Notizie e tentazioni
La notizia è che la guerra sta andando male, da qualunque lato la si voglia vedere.
La tentazione è: (Sorrisino) “Vedete! Noi l’avevamo detto!”.
È una tentazione alla quale io resisto abbastanza facilmente (le immagini di questi giorni troncherebbero il sorrisino a chiunque), ma Barenghi?
Barenghi è il direttore del Manifesto, un quotidiano che spesso predica ai convertiti, specie in prima pagina. E in prima pagina venerdì scriveva:
Ma quando discutiamo con noi stessi, quando ci guardiamo allo specchio, le cose stanno diversamente: una parte di noi, nel senso di una parte di ognuno di noi, pensa e spera che gli iracheni resistano (per quanto nessuno a sinistra potrebbe mai identificarsi con il loro regime), che gli americani paghino cara la loro guerra, che il sacrificio di migliaia di soldati o civili possa servire a bloccare il progetto che l'amministrazione Bush sta cercando di praticare da un anno e mezzo in qua.
Una parte di noi, quella certa parte di noi, se c’è, di solito se ne sta ben ricantucciata dentro di noi, per la paura che le altre parti di noi la prendano a sberle. È precisamente la parte di noi che sogghigna a ogni notizia di strage di mercato o di marines sperduti nel deserto. È quella parte di noi – profondamente stupida – che ogni volta che vede grande confusione sotto il cielo pensa che la situazione sia eccellente, e la palingenesi rivoluzionaria alle porte. È la parte di me (spero irrisoria), che se qualcuno riuscisse a localizzarmi in una zona fisica (un dito dei piedi, un etto del cervello, una piega dell’intestino), io sarei disposto a farmela asportare, perché non si può essere così idioti, anche solo in una recondita parte di noi.
Alla fine Barenghi (sempre allo specchio) si chiede, amletico: E allora come speriamo che sia questa guerra, lunga o breve?.
La risposta è molto semplice: non speriamo niente. La politica non si fa con la speranza. La guerra, figurarsi. I belligeranti, delle nostre speranze, non sanno che farsene.
(A meno che non siamo convinti che i nostri auspici possano modificare il corso degli eventi, ma in tal caso siamo cristiani e questi auspici si chiamano preghiere. Nulla di male, basta riconoscerlo).
Fine invettiva. Consigli per gli acquisti:
l’ultimo numero di Internazionale è molto bello. Passi il titolo di copertina (“War Blog”), ma ci trovate tante cose che credete di aver già letto in settimana navigando su Internet, e invece avete solo fatto finta, perché erano scritte in piccolo e in inglese. Per esempio, il blog di Raed, da Baghdad, tradotto in italiano. Un pezzo di Seymour Hersh su una delle tante bufale pre-belliche: un presunto traffico di uranio dal Niger all’Iraq. Doveva essere una delle prove del rinnovato interesse di Saddam Hussein per le armi atomiche, ma le pezze d’appoggio erano smaccatamente false, come hanno ammesso a mezza voce anche i servizi americani.
La redazione di Leonardo, che la sa sempre un po’ più lunga, è venuta in possesso di uno di questi documenti riservati. Si tratta di un’e-mail inviata all’indirizzo di posta elettronica saddam@hussein.ir Ne citiamo le prime righe:
Sir,
URGENT BUSINESS RELATIONSHIP
First, I must solicit your confidence in this transaction,
which is of mutual benefit. This is by virtue of it's nature
of being utterly confidential.I am sure and have confidence
of your ability, and reliability to prosecute a transaction
of this great magnitude.
We are top Officials of the Federal Government Uranium
review Panel who are interested in importation of goods into
our country with tons of uranium which are presently trapped in
Niger. In order to commence this business,we need your
assistance to enable us transfer funds into your
account.
Secondo me non c’è cascato. (Qui la spiegazione).
Bambini internazionali
Ma soprattutto, su Internazionale di questa settimana c’è una buona traduzione delle e-mail di Rachel Corrie. Rachel Corrie era una ragazza americana di 23 anni, sensibile, coraggiosa e intelligente. Ed è morta il 16 marzo in Palestina, schiacciata da un bulldozer israeliano. Poi è scoppiata una guerra, e non se n’è più parlato. Ma dobbiamo cercare di vedere le cose in prospettiva: dopo questa guerra ce ne saranno altre, e sempre crederemo di assistere a svolte cruciali, e sempre ci dimenticheremo della guerra precedente. Ma se avremo dei figli, loro non ci chiederanno se c’è stato prima il Kossovo o l’Iraq o l’Afganistan o il Vietnam. Ci chiederanno se abbiamo sentito parlare di Rachel Corrie, se abbiamo pianto per lei, e se abbiamo ancora quella vecchia rivista con le sue lettere. Credo. Spero.
Ho pensato che in fondo siamo tutti bambini curiosi di altri bambini: bambini egiziani che strillano a una strana signora che passeggia sul sentiero dei carri armati. Bambini palestinesi presi di mira dai carri armati quando si affacciano dal muro per guardare quello che succede. Bambini internazionali in piedi davanti ai carri con striscioni. Bambini israeliani nei carri, anonimi, che a volte urlano, a volte salutano, molti obbligati a essere lì, molti semplicemente aggressivi, pronti a sparare sulle case appena noi ce saremo andati...
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi.
Noi no. Donate all'UNRWA.
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lunedì 31 marzo 2003
venerdì 28 marzo 2003
First we take Bassora, then we take Berghèm (primo episodio)
I'm guided by a signal in the heavens
I'm guided by this birthmark on my skin
I'm guided by the beauty of our weapons
First we take Bassora...
Fu lunga, breve, giusta, sbagliata, preventiva, mal preventivata, disumana, umanitaria, fu tante cose, la Seconda Guerra del Golfo, finché un giorno finì: e mentre i soldati dell’Iperpotenza sgomberavano (sostituiti dagli effettivi degli Stati vassalli), l’attesa montava, di conoscere quale sarebbe stato il prossimo obiettivo della Libertà Infinita; quale altro Stato Canaglia avrebbe avuto il privilegio di assaggiare il dolce sapore della democrazia, con quel vago retrogusto di uranio. In Occidente si accettavano scommesse; nel Medio Oriente s’incrociavano le dita e le code di paglia, lunghe assai.
Perciò la sorpresa fu grande, quando si scoprì che il fortunato prescelto era un Paese mollemente sospeso tra Africa ed Europa, ma da millenni iscritto nel catasto Occidentale; un antico faro di Civiltà, anche se negli ultimi tempi sbirluccicava appena, e un amico di vecchia data dell’Iperpotenza (come l’Iraq, del resto). Cosa poteva giustificare una simile scelta? Il petrolio? No, petrolio non ce n’era. Appena appena un po’ di metano, ma chi farebbe una guerra per il metano? No, ormai le guerre non si facevano più per il profitto, ma per la democrazia, punto e basta. L’Iperpotenza riteneva che non ce ne fosse abbastanza, in quel Paese, e aveva deciso di rovesciargliene un po’, lei che non sapeva più dove metterla.
A chi obiettava che quel Paese era, ufficialmente, una Repubblica democratica fondata sul Lavoro, gli ideologi dell’Iperpotenza replicavano con franche risate. Una Democrazia, quella? Con un Presidente che possedeva in forma privata metà dell’etere televisivo e in forma pubblica l’altra metà? Con un Parlamento che varava riforme della giustizia ogni volta che un parlamentare veniva beccato con le mani nel sacco? Con intere regioni in mano a tribù e a clan della malavita organizzata? Forse che Saddam Hussein era un Presidente democratico perché vinceva le elezioni col 99%?
E poi c’erano alcuni diabolici dettagli, che alimentavano il sospetto – qualcosa di più di un sospetto – nel cuore della diffidente Iperpotenza. Già da tempo essa aveva imparato a dubitare degli amici ancor prima dei nemici, specie se erano amici grandi produttori e commercianti di armi.
Perché, proprio nel corso della guerra del Golfo, il Parlamento di quel Paese aveva sentito l’esigenza di consentire ai propri produttori di vendere armi ai Paesi che violavano i diritti civili? Pura coincidenza? E che dire di due anni prima, quendo ancora fumava Ground Zero e il mondo faceva la fila per esprimere le condoglianze all’Iperpotenza ferita al cuore? Non era stato forse lo stesso Parlamento *democratico* a votare una norma sulle rogatorie internazionali che era come un invito alle organizzazioni criminali e terroriste del mondo a nascondere i propri capitali in quel bel Paese? Insomma: si trattava di uno Stato amico o di uno Stato canaglia? Certe volte era difficile distinguere. Ma nel dubbio, si bombarda: era una prassi consolidata, ormai.
Certo, i governanti di quel Paese avevano avuto tante belle parole di solidarietà con l’Iperpotenza. E quanta retorica sulla Terra della Democrazia, sulla bellezza delle stelle e delle strisce… ma aiuti concreti? Pochini. Invio di truppe al fronte? Solo a guerra conclusa. Uso delle basi? Sì, ehm, no, solo per azioni umanitarie, solo se ci mettete davanti al fatto compiuto.
“Ma insomma”, sbottavano i diplomatici dell’Iperpotenza, “siete nostri alleati o no?”
“Ma sì. Ma no. Cioè, dipende dai sondaggi”.
E intanto la situazione degenerava, giorno per giorno. Nel Paese era scoppiata da anni una violentissima guerra civile, detta Guerra del Traffico. Ogni giorno (e ogni notte) su strade e autostrade i civili si scontravano in duelli suicidi, col tacito consenso dell'autorità, che incoraggiava le fazioni a rottamare e acquistare auto sempre più veloci e distruttive, in nome dell'interesse nazionale e del Prodotto Interno Lordo. Ogni anno il numero di morti superava di gran lunga quello dell’Intifada palestinese. Urgeva un’invasione, per ripristinare, se non la libertà e la democrazia, almeno il Codice Stradale. Sarebbe morto qualche innocente, certo. Ma non si poteva far finta di niente, nascondere la testa nella sabbia.
I don't like your fashion business, mister.
I don't like these drugs that keep you thin.
I don't like what happened to my sister.
First we take Bassora...
Furono così avviate le procedure d’invasione, i colloqui multilaterali, i siparietti con gli ispettori ONU, e tutto l’armamentario che serve a far rilassare il telespettatore tra una guerra e l’altra, e a stimolargli l’appetito (parla di guerra per sei mesi, e alla fine ti supplicheranno di cominciarla). Ma nel Paese in questione, pigramente sospeso tra Europa e Africa, la tensione cresceva. Non era cosa di tutti i giorni, diventare un target militare.
I cittadini, specialmente, erano un po’ perplessi. (Continua...)
I'm guided by a signal in the heavens
I'm guided by this birthmark on my skin
I'm guided by the beauty of our weapons
First we take Bassora...
Fu lunga, breve, giusta, sbagliata, preventiva, mal preventivata, disumana, umanitaria, fu tante cose, la Seconda Guerra del Golfo, finché un giorno finì: e mentre i soldati dell’Iperpotenza sgomberavano (sostituiti dagli effettivi degli Stati vassalli), l’attesa montava, di conoscere quale sarebbe stato il prossimo obiettivo della Libertà Infinita; quale altro Stato Canaglia avrebbe avuto il privilegio di assaggiare il dolce sapore della democrazia, con quel vago retrogusto di uranio. In Occidente si accettavano scommesse; nel Medio Oriente s’incrociavano le dita e le code di paglia, lunghe assai.
Perciò la sorpresa fu grande, quando si scoprì che il fortunato prescelto era un Paese mollemente sospeso tra Africa ed Europa, ma da millenni iscritto nel catasto Occidentale; un antico faro di Civiltà, anche se negli ultimi tempi sbirluccicava appena, e un amico di vecchia data dell’Iperpotenza (come l’Iraq, del resto). Cosa poteva giustificare una simile scelta? Il petrolio? No, petrolio non ce n’era. Appena appena un po’ di metano, ma chi farebbe una guerra per il metano? No, ormai le guerre non si facevano più per il profitto, ma per la democrazia, punto e basta. L’Iperpotenza riteneva che non ce ne fosse abbastanza, in quel Paese, e aveva deciso di rovesciargliene un po’, lei che non sapeva più dove metterla.
A chi obiettava che quel Paese era, ufficialmente, una Repubblica democratica fondata sul Lavoro, gli ideologi dell’Iperpotenza replicavano con franche risate. Una Democrazia, quella? Con un Presidente che possedeva in forma privata metà dell’etere televisivo e in forma pubblica l’altra metà? Con un Parlamento che varava riforme della giustizia ogni volta che un parlamentare veniva beccato con le mani nel sacco? Con intere regioni in mano a tribù e a clan della malavita organizzata? Forse che Saddam Hussein era un Presidente democratico perché vinceva le elezioni col 99%?
E poi c’erano alcuni diabolici dettagli, che alimentavano il sospetto – qualcosa di più di un sospetto – nel cuore della diffidente Iperpotenza. Già da tempo essa aveva imparato a dubitare degli amici ancor prima dei nemici, specie se erano amici grandi produttori e commercianti di armi.
Perché, proprio nel corso della guerra del Golfo, il Parlamento di quel Paese aveva sentito l’esigenza di consentire ai propri produttori di vendere armi ai Paesi che violavano i diritti civili? Pura coincidenza? E che dire di due anni prima, quendo ancora fumava Ground Zero e il mondo faceva la fila per esprimere le condoglianze all’Iperpotenza ferita al cuore? Non era stato forse lo stesso Parlamento *democratico* a votare una norma sulle rogatorie internazionali che era come un invito alle organizzazioni criminali e terroriste del mondo a nascondere i propri capitali in quel bel Paese? Insomma: si trattava di uno Stato amico o di uno Stato canaglia? Certe volte era difficile distinguere. Ma nel dubbio, si bombarda: era una prassi consolidata, ormai.
Certo, i governanti di quel Paese avevano avuto tante belle parole di solidarietà con l’Iperpotenza. E quanta retorica sulla Terra della Democrazia, sulla bellezza delle stelle e delle strisce… ma aiuti concreti? Pochini. Invio di truppe al fronte? Solo a guerra conclusa. Uso delle basi? Sì, ehm, no, solo per azioni umanitarie, solo se ci mettete davanti al fatto compiuto.
“Ma insomma”, sbottavano i diplomatici dell’Iperpotenza, “siete nostri alleati o no?”
“Ma sì. Ma no. Cioè, dipende dai sondaggi”.
E intanto la situazione degenerava, giorno per giorno. Nel Paese era scoppiata da anni una violentissima guerra civile, detta Guerra del Traffico. Ogni giorno (e ogni notte) su strade e autostrade i civili si scontravano in duelli suicidi, col tacito consenso dell'autorità, che incoraggiava le fazioni a rottamare e acquistare auto sempre più veloci e distruttive, in nome dell'interesse nazionale e del Prodotto Interno Lordo. Ogni anno il numero di morti superava di gran lunga quello dell’Intifada palestinese. Urgeva un’invasione, per ripristinare, se non la libertà e la democrazia, almeno il Codice Stradale. Sarebbe morto qualche innocente, certo. Ma non si poteva far finta di niente, nascondere la testa nella sabbia.
I don't like your fashion business, mister.
I don't like these drugs that keep you thin.
I don't like what happened to my sister.
First we take Bassora...
Furono così avviate le procedure d’invasione, i colloqui multilaterali, i siparietti con gli ispettori ONU, e tutto l’armamentario che serve a far rilassare il telespettatore tra una guerra e l’altra, e a stimolargli l’appetito (parla di guerra per sei mesi, e alla fine ti supplicheranno di cominciarla). Ma nel Paese in questione, pigramente sospeso tra Europa e Africa, la tensione cresceva. Non era cosa di tutti i giorni, diventare un target militare.
I cittadini, specialmente, erano un po’ perplessi. (Continua...)
giovedì 27 marzo 2003
Prima o poi qualcuno dovrà rifarlo.
Mi manca Blob of the Blogs. Era una cosa geniale, solo ora me ne rendo conto.
Storicamente, è stato il primo aggregatore di blog italiani, ed è stato un posto importante dove conoscersi (beh, beh, un archeoblogo pignolo a questo punto mi prenderebbe in castagna: The Hub è molto più antico). Negli stessi giorni stava incubando anche UBW, la finestrella bianca piena di notizie di guerra che vedete qui sotto.
Poi c'è stata la blogbar, il blog aggregator... (per favore, non vogliatemene se non li cito tutti. Col tempo m'informerò, m'iscriverò, risponderò a tutte le mail, aggiornerò la colonna dei link, implementerò i feed rss, laverò la macchina, diventerò una persona migliore).
