Prima di andare a vedere Berlinguer – la grande ambizione mi chiedevo come fossero riusciti a trovare materiale per due ore di film su un personaggio senza dubbio interessante ma, diciamolo, non esattamente cinegenico (un "grigio funzionario", anche in famiglia dunque lo chiamavano così). Quando è finito Berlinguer mi sono guardato intorno smarrito: ma come, tutto qui? E la marcia dei quarantamila, il referendum sulla scala mobile, la questione morale? Avete tagliato tantissime cose!
Più che degli sceneggiatori potrebbe essere colpa delle piattaforme, con la loro serialità televisiva, che col tempo ci toglie il gusto per la sintesi. La serialità è una droga; con il trucco della reiterazione fa sì che ci affezioniamo a qualsiasi personaggio, purché ben recitato. Due ore di Germano nei panni di Berlinguer mi sono sembrate poche, ne avrei volute almeno altre due; e pazienza se si sarebbe trattato di vederlo ingrigire, tossire e agonizzare, ne sentivo la necessità. Anche perché così la storia è veramente troppo schematica: giunto al vertice del suo partito (ma come ci è arrivato?), nel momento in cui rischia di vincere le elezioni (ma perché va così forte?) il Segretario Enrico Berlinguer teme che un simile successo possa stimolare una risposta autoritaria. L'esempio del golpe cileno lo spinge a tentare una strada diversa: un "compromesso storico" col principale partito di governo, la Democrazia Cristiana. Siamo nel momento più inerte della Guerra Fredda: la mossa di Berlinguer è allo stesso tempo obbligata e imprevista. Osteggiato sia da Est sia da Ovest, poco compreso dalla base operaia del partito, il progetto trova una sponda nel segretario DC Aldo Moro: ma proprio quando tra mille cautele ed esitazioni la trattativa sembra finalmente portare a qualcosa, Aldo Moro viene sequestrato e ucciso. Fine, e scusate gli spoiler.
Ora proviamo a dire cosa poteva esserci nel film, e non c'è. Alcune cose sono riassunte veramente per sommi capi: i movimenti extraparlamentari, di sinistra (una kefiah) e di destra (la bomba in piazza della Loggia). Gli industriali (un'intervista all'Agnelli vero, che sarebbe stato molto più intrigante se interpretato da un attore: ma gli autori non se la sono sentita). Altri personaggi sono completamente rimossi: i socialisti, ad esempio; in effetti avrebbero complicato il quadro. Ogni biografia è una semplificazione, lo sappiamo. Si tratta di capire se la semplificazione funziona, se fa di Berlinguer l'eroe di una tragedia che ci interessa e ci dice qualcosa. Gli sceneggiatori non si erano dati un compito facile: c'è qualcosa, nella figura di Berlinguer che respinge tuttora le semplificazioni, gli schematismi, le agiografie. I comunisti non credevano troppo nelle figure degli eroi, e Berlinguer non riteneva necessario diventarne uno. Persino i suoi discorsi, per quanto ben scritti, non ci hanno lasciato frasi particolarmente memorabili: erano tempi diversi, non era necessario conquistarsi i titoli di giornale con battute icastiche o spiritose. Si potrebbe dire più o meno lo stesso per Moro, riscattato però da una fine tragica che a Berlinguer non è stata concessa. Berlinguer si è spento gradualmente – ucciso forse dalla nicotina che s'insinua velenosa in tutte le sequenze – nel mentre che l'Italia cominciava un processo di deindustrializzazione che ha tolto al suo partito una delle principali ragioni d'essere. Questo il film non lo racconta, anzi lo riassume in una didascalia finale in cui viene spiegato che anche negli Ottanta, gli "anni del liberismo" [???] il partito di Berlinguer continuava a tener duro. Che è proprio un errore di prospettiva storica, ma a quel punto il film è finito. Prendiamo atto che agli autori la fine del PCI non interessava. Cosa gli interessava.
Manca anche questa vignetta, che fu importante |
Il compromesso storico. La "grande ambizione" del titolo è il compromesso storico. Un'idea che Berlinguer ha formulato nel 1973 e ha abbandonato nel 1979. Una grande occasione mancata? Forse: ma soprattutto la dimostrazione più evidente del fatto che l'Italia sia uno Stato a sovranità limitata. Alla fine non importa nemmeno se Moro sia stato sequestrato e ucciso per conto dei sovietici, degli americani o da schegge impazzite come (forse) erano le BR. Né importa più di tanto la famosa "linea della fermezza" che Berlinguer scelse di adottare nell'occasione e che il film non problematizza affatto. Era un problema di equilibrio mondiale: l'Italia non poteva uscire da un blocco (Berlinguer lo sapeva), il PCI non poteva uscire da un altro blocco (Berlinguer ci provò, rischiando molto), e in questo consisterebbe la tragedia rappresentata nel film. Che oltre a raccontarci qualche anno della vita di un leader politico, come sempre ci parla di noi: della nostra sovranità limitata (possiamo assumere posizioni che non siano atlantiche?), e delle nostre nostalgie: per un partito di massa e per un leader un po' carismatico. Ecco, la nostalgia.
Quando è finito il film, mi sono appunto chiesto cosa avevo visto per tutto il tempo. Non avevo visto gli attentati, non avevo visto i movimenti, non avevo visto né Saragat né Craxi, né Leone, né i confindustriali, né un vero dibattito sul caso Moro: e quindi? Avevo visto un congresso del PCUS, qualche frammento tratto da discorsi ben più lunghi e complessi e un po' di intimità famigliare nella casa di un leader di partito, ma a parte questo come hanno fatto a tenermi in sala per due ore? Temo che la risposta abbia troppo a che vedere con la nostalgia. Che forse è una molla che porta più spettatori nelle sale, ma da un punto di vista storico è davvero la sensazione meno utile in assoluto. Sempre questa idea che da qualche parte nel nostro passato ci sia stata un'età dell'oro a cui è seguita una caduta, a causa di un qualche errore commesso da un incauto mortale. Se Togliatti avesse criticato l'invasione in Ungheria. Se le BR non avessero ucciso Moro... Se, se, se.