per portare il Vangelo e calzature a prezzi popolari. Arrestati e fatti torturare dal magistrato Riziovaro, i due calzolai avrebbero reagito con tanta flemma che alla fine lo stesso Riziovaro si sarebbe gettato nel fuoco dalla stizza: come forse i calzolai pregano accada ai clienti petulanti e mai contenti.

giovedì 24 ottobre 2024

Il drone, il bastone e la borsetta

(Continua da qui)


Yahya Sinwar è morto da uomo, questo non si può più negare. Mutilato, annidato tra i detriti della guerra che ha scatenato, ha usato il suo ultimo respiro per impugnare un'arma e scagliarla contro il nemico. Ciò che ha reso ancora più simbolica la scena è il fatto che l'arma fosse una delle più primitive (un bastone), e il bersaglio uno dei più moderni e automizzati: un drone. Ci siamo chiesti a lungo cosa sarebbe successo quando le macchine si sarebbero rivoltate contro gli uomini: in un certo senso ci siamo. Anche se come sempre la realtà che si avvera è più sfumata delle previsioni fantascientifiche: da una parte uomini regrediti, costretti a usare pietre e bastoni; dall'altra una tecnologia che non solo uccide con spietata efficienza, ma che ormai stabilisce anche cosa valga la pena di uccidere e cosa no (gli ufficiali israeliani perlomeno sostengono di bombardare determinate aree in base a un "algoritmo"; se un giorno molto ipotetico qualcuno mai li portasse a processo, si difenderanno sostenendo che prendevano gli ordini da un computer). Questa tecnologia ufficialmente è ancora in mano ad esseri umani, i quali tuttavia tendono a delegare sempre di più, anche perché uccidere è oggettivamente un lavoraccio che produce danni psicologici – vedi il tizio che non può mangiare più carne dopo che ha schiacciato centinaia di umani con un bulldozer, come non empatizzare? C'è una vasta letteratura sull'argomento; purtroppo è quasi tutta basata sui nazisti e quindi adoperarla per descrivere gli israeliani è vietato, non si può fare, antisemitismo. Ma forse l'atteggiamento da gamer giulivi che molti soldati IDF stanno eternando su Tictoc è un tentativo inconsapevole di restare umani: e quindi stupidi, goffi, ridanciani, mentre le armi che usi diventano sempre più precise e spietate. Di Yahya Sinwar si racconta che uccidesse i traditori con le proprie mani, ed è previsto che la cosa ci inorridisca perché le persone vanno uccise a macchina. Il che implica che solo chi controlla la macchina abbia il diritto di uccidere; se poi la macchina si controlla da sola, tanto meglio per chi non può essere più ritenuto responsabile. Sinwar non poteva permetterselo, era un barbaro: un drone lo ha scovato e un razzo lo ha colpito. E non ne staremmo parlando nemmeno più. 

Ma gli israeliani hanno deciso di mostrarci le immagini. 

Cosa gli ha detto il cervello. 

Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10, era la propaganda. Glielo riconoscevamo tutti: non importa quanti errori commettesse, Israele sapeva raccontarsela e raccontarcela. Dopodiché è successo qualcosa che può veramente essere spiegato da una crisi di panico: ammesso che gli israeliani si rendano conto di quello che stanno facendo, è abbastanza chiaro a questo punto che non si rendono più conto di quello che stanno raccontando. Stanno radendo al suolo una zona in cui vivono due milioni di persone, il che è incredibile: ma è molto più incredibile che i soldati, mentre lo fanno, si riprendano e condividano pubblicamente le prove dei loro crimini di guerra. Politici e militari citano allegramente versetti della Bibbia come se per il resto del mondo fosse una cosa normale ispirarsi a mitologie vergate migliaia di anni fa. Il senso di impunità che trasmettono rimane dopo mesi sbalorditivo: sembrano semplicemente non rendersi conto che qualcuno potrebbe giudicare anche loro.  