Tutti questi progetti rispondono alla stessa esigenza: selezionare i blog da leggere. Ma con quale criterio? Qui si apre una voragine. I blog sono molto suscettibili in materia: non amano essere responsabilizzati, né sottovalutati. Reclamano il diritto di scrivere fuffa, ma anche di fare concorrenza al giornalismo d'assalto. E non sempre si riesce a capire se fanno sul serio o no (diffidate dai layout!).
Di solito gli aggregatori funzionano "a invito": è il loro limite. Sono la rassegna di un limitato circolo di blog che si auto-responsabilizza. Nessuno vuole ammetterlo, ma il circolo non può allargarsi all'infinito: ci sono limiti strutturali. Altrimenti l'aggregatore rischia di diventare una copia cache di tutti i blog italiani: ma a questo punto è molto più divertente pescarli dal vivo (parola di uno che naviga da casa col modem).
Il Blob funzionava in un altro modo: tutti potevano partecipare, ma uno alla volta. E tutti potevano segnalare qualsiasi cosa, ma erano tenuti a decontestualizzarla, a inserirla in un discorso frammentario, a trasformarla in qualcos'altro. Essere lincati sul blob mi faceva un po' l'effetto di incrociare uno specchio per strada: dapprima non ti riconosci, e poi ti spaventi: dunque questo è il modo in cui mi vedono gli altri?
E - particolare ulteriormente geniale - tra le "regole del gioco" ce n'era una fondamentale: mai lincare sé stessi. Chiunque poteva partecipare, ma a prezzo della propria autoreferenzialità. Al massimo poteva organizzare uno scambio di favori, ma era pur sempre uno scambio. Bisognava essere lettori, oltre che scrittori di blog. (Io, onestamente, i lettori di blog non li ho mai capiti, ma sono così felice che esistano).
Infine, il Blob non era una cosa seria. Ed è soprattutto per questo che lo rimpiango.
Una volta i blog erano un gioco, il diario delle cazzate, un modo di sembrare indaffarati nella postazione di lavoro. Oggi non più. Oggi i blog sono in guerra: la descrivono, la combattono. E' una guerra di parole, ma è sufficientemente fastidiosa.
Oggi che sui blog si contano i morti, si fotografano i morti, si lotta tra morti giusti e morti sbagliati, io mi rendo conto (troppo tardi, come sempre) che vorrei indietro il mio giocattolo, per favore.
E comunque ringrazio Strelnik. Sono così felice che esistano persone come lui.
Mi manca Blob of the Blogs. Era una cosa geniale, solo ora me ne rendo conto.
Storicamente, è stato il primo aggregatore di blog italiani, ed è stato un posto importante dove conoscersi (beh, beh, un archeoblogo pignolo a questo punto mi prenderebbe in castagna: The Hub è molto più antico). Negli stessi giorni stava incubando anche UBW, la finestrella bianca piena di notizie di guerra che vedete qui sotto.
Poi c'è stata la blogbar, il blog aggregator... (per favore, non vogliatemene se non li cito tutti. Col tempo m'informerò, m'iscriverò, risponderò a tutte le mail, aggiornerò la colonna dei link, implementerò i feed rss, laverò la macchina, diventerò una persona migliore).
Tutti questi progetti rispondono alla stessa esigenza: selezionare i blog da leggere. Ma con quale criterio? Qui si apre una voragine. I blog sono molto suscettibili in materia: non amano essere responsabilizzati, né sottovalutati. Reclamano il diritto di scrivere fuffa, ma anche di fare concorrenza al giornalismo d'assalto. E non sempre si riesce a capire se fanno sul serio o no (diffidate dai layout!).
Di solito gli aggregatori funzionano "a invito": è il loro limite. Sono la rassegna di un limitato circolo di blog che si auto-responsabilizza. Nessuno vuole ammetterlo, ma il circolo non può allargarsi all'infinito: ci sono limiti strutturali. Altrimenti l'aggregatore rischia di diventare una copia cache di tutti i blog italiani: ma a questo punto è molto più divertente pescarli dal vivo (parola di uno che naviga da casa col modem).
Il Blob funzionava in un altro modo: tutti potevano partecipare, ma uno alla volta. E tutti potevano segnalare qualsiasi cosa, ma erano tenuti a decontestualizzarla, a inserirla in un discorso frammentario, a trasformarla in qualcos'altro. Essere lincati sul blob mi faceva un po' l'effetto di incrociare uno specchio per strada: dapprima non ti riconosci, e poi ti spaventi: dunque questo è il modo in cui mi vedono gli altri?
E - particolare ulteriormente geniale - tra le "regole del gioco" ce n'era una fondamentale: mai lincare sé stessi. Chiunque poteva partecipare, ma a prezzo della propria autoreferenzialità. Al massimo poteva organizzare uno scambio di favori, ma era pur sempre uno scambio. Bisognava essere lettori, oltre che scrittori di blog. (Io, onestamente, i lettori di blog non li ho mai capiti, ma sono così felice che esistano).
Infine, il Blob non era una cosa seria. Ed è soprattutto per questo che lo rimpiango.
Una volta i blog erano un gioco, il diario delle cazzate, un modo di sembrare indaffarati nella postazione di lavoro. Oggi non più. Oggi i blog sono in guerra: la descrivono, la combattono. E' una guerra di parole, ma è sufficientemente fastidiosa.
Oggi che sui blog si contano i morti, si fotografano i morti, si lotta tra morti giusti e morti sbagliati, io mi rendo conto (troppo tardi, come sempre) che vorrei indietro il mio giocattolo, per favore.
E comunque ringrazio Strelnik. Sono così felice che esistano persone come lui.
mercoledì 26 marzo 2003
Potere Insegnante
(Avvertenza: pezzo fazioso e autocelebrativo. E ci sono tanti altri blog interessanti in questi giorni. Avvertiti).
La scuola è naturalmente per la pace. Come fa a non essere per la pace?
Anonimo sindacalista
So che non siete d’accordo, e non penso di riuscire a convincervi, ma io credo che la diplomazia internazionale potrebbe tranquillamente essere affidata agli insegnanti della scuola dell’obbligo italiana. La situazione, più di tanto, non potrebbe peggiorare – ma se migliorasse?
Quando parlo o sento parlare di containment, mi rendo conto che la maggior parte delle persone non ha un’idea di ciò di cui si sta parlando. All’università, nei master, ai corsi di autostima, si impara ad affrontare i nostri nemici di petto, come se si trattasse sempre di nemici da poco e noi fossimo tanti piccoli Rumsfeld, tante piccole superpotenze. E questo va benissimo, per degli adulti abituati a trattare con altri adulti, più o meno dello stesso segmento sociale.
In fondo sono animali mansueti, gli adulti, gli fai una sfuriata e loro arretrano, istintivamente. Non vogliono grane. Prendili di petto, insegnagli chi è il capo, e loro abbozzeranno.
Ma la scuola dell’obbligo – eh, signori – la scuola dell’obbligo è tutt’un’altra cosa. Mettete da parte i vostri ricordi adolescenziali; mentre voi crescevate e facevate carriera l’Italia è cambiata, e la scuola per prima. Per voi la società multietnica consiste in pratica nel dare una mancia al lavavetri marocchino, e già la cosa è un piccolo fastidio. Ma vostro figlio e il figlio del lavavetri fanno la stessa scuola e corteggiano la stessa ragazza. La lotta di classe riparte da qui, ed è più dura di quanto non crediate.
C’è poco da fare i gradassi, qui. Qui se vuoi delle grane sei il benvenuto. Ed è inutile mostrare le palle, c’è gente pronta a staccartele a morsi.
L’insegnante lo sa.
L’insegnante non ha letto Sun Tzu, non ha letto Clausewitz, ma dopo una decina d’anni di scuola dell’obbligo potrebbe dare qualche lezione a Rumsfeld. Una molto semplice, per esempio: guai a innervosire un avversario disperato. Non c’è nulla di più pericoloso di un torello messo con le spalle al muro. I nemici non si prendono di petto, mai. I nemici vanno addormentati, lentamente. Questo è il containment.
E un insegnante lo pratica tutti i giorni, tre o quattro ore al giorno, solo contro 25/30 torelli in piena ebollizione ormonale. Per farsi rispettare non dispone di nessun armamento convenzionale: per disarmare chi brandisce forbici acuminate o cutter non può far ricorso all’uso della forza, né minacciare ritorsioni. I presidi li sorvegliano, i genitori diffidano di loro, i bidelli scuotono la testa. E le loro macchine restano nei parcheggi scolastici, incustodite, un’esca per qualsiasi vendicatore di ingiustizie.
Eppure in un qualche modo l’insegnante ce la fa. Non sempre, certo. Sui giornali che sfogliate, sotto alle decine di pagine di guerra, a volte troverete nella cronaca locale qualche trafiletto sulla scuola dell’obbligo: un pestaggio, un accoltellamento, un atto vandalico, un racket di merende. È solo la punta dell’iceberg. Il resto è containment, quotidiano containment. Pino, non picchiare Yu col righello. Aziz, ti do il permesso di uscire per fare la pipì, non per fregare il giubbino firmato di Alì. Concetta, se ti do Buono invece di Distinto è perché te lo meriti, non perché sono razzista nei confronti della tua etnìa: cerca di spiegarlo a tuo padre che ha già chiamato il preside per suggerire il mio trasferimento.
Non va sempre bene. Ogni tanto qualcuno esce di testa. La gente non lo sa, ma l’insegnamento è una professione a forte rischio di malattia fisica e mentale. Eppure di solito – novantacinque volte su cento – il containment funziona. Come funziona?
Non lo so. Onestamente. Da qual che ho capito, il containment è un misto di pazienza, simpatia, antipatia, ironia, scenate teatrali, impassibilità, urli, silenzi, minacce, moine, ispezioni, pugni sulla cattedra, praticamente tutto quello che può fare un essere umano senza arrivare al contatto fisico. Qualcosa di molto poco elegante, e tuttavia novantacinque casi su cento funziona.
E a quel punto viene anche spontaneo cercare di applicarlo fuori dalla scuola, ai rapporti con gli amici e coi conviventi, e perché no, alla politica internazionale. Cosa si potrebbe fare con un dittatore del Medio Oriente che tiranneggia il suo popolo e forse dispone di armi di distruzione di massa? Si sarebbe potuto provare, per esempio, con la pazienza, le scenate teatrali, l’impassibilità, gli urli, i silenzi, le minacce, le moine, le ispezioni, i pugni sulla cattedra… con qualsiasi cosa che non fosse lo scontro diretto. Non so cosa ne pensi Sun Tzu o Clausewitz, ma un insegnante lo sa: è una follia sfidare in campo aperto chi non ha più niente da perdere. Siamo sicuri di aver provato davvero in tutti i modi? Siamo sicuri di non aver ceduto all’emotività, all’ancestrale bisogno di mostrare le palle, contro chi è abbastanza sciocco e disperato da potercele strappare?
Ma io chi sono, e a nome di chi parlo? Io sono un supplente, e forse non sono fatto per questo lavoro. (E tanto, per come si stanno mettendo le cose, non andrò mai di ruolo). Sono una persona discretamente coraggiosa, anche nel senso d’imprudente: ho visto le cariche di Genova e i carri armati a Ramallah, e non me la sono fatta sotto. Invece certe mattine, prima di andare a lavorare, mi succede: me la faccio sotto. E questo qualche cosa vorrà dire.
(Avvertenza: pezzo fazioso e autocelebrativo. E ci sono tanti altri blog interessanti in questi giorni. Avvertiti).
La scuola è naturalmente per la pace. Come fa a non essere per la pace?
Anonimo sindacalista
So che non siete d’accordo, e non penso di riuscire a convincervi, ma io credo che la diplomazia internazionale potrebbe tranquillamente essere affidata agli insegnanti della scuola dell’obbligo italiana. La situazione, più di tanto, non potrebbe peggiorare – ma se migliorasse?
Quando parlo o sento parlare di containment, mi rendo conto che la maggior parte delle persone non ha un’idea di ciò di cui si sta parlando. All’università, nei master, ai corsi di autostima, si impara ad affrontare i nostri nemici di petto, come se si trattasse sempre di nemici da poco e noi fossimo tanti piccoli Rumsfeld, tante piccole superpotenze. E questo va benissimo, per degli adulti abituati a trattare con altri adulti, più o meno dello stesso segmento sociale.
In fondo sono animali mansueti, gli adulti, gli fai una sfuriata e loro arretrano, istintivamente. Non vogliono grane. Prendili di petto, insegnagli chi è il capo, e loro abbozzeranno.
Ma la scuola dell’obbligo – eh, signori – la scuola dell’obbligo è tutt’un’altra cosa. Mettete da parte i vostri ricordi adolescenziali; mentre voi crescevate e facevate carriera l’Italia è cambiata, e la scuola per prima. Per voi la società multietnica consiste in pratica nel dare una mancia al lavavetri marocchino, e già la cosa è un piccolo fastidio. Ma vostro figlio e il figlio del lavavetri fanno la stessa scuola e corteggiano la stessa ragazza. La lotta di classe riparte da qui, ed è più dura di quanto non crediate.
C’è poco da fare i gradassi, qui. Qui se vuoi delle grane sei il benvenuto. Ed è inutile mostrare le palle, c’è gente pronta a staccartele a morsi.
L’insegnante lo sa.
L’insegnante non ha letto Sun Tzu, non ha letto Clausewitz, ma dopo una decina d’anni di scuola dell’obbligo potrebbe dare qualche lezione a Rumsfeld. Una molto semplice, per esempio: guai a innervosire un avversario disperato. Non c’è nulla di più pericoloso di un torello messo con le spalle al muro. I nemici non si prendono di petto, mai. I nemici vanno addormentati, lentamente. Questo è il containment.
E un insegnante lo pratica tutti i giorni, tre o quattro ore al giorno, solo contro 25/30 torelli in piena ebollizione ormonale. Per farsi rispettare non dispone di nessun armamento convenzionale: per disarmare chi brandisce forbici acuminate o cutter non può far ricorso all’uso della forza, né minacciare ritorsioni. I presidi li sorvegliano, i genitori diffidano di loro, i bidelli scuotono la testa. E le loro macchine restano nei parcheggi scolastici, incustodite, un’esca per qualsiasi vendicatore di ingiustizie.
Eppure in un qualche modo l’insegnante ce la fa. Non sempre, certo. Sui giornali che sfogliate, sotto alle decine di pagine di guerra, a volte troverete nella cronaca locale qualche trafiletto sulla scuola dell’obbligo: un pestaggio, un accoltellamento, un atto vandalico, un racket di merende. È solo la punta dell’iceberg. Il resto è containment, quotidiano containment. Pino, non picchiare Yu col righello. Aziz, ti do il permesso di uscire per fare la pipì, non per fregare il giubbino firmato di Alì. Concetta, se ti do Buono invece di Distinto è perché te lo meriti, non perché sono razzista nei confronti della tua etnìa: cerca di spiegarlo a tuo padre che ha già chiamato il preside per suggerire il mio trasferimento.
Non va sempre bene. Ogni tanto qualcuno esce di testa. La gente non lo sa, ma l’insegnamento è una professione a forte rischio di malattia fisica e mentale. Eppure di solito – novantacinque volte su cento – il containment funziona. Come funziona?
Non lo so. Onestamente. Da qual che ho capito, il containment è un misto di pazienza, simpatia, antipatia, ironia, scenate teatrali, impassibilità, urli, silenzi, minacce, moine, ispezioni, pugni sulla cattedra, praticamente tutto quello che può fare un essere umano senza arrivare al contatto fisico. Qualcosa di molto poco elegante, e tuttavia novantacinque casi su cento funziona.
E a quel punto viene anche spontaneo cercare di applicarlo fuori dalla scuola, ai rapporti con gli amici e coi conviventi, e perché no, alla politica internazionale. Cosa si potrebbe fare con un dittatore del Medio Oriente che tiranneggia il suo popolo e forse dispone di armi di distruzione di massa? Si sarebbe potuto provare, per esempio, con la pazienza, le scenate teatrali, l’impassibilità, gli urli, i silenzi, le minacce, le moine, le ispezioni, i pugni sulla cattedra… con qualsiasi cosa che non fosse lo scontro diretto. Non so cosa ne pensi Sun Tzu o Clausewitz, ma un insegnante lo sa: è una follia sfidare in campo aperto chi non ha più niente da perdere. Siamo sicuri di aver provato davvero in tutti i modi? Siamo sicuri di non aver ceduto all’emotività, all’ancestrale bisogno di mostrare le palle, contro chi è abbastanza sciocco e disperato da potercele strappare?