L'ignoto addetto alla propaganda che decide di condividere le ultime immagini di Sinwar deve avere pensato che esse avrebbero dimostrato la gloria e la potenza di Israele e l'umiliazione dei suoi nemici. È successo l'esatto contrario: quell'umanissimo lancio di un bastone contro il drone ha commosso anche tanta gente che in Hamas non si riconosce, ma che tra uomo e drone non può certo scegliere il secondo. Dopotutto non è così comune vedere un leader che muore con le armi in mano: di Allende abbiamo la foto vivo con le armi, di Guevara quella in cui è già morto, ma insomma stiamo parlando già di Guevara e Allende, mentre la consegna prevedeva che Sinwar fosse trattato da lurido tagliagole circondato da ostaggi seviziati. I propagandisti israeliani forse non si rendono conto di quanto sia scontato, per chiunque non viva nella loro comunità psicopatizzante, stare dalla parte dell'uomo contro il drone. Forse avrebbero dovuto riguardarsi Metalhead, uno degli episodi meno noti di Black Mirror, perché in effetti non contiene nulla di controverso: ci sono umani che lottano contro macchine assassine. Non abbiamo la minima idea di che umani siano: non conosciamo le loro idee politiche o fedi religiose; l'unica cosa chiara è che non vogliono essere ammazzati da queste macchine, ed è tutto quello che ci serve per stare dalla loro parte, nella speranza che un giorno non succeda anche noi, o ai nostri figli. 


Se c'era una cosa in cui Israele sembrava imbattibile, fino al 7/10/2023, era la propaganda; dopodiché non sono più riusciti a raccontarsi senza autoaccusarsi, in un delirio che in certe vecchie detective stories era il sintomo del senso di colpa dell'assassino. Nessuno avrebbe mai immaginato un Sinwar così umano nei suoi ultimi minuti, ma gli israeliani sono stati così poco avveduti da mostrarcelo, dopodiché – una volta preso atto dell'incredibile autogoal – hanno divulgato un altro video in cui Sinwar, ci spiegano, "poche ore prima del massacro etnico degli ebrei da lui organizzato, scappa nel tunnel che si è fatto costruire sotto casa sua a Gaza". Ecco, ora sì che Sinwar dovrebbe sembrarci un mostro; e codardo, per di più, visto che gli altri uccidono e lui scappa. Senonché. 

Senonché nel video si vede una famiglia che si sposta con un po' di bagagli. Madre, padre e bambini. Se non fosse per il tunnel, potrebbero essere i tuoi vicini di casa che vanno in vacanza. Certo, la maggior parte dei giornalisti non ha vicini di casa così: ma io un po' sì e magari anche tu, pazientissimo lettore, non vivi nel quartiere 100% ariano da cui i corsivisti di Foglio e Linkiesta ci spiegano cos'è l'antisemitismo. Per accettare che il video mostri un leader crudele mentre volge sadicamente le spalle ai suoi stessi combattenti, dobbiamo credere che sia stato girato proprio il sei ottobre, e passi; e che Sinwar non stia semplicemente aiutando la famiglia a trasferirsi in un luogo sicuro, con altre famiglie di altri combattenti. Che non abbia disertato il fronte lo dimostra il fatto che sul fronte sia morto più di un anno dopo, a guerra ormai abbondantemente persa; per il resto anche Churchill durante i bombardamenti mandava i parenti nei rifugi, forse ci entrava pure lui; forse se i suoi nemici avessero messo le mani su un filmato in cui scendeva le scale lo avrebbero anche loro montato a scopo propaganda – salvo che ehi, no, non si possono paragonare i nemici di Churchill, dimenticavo che è proibito, scusate, scusate. 

Che anche questo secondo video non stesse funzionando, lo dimostra una definitiva ondata di tweet che a partire da un'ora dopo la diffusione del video da parte del portavoce dell'IDF, e per due giorni buoni, hanno sentito la necessità di avvertirmi che la borsetta in mano alla moglie di Sinwar fosse un modello Hermès da 32000 euro.

ah beh, uguale

Lo scrivo per ricordarmelo, perché per quanto ridicolo, è stato uno dei momenti più genuinamente orwelliani che ho mai vissuto in vita mia. I tweet provenivano tutti da opinionisti e attivisti che avendo scelto un anno fa di sostenere Israele "a ogni costo", stanno pagando evidentemente un costo altissimo in termini di credibilità e... umanità. A proposito di macchine: ormai quasi indistinguibili da bot litigiosi che ti compaiano davanti soltanto per massimizzare il fastidio e strapparti la reaction. Tutti coordinati da un algoritmo neanche troppo sofisticato, tutti improvvisamente convinti che una borsetta che si intravede per pochi secondi corrisponda a una Birkin – tutti ormai disposti a cavarsi gli occhi per evitare che vedano cose che Israele non vuole. Tutti hasbaristi improvvisati, salvo che se dopo mesi e anni di improvvisazioni ancora non siete capaci vuol dire che non era proprio il vostro campo. E tanti italiani. Troppi. Italiani che non sanno riconoscere una borsa? Ammettiamolo pure. Italiani che non si rendono conto che un modello di borsa nera vagamente simile a una classica Hermès lo puoi trovare su una bancarella del mercato a cento euro regalati? Quanta esperienza di vita, quanta intelligenza, quanto cervello dovete sacrificare per ritrovarvi a condividere una scemenza del genere? L'IDF vi vende una Hermès da trentaduemila euro e voi comprate? Che non capiate nulla di diritti civili e diplomazia, è abbastanza normale: se cercavo degli esperti mica stavo su Twitter; ma che non capiate niente di borse è inverosimile, inaccettabile, no. Nel prossimo captcha ci potrebbe essere una Birkin da riconoscere, e voi fallireste il test.  

mercoledì 23 ottobre 2024

Il frate da combattimento

23 ottobre: San Giovanni da Capestrano (1386-1456), predicatore e condottiero

A Budapest gli hanno fatto un monumento (anche se non lo tengono benissimo)

Tutte le volte che scoppia una guerra e sui social comincio a vedere le bandierine, complice l'età, mi spazientisco: ma insomma quand'è che crescono questi, come fanno a prendere tutto come una partita di calcio? "Io sto con gli ucraini", scrivono – in che senso? No, seriamente, quelli stanno sparando ai russi, e i russi stanno bombardando l'Ucraina, e tu invece cosa stai facendo esattamente a parte chiacchierarne su Facebook? Poi succede qualcosa a Gaza ed eccoli, ti spiegano perché i palestinesi dovrebbero rendere gli ostaggi, o scappare in Egitto, ecc. Di un conflitto che si protrae da decenni, non è incredibile che proprio loro conoscano la soluzione, e non è triste che se ne restino confinati in un ambiente virtuale invece di essere in prima linea a spiegarla alle opposte fazioni? Non potreste andarci, a Gaza, a spiegare voi le ragioni degli israeliani, o viceversa? 

Questa, mi rendo conto, è sempre una mossa sleale. A chi parla di guerra non si chiede mai di andarci davvero, non è così che funziona, tranne in rarissimi casi come ad esempio Giovanni da Capestrano, che quasi settantenne si ritrovò su un campo di battaglia, a Belgrado. Siccome era da anni che in qualità di predicatore sosteneva la necessità di una crociata contro i turchi, alla fine la organizzò davvero, reclutò i soldati, si arrabbiò coi generali che non erano sicuri di voler dare battaglia, in un qualche modo li convinse, e vinse. Poi morì di peste, contratta probabilmente nell'infermeria di campo, ma ormai una lezione di coerenza ce l'aveva data. 

L'ultima di tante, perché prima di espugnare Belgrado, Giovanni era già uno dei predicatori più famosi della cristianità; unanimemente considerato il successore di Bernardino da Siena, che tanti anni prima lo stesso Giovanni aveva difeso con successo a Roma dall'accusa di idolatria (l'entusiasmo con cui Bernardino promuoveva la sua bandiera col nome di Gesù era parso ad alcuni rivali assai sospetto). Ma mentre il maestro Bernardino aveva portato avanti, anche con la sua bandiera, un'azione per lo più pacificatrice, a Giovanni toccò in sorte una carriera bellicosa: ancora prima dell'assedio di Belgrado, gli agiografi descrivono le sue imprese come una serie di missioni che prevedono la sconfitta di determinati avversari: i fraticelli, le schegge impazzite del movimento francescano, ancorate a un pauperismo ormai rigettato dalla Chiesa ufficiale; gli usurai per lo più ebrei, contro i quali la polemica dei predicatori francescani diventa sempre più violenta nel corso del Quattrocento, fino ad assumere toni antisemiti; gli eretici boemi, seguaci di Jan Hus; e alla fine appunto i turchi. Tempi difficili selezionano caratteri risoluti, e Giovanni non doveva averne uno semplice. La vittoria clamorosa riportata prima di morire non facilitò affatto il suo processo di canonizzazione, perché Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II proprio nel 1456, non lo aveva in simpatia: i frati non dovrebbero attribuirsi i successi delle battaglie. Il risultato fu che gli aquilani dovettero aspettare più di due secoli prima di poterlo venerare il loro concittadino come un santo. Il sospetto è che avrebbe fatto meglio a fare come San Bernardo: restarsene in qualche convento confortevole a scrivere prediche ben tornite sul tema Armiamoci e Partite. I guerrieri da salotto sono sempre i più apprezzati, chi ha ucciso davvero Bin Laden? Nessuno lo sa; invece tutti sanno chi era Oriana Fallaci. Per fare un esempio. 