Ma io chi sono, e a nome di chi parlo? Io sono un supplente, e forse non sono fatto per questo lavoro. (E tanto, per come si stanno mettendo le cose, non andrò mai di ruolo). Sono una persona discretamente coraggiosa, anche nel senso d’imprudente: ho visto le cariche di Genova e i carri armati a Ramallah, e non me la sono fatta sotto. Invece certe mattine, prima di andare a lavorare, mi succede: me la faccio sotto. E questo qualche cosa vorrà dire.
martedì 25 marzo 2003
Domande più frequenti (2)
Dov’eravate quando la NATO bombardava la Serbia?
Alcuni erano qui, altri erano via, alcuni erano contro i bombardamenti, altri pensavano che fossero giusti. Il dibattito fu feroce, ma è proprio il caso di riaprirlo adesso? La situazione in Iraq è molto diversa.
Ma anche se, per assurdo, avessimo sostenuto tutti la Nato in quell’occasione: e allora? Non ci sarebbe consentito cambiare idea? Molti che espongono bandiere ai balconi non l’avrebbero sicuramente esposta nel 1991 o nel 1999. Ma il pacifismo in Italia è cresciuto anche perché i Paesi Occidentali ultimamente viaggiano al ritmo di una guerra all’anno: una cosa mai vista sui libri di Storia.
E allora attenti, perché in democrazia sono proprio le persone che cambiano idea a far vincere o perdere le elezioni. Dov’eravamo ai tempi della Cecenia, della Bosnia, del Ruanda, del Congo, delle Falkland? Non sono fatti vostri. Adesso siamo qui, è questo il problema.
(Perché invece, voi dov’eravate ai tempi della Cecenia, della Bosnia, del Ruanda, del Congo, delle Falkland?)
Siete sicuri di non essere anti-americani?
E l’America è sicura di non peccare di arroganza? Sempre, davanti all’ostentazione del potere, qualcuno storce la bocca. Un grande potere dev’essere gestito con molta saggezza, per evitare di destare intorno a sé invidia e rancore. In passato, negli USA, ci sono state amministrazioni che hanno dato prova di questa saggezza. Non è il caso dell’amministrazione Bush jr.
L’opposizione all’America, in ogni caso, non è dettata dalla semplice invidia (così come il vostro filoamericanismo non è necessariamente servilismo). La politica estera dell’amministrazione Bush jr è tutt’uno con la politica interna e con il modello economico che sottende. La guerra è il modo in cui il gigante proclama al mondo che “il tenore di vita dei cittadini americani non è in discussione”. Noi, se ci permettete, non siamo d’accordo.
Poi, certo, finché siamo cittadini occidentali istruiti siamo anche in grado di distinguere tra un’amministrazione americana (che ci sta antipatica) e il popolo americano (che adoriamo, col suo cinema, la sua musica e la sua letteratura). I ragazzi nati nei campi profughi di Gaza non sono in grado di fare questa distinzione. E i ragazzi nascono nei campi profughi di Gaza da cinquant’anni.
E siete sicuri di essere meglio degli americani? Anche voi consumate petrolio. Non trovate che gli americani stiano combattendo anche per voi?
Il nostro stile di vita è molto simile a quello degli USA. Ma mentre cerchiamo di moderare i nostri consumi, non possiamo fingere di non vedere che gli americani si accaparrano il 60% delle risorse mondiali. La loro avidità crea un forte squilibrio nel mondo, e li rende impopolari presso una parte crescente della popolazione mondiale. Nei Paesi meno sviluppati questa impopolarità prende la forma dell’integralismo religioso; in Occidente dà vita ai movimenti di protesta. Gli USA (e i loro Paesi satellite) devono combattere contro gli uni e gli altri, e nel frattempo accaparrarsi le risorse necessarie a mantenere il proprio status di superpotenza. La guerra in Iraq non è che un fotogramma di questo lungo conflitto, che è iniziato anche prima dell’11 settembre.
Ma allora voi e Bin Laden siete dalla stessa parte…
No. Noi e Bin Laden non parliamo la stessa lingua e non saremmo in grado di capirci. Il fatto che anche lui attacchi l’egemonia USA non ce lo rende in nessun modo più vicino a noi. Dal nostro punto di vista c’è più distanza tra noi e lui che tra lui e Bush. Del resto sono stati gli USA a inventarlo, e non è escluso che in futuro tornino a usarlo contro di noi. Come fa ogni capetto locale quando grida all’intelligenza fra sinistra pacifista e terrorismo islamico: è una demonizzazione dell’avversario indegna di una democrazia, e di chi si sente così ricco di democrazia da volerne anche esportare.
Come ci si sente a essere la seconda superpotenza mondiale?
Hai letto troppi giornali. Noi non siamo la seconda superpotenza, siamo ancora una potenza di terzo o quart’ordine. Ma in questa fase storica siamo gli unici che possono diventare una superpotenza senza correre il rischio di essere bombardati preventivamente.
È per questo che facciamo un po’ paura ai nostri governi. Non tanta paura: appena un po’.
C’è altro?
Dov’eravate quando la NATO bombardava la Serbia?
Alcuni erano qui, altri erano via, alcuni erano contro i bombardamenti, altri pensavano che fossero giusti. Il dibattito fu feroce, ma è proprio il caso di riaprirlo adesso? La situazione in Iraq è molto diversa.
Ma anche se, per assurdo, avessimo sostenuto tutti la Nato in quell’occasione: e allora? Non ci sarebbe consentito cambiare idea? Molti che espongono bandiere ai balconi non l’avrebbero sicuramente esposta nel 1991 o nel 1999. Ma il pacifismo in Italia è cresciuto anche perché i Paesi Occidentali ultimamente viaggiano al ritmo di una guerra all’anno: una cosa mai vista sui libri di Storia.
E allora attenti, perché in democrazia sono proprio le persone che cambiano idea a far vincere o perdere le elezioni. Dov’eravamo ai tempi della Cecenia, della Bosnia, del Ruanda, del Congo, delle Falkland? Non sono fatti vostri. Adesso siamo qui, è questo il problema.
(Perché invece, voi dov’eravate ai tempi della Cecenia, della Bosnia, del Ruanda, del Congo, delle Falkland?)
Siete sicuri di non essere anti-americani?
E l’America è sicura di non peccare di arroganza? Sempre, davanti all’ostentazione del potere, qualcuno storce la bocca. Un grande potere dev’essere gestito con molta saggezza, per evitare di destare intorno a sé invidia e rancore. In passato, negli USA, ci sono state amministrazioni che hanno dato prova di questa saggezza. Non è il caso dell’amministrazione Bush jr.
L’opposizione all’America, in ogni caso, non è dettata dalla semplice invidia (così come il vostro filoamericanismo non è necessariamente servilismo). La politica estera dell’amministrazione Bush jr è tutt’uno con la politica interna e con il modello economico che sottende. La guerra è il modo in cui il gigante proclama al mondo che “il tenore di vita dei cittadini americani non è in discussione”. Noi, se ci permettete, non siamo d’accordo.
Poi, certo, finché siamo cittadini occidentali istruiti siamo anche in grado di distinguere tra un’amministrazione americana (che ci sta antipatica) e il popolo americano (che adoriamo, col suo cinema, la sua musica e la sua letteratura). I ragazzi nati nei campi profughi di Gaza non sono in grado di fare questa distinzione. E i ragazzi nascono nei campi profughi di Gaza da cinquant’anni.
E siete sicuri di essere meglio degli americani? Anche voi consumate petrolio. Non trovate che gli americani stiano combattendo anche per voi?
Il nostro stile di vita è molto simile a quello degli USA. Ma mentre cerchiamo di moderare i nostri consumi, non possiamo fingere di non vedere che gli americani si accaparrano il 60% delle risorse mondiali. La loro avidità crea un forte squilibrio nel mondo, e li rende impopolari presso una parte crescente della popolazione mondiale. Nei Paesi meno sviluppati questa impopolarità prende la forma dell’integralismo religioso; in Occidente dà vita ai movimenti di protesta. Gli USA (e i loro Paesi satellite) devono combattere contro gli uni e gli altri, e nel frattempo accaparrarsi le risorse necessarie a mantenere il proprio status di superpotenza. La guerra in Iraq non è che un fotogramma di questo lungo conflitto, che è iniziato anche prima dell’11 settembre.
Ma allora voi e Bin Laden siete dalla stessa parte…
No. Noi e Bin Laden non parliamo la stessa lingua e non saremmo in grado di capirci. Il fatto che anche lui attacchi l’egemonia USA non ce lo rende in nessun modo più vicino a noi. Dal nostro punto di vista c’è più distanza tra noi e lui che tra lui e Bush. Del resto sono stati gli USA a inventarlo, e non è escluso che in futuro tornino a usarlo contro di noi. Come fa ogni capetto locale quando grida all’intelligenza fra sinistra pacifista e terrorismo islamico: è una demonizzazione dell’avversario indegna di una democrazia, e di chi si sente così ricco di democrazia da volerne anche esportare.
Come ci si sente a essere la seconda superpotenza mondiale?
Hai letto troppi giornali. Noi non siamo la seconda superpotenza, siamo ancora una potenza di terzo o quart’ordine. Ma in questa fase storica siamo gli unici che possono diventare una superpotenza senza correre il rischio di essere bombardati preventivamente.
È per questo che facciamo un po’ paura ai nostri governi. Non tanta paura: appena un po’.
C’è altro?
lunedì 24 marzo 2003
Domande più Frequenti (ai pacifisti)
mi piacerebbe rispondere una volta per tutte e che non se ne parlasse più:
Ora che la guerra è iniziata, che senso ha continuare a manifestare? Non è meglio sperare che sia rapida ed efficace?
Come chiedere a un appestato: ora che hai contratto il morbo, perché continui a lamentarti? Mettiti lì calmo e aspetta che il male faccia il suo corso. Il fatto di aver contratto il virus – dopo aver fatto il possibile per evitarlo – ci dà un motivo in più per essere arrabbiati contro i nostri governi. Non è che la guerra smetta di essere una vergogna soltanto perché è già iniziata.
Ma che speranze concrete ci sono di fermare la guerra in questo momento?
Nessuna. Ma erano scarsissime anche un mese fa.
Questa guerra era nelle agende dei leader occidentali già da quest’estate. Difficilmente avrebbero cambiato idea, anche perché non c’erano elezioni in vista (solo in Germania, dove non a caso Schroeder ha vinto dichiarandosi contrario al conflitto). È solo attraverso una pressione costante del movimento pacifista che si riuscirà a evitare non questa guerra, ma la prossima, o la prossima ancora. Proprio per questo motivo non dobbiamo mollare la presa proprio adesso.
Come potete negare la legittimità di questo intervento militare, quando la risoluzione 1441 prevedeva l’uso della f...
Dai, basta. Non è che perché siamo pacifisti dobbiamo berci tutto quello che è stato detto in questi mesi, compresa la manfrina diplomatica.
È chiaro che gli USA e il Regno Unito volevano la guerra (non hanno mai smesso un attimo di prepararla sul campo), è chiaro che gli serviva un casus belli e che al momento giusto l’avrebbero trovato. Ma tutta la faccenda, a guardarla con un certo distacco, è assurda. Come si può chiedere a un dittatore di disarmare proprio mentre i suoi nemici accumulano armi ai confini e continuano a dichiarare un giorno sì e un giorno no le loro intenzioni bellicose? È quello che Bush e Blair hanno fatto per mesi. La cosa paradossale è che gli iracheni hanno perfino assecondato qualche richiesta degli ispettori, quando era chiaro che Usa e Regno Unito non sarebbero mai stati soddisfatti (e infatti hanno aumentato via via le loro richieste).
In realtà questa guerra è condotta dagli angloamericani su due fronti: il primo fronte è l’Iraq, il secondo sono le istituzioni internazionali. L’attacco all’Iraq è anche un attacco alla legittimità dell’Onu.
Criticate, criticate, ma alla fine non avete nessuna proposta concreta.
È un segno di scarsa fantasia (e quindi di scarsa intelligenza) ritenere che non ci siano proposte alternative all’uso indiscriminato della forza. Ce ne sono svariate, e se non sono ‘concrete’ è semplicemente perché non sono mai state realizzate.
Certo, bisognava pensarci un po’ per tempo. Finanziare partiti democratici (come ha fatto la Nato in Italia nel dopoguerra), invece di sostenere Saddam Hussein. Investire nello sviluppo di una classe media, che invece è scomparsa con l’embargo. Oggi la situazione è disperata, e sembra non lasciare alternative concrete all’uso della forza. Ma di chi è la colpa?
(E poi chissà: magari si potrebbe togliere l’embargo, mandare aiuti a pioggia in cambio di concessioni democratiche, inviare ispettori non solo negli arsenali, ma anche fuori dalle cabine elettorali. Tante cose si potrebbero provare, invece di metter subito mano all’uranio impoverito).
Perché voi pacifisti non avete manifestato anche per l’esilio di Saddam Hussein, come ha fatto, per esempio, Marco Pannella?
Perché è ingenuo credere che Saddam Hussein, insensibile al dolore del suo popolo e a tante risoluzioni dell’ONU, avrebbe tenuto conto dalle manifestazioni dei pacifisti occidentali. Pannella, che ha a cuore prima di tutto la visibilità internazionale del suo piccolo partito, fa un’altra valutazione.
Questo non significa, naturalmente, che i pacifisti non abbiano sperato nelle trattative diplomatiche: ma la diplomazia non si fa nelle piazze e non devono farla i manifestanti. Il ruolo dei manifestanti è dire “no” alla guerra. Spetta poi ai politici e ai diplomatici recepire questo “no” e articolarlo in proposte concrete.
Nel mondo ci sono decine e decine di conflitti in corso. Perché vi mobilitate soltanto per l’Iraq (e in genere per tutte le guerre in cui sono coinvolti gli USA)?
I principali obiettivi di una manifestazione sono sempre due: l’opinione pubblica e il governo del Paese in cui la manifestazione si svolge.
I pacifisti non si mobilitano per questioni di principio (contro “la guerra” in generale), ma ogni qual volta ritengano possibile fermare concretamente una guerra, sensibilizzando l’opinione pubblica e facendo sentire la propria voce al governo. Per questo preferiscono protestare contro le guerre che vedono la partecipazione attiva o passiva dell’Italia e dei suoi principali alleati: i paesi Occidentali. È appunto il caso della guerra in Iraq.
Prendiamo invece un altro fronte del mondo, a caso: la guerra civile in Colombia. Che senso avrebbe manifestare davanti al parlamento italiano per la pace in Colombia? Il governo avrebbe ben poche possibilità di influire sul conflitto in corso.
Questo non significa che i pacifisti dimentichino le decine di conflitti in corso nel mondo, alcuni dei quali più sanguinosi della guerra in Iraq; da anni fanno informazione su alcuni di questi conflitti, mettendo in luce le responsabilità dei paesi Occidentali e di alcune compagnie transnazionali, di cui propongono il boicottaggio. Se però oggi si parla soprattutto dell’Iraq, non è certo per colpa dei pacifisti... (continua)
mi piacerebbe rispondere una volta per tutte e che non se ne parlasse più:
Ora che la guerra è iniziata, che senso ha continuare a manifestare? Non è meglio sperare che sia rapida ed efficace?
Come chiedere a un appestato: ora che hai contratto il morbo, perché continui a lamentarti? Mettiti lì calmo e aspetta che il male faccia il suo corso. Il fatto di aver contratto il virus – dopo aver fatto il possibile per evitarlo – ci dà un motivo in più per essere arrabbiati contro i nostri governi. Non è che la guerra smetta di essere una vergogna soltanto perché è già iniziata.
Ma che speranze concrete ci sono di fermare la guerra in questo momento?
Nessuna. Ma erano scarsissime anche un mese fa.
Questa guerra era nelle agende dei leader occidentali già da quest’estate. Difficilmente avrebbero cambiato idea, anche perché non c’erano elezioni in vista (solo in Germania, dove non a caso Schroeder ha vinto dichiarandosi contrario al conflitto). È solo attraverso una pressione costante del movimento pacifista che si riuscirà a evitare non questa guerra, ma la prossima, o la prossima ancora. Proprio per questo motivo non dobbiamo mollare la presa proprio adesso.
Come potete negare la legittimità di questo intervento militare, quando la risoluzione 1441 prevedeva l’uso della f...
Dai, basta. Non è che perché siamo pacifisti dobbiamo berci tutto quello che è stato detto in questi mesi, compresa la manfrina diplomatica.