martedì 22 ottobre 2024

Seppellire Yahya Sinwar


Non vengo a onorare Yahya Sinwar. Prima del 7/10/2023 credevo che Hamas fosse stata una sciagura per il popolo palestinese, e quello che è successo dopo non mi ha dato motivi per cambiare idea. Hamas è stato il nemico che Israele si è coltivato con pazienza per molti anni, recintandolo a Gaza, separandolo dal resto della Palestina, rifiutandosi di dialogare con i palestinesi che ad Hamas non cedevano, eliminando o imprigionando i leader palestinesi che avrebbero potuto costituire un'alternativa credibile ad Hamas. Quelli Israele li temeva veramente: Sinwar no, Sinwar era la dimostrazione che i palestinesi erano barbari tagliagole; e se qualche gola israeliana veniva effettivamente tagliata nel processo, si trattava di un danno collaterale che i governi israeliani (non solo Netanyahu) erano convinti di aver calcolato. Fino al sette ottobre, un grandissimo errore di calcolo: dopodiché, tutto quello che Israele ha fatto si può interpretare anche come una crisi di panico. Un nemico ormai di cartone, un nemico che veniva tirato fuori per lo più nelle notti di estate come lo spauracchio per mandare a letto i bambini (e piatire fondi agli americani), si è rivelato un nemico vero che faceva ostaggi veri. Questo era intollerabile al punto che gli ostaggi sono stati sostanzialmente dati per persi: se descrivi il tuo nemico come un barbaro con cui è impossibile venire ai patti, scambiare prigionieri non è un'opzione. Inoltre sarebbe stata la fine politica di Netanyahu, e tra dimettersi e scatenare un conflitto su larga scala con annesso genocidio, N. non sembra avere esitato molto. Se Sinwar è corresponsabile della catastrofe che si è abbattuta su Gaza, Netanyahu è altrettanto corresponsabile della strage degli ostaggi; perlomeno la logica ci direbbe questo, ma chi è che ascolta la logica oggigiorno.

Non vengo a onorare Yahya Sinwar, ma non posso dire di trovare incomprensibile la sua traiettoria: nato profugo, cresciuto in una prigione, ha combattuto contro lo stesso nemico per tutta la sua vita, ed è morto sul fronte con un'arma in mano. La distanza da cui lo giudico una sciagura per la sua stessa causa è quella tra la mia comoda tastiera e Gaza. Se fossi nato là, sarei diventato molto diverso da Yahya Sinwar? Sospetto che mi sarebbe mancato il suo coraggio, ma a parte questo: avrei odiato i miei oppressori con meno intensità, li avrei combattuti con meno crudeltà? Non ne ho idea, e nemmeno l'avete voi. Siete soltanto nati in un posto diverso, e ringraziate. Qualcuno, proprio per essere sicuro di far nascere i propri figli in un posto diverso, ritiene giusto recintare intere popolazioni, bombardarle, e insomma permettere che dentro un recinto crescano altri milioni di persone come Yahya Sinwar. Al di là di ogni considerazione morale, mi sembra proprio che la cosa non stia funzionando: se era un esperimento possiamo interromperlo. In un certo senso è quello che Israele sta facendo: radere al suolo il recinto, fine dell'esperimento. Scopriremo che è colpa dell'Islam, come sempre, o dell'inemendabile tribalismo arabo. 

Non vengo a condannare Yahya Sinwar – una cosa che non sopporto più sono quelli che siccome stai scrivendo due idee su internet, ti chiedono di "condannare" persone o eventi, come se fossimo giudici o boh, filosofi morali. Giudicare è operazione delicata, c'è gente che studia molti anni prima di esserne in grado: dopodiché merita il nostro rispetto (compresa una certa corte all'Aja che chiede con insistenza e dovizia di motivazioni che Israele cessi un genocidio). Noi non siamo giudici, siamo osservatori: non siamo qui per spiegare cos'è bene e cos'è male, ma per cercare di capire come mai certe cose si risolvono in bene e altri eventi scatenano il male. Se Sinwar è stato una sciagura, si tratta di cercare di capire cos'ha portato la società palestinese a esprimerlo. Durante questa ricerca, possiamo anche commettere errori, cedere alla nostra soggettività, a un punto di vista che è sempre in parte ideologico; succede. Ma saranno errori in buona fede, inevitabili da parte di chi sta semplicemente cercando di capire un problema enorme e forse non più solubile. Viceversa, chi ha deciso immediatamente che Sinwar era il Male, e che sradicandolo si sarebbe sconfitto almeno una porzione di Male, ecco, quello non sta cercando e non sta nemmeno giudicando: si sta raccontando una favoletta per bambini e non sarebbe un grosso problema, se la favoletta non servisse a giustificare un'operazione di pulizia etnica su larga scala. Ma così come devo cercare di capire Sinwar, mi tocca cercare di capire pure quelli e quelle che si raccontano la storia di sua moglie con la borsa di Hermès. (Continua)


martedì 15 ottobre 2024

Nessuno vi ascolta, nessuno vi tocchi


Scusate.

Ma dopo tutto questo, credete che vi daremo mai più retta?

Perché un giorno sarà finita; e probabilmente siete tra quelli che sperano che finisca presto: muoia chi deve morire, e finalmente potremo parlare d'altro. Ecco.

Lo credete davvero?

Che potrete mai più parlare d'altro, e che qualcuno vi starà a sentire?

Che leggeremo i giornali in cui avete scritto che no, non era proprio un genocidio; finché non avete dovuto scriverci che sì, era un genocidio ma perfettamente giustificabile, anzi completamente imputabile alle vittime, alla loro disumanità irreducibile, alla loro pretesa di difendersi o nascondersi e addirittura – oscena bestemmia – fare prigionieri?

Sul serio pensate che vi ascolteremo un'altra volta, anche solo un'altra volta mentre spiegate quali popoli hanno il diritto di difendersi e quali no; quali uomini e donne vanno aiutati a resistere e quali no; quali possono lottare per i loro diritti e quali devono bruciare perché a quanto pare gli è capitato di nascere sui diritti degli altri; sul serio credete che ci serva ancora il vostro ragguaglio su quali esseri umani sono da considerarsi autenticamente umani, e quali tutto sommato no? 


E che da questo punto in poi ci interesserà mai qualcos'altro di voi; i vostri libri, i vostri film, i vostri concerti? Da un punto di vista abbastanza distante probabilmente sì, avrebbe senso separare gli artisti dalle volonterose trombette di Netanyahu; e quindi quando tutto questo finirà (presto!) noi potremmo raggiungere quella giusta distanza e non pensarci sostanzialmente più, come vorreste non pensarci più anche voi.

E a quel punto non avreste paura a girare per strada, che qualcuno vi veda e vi chiami coi nomi che meritate.

Ma forse a questo punto in quei begli insediamenti vista mare, che i coloni stanno già lottizzando, vi conviene opzionare un attico. E procurarvi tutta la servitù e la security che vi sarà necessaria, perché, mi rincresce, ma il giorno in cui potrete uscire per strada senza paura, senza vergogna, potrebbe non arrivare mai. 

C'è stato un massacro, e lo sapevate sin dall'inizio; e sin dall'inizio avete scelto da che parte stare. Questo vi definirà, da qui in poi. Non una parola, non un discorso, non una canzone, niente potrà cambiare quello che è successo. C'è stato un genocidio, e lo avete invocato, giustificato, difeso, festeggiato. Se credete di poter convincere qualcuno del contrario, non succederà. Non avete convinto nemmeno voi stessi. 

Perdonate se il tono vi sembra minaccioso, ma la vostra paura non dipende da me. Non dipende realmente da nessuno, se non da voi. Nel momento in cui potevate scegliere tra vittime e assassini, avete scelto gli assassini; d'ora in poi rivolgetevi a loro. Spiegate a loro cosa è bello, cosa è giusto: magari vi troveranno interessanti.

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