È chiaro che gli USA e il Regno Unito volevano la guerra (non hanno mai smesso un attimo di prepararla sul campo), è chiaro che gli serviva un casus belli e che al momento giusto l’avrebbero trovato. Ma tutta la faccenda, a guardarla con un certo distacco, è assurda. Come si può chiedere a un dittatore di disarmare proprio mentre i suoi nemici accumulano armi ai confini e continuano a dichiarare un giorno sì e un giorno no le loro intenzioni bellicose? È quello che Bush e Blair hanno fatto per mesi. La cosa paradossale è che gli iracheni hanno perfino assecondato qualche richiesta degli ispettori, quando era chiaro che Usa e Regno Unito non sarebbero mai stati soddisfatti (e infatti hanno aumentato via via le loro richieste).
In realtà questa guerra è condotta dagli angloamericani su due fronti: il primo fronte è l’Iraq, il secondo sono le istituzioni internazionali. L’attacco all’Iraq è anche un attacco alla legittimità dell’Onu.
Criticate, criticate, ma alla fine non avete nessuna proposta concreta.
È un segno di scarsa fantasia (e quindi di scarsa intelligenza) ritenere che non ci siano proposte alternative all’uso indiscriminato della forza. Ce ne sono svariate, e se non sono ‘concrete’ è semplicemente perché non sono mai state realizzate.
Certo, bisognava pensarci un po’ per tempo. Finanziare partiti democratici (come ha fatto la Nato in Italia nel dopoguerra), invece di sostenere Saddam Hussein. Investire nello sviluppo di una classe media, che invece è scomparsa con l’embargo. Oggi la situazione è disperata, e sembra non lasciare alternative concrete all’uso della forza. Ma di chi è la colpa?
(E poi chissà: magari si potrebbe togliere l’embargo, mandare aiuti a pioggia in cambio di concessioni democratiche, inviare ispettori non solo negli arsenali, ma anche fuori dalle cabine elettorali. Tante cose si potrebbero provare, invece di metter subito mano all’uranio impoverito).
Perché voi pacifisti non avete manifestato anche per l’esilio di Saddam Hussein, come ha fatto, per esempio, Marco Pannella?
Perché è ingenuo credere che Saddam Hussein, insensibile al dolore del suo popolo e a tante risoluzioni dell’ONU, avrebbe tenuto conto dalle manifestazioni dei pacifisti occidentali. Pannella, che ha a cuore prima di tutto la visibilità internazionale del suo piccolo partito, fa un’altra valutazione.
Questo non significa, naturalmente, che i pacifisti non abbiano sperato nelle trattative diplomatiche: ma la diplomazia non si fa nelle piazze e non devono farla i manifestanti. Il ruolo dei manifestanti è dire “no” alla guerra. Spetta poi ai politici e ai diplomatici recepire questo “no” e articolarlo in proposte concrete.
Nel mondo ci sono decine e decine di conflitti in corso. Perché vi mobilitate soltanto per l’Iraq (e in genere per tutte le guerre in cui sono coinvolti gli USA)?
I principali obiettivi di una manifestazione sono sempre due: l’opinione pubblica e il governo del Paese in cui la manifestazione si svolge.
I pacifisti non si mobilitano per questioni di principio (contro “la guerra” in generale), ma ogni qual volta ritengano possibile fermare concretamente una guerra, sensibilizzando l’opinione pubblica e facendo sentire la propria voce al governo. Per questo preferiscono protestare contro le guerre che vedono la partecipazione attiva o passiva dell’Italia e dei suoi principali alleati: i paesi Occidentali. È appunto il caso della guerra in Iraq.
Prendiamo invece un altro fronte del mondo, a caso: la guerra civile in Colombia. Che senso avrebbe manifestare davanti al parlamento italiano per la pace in Colombia? Il governo avrebbe ben poche possibilità di influire sul conflitto in corso.
Questo non significa che i pacifisti dimentichino le decine di conflitti in corso nel mondo, alcuni dei quali più sanguinosi della guerra in Iraq; da anni fanno informazione su alcuni di questi conflitti, mettendo in luce le responsabilità dei paesi Occidentali e di alcune compagnie transnazionali, di cui propongono il boicottaggio. Se però oggi si parla soprattutto dell’Iraq, non è certo per colpa dei pacifisti... (continua)
venerdì 21 marzo 2003
Pacifisti e Vincenti
(Intanto in Senato votano la 185...)
I Pacifisti dovrebbero essere persone tranquille, pacate.
I Vincenti dovrebbero essere persone sicure di sé, serene.
E siccome gli italiani si dividono in Pacifisti e in Vincenti (che nessuno si sogna di dichiararsi guerrafondaio, o di stare dalla parte del perdente), i dibattiti dovrebbero svolgersi in un clima di sbadigliante serenità. E invece.
E invece ai pacifisti capita d’incazzarsi, e parecchio, come se la pace riguardasse solo la politica estera e non il nostro quotidiano; e ai vincenti capita di replicare istericamente, come se, in luogo di un poker d’assi, si trovassero in mano una coppia di sette, o giù di lì. Qualcosa non va.
E intanto bombardano. Ma questo non significa che dobbiamo farci la guerra anche tra noi, (e che guerra patetica sarebbe). Qualche concessione a vicenda potremmo pure farcela.
Io, per esempio, che sono un pacifista (anche se tante volte m’incazzo) potrei, in linea teorica potrei, riconoscere che la scelta di intervenire subito da terra, riducendo le perdite civili, è una cosa positiva. Ecco, l’ho detto (e non è stato facile). Proprio perché la guerra non mi piace, e perché trovo che le guerre più ipocrite della storia siano stati i massicci bombardamenti dell’Iraq (1991), della Serbia (1999), e in parte dell’Afganistan.
In cambio, però, chiederei da parte dei Vincenti una maggiore sobrietà. Perché non c’è nulla da festeggiare in un bombardamento. Le persone educate, se proprio devono appoggiare un bombardamento, lo fanno a mezza voce, con espressione contrita. Perché il bombardamento è per prima cosa l’ammissione di una sconfitta. La sconfitta della politica di contenimento delle amministrazioni americane dal ’91 in poi. La sconfitta dell’embargo, che ha affamato centinaia di migliaia di persone e non è riuscito a sconfiggere il regime. La sconfitta di tutto un modo di gestire il Medio Oriente, che viene da lontano, dagli anni Ottanta e forse anche prima.
Noi occidentali abbiamo sbagliato tutto in Iraq. Abbiamo appoggiato un despota sanguinario, lo abbiamo spinto a combattere contro l’Iran, gli abbiamo fornito i mezzi per reprimere le minoranze e il dissenso nel suo Paese. Quando ce ne siamo stancati gli abbiamo tirato la sòla del Kuwait, lo abbiamo bombardato al tappeto, e poi lo abbiamo lasciato lì, a marcire col suo popolo. Finché all’improvviso non ci è venuta voglia di portare la democrazia nel Medio Oriente… andiamo. Con questi bombardamenti non facciamo che mettere una pezza, che si attacca ad altre pezze messe male, che fanno del Medio Oriente una delle regioni più pasticciate del mondo, e della comunità araba una polveriera umana. Non c’è nulla di cui andare fieri.
Tanto più che voi non siete esattamente i Vincenti, ma soltanto i tifosi locali, e non vestite in grigioverde, non pilotate gli Stealth, vi va già grassa se in tv vi fanno vedere i missili con gli infrarossi. Le vostre bandiere americane sono soltanto un simpatico attestato di stima, che non cambia di un millimetro quello che era già stato deciso dagli strateghi militari mesi e mesi fa.
Mentre le nostre pacchiane bandiere arcobaleno – questo dovete riconoscercelo – giorno dopo giorno hanno scalfito la sicurezza di un governo prima filoamericano, poi sempre meno entusiasta della guerra. Senza le nostre bandiere Berlusconi sarebbe stato il quarto ospite al vertice delle Azzorre (se hanno invitato una mezzasega come Aznar potevano invitare anche lui). Invece il nostro amato presidente è rimasto a casa, a dichiarare la “non belligeranza” alle Camere blindate.
La guerra, comunque, non l’abbiamo impedita. Questo lo ammettiamo tranquillamente. Anche voi, potreste ammettere tranquillamente che non siete riusciti a convincere la maggior parte degli italiani, così come il vostro Bush non è riuscito a convincere la maggior parte della comunità internazionale. Forse la colpa non è solo dei pacifisti ignavi e stupidi; forse è anche un po’ vostra: magari non siete stati abbastanza convincenti. Magari siete stati un po’ troppo supponenti. Tante volte avete fatto capire che le bandiere arcobaleno vi facevano perdere la calma, e questo è un segno di debolezza. Ma i Vincenti non possono mostrare debolezza. Noi sì, noi possiamo. È il nostro piccolo vantaggio.
Eppure, forse, ogni tanto qualche dubbio farebbe bene anche a voi. Per esempio: siete sicuri che l’Iraq liberato sarà una democrazia? Da dove salterà fuori il ceto medio necessario a esprimere una classe dirigente democratica? Non è più probabile che le masse dei profughi subiscano il richiamo del fondamentalismo islamico, come purtroppo è successo in Palestina? Avete le prove per dimostrare che le cose andranno come desiderate voi? Studi sociologici, statistiche, previsioni scientifiche? No. Andate avanti per sentito dire. Come anche noi, del resto. Ma allora un po’ di dubbio farebbe bene a entrambi.
(Intanto in Senato votano la 185...)
I Pacifisti dovrebbero essere persone tranquille, pacate.
I Vincenti dovrebbero essere persone sicure di sé, serene.
E siccome gli italiani si dividono in Pacifisti e in Vincenti (che nessuno si sogna di dichiararsi guerrafondaio, o di stare dalla parte del perdente), i dibattiti dovrebbero svolgersi in un clima di sbadigliante serenità. E invece.
E invece ai pacifisti capita d’incazzarsi, e parecchio, come se la pace riguardasse solo la politica estera e non il nostro quotidiano; e ai vincenti capita di replicare istericamente, come se, in luogo di un poker d’assi, si trovassero in mano una coppia di sette, o giù di lì. Qualcosa non va.
E intanto bombardano. Ma questo non significa che dobbiamo farci la guerra anche tra noi, (e che guerra patetica sarebbe). Qualche concessione a vicenda potremmo pure farcela.
Io, per esempio, che sono un pacifista (anche se tante volte m’incazzo) potrei, in linea teorica potrei, riconoscere che la scelta di intervenire subito da terra, riducendo le perdite civili, è una cosa positiva. Ecco, l’ho detto (e non è stato facile). Proprio perché la guerra non mi piace, e perché trovo che le guerre più ipocrite della storia siano stati i massicci bombardamenti dell’Iraq (1991), della Serbia (1999), e in parte dell’Afganistan.
In cambio, però, chiederei da parte dei Vincenti una maggiore sobrietà. Perché non c’è nulla da festeggiare in un bombardamento. Le persone educate, se proprio devono appoggiare un bombardamento, lo fanno a mezza voce, con espressione contrita. Perché il bombardamento è per prima cosa l’ammissione di una sconfitta. La sconfitta della politica di contenimento delle amministrazioni americane dal ’91 in poi. La sconfitta dell’embargo, che ha affamato centinaia di migliaia di persone e non è riuscito a sconfiggere il regime. La sconfitta di tutto un modo di gestire il Medio Oriente, che viene da lontano, dagli anni Ottanta e forse anche prima.
Noi occidentali abbiamo sbagliato tutto in Iraq. Abbiamo appoggiato un despota sanguinario, lo abbiamo spinto a combattere contro l’Iran, gli abbiamo fornito i mezzi per reprimere le minoranze e il dissenso nel suo Paese. Quando ce ne siamo stancati gli abbiamo tirato la sòla del Kuwait, lo abbiamo bombardato al tappeto, e poi lo abbiamo lasciato lì, a marcire col suo popolo. Finché all’improvviso non ci è venuta voglia di portare la democrazia nel Medio Oriente… andiamo. Con questi bombardamenti non facciamo che mettere una pezza, che si attacca ad altre pezze messe male, che fanno del Medio Oriente una delle regioni più pasticciate del mondo, e della comunità araba una polveriera umana. Non c’è nulla di cui andare fieri.
Tanto più che voi non siete esattamente i Vincenti, ma soltanto i tifosi locali, e non vestite in grigioverde, non pilotate gli Stealth, vi va già grassa se in tv vi fanno vedere i missili con gli infrarossi. Le vostre bandiere americane sono soltanto un simpatico attestato di stima, che non cambia di un millimetro quello che era già stato deciso dagli strateghi militari mesi e mesi fa.
Mentre le nostre pacchiane bandiere arcobaleno – questo dovete riconoscercelo – giorno dopo giorno hanno scalfito la sicurezza di un governo prima filoamericano, poi sempre meno entusiasta della guerra. Senza le nostre bandiere Berlusconi sarebbe stato il quarto ospite al vertice delle Azzorre (se hanno invitato una mezzasega come Aznar potevano invitare anche lui). Invece il nostro amato presidente è rimasto a casa, a dichiarare la “non belligeranza” alle Camere blindate.
La guerra, comunque, non l’abbiamo impedita. Questo lo ammettiamo tranquillamente. Anche voi, potreste ammettere tranquillamente che non siete riusciti a convincere la maggior parte degli italiani, così come il vostro Bush non è riuscito a convincere la maggior parte della comunità internazionale. Forse la colpa non è solo dei pacifisti ignavi e stupidi; forse è anche un po’ vostra: magari non siete stati abbastanza convincenti. Magari siete stati un po’ troppo supponenti. Tante volte avete fatto capire che le bandiere arcobaleno vi facevano perdere la calma, e questo è un segno di debolezza. Ma i Vincenti non possono mostrare debolezza. Noi sì, noi possiamo. È il nostro piccolo vantaggio.
Eppure, forse, ogni tanto qualche dubbio farebbe bene anche a voi. Per esempio: siete sicuri che l’Iraq liberato sarà una democrazia? Da dove salterà fuori il ceto medio necessario a esprimere una classe dirigente democratica? Non è più probabile che le masse dei profughi subiscano il richiamo del fondamentalismo islamico, come purtroppo è successo in Palestina? Avete le prove per dimostrare che le cose andranno come desiderate voi? Studi sociologici, statistiche, previsioni scientifiche? No. Andate avanti per sentito dire. Come anche noi, del resto. Ma allora un po’ di dubbio farebbe bene a entrambi.
giovedì 20 marzo 2003
Alle quattro del mattino, ora italiana, si sente dire che bombardano Bagdad.
Io, che non sempre ho cose intelligenti da dire, passo la palla al vecchio Defarge:
Il monopolio della realtà
A questo punto è una questione di ore, poi i missili cominceranno a fischiare. Missili convenzionali, missili cui manca qualche trascurabile diottria, missili con una scritta divertente e liberatoria, ³in culo a Saddam² o ragazzate affini. Due o tre di questi missili rovineranno subito sul Ministero dell¹Informazione, tranciando i cavi che permettono a Saddam di cucinare le notizie di guerra e di drogare l'opinione dei suoi sudditi. Dalle competizioni eletorali alla guerra, la superficie sulla quale si estende il dominio della rappresentazione deve essere totale, senza increspature e zone franche, tanto da tramutarsi in una vera e propria privatizzazione della realta'. A settembre, quando i ministri dei paesi che aderiscono al WTO si troveranno a Cancun, in Messico, per aggiornare l'elenco dei servizi privatizzabili, bisognera' che qualcuno lo dica: la realta' non e' in vendita, se ne sono esaurite le scorte. Chi gestisce il telecomando e' il vero padrone di casa. I padroni della realta' controllano il modo in cui viene rappresentata e rendono narcotica la sovranita' del padrone di casa. C¹e' tutta una storia della guerra a luci soffuse che comincia con l¹invasione delle Malvinas, passa per il Kossovo e la Cecenia e arriva a Kabul...
Non e' solo una storia di falsi e di contrabbandieri, ma un romanzo dozzinale di ciechi e di black-out che arrivano a scioglierne l'intreccio. Oggi quel romanzo ricomincia: bisogna tagliare la lingua di Saddam, per questo il Ministero dell¹Informazione rimane uno dei target più prevedibili. Poi la guerra delle notizie tracimera' in un secondo tempo, più delicato e paradossale: quello in cui chi e' bombardato riceve informazioni, sul fatto di essere bombardato, da chi lo bombarda. Non tramite la tivu', la radio, gli SMS, il satellite o internet. Niente di tutto questo. Probabilmente - visto che da qualche giorno se ne fa un uso massiccio in alcune zone del paese - verra' rispolverato lo stesso mass-media adoperato dal generale Alexander, nel 1944, per sbandare i nostri partigiani: il volantinaggio aereo. Privatizzare, anche nel caso della realta', non significa fornire un buon servizio, all¹avanguardia e competitivo, ma evitare che ne vengano forniti altri.
Ma e' davvero possibile? Davvero crediamo che un buon grafico e un signor volantinaggio possano intaccare lo spirito nazionale di un popolo temprato da decenni di esclusione (su tutti i fronti, compreso quello della pieta' internazionale)? Che la promozione della guerra scalfisca gli orientamenti prodotti dalla miriade di Saddam che tappezzano quelle strade e quelle piazze? Che l¹operazione di marcketing degli alleati faccia fiorire bande di patrioti e comitati di liberazione nazionale? Che gli iracheni possano rimanere ammaliati da un nuovo e cosi' compromesso erogatore di realtà, insomma? Io francamente sono molto scettico. E penso inoltre che farsi questo genere di illusioni significhi aver drammaticamente perso il senso della misura, sovrastimarsi, non essere piu' capaci di ammettere che ci sono identita' culturali e situazioni politiche più resistenti della nostra al nostro modo di smerciare modelli di vita. C¹è parecchio eurocentrismo (come lo si chiamava una volta) in chi crede di convincere gli altri con un volantinaggio: un¹inconscia teologia del tutto-mercato, che giustifica e redime, che si vende in ogni contesto e che, anzi, lo riconfigura.
Questa prospettiva può convincere i fattorini della democrazia d¹asporto, ma difficilmente modifichera' gli orientamenti di chi riceve dagli stessi aerei il lutto, la morte e la buona novella. Per la buona novella non si uccide: al limite, ma proprio al limite, si muore. Del resto lo sanno anche al Pentagono, nonostante lo ignorino parecchie migliaia di elettori che vivono dell¹area di egemonia del Dipartimento di Rumsfelds e che commettono l'errore imperdonabile di confondere la democrazia con le definizioni commerciali che escono dai nostri centri di comando. Il 15 febbraio, se non altro, sta li' a testimoniare che il numero di questi elettori e' in una fase di erosione.
[...]
Madame, ma quando torni?
Io, che non sempre ho cose intelligenti da dire, passo la palla al vecchio Defarge:
Il monopolio della realtà
A questo punto è una questione di ore, poi i missili cominceranno a fischiare. Missili convenzionali, missili cui manca qualche trascurabile diottria, missili con una scritta divertente e liberatoria, ³in culo a Saddam² o ragazzate affini. Due o tre di questi missili rovineranno subito sul Ministero dell¹Informazione, tranciando i cavi che permettono a Saddam di cucinare le notizie di guerra e di drogare l'opinione dei suoi sudditi. Dalle competizioni eletorali alla guerra, la superficie sulla quale si estende il dominio della rappresentazione deve essere totale, senza increspature e zone franche, tanto da tramutarsi in una vera e propria privatizzazione della realta'. A settembre, quando i ministri dei paesi che aderiscono al WTO si troveranno a Cancun, in Messico, per aggiornare l'elenco dei servizi privatizzabili, bisognera' che qualcuno lo dica: la realta' non e' in vendita, se ne sono esaurite le scorte. Chi gestisce il telecomando e' il vero padrone di casa. I padroni della realta' controllano il modo in cui viene rappresentata e rendono narcotica la sovranita' del padrone di casa. C¹e' tutta una storia della guerra a luci soffuse che comincia con l¹invasione delle Malvinas, passa per il Kossovo e la Cecenia e arriva a Kabul...
Non e' solo una storia di falsi e di contrabbandieri, ma un romanzo dozzinale di ciechi e di black-out che arrivano a scioglierne l'intreccio. Oggi quel romanzo ricomincia: bisogna tagliare la lingua di Saddam, per questo il Ministero dell¹Informazione rimane uno dei target più prevedibili. Poi la guerra delle notizie tracimera' in un secondo tempo, più delicato e paradossale: quello in cui chi e' bombardato riceve informazioni, sul fatto di essere bombardato, da chi lo bombarda. Non tramite la tivu', la radio, gli SMS, il satellite o internet. Niente di tutto questo. Probabilmente - visto che da qualche giorno se ne fa un uso massiccio in alcune zone del paese - verra' rispolverato lo stesso mass-media adoperato dal generale Alexander, nel 1944, per sbandare i nostri partigiani: il volantinaggio aereo. Privatizzare, anche nel caso della realta', non significa fornire un buon servizio, all¹avanguardia e competitivo, ma evitare che ne vengano forniti altri.
Ma e' davvero possibile? Davvero crediamo che un buon grafico e un signor volantinaggio possano intaccare lo spirito nazionale di un popolo temprato da decenni di esclusione (su tutti i fronti, compreso quello della pieta' internazionale)? Che la promozione della guerra scalfisca gli orientamenti prodotti dalla miriade di Saddam che tappezzano quelle strade e quelle piazze? Che l¹operazione di marcketing degli alleati faccia fiorire bande di patrioti e comitati di liberazione nazionale? Che gli iracheni possano rimanere ammaliati da un nuovo e cosi' compromesso erogatore di realtà, insomma? Io francamente sono molto scettico. E penso inoltre che farsi questo genere di illusioni significhi aver drammaticamente perso il senso della misura, sovrastimarsi, non essere piu' capaci di ammettere che ci sono identita' culturali e situazioni politiche più resistenti della nostra al nostro modo di smerciare modelli di vita. C¹è parecchio eurocentrismo (come lo si chiamava una volta) in chi crede di convincere gli altri con un volantinaggio: un¹inconscia teologia del tutto-mercato, che giustifica e redime, che si vende in ogni contesto e che, anzi, lo riconfigura.
Questa prospettiva può convincere i fattorini della democrazia d¹asporto, ma difficilmente modifichera' gli orientamenti di chi riceve dagli stessi aerei il lutto, la morte e la buona novella. Per la buona novella non si uccide: al limite, ma proprio al limite, si muore. Del resto lo sanno anche al Pentagono, nonostante lo ignorino parecchie migliaia di elettori che vivono dell¹area di egemonia del Dipartimento di Rumsfelds e che commettono l'errore imperdonabile di confondere la democrazia con le definizioni commerciali che escono dai nostri centri di comando. Il 15 febbraio, se non altro, sta li' a testimoniare che il numero di questi elettori e' in una fase di erosione.
[...]
Madame, ma quando torni?
mercoledì 19 marzo 2003
Un altro ragazzo si è tolto la vita all’accademia militare di Modena. Si chiama Ermir Haxhiaj, era albanese, aveva 19 anni. È il secondo suicidio in due mesi, il quarto in sei anni. I graduati insistono che si tratta di pura fatalità. Il padre del ragazzo invece accusa gli insegnanti di discriminazione.
Sull’accademia di Modena ho già scritto un pezzo , un mese fa, e non saprei cosa aggiungere.
Coccodrilli di guerra
Invece vorrei far presente una cosa che in questi giorni mi sta spaventando: mi sono reso conto che questo sito è un interminabile officio funebre, una galleria di coccodrilli.
Sono sceso in fondo alla pagina, e ho iniziato a contare i morti del mese, da Alberto Sordi fino al povero Ermir. Sono troppi.
D’altro canto, quando muore un attore importante, un cantante celebre, una ragazza schiacciata da un bulldozer, sembra impossibile non parlarne. I morti reclamano spazio, proprio loro che ormai non possono più essere aiutati: muovono i ricordi, scuotono le coscienze, fanno arrabbiare e commuovono. I morti – mi sto rendendo conto – sono un argomento molto comodo. Se vuoi fare indignare un lettore, o fargli spendere una lacrima, non c’è nulla di meglio di una prece in prima pagina.
E c’è di più – c’è di peggio: nelle nostre quotidiane battaglie di idee, i morti sono armi. Armi improprie, non convenzionali, micidiali. Rachel Corrie è morta, non esiste più. Perché ho messo la sua foto sul mio sito? Per commuovermi, per sentirmi buono. E perché il sorriso di Rachel Corrie è un colpo basso a chi non è d’accordo con me, a chi difende i carri armati israeliani.
Forse non avrei dovuto mettere quella foto. Forse non è giusto sventolare i morti come bandiere, gettarli addosso al nemico come armi.
C’è qualcosa di molto sbagliato in me, se la prima reazione al lutto del mattino è “Vedete che avevo ragione”. All’accademia si uccide un altro cadetto: “Vedete che avevo ragione? Lì dentro c’è del marcio”. Accoltellano un giovane disobbediente: “Vedete che avevo ragione? I neofascisti sono pericolosi”.
Potrò avere tutte le ragioni del mondo, ma ho perso la mia battaglia se ho trasformato i morti in argomenti, se non riconosco più in loro degli esseri umani, come me, che ieri respiravano e stamattina non esistono più.
Ho pensato a tutto questo dopo aver visto, su icapperi, un banner spaventoso, dedicato ai pacifisti, che mostra foto di vittime del regime iracheno, in gran parte bambini. “In Iraq in migliaia non possono camminare: Saddam ha dato loro “la pace”… Voi marciate per la vostra pace, voi marciate per la pace di Saddam. Ecco il prezzo della vostra pace. Io non posso permetterlo. Io non voglio pagare. È tutto vostro”.
Ora, qui c’è qualcosa di più del pessimo gusto. Innanzitutto c’è l’idea che i milioni di pacifisti del 15 febbraio siano poveri ingenui, che non abbiano mai sentito parlare dei crimini di Saddam Hussein: altrimenti non potrebbero non invocare l’invasione immediata dell’Iraq.
L’autore del banner non ha nessuna intenzione di ‘educare’ i pacifisti: essendo loro ingenui e ignoranti, l’unica cosa da fare è stordirli con una caterva impressionante di foto di bambini morti e feriti, possibilmente con il viso in primo piano e gli occhi sbarrati. Non è citata nessuna fonte per le immagini (sono curdi? Sciiti? A che anno risalgono le foto?).
Quei bambini morti non hanno una storia da raccontare. Sono soltanto un’arma di persuasione, una bandiera di civiltà (civiltà?).
Naturalmente si potrebbe obiettare in milioni di modi: che i pacifisti non sono filo-Hussein, perché Hussein non è pacifista; che i crimini del regime iracheno sono noti da sempre, e che è molto sospetta quest’improvvisa fregola di vendicare gli eccidi al gas nervino commessi più di dieci anni fa. Ma tutto questo non ha la forza del volto di un bambino che non esiste più.
E allora cosa facciamo? Alla fine qualcuno si metterà a cercare foto di bambini uccisi dai missili americani o israeliani, in Iraq, in Afganistan o in Palestina: e ci farà anche lui il suo bello, commovente, scioccante banner animato. E la battaglia per le idee continuerà così, a colpi di foto di bambini morti.
Andrà davvero così? Dipende da noi. Siamo così affezionati alle nostre idee, da rinunciare alla nostra umanità per difenderle?
Domani inizia la guerra, e i morti – come succede in questi casi – smetteranno di avere un volto: diventeranno numeri. Io prometto che ci andrò piano, coi coccodrilli, e non innalzerò più nessuna foto di morto come bandiera, e non userò nessun corpo di morto come arma. Voi fate pure quello che vi pare, siamo su internet. Buona fortuna.
Sull’accademia di Modena ho già scritto un pezzo , un mese fa, e non saprei cosa aggiungere.
Coccodrilli di guerra
Invece vorrei far presente una cosa che in questi giorni mi sta spaventando: mi sono reso conto che questo sito è un interminabile officio funebre, una galleria di coccodrilli.
Sono sceso in fondo alla pagina, e ho iniziato a contare i morti del mese, da Alberto Sordi fino al povero Ermir. Sono troppi.
D’altro canto, quando muore un attore importante, un cantante celebre, una ragazza schiacciata da un bulldozer, sembra impossibile non parlarne. I morti reclamano spazio, proprio loro che ormai non possono più essere aiutati: muovono i ricordi, scuotono le coscienze, fanno arrabbiare e commuovono. I morti – mi sto rendendo conto – sono un argomento molto comodo. Se vuoi fare indignare un lettore, o fargli spendere una lacrima, non c’è nulla di meglio di una prece in prima pagina.
E c’è di più – c’è di peggio: nelle nostre quotidiane battaglie di idee, i morti sono armi. Armi improprie, non convenzionali, micidiali. Rachel Corrie è morta, non esiste più. Perché ho messo la sua foto sul mio sito? Per commuovermi, per sentirmi buono. E perché il sorriso di Rachel Corrie è un colpo basso a chi non è d’accordo con me, a chi difende i carri armati israeliani.
Forse non avrei dovuto mettere quella foto. Forse non è giusto sventolare i morti come bandiere, gettarli addosso al nemico come armi.
C’è qualcosa di molto sbagliato in me, se la prima reazione al lutto del mattino è “Vedete che avevo ragione”. All’accademia si uccide un altro cadetto: “Vedete che avevo ragione? Lì dentro c’è del marcio”. Accoltellano un giovane disobbediente: “Vedete che avevo ragione? I neofascisti sono pericolosi”.
Potrò avere tutte le ragioni del mondo, ma ho perso la mia battaglia se ho trasformato i morti in argomenti, se non riconosco più in loro degli esseri umani, come me, che ieri respiravano e stamattina non esistono più.
Ho pensato a tutto questo dopo aver visto, su icapperi, un banner spaventoso, dedicato ai pacifisti, che mostra foto di vittime del regime iracheno, in gran parte bambini. “In Iraq in migliaia non possono camminare: Saddam ha dato loro “la pace”… Voi marciate per la vostra pace, voi marciate per la pace di Saddam. Ecco il prezzo della vostra pace. Io non posso permetterlo. Io non voglio pagare. È tutto vostro”.
Ora, qui c’è qualcosa di più del pessimo gusto. Innanzitutto c’è l’idea che i milioni di pacifisti del 15 febbraio siano poveri ingenui, che non abbiano mai sentito parlare dei crimini di Saddam Hussein: altrimenti non potrebbero non invocare l’invasione immediata dell’Iraq.
L’autore del banner non ha nessuna intenzione di ‘educare’ i pacifisti: essendo loro ingenui e ignoranti, l’unica cosa da fare è stordirli con una caterva impressionante di foto di bambini morti e feriti, possibilmente con il viso in primo piano e gli occhi sbarrati. Non è citata nessuna fonte per le immagini (sono curdi? Sciiti? A che anno risalgono le foto?).
Quei bambini morti non hanno una storia da raccontare. Sono soltanto un’arma di persuasione, una bandiera di civiltà (civiltà?).
Naturalmente si potrebbe obiettare in milioni di modi: che i pacifisti non sono filo-Hussein, perché Hussein non è pacifista; che i crimini del regime iracheno sono noti da sempre, e che è molto sospetta quest’improvvisa fregola di vendicare gli eccidi al gas nervino commessi più di dieci anni fa. Ma tutto questo non ha la forza del volto di un bambino che non esiste più.
E allora cosa facciamo? Alla fine qualcuno si metterà a cercare foto di bambini uccisi dai missili americani o israeliani, in Iraq, in Afganistan o in Palestina: e ci farà anche lui il suo bello, commovente, scioccante banner animato. E la battaglia per le idee continuerà così, a colpi di foto di bambini morti.
Andrà davvero così? Dipende da noi. Siamo così affezionati alle nostre idee, da rinunciare alla nostra umanità per difenderle?
Domani inizia la guerra, e i morti – come succede in questi casi – smetteranno di avere un volto: diventeranno numeri. Io prometto che ci andrò piano, coi coccodrilli, e non innalzerò più nessuna foto di morto come bandiera, e non userò nessun corpo di morto come arma. Voi fate pure quello che vi pare, siamo su internet. Buona fortuna.
martedì 18 marzo 2003
So thanks for allowing me to not feel like a complete polyanna when I tentatively tell people here that many people in the United States do not support the policies of our government, and that we are learning from global examples how to resist... (Rachel Corrie)
Perché in questa foto ha un sorriso gentile, simile a quello che abbiamo visto in altre ragazze che abbiamo salutato, e a cui abbiamo consigliato prudenza, che non sempre si può sfidare i carri armati a mani nude e spuntarla; perché in definitiva il suo volto assomiglia al nostro, è un volto pulito, senza rabbia e senza povertà, ci pesa troppo la morte di Rachel Corrie, ricoperta di sabbia e schiacciata da un bulldozer.
Ci pesa più della morte degli altri due palestinesi di oggi: ma quella è routine, e poi quella gente sembra predestinata alla miseria e alla violenza.
Rachel Corrie no. Veniva da Olimpia, Washington, USA, e qualcuno ben informato avrà già concluso che poteva benissimo starsene a casa sua, invece di ostacolare i democratici bulldozer d’Israele.
Da una lettera scopriamo che era bionda, ma nei campi preferiva teneva i capelli coperti per non urtare nessuno; che era vegetariana, ma che le era stata promessa una pastasciutta, uno di questi giorni. E che di solito parlava lentamente, con ricercata tranquillità. In questa foto però la troviamo sorpresa in un accesso d’ira, mentre brucia una rudimentale bandiera israeliana: un gesto che a un palestinese costerebbe probabilmente il carcere, ma che un cittadino occidentale pensa ancora di poter fare, nei Territori. Un gesto che qualcuno disapproverà, che qualcuno giudicherà antisemita, ma in tutta franchezza, signori: per voi Rachel Corrie era una pericolosa agitatrice? Merita di essere morta così?
Voi liberi pensatori, che difendete Israele perché è una democrazia e non un califfato, probabilmente siete dispiaciuti quanto me di questa ragazza forse un po’ troppo idealista, e pensate che ci dev’essere stato un errore, un incidente, una svista del conducente, e che un’inchiesta chiarirà le colpe e le responsabilità.
Posso rispondervi con un nome? Raffaele Ciriello.
Vi ricordate chi era Raffaele Ciriello? Un reporter italiano senza contratto fisso, che mentre fotografava l’avanzata dell’esercito a Ramallah fu colpito in petto da una democratica pallottola, partita da un democratico carro armato. È successo appena un anno fa, il tredici marzo.
Nei giorni successivi si sollevò un polverone, poi in Italia fu ucciso Marco Biagi e i giornali si misero a parlare d’altro. Nel frattempo i responsabili dell’esercito israeliano avevano dichiarato che la responsabilità era del reporter, che si trovava là dove l’esercito aveva consigliato di non restare. Perché c’è pur sempre una guerra, in Palestina, e in guerra, evidentemente, l’esercito democratico d’Israele si considera autorizzato a far fuoco sui giornalisti stranieri, se si trovano dove non dovrebbero trovarsi.
Ed eccoci qui, alla vigilia di una guerra. Una guerra che, come tutti sanno, si combatte per portare più democrazia nel Medio Oriente, dove ce n’è poca. E io, che sono italiano, occidentale, etnicamente affine a Rachel Corrie, anche se molto meno testardo e coraggioso, mi permetto di dire che a me non interessa affatto estendere la democrazia nel Medio Oriente; che anzi, se dipendesse da me la ridurrei. Vorrei che l’unica democrazia del Medio Oriente, che occupa da più di quarant’anni territori non suoi, opprimendone gli abitanti, fosse commissariata; che le fosse impedito di nuocere ancora a sé stessa e agli altri. Perché i crimini non sono meno odiosi quando sono commessi da un regime democratico, anzi.
La democrazia non è Baywatch, signori, la democrazia non è quel simpatico teatrino, riedizione televisiva dei panem e circenses, che piace tanto qui da noi: la democrazia è una cosa seria, nasce nel sangue e nel sacrificio, cresce lentamente e a volte degenera all’improvviso. La democrazia è una condivisione del potere e delle responsabilità. La responsabilità della morte di Rachel Corrie ricade sul governo che ha autorizzato la demolizione di quel villaggio, e sul popolo che l’ha votato.
Quanto ai crimini dei terroristi palestinesi, essi sono odiosi, e non possono essere giustificati. Ma non sono stati autorizzati dall’assemblea di un popolo. Sono opera di gruppi fondamentalisti che prosperano nel vuoto di potere e nella miseria dei Territori. Invece di favorire la nascita di una leadership palestinese, Israele ha fatto di tutto per ostacolarla, imprigionando ed eliminando i leader emergenti, lasciando il vecchio e screditato Arafat praticamente solo.
Oggi sentiamo che il liberatore del Medio Oriente, George W. Bush, promette la nascita di un nuovo Stato Palestinese. A tale scopo, ha chiesto ad Ariel Sharon che non siano più costruiti insediamenti nei Territori. Gli israeliani hanno avuto a disposizione un paio di anni per costruire nuovi insediamenti e fare tabula rasa dei villaggi palestinesi scomodi: ma ora basta, perdiana. Queste ruspe che ancora demoliscono case (e occasionalmente schiacciano qualche uomo o donna o attivista) sono le ultime. Poi si traccerà un nuovo confine, e i palestinesi dovranno accontentarsi di quello che gli israeliani non hanno già preso: il deserto e un paio di bidonvilles. L’acqua e la benzina, dovranno comprarla dagli israeliani.
Naturalmente diranno di no, perché non basta mettere un cartello davanti a un campo profughi per trasformarlo in uno Stato Palestinese. E ancora una volta, i signori bene informati di tutto il mondo scuoteranno la testa: ma come sono testardi questi palestinesi, ma cos’è che vogliono ancora? Quante guerre devono perdere per rassegnarsi a scomparire?
E ci saranno ancora ragazze ingenue o testarde come Rachel Corrie, o giornalisti inegnui e imprudenti come Raffaele Ciriello? Io ho paura di sì, che ci saranno. Anche se preferirei di no. Se questo è il prezzo della democrazia, io propongo di farne a meno, per ora.
Perché in questa foto ha un sorriso gentile, simile a quello che abbiamo visto in altre ragazze che abbiamo salutato, e a cui abbiamo consigliato prudenza, che non sempre si può sfidare i carri armati a mani nude e spuntarla; perché in definitiva il suo volto assomiglia al nostro, è un volto pulito, senza rabbia e senza povertà, ci pesa troppo la morte di Rachel Corrie, ricoperta di sabbia e schiacciata da un bulldozer.
Ci pesa più della morte degli altri due palestinesi di oggi: ma quella è routine, e poi quella gente sembra predestinata alla miseria e alla violenza.
Rachel Corrie no. Veniva da Olimpia, Washington, USA, e qualcuno ben informato avrà già concluso che poteva benissimo starsene a casa sua, invece di ostacolare i democratici bulldozer d’Israele.
Da una lettera scopriamo che era bionda, ma nei campi preferiva teneva i capelli coperti per non urtare nessuno; che era vegetariana, ma che le era stata promessa una pastasciutta, uno di questi giorni. E che di solito parlava lentamente, con ricercata tranquillità. In questa foto però la troviamo sorpresa in un accesso d’ira, mentre brucia una rudimentale bandiera israeliana: un gesto che a un palestinese costerebbe probabilmente il carcere, ma che un cittadino occidentale pensa ancora di poter fare, nei Territori. Un gesto che qualcuno disapproverà, che qualcuno giudicherà antisemita, ma in tutta franchezza, signori: per voi Rachel Corrie era una pericolosa agitatrice? Merita di essere morta così?
Voi liberi pensatori, che difendete Israele perché è una democrazia e non un califfato, probabilmente siete dispiaciuti quanto me di questa ragazza forse un po’ troppo idealista, e pensate che ci dev’essere stato un errore, un incidente, una svista del conducente, e che un’inchiesta chiarirà le colpe e le responsabilità.
Posso rispondervi con un nome? Raffaele Ciriello.
Vi ricordate chi era Raffaele Ciriello? Un reporter italiano senza contratto fisso, che mentre fotografava l’avanzata dell’esercito a Ramallah fu colpito in petto da una democratica pallottola, partita da un democratico carro armato. È successo appena un anno fa, il tredici marzo.
Nei giorni successivi si sollevò un polverone, poi in Italia fu ucciso Marco Biagi e i giornali si misero a parlare d’altro. Nel frattempo i responsabili dell’esercito israeliano avevano dichiarato che la responsabilità era del reporter, che si trovava là dove l’esercito aveva consigliato di non restare. Perché c’è pur sempre una guerra, in Palestina, e in guerra, evidentemente, l’esercito democratico d’Israele si considera autorizzato a far fuoco sui giornalisti stranieri, se si trovano dove non dovrebbero trovarsi.
Ed eccoci qui, alla vigilia di una guerra. Una guerra che, come tutti sanno, si combatte per portare più democrazia nel Medio Oriente, dove ce n’è poca. E io, che sono italiano, occidentale, etnicamente affine a Rachel Corrie, anche se molto meno testardo e coraggioso, mi permetto di dire che a me non interessa affatto estendere la democrazia nel Medio Oriente; che anzi, se dipendesse da me la ridurrei. Vorrei che l’unica democrazia del Medio Oriente, che occupa da più di quarant’anni territori non suoi, opprimendone gli abitanti, fosse commissariata; che le fosse impedito di nuocere ancora a sé stessa e agli altri. Perché i crimini non sono meno odiosi quando sono commessi da un regime democratico, anzi.
La democrazia non è Baywatch, signori, la democrazia non è quel simpatico teatrino, riedizione televisiva dei panem e circenses, che piace tanto qui da noi: la democrazia è una cosa seria, nasce nel sangue e nel sacrificio, cresce lentamente e a volte degenera all’improvviso. La democrazia è una condivisione del potere e delle responsabilità. La responsabilità della morte di Rachel Corrie ricade sul governo che ha autorizzato la demolizione di quel villaggio, e sul popolo che l’ha votato.
Quanto ai crimini dei terroristi palestinesi, essi sono odiosi, e non possono essere giustificati. Ma non sono stati autorizzati dall’assemblea di un popolo. Sono opera di gruppi fondamentalisti che prosperano nel vuoto di potere e nella miseria dei Territori. Invece di favorire la nascita di una leadership palestinese, Israele ha fatto di tutto per ostacolarla, imprigionando ed eliminando i leader emergenti, lasciando il vecchio e screditato Arafat praticamente solo.
Oggi sentiamo che il liberatore del Medio Oriente, George W. Bush, promette la nascita di un nuovo Stato Palestinese. A tale scopo, ha chiesto ad Ariel Sharon che non siano più costruiti insediamenti nei Territori. Gli israeliani hanno avuto a disposizione un paio di anni per costruire nuovi insediamenti e fare tabula rasa dei villaggi palestinesi scomodi: ma ora basta, perdiana. Queste ruspe che ancora demoliscono case (e occasionalmente schiacciano qualche uomo o donna o attivista) sono le ultime. Poi si traccerà un nuovo confine, e i palestinesi dovranno accontentarsi di quello che gli israeliani non hanno già preso: il deserto e un paio di bidonvilles. L’acqua e la benzina, dovranno comprarla dagli israeliani.
Naturalmente diranno di no, perché non basta mettere un cartello davanti a un campo profughi per trasformarlo in uno Stato Palestinese. E ancora una volta, i signori bene informati di tutto il mondo scuoteranno la testa: ma come sono testardi questi palestinesi, ma cos’è che vogliono ancora? Quante guerre devono perdere per rassegnarsi a scomparire?
E ci saranno ancora ragazze ingenue o testarde come Rachel Corrie, o giornalisti inegnui e imprudenti come Raffaele Ciriello? Io ho paura di sì, che ci saranno. Anche se preferirei di no. Se questo è il prezzo della democrazia, io propongo di farne a meno, per ora.
lunedì 17 marzo 2003
Risposta a Leonardo: non è che per non attaccare Indymedia - che pure qualche filtro lo potrebbe usare, e raccoglie quel che semina: quando Repubblica mise su un forum in cui qualsiasi grafomane frustrato era invitato a dire se Sofri era un assassino o no, io me la presi con Repubblica, e non misi a repentaglio la libertà di stampa - non si deve nemmeno parlare del fatto che ci sia gente così. Va bene fare spallucce e essere uomini di mondo, ma per me la cretineria a queste quote è una notizia. E non siamo tutti cretini uguali, no: c'è gente che non scrive cazzate, gente che non le pensa, gente che non mette su forum sicari, gente che non ne strilla i contenuti in home page, gente che non è senza peccato, ma ci sta attenta).
Saloon Indymedia
Risposta (un po’ tardiva) a Wittgenstein:
sicuramente non siamo tutti cretini uguali, ma da ogni parte ci sono cretini, e alla fine si tratta di scegliere quali cretini tollerare, e quali no.
Detto questo, io non difendo Indymedia perché è libertaria (discutibile) perché è il sito del movimento (discutibile), perché ha contenuti interessanti (qualche volta).
Io difendo Indymedia perché fa open publishing, e l’open publishing è internet, allo stato puro. E io adoro internet, adoro l’open publishing, adoro essere qui nella parte dello sfigato qualunque a discutere pubblicamente con un giornalista di fama nazionale, grazie a internet. E pazienza se il prezzo da pagare per la mia libertà di parola è il dilagare di forum rissosi e trucidi.
Se chiedessi un filtro per Indymedia lo dovrei chiedere anche ai gestori di blogspot, di splinder, e di tutti i concessori di server del mondo. Dovrei chiedere la chiusura di Internet al personale non autorizzato. Non posso farlo. Ho deciso che Internet mi va bene com’è: uno spazio libero nel bene e nel male, uno spazio ancora largamente ignorato dalla legge. Un far west, più che un’utopia.
Un far west popolato non soltanto da attivisti indomiti e selvaggi, ma per lo più da cretini. Per te è una notizia. Per me no, è una banalità. Il mondo è pieno di cretini, che progressivamente stanno scoprendo internet, quindi il fenomeno è destinato ad aumentare. La maggior parte di costoro non diventano più intelligenti grazie all’open publishing (ma una piccola parte sì). Se trovano un luogo di discussione (un saloon, per restare nella metafora), il loro primo impulso è entrare in cesso con un pennarello e scrivere parolacce sullo sciacquone. Perché? Misteri dell’uomo.
Dopo un po’ arriva un giornalista, saluta tutti, entra in bagno ed esce scandalizzato: sullo sciacquone qualcuno ha disegnato una stella di David! Ma che locale è mai questo? Ma non ci vergognamo?
A questo punto non c’è da sorprendersi se i tizi al bancone alzano le spalle. Perché, d’accordo, è un fatto spiacevole, ma qui non siamo in una redazione di un giornale o di un organo di partito: siamo mille miglia lontano. È giusto lamentarsi con Repubblica per un forum infelice: Repubblica è un quotidiano d’informazione e ha il dovere di proporre contenuti di qualità. Indymedia no. Nasce con altri scopi.
Poi, se proprio insistete che ci vogliono regole, beh, qualche regola effettivamente c’è. C’è un vecchio cartello che dice che i messaggi razzisti, sessisti e fascisti verranno occultati. Ma il problema è che il newswire si aggiorna in tempo reale (è utile soltanto per questo motivo). Per cui, se ci dite che avete trovato una brutta scritta sul muro, noi andiamo di là e la cancelliamo.
Se però quella scritta riappare cinque minuti dopo, e ricancellata ricompare una terza volta, è chiaro che non ci troviamo più di fronte a semplice cretineria. È il caso del messaggio “Annunziata non è neanche giudea” che hai citato tu: è stato cancellato e qualcuno l’ha rimesso, tre o quattro volte. Insomma, c’è qualcuno che gioca sporco. Come si addice a un far west, del resto.
Io credo che una democrazia matura non dovrebbe troppo preoccuparsi dal fenomeno delle scritte sui muri (anche perché chi scrive sui muri di solito non uccide nessuno). Il problema è che noi non viviamo in una democrazia matura, bensì in Italia, dove qualsiasi sfregio su un muro o su internet può tornare utile nel grande Gioco della Strumentalizzazione. Dove (per fare un esempio bastardo) in occasione della morte di Stalin il partitino dei nostalgici stalinisti (che affigge spesso i suoi proclami nel saloon di Indymedia, nell’ilarità generale) può ritrovarsi ospitato in prima serata su un programma televisivo serio, ed essere trattato dai moderatori con più condiscendenza di quanta di solito gli riservi la marmaglia del saloon. Come può succedere questo? Dabbenaggine dei conduttori? Non posso crederlo.
Credo piuttosto che un certo tipo di cretineria (non tutta la cretineria), un certo tipo di merda (non tutta la merda), faccia comodo a qualcuno. E a questo punto rispondo anche a Cesare, che scrive:
Se certi toni o un certo linguaggio fossero usati su un sito di destra non grideremmo tutti, istintivamente, all'antisemitismo, senza se e senza ma?
Caro Cesare, purtroppo no.
Se “certi toni e un certo linguaggio” fossero usati su un sito di destra, noi non ce ne accorgeremmo neppure. Solo la merda di sinistra fa notizia. Quella di destra no. Non ci credi?
Leggi un po’ qui:
Bah è giusto che quel tizio non dovrebbe stare in RAI, ma c'è anche da dire che dovrebbero buttare fuori il negro che dirige il TgR su rai 3 del Lazio...
Un ebreo come direttore della RAI, guarda caso. Sempre i posti meno importanti finiscono per occupare, quegli arrampicatori sociali...
Ancora mi chiedo come si può onorare Paolo Mieli, che è un Ebreo alla ricerca di notorietà, od onorare [Massimo] Fini, che è un Intellettuale con nessun fattore di spicco, tra l'altro di sinistra...
Meno Male che è uscito di scena.. un presidente ebreo, che prendeva così tanti soldi...ed ex sessantottino.. era impossibile pagare il canone.
Che cos’ho fatto? Niente di che. Sono andato in un sito di estrema destra (ce ne sono tanti) e ho pescato un po’ di frasi antisemite scritte sul forum nei giorni del caso Mieli. Naturalmente ho ignorato i messaggi sopra o sotto, dove altri attivisti prendevano le distanze, perché sono un furbetto.
Beh? Vi sembra uno scoop?
No, non credo. Adesso che ci pensate, vi rendete conto di aver sempre saputo che su internet ci sono anche contenuti antisemiti, neofascisti, neonazisti, ecc.. Ci sono perfino blog che fanno un po’ di propaganda revisionista.
È triste, sì, ma di solito nessuno si mette a spulciare queste cose.
Invece una stella di David su Indymedia finisce sui giornali e alla radio. Perché?
Perché Indymedia, evidentemente, dà più fastidio di tutti i siti d’estrema destra messi assieme. Ma a chi?
A me no.
Ora potrei decidere di fare così: per ogni sconcezza che trovate su Indymedia, pescarne una su un sito di estrema destra. Probablimente vincerei la partita, ma perderei la dignità.
Secondo me la battaglia per la qualità su Internet non si combatte così, ma portando nel saloon contenuti di qualità. È quello che di solito cerco di fare. Per cui mi scuso della polemica (mi scuso anche coi fascisti che ho disturbato mentre discutevano) e passo oltre. Grazie per l’attenzione (e sì, potevo anche rispondere un po' prima).
Saloon Indymedia
Risposta (un po’ tardiva) a Wittgenstein:
sicuramente non siamo tutti cretini uguali, ma da ogni parte ci sono cretini, e alla fine si tratta di scegliere quali cretini tollerare, e quali no.
Detto questo, io non difendo Indymedia perché è libertaria (discutibile) perché è il sito del movimento (discutibile), perché ha contenuti interessanti (qualche volta).
Io difendo Indymedia perché fa open publishing, e l’open publishing è internet, allo stato puro. E io adoro internet, adoro l’open publishing, adoro essere qui nella parte dello sfigato qualunque a discutere pubblicamente con un giornalista di fama nazionale, grazie a internet. E pazienza se il prezzo da pagare per la mia libertà di parola è il dilagare di forum rissosi e trucidi.
Se chiedessi un filtro per Indymedia lo dovrei chiedere anche ai gestori di blogspot, di splinder, e di tutti i concessori di server del mondo. Dovrei chiedere la chiusura di Internet al personale non autorizzato. Non posso farlo. Ho deciso che Internet mi va bene com’è: uno spazio libero nel bene e nel male, uno spazio ancora largamente ignorato dalla legge. Un far west, più che un’utopia.
Un far west popolato non soltanto da attivisti indomiti e selvaggi, ma per lo più da cretini. Per te è una notizia. Per me no, è una banalità. Il mondo è pieno di cretini, che progressivamente stanno scoprendo internet, quindi il fenomeno è destinato ad aumentare. La maggior parte di costoro non diventano più intelligenti grazie all’open publishing (ma una piccola parte sì). Se trovano un luogo di discussione (un saloon, per restare nella metafora), il loro primo impulso è entrare in cesso con un pennarello e scrivere parolacce sullo sciacquone. Perché? Misteri dell’uomo.
Dopo un po’ arriva un giornalista, saluta tutti, entra in bagno ed esce scandalizzato: sullo sciacquone qualcuno ha disegnato una stella di David! Ma che locale è mai questo? Ma non ci vergognamo?
A questo punto non c’è da sorprendersi se i tizi al bancone alzano le spalle. Perché, d’accordo, è un fatto spiacevole, ma qui non siamo in una redazione di un giornale o di un organo di partito: siamo mille miglia lontano. È giusto lamentarsi con Repubblica per un forum infelice: Repubblica è un quotidiano d’informazione e ha il dovere di proporre contenuti di qualità. Indymedia no. Nasce con altri scopi.
Poi, se proprio insistete che ci vogliono regole, beh, qualche regola effettivamente c’è. C’è un vecchio cartello che dice che i messaggi razzisti, sessisti e fascisti verranno occultati. Ma il problema è che il newswire si aggiorna in tempo reale (è utile soltanto per questo motivo). Per cui, se ci dite che avete trovato una brutta scritta sul muro, noi andiamo di là e la cancelliamo.
Se però quella scritta riappare cinque minuti dopo, e ricancellata ricompare una terza volta, è chiaro che non ci troviamo più di fronte a semplice cretineria. È il caso del messaggio “Annunziata non è neanche giudea” che hai citato tu: è stato cancellato e qualcuno l’ha rimesso, tre o quattro volte. Insomma, c’è qualcuno che gioca sporco. Come si addice a un far west, del resto.
Io credo che una democrazia matura non dovrebbe troppo preoccuparsi dal fenomeno delle scritte sui muri (anche perché chi scrive sui muri di solito non uccide nessuno). Il problema è che noi non viviamo in una democrazia matura, bensì in Italia, dove qualsiasi sfregio su un muro o su internet può tornare utile nel grande Gioco della Strumentalizzazione. Dove (per fare un esempio bastardo) in occasione della morte di Stalin il partitino dei nostalgici stalinisti (che affigge spesso i suoi proclami nel saloon di Indymedia, nell’ilarità generale) può ritrovarsi ospitato in prima serata su un programma televisivo serio, ed essere trattato dai moderatori con più condiscendenza di quanta di solito gli riservi la marmaglia del saloon. Come può succedere questo? Dabbenaggine dei conduttori? Non posso crederlo.
Credo piuttosto che un certo tipo di cretineria (non tutta la cretineria), un certo tipo di merda (non tutta la merda), faccia comodo a qualcuno. E a questo punto rispondo anche a Cesare, che scrive:
Se certi toni o un certo linguaggio fossero usati su un sito di destra non grideremmo tutti, istintivamente, all'antisemitismo, senza se e senza ma?
Caro Cesare, purtroppo no.
Se “certi toni e un certo linguaggio” fossero usati su un sito di destra, noi non ce ne accorgeremmo neppure. Solo la merda di sinistra fa notizia. Quella di destra no. Non ci credi?
Leggi un po’ qui:
Bah è giusto che quel tizio non dovrebbe stare in RAI, ma c'è anche da dire che dovrebbero buttare fuori il negro che dirige il TgR su rai 3 del Lazio...
Un ebreo come direttore della RAI, guarda caso. Sempre i posti meno importanti finiscono per occupare, quegli arrampicatori sociali...
Ancora mi chiedo come si può onorare Paolo Mieli, che è un Ebreo alla ricerca di notorietà, od onorare [Massimo] Fini, che è un Intellettuale con nessun fattore di spicco, tra l'altro di sinistra...
Meno Male che è uscito di scena.. un presidente ebreo, che prendeva così tanti soldi...ed ex sessantottino.. era impossibile pagare il canone.
Che cos’ho fatto? Niente di che. Sono andato in un sito di estrema destra (ce ne sono tanti) e ho pescato un po’ di frasi antisemite scritte sul forum nei giorni del caso Mieli. Naturalmente ho ignorato i messaggi sopra o sotto, dove altri attivisti prendevano le distanze, perché sono un furbetto.
Beh? Vi sembra uno scoop?
No, non credo. Adesso che ci pensate, vi rendete conto di aver sempre saputo che su internet ci sono anche contenuti antisemiti, neofascisti, neonazisti, ecc.. Ci sono perfino blog che fanno un po’ di propaganda revisionista.
È triste, sì, ma di solito nessuno si mette a spulciare queste cose.
Invece una stella di David su Indymedia finisce sui giornali e alla radio. Perché?
Perché Indymedia, evidentemente, dà più fastidio di tutti i siti d’estrema destra messi assieme. Ma a chi?
A me no.
Ora potrei decidere di fare così: per ogni sconcezza che trovate su Indymedia, pescarne una su un sito di estrema destra. Probablimente vincerei la partita, ma perderei la dignità.
Secondo me la battaglia per la qualità su Internet non si combatte così, ma portando nel saloon contenuti di qualità. È quello che di solito cerco di fare. Per cui mi scuso della polemica (mi scuso anche coi fascisti che ho disturbato mentre discutevano) e passo oltre. Grazie per l’attenzione (e sì, potevo anche rispondere un po' prima).
venerdì 14 marzo 2003
giovedì 13 marzo 2003
Tante cose vorrei, che forse in un pezzo solo non ci stanno.
Vorrei che la gente non scrivesse svastiche sui muri, ma dal momento che non è facile evitarlo, vorrei che alla cosa non fosse data troppa importanza, quando ben altri sono i problemi.
Vorrei vivere in un Paese un più sereno, dove non si strumentalizzano anche le bombolette spray, dove non vige (come in Italia) la par condicio delle cazzate, per cui se un giornalista s’imbatte in un caso d’intolleranza dell’estrema destra, subito deve cercarne uno di estrema sinistra da rinfacciare.
Ma siccome vivo in questo Paese, vorrei almeno che quel giornalista non abbia a trovare la “cazzata d’estrema sinistra” proprio su Indymedia.
E riguardo a Indymedia, vorrei tante cose. Innanzitutto vorrei che gli utenti (o almeno i giornalisti) capissero la differenza tra la parte redazionale (spazio al centro) e il newswire libero (colonnia a sinistra).
La parte centrale è il lavoro di un collettivo di attivitsti dell'informazione indipendenti; la colonnina a sinistra è praticamente un forum dove chiunque, c h i u n q u e può scrivere quello che gli va e pubblicarlo, e chiunque può commentare. Perciò chi scrive non è necessariamente un “no global”: molti che lo frequentano sono dell’area dell’estrema destra (alcuni si firmano anche). C’è anche qualche poliziotto, ma non è chiaro se scriva nel suo tempo libero. E c’è anche gente in pieno delirio di psicofarmaci. Insomma, è riduttivo considerare Indymedia un sito del movimento.
Naturalmente, se avete un minimo d’esperienza dei forum di discussione su Internet, sapete che il risultato non può che essere una fogna a cielo aperto, dove non mancano i tesori, ma la puzza è forte: e infatti è così, anche se io vorrei tanto che fosse diverso.
Vorrei che la redazione d’Indymedia trovasse un filtro al sistema che fosse compatibile con le istanze libertarie del progetto (come sta succedendo in altri Paesi), ma dubito che un filtro del genere possa sussistere (in realtà qualcosa c'è, ma non sembra essere stata applicata); e comunque, non avendo il tempo e la forza d’animo di entrare nella redazione e fare proposte concrete, mi rassegno allo stato delle cose (è la famosa “democrazia di chi si fa il mazzo”). Vorrei che anche gli altri critici di Indymedia si comportassero così: forse il sito diventerebbe più abitabile.
Vorrei inoltre che i giornalisti smettessero di pescare scoop di serie c2 sul newswire, perché è troppo facile: e poi magari quei giornalisti criticoni sono gli stessi che lo saccheggiano a man bassa negli unici momenti in cui diventa davvero uno strumento utile (durante le manifestazioni ‘calde’: ultimo esempio, i blocchi dei treni).
Vorrei invitarvi a riflettere sul fatto che, in fin dei conti, il newswire non è altro che un piccolo spaccato di Internet: un posto dove tutti possono pubblicare informazioni anonime. Se non ci piace il newswire, se lo troviamo pericoloso, se chiediamo che qualcuno lo controlli, allora dovremmo pensare la stessa cosa di Internet: davvero è più pericolosa che utile? Davvero vorremmo un’autorità che la controlli?
E veniamo al caso di ieri: su Indymedia qualcuno (non si sa chi) pubblica un’immagine piuttosto infelice: un logo della rai con la bandiera israeliana e la scritta “RAI, Radio Televisione Israeliana”. Anche qui, tante cose vorrei capire:
Vorrei capire perché un’immagine insulsa, sulla sezione di un sito che è notoriamente una fogna a cielo aperto, deve diventare un caso nazionale: oggi ne parlano almeno due quotidiani (Libero e la Stampa), e pochi minuti fa ho sentito che ne accennava a Radio 24 anche il Presidente della Commissione di Vigilanza. (In realtà lo capisco benissimo: l’immagine capita a fagiolo per poter dire che anche l’estrema sinistra ha il suo lato antisemita).
Vorrei che non esistesse l’antisemitismo, né a destra né a sinistra, ma dal momento che purtroppo esiste, vorrei capire come si fa a definirlo con precisione. Perché io, anche sforzandomi, non riesco a trovare nessun contenuto antisemita nell’immagine in questione. O basta raffigurare la bandiera dello Stato d’Israele fuori contesto?
L’immagine, in realtà, è solo un attacco di cattivo gusto a Paolo Mieli, che fino a poche ore fa era candidato alla presidenza della Rai. Mieli, effettivamente, è di origine ebraica, come ho appreso due giorni fa: e vorrei potermelo dimenticare tra due giorni, perché mi sembra un dato inessenziale.
Infatti vorrei vivere in una società laica, dove le religioni, come i segni zodiacali, fossero un fatto privato che nessuno ha il diritto di chiederti in un colloquio di lavoro.
Ma siccome vivo in questa società, vorrei almeno che una svastica sul muro o un’immagine impertinente su indymedia fossero classificate per quello che sono: scemenze di privati cittadini. La prima è perseguibile per legge, la seconda no, ma ben altri sono i problemi di cui si dovrebbe parlare oggi.
Molto più che di due idioti con una bomboletta spray nera, io vorrei che la gente cominciasse a indignarsi per un Ministro della Repubblica che dichiara “vedo la mano dei nazisti rossi”.
Molto più che per una stella di David su Indymedia, vorrei che i cittadini trovassero il tempo d’indignarsi per le dichiarazioni del Presidente del Consiglio (che a rigore non dovrebbe interessarsi della faccenda, nemmeno se non esistesse un certo conflitto d'interessi), o per la campagna della Padania, che è l'organo di stampa di un partito al governo. Perché sono queste le "difficoltà tecniche" per cui Mieli ha rinunciato, non certo i piccoli sconci sui muri o su internet.
Vorrei che fosse chiaro che a questo punto anche la Rai è una fogna a cielo aperto, ma che ci è arrivata con uno spreco di risorse e intelligenze infinitamente superiore a Indymedia. E allora, se permettete, a questo punto io sto con Indymedia. Perché il PMLI e la D’Eusanio sono entrambi trash, ma la D’Eusanio la devo pure pagare di tasca mia.
Infine vorrei citare due blog che mi hanno anticipato sull’argomento: Gnueconomy (che condivido pienamente) e 4 Banalitäten (neanche un po’, ma è sempre un bel sito).
(E vorrei fosse chiaro: anche i blog, nel loro insieme, sono una fogna a cielo aperto. Perciò non posso avere due pesi e due misure).
Vorrei che la gente non scrivesse svastiche sui muri, ma dal momento che non è facile evitarlo, vorrei che alla cosa non fosse data troppa importanza, quando ben altri sono i problemi.
Vorrei vivere in un Paese un più sereno, dove non si strumentalizzano anche le bombolette spray, dove non vige (come in Italia) la par condicio delle cazzate, per cui se un giornalista s’imbatte in un caso d’intolleranza dell’estrema destra, subito deve cercarne uno di estrema sinistra da rinfacciare.
Ma siccome vivo in questo Paese, vorrei almeno che quel giornalista non abbia a trovare la “cazzata d’estrema sinistra” proprio su Indymedia.
E riguardo a Indymedia, vorrei tante cose. Innanzitutto vorrei che gli utenti (o almeno i giornalisti) capissero la differenza tra la parte redazionale (spazio al centro) e il newswire libero (colonnia a sinistra).
La parte centrale è il lavoro di un collettivo di attivitsti dell'informazione indipendenti; la colonnina a sinistra è praticamente un forum dove chiunque, c h i u n q u e può scrivere quello che gli va e pubblicarlo, e chiunque può commentare. Perciò chi scrive non è necessariamente un “no global”: molti che lo frequentano sono dell’area dell’estrema destra (alcuni si firmano anche). C’è anche qualche poliziotto, ma non è chiaro se scriva nel suo tempo libero. E c’è anche gente in pieno delirio di psicofarmaci. Insomma, è riduttivo considerare Indymedia un sito del movimento.
Naturalmente, se avete un minimo d’esperienza dei forum di discussione su Internet, sapete che il risultato non può che essere una fogna a cielo aperto, dove non mancano i tesori, ma la puzza è forte: e infatti è così, anche se io vorrei tanto che fosse diverso.
Vorrei che la redazione d’Indymedia trovasse un filtro al sistema che fosse compatibile con le istanze libertarie del progetto (come sta succedendo in altri Paesi), ma dubito che un filtro del genere possa sussistere (in realtà qualcosa c'è, ma non sembra essere stata applicata); e comunque, non avendo il tempo e la forza d’animo di entrare nella redazione e fare proposte concrete, mi rassegno allo stato delle cose (è la famosa “democrazia di chi si fa il mazzo”). Vorrei che anche gli altri critici di Indymedia si comportassero così: forse il sito diventerebbe più abitabile.
Vorrei inoltre che i giornalisti smettessero di pescare scoop di serie c2 sul newswire, perché è troppo facile: e poi magari quei giornalisti criticoni sono gli stessi che lo saccheggiano a man bassa negli unici momenti in cui diventa davvero uno strumento utile (durante le manifestazioni ‘calde’: ultimo esempio, i blocchi dei treni).
Vorrei invitarvi a riflettere sul fatto che, in fin dei conti, il newswire non è altro che un piccolo spaccato di Internet: un posto dove tutti possono pubblicare informazioni anonime. Se non ci piace il newswire, se lo troviamo pericoloso, se chiediamo che qualcuno lo controlli, allora dovremmo pensare la stessa cosa di Internet: davvero è più pericolosa che utile? Davvero vorremmo un’autorità che la controlli?
E veniamo al caso di ieri: su Indymedia qualcuno (non si sa chi) pubblica un’immagine piuttosto infelice: un logo della rai con la bandiera israeliana e la scritta “RAI, Radio Televisione Israeliana”. Anche qui, tante cose vorrei capire:
Vorrei capire perché un’immagine insulsa, sulla sezione di un sito che è notoriamente una fogna a cielo aperto, deve diventare un caso nazionale: oggi ne parlano almeno due quotidiani (Libero e la Stampa), e pochi minuti fa ho sentito che ne accennava a Radio 24 anche il Presidente della Commissione di Vigilanza. (In realtà lo capisco benissimo: l’immagine capita a fagiolo per poter dire che anche l’estrema sinistra ha il suo lato antisemita).
Vorrei che non esistesse l’antisemitismo, né a destra né a sinistra, ma dal momento che purtroppo esiste, vorrei capire come si fa a definirlo con precisione. Perché io, anche sforzandomi, non riesco a trovare nessun contenuto antisemita nell’immagine in questione. O basta raffigurare la bandiera dello Stato d’Israele fuori contesto?
L’immagine, in realtà, è solo un attacco di cattivo gusto a Paolo Mieli, che fino a poche ore fa era candidato alla presidenza della Rai. Mieli, effettivamente, è di origine ebraica, come ho appreso due giorni fa: e vorrei potermelo dimenticare tra due giorni, perché mi sembra un dato inessenziale.
Infatti vorrei vivere in una società laica, dove le religioni, come i segni zodiacali, fossero un fatto privato che nessuno ha il diritto di chiederti in un colloquio di lavoro.
Ma siccome vivo in questa società, vorrei almeno che una svastica sul muro o un’immagine impertinente su indymedia fossero classificate per quello che sono: scemenze di privati cittadini. La prima è perseguibile per legge, la seconda no, ma ben altri sono i problemi di cui si dovrebbe parlare oggi.
Molto più che di due idioti con una bomboletta spray nera, io vorrei che la gente cominciasse a indignarsi per un Ministro della Repubblica che dichiara “vedo la mano dei nazisti rossi”.
Molto più che per una stella di David su Indymedia, vorrei che i cittadini trovassero il tempo d’indignarsi per le dichiarazioni del Presidente del Consiglio (che a rigore non dovrebbe interessarsi della faccenda, nemmeno se non esistesse un certo conflitto d'interessi), o per la campagna della Padania, che è l'organo di stampa di un partito al governo. Perché sono queste le "difficoltà tecniche" per cui Mieli ha rinunciato, non certo i piccoli sconci sui muri o su internet.
Vorrei che fosse chiaro che a questo punto anche la Rai è una fogna a cielo aperto, ma che ci è arrivata con uno spreco di risorse e intelligenze infinitamente superiore a Indymedia. E allora, se permettete, a questo punto io sto con Indymedia. Perché il PMLI e la D’Eusanio sono entrambi trash, ma la D’Eusanio la devo pure pagare di tasca mia.
Infine vorrei citare due blog che mi hanno anticipato sull’argomento: Gnueconomy (che condivido pienamente) e 4 Banalitäten (neanche un po’, ma è sempre un bel sito).
(E vorrei fosse chiaro: anche i blog, nel loro insieme, sono una fogna a cielo aperto. Perciò non posso avere due pesi e due misure).
mercoledì 12 marzo 2003
Ingenuità II
(perseverare diabolicum)
Saddam Hussein non disarmerà mai. Non è una previsione campata in aria, è un'analisi dei suoi comportamenti e della sua politica.
E noi, di chi ci dobbiamo fidare? Degli ispettori ONU o delle analisi di Christian Rocca sul Foglio? È una scelta dura, perché le analisi di Christian Rocca migliorano di giorno in giorno (questa settimana, per esempio, non confonde più i turchi con gli arabi).
Ma è ancora intimamente persuaso che l’uranio impoverito sia la via più breve alla democrazia nel Medio Oriente. Naturalmente “si tratta di un processo lungo, faticoso, pieno di insidie e molto, molto costoso”, e “Il rischio è che gli Stati Uniti, quanto più se isolati, decidano di abbandonare il progetto alle prime difficoltà”. “Se l'Europa e i paladini della pace si occupassero di questo, di spronarli e aiutarli a non lasciare le cose a metà, contribuirebbero molto più efficacemente a un futuro pacifico del mondo”.
Insomma, se alla fine dei bombardamenti non spunterà dai crateri della Mesopotamia un ceto medio in grado di produrre una classe dirigente democratica, la colpa sarà dell’Europa e dei Paladini della Pace. Intesi?
E ora silenzio, disfattisti, che comincia baywatch.
(Ma io mi chiedo: un dittatore, anche avendone voglia, come fa a disarmare, con tutto questo baccano di piani di invasione e di spartizione delle pelli che si fa sui giornali di tutto il mondo?)
(perseverare diabolicum)
Saddam Hussein non disarmerà mai. Non è una previsione campata in aria, è un'analisi dei suoi comportamenti e della sua politica.
E noi, di chi ci dobbiamo fidare? Degli ispettori ONU o delle analisi di Christian Rocca sul Foglio? È una scelta dura, perché le analisi di Christian Rocca migliorano di giorno in giorno (questa settimana, per esempio, non confonde più i turchi con gli arabi).
Ma è ancora intimamente persuaso che l’uranio impoverito sia la via più breve alla democrazia nel Medio Oriente. Naturalmente “si tratta di un processo lungo, faticoso, pieno di insidie e molto, molto costoso”, e “Il rischio è che gli Stati Uniti, quanto più se isolati, decidano di abbandonare il progetto alle prime difficoltà”. “Se l'Europa e i paladini della pace si occupassero di questo, di spronarli e aiutarli a non lasciare le cose a metà, contribuirebbero molto più efficacemente a un futuro pacifico del mondo”.
Insomma, se alla fine dei bombardamenti non spunterà dai crateri della Mesopotamia un ceto medio in grado di produrre una classe dirigente democratica, la colpa sarà dell’Europa e dei Paladini della Pace. Intesi?
E ora silenzio, disfattisti, che comincia baywatch.
(Ma io mi chiedo: un dittatore, anche avendone voglia, come fa a disarmare, con tutto questo baccano di piani di invasione e di spartizione delle pelli che si fa sui giornali di tutto il mondo?)
martedì 11 marzo 2003
lettere anonime
Non so se ci avete fatto caso, ma questo è un sito anonimo. Un anonimato molto blando, d’accordo, ma è pur sempre anonimato.
Se mi chiedono il perché, di solito rispondo: c’è gente in giro che ha la querela facile, come il caso Dall'Omo ha dimostrato (a proposito: com’è andata a finire?).
La realtà è, come sempre, più complessa. Ho sentito spesso dire che l’abitudine dei potenti a querelare sia uno dei motivi per cui in Italia non si riesce a fare un buon giornalismo. Sarà vero, sarà una scusa, sarà che comunque ogni quotidiano ha il suo ufficio legale (e i freelance, anche in questo caso, cosa fanno? Si attaccano?)
Io però non faccio giornalismo, ogni tanto è bene metterlo nero su bianco. Esprimo le mie opinioni, come al bar. Ritengo anch'io di averne il diritto. Tuttavia mi pongo un problema: è possibile che le mie opinioni (che al bar sono legittime) trasferite su internet si trasformino in diffamazione?
Nel dubbio, cerco di trovare riscontri oggettivi, e quando non li trovo, evito l’argomento. Lo dico perché anch’io, come tanti, ho una mia idea su chi può avere ucciso Marco Biagi o Michele Landi, su chi ci sia dietro le nuove Br e anche le vecchie, e su tante altre cose. La dietrologia è uno sport nazionale, e io non mi tiro indietro.
Ma siccome non ho riscontri, siti autorevoli da lincare, testi o fatti da citare, queste opinioni le tengo per me.
Non dico neanche più che Berlusconi è un ladro, anche se con un po’ di sforzo sicuramente riuscirei a rintracciare qualche sentenza patteggiata o qualche indagine caduta in proscrizione. Ma siccome non ho voglia di sforzarmi, sto zitto o parlo d’altro.
A chi in questi giorni va dicendo, qua e là sui blog, che le Br sono colluse col movimento, vorrei suggerire: perché non ci consigliate anche voi un bel film, o i 31 jingle pubblicitari che vi hanno cambiato la vita, o quel che avete mangiato a pranzo la domenica?
Se invece insistete per parlare di br, perché non ci date qualche riscontro oggettivo? È così difficile trovare una pistola fumante su Indymedia o su qualsiasi altro forum alternativo a cielo aperto? Digitate “brigate rosse casarini” su google e vedete cosa salta fuori. È troppa fatica?
O pensate che internet vi dia il diritto di accusare di omicidio e banda armata il primo che vi viene in mente? Fate così anche al bar? In che razza di bar andate?
Ma d’altro canto, non vi si può troppo biasimare, visto che siete italiani, e l’Italia (l’ho capito stamattina) non è un Paese civile.
E quando dico stamattina, non mi riferisco a una svastica in Corso Sempione – sono cose che purtroppo succedono nelle migliori democrazie. No, parlo del signor Umberto Bossi, che ha dichiarato “vedo la mano mafiosa dei nazisti rossi”.
Se il signor Bossi fosse seduto al banco del bar, prenderei fiato e mi volterei dall’altra parte, perché dopotutto ognuno ha diritto di pensarla come vuole e di vedere le mani che vuole.
Se fosse un giornalista, mi aspetterei che citasse la fonte dell’informazione, e qualche riscontro più preciso: chi sono i nazisti rossi? Da chi è partito l’ordine? Chi lo ha eseguito?
Capita invece che il signor Umberto Bossi sia un Ministro della Repubblica, democraticamente eletto. E a questo punto non mi resta che chiedere scusa a tutti quanti.
Scusatemi se vi ho preso troppo sul serio, pretendendo da voi più serietà di quella dimostrata dai nostri governanti. Tante scuse anche a me stesso. Quante notti insonni passate a cercare link, a sfogliare libri e giornali, quando per fare informazione sarebbe semplicemente bastato dire le prime cose che mi passavano per la testa.
E già che ci sono, voglio togliermi qualche sassolino, ora che posso. Per esempio. Berlusconi è un ladro. Ma questo è il meno. Berlusconi è stonato, gli puzza il fiato, e la moglie lo tradisce con un filosofo, ah ah ah, povera donna. Dell'Utri ha le mani mafiose e l'ombelico camorrista. Fini è un ebreo. Casini è un gay. La Prestigiacomo è un transessuale. Giuliano Ferrara è un infiltrato. Scajola è un abile stratega. E Bossi? Bossi è un ignobile mentecatto.
Oh, adesso sì. Adesso sì che mi sento un vero blog d’opinione, libero e fiero. Buona notte.
Non so se ci avete fatto caso, ma questo è un sito anonimo. Un anonimato molto blando, d’accordo, ma è pur sempre anonimato.
Se mi chiedono il perché, di solito rispondo: c’è gente in giro che ha la querela facile, come il caso Dall'Omo ha dimostrato (a proposito: com’è andata a finire?).
La realtà è, come sempre, più complessa. Ho sentito spesso dire che l’abitudine dei potenti a querelare sia uno dei motivi per cui in Italia non si riesce a fare un buon giornalismo. Sarà vero, sarà una scusa, sarà che comunque ogni quotidiano ha il suo ufficio legale (e i freelance, anche in questo caso, cosa fanno? Si attaccano?)
Io però non faccio giornalismo, ogni tanto è bene metterlo nero su bianco. Esprimo le mie opinioni, come al bar. Ritengo anch'io di averne il diritto. Tuttavia mi pongo un problema: è possibile che le mie opinioni (che al bar sono legittime) trasferite su internet si trasformino in diffamazione?
Nel dubbio, cerco di trovare riscontri oggettivi, e quando non li trovo, evito l’argomento. Lo dico perché anch’io, come tanti, ho una mia idea su chi può avere ucciso Marco Biagi o Michele Landi, su chi ci sia dietro le nuove Br e anche le vecchie, e su tante altre cose. La dietrologia è uno sport nazionale, e io non mi tiro indietro.
Ma siccome non ho riscontri, siti autorevoli da lincare, testi o fatti da citare, queste opinioni le tengo per me.
Non dico neanche più che Berlusconi è un ladro, anche se con un po’ di sforzo sicuramente riuscirei a rintracciare qualche sentenza patteggiata o qualche indagine caduta in proscrizione. Ma siccome non ho voglia di sforzarmi, sto zitto o parlo d’altro.
A chi in questi giorni va dicendo, qua e là sui blog, che le Br sono colluse col movimento, vorrei suggerire: perché non ci consigliate anche voi un bel film, o i 31 jingle pubblicitari che vi hanno cambiato la vita, o quel che avete mangiato a pranzo la domenica?
Se invece insistete per parlare di br, perché non ci date qualche riscontro oggettivo? È così difficile trovare una pistola fumante su Indymedia o su qualsiasi altro forum alternativo a cielo aperto? Digitate “brigate rosse casarini” su google e vedete cosa salta fuori. È troppa fatica?
O pensate che internet vi dia il diritto di accusare di omicidio e banda armata il primo che vi viene in mente? Fate così anche al bar? In che razza di bar andate?
Ma d’altro canto, non vi si può troppo biasimare, visto che siete italiani, e l’Italia (l’ho capito stamattina) non è un Paese civile.
E quando dico stamattina, non mi riferisco a una svastica in Corso Sempione – sono cose che purtroppo succedono nelle migliori democrazie. No, parlo del signor Umberto Bossi, che ha dichiarato “vedo la mano mafiosa dei nazisti rossi”.
Se il signor Bossi fosse seduto al banco del bar, prenderei fiato e mi volterei dall’altra parte, perché dopotutto ognuno ha diritto di pensarla come vuole e di vedere le mani che vuole.
Se fosse un giornalista, mi aspetterei che citasse la fonte dell’informazione, e qualche riscontro più preciso: chi sono i nazisti rossi? Da chi è partito l’ordine? Chi lo ha eseguito?
Capita invece che il signor Umberto Bossi sia un Ministro della Repubblica, democraticamente eletto. E a questo punto non mi resta che chiedere scusa a tutti quanti.
Scusatemi se vi ho preso troppo sul serio, pretendendo da voi più serietà di quella dimostrata dai nostri governanti. Tante scuse anche a me stesso. Quante notti insonni passate a cercare link, a sfogliare libri e giornali, quando per fare informazione sarebbe semplicemente bastato dire le prime cose che mi passavano per la testa.
E già che ci sono, voglio togliermi qualche sassolino, ora che posso. Per esempio. Berlusconi è un ladro. Ma questo è il meno. Berlusconi è stonato, gli puzza il fiato, e la moglie lo tradisce con un filosofo, ah ah ah, povera donna. Dell'Utri ha le mani mafiose e l'ombelico camorrista. Fini è un ebreo. Casini è un gay. La Prestigiacomo è un transessuale. Giuliano Ferrara è un infiltrato. Scajola è un abile stratega. E Bossi? Bossi è un ignobile mentecatto.
Oh, adesso sì. Adesso sì che mi sento un vero blog d’opinione, libero e fiero. Buona notte.
lunedì 10 marzo 2003
Nel conflitto in corso tra palestinesi e israeliani, come in tutte le guerre attuali, muoiono pochi soldati (cioè gente che per scelta o per mestiere mette in conto anche di essere ammazzata) e tanti bambini, donne, civili (cioè gente che non aveva messo in conto di morire dilaniato da una bomba o colpito da un proiettile). Ecco, oggi la guerra la fanno gli armati, ma non fra di loro, bensì a discapito dei disarmati. Questa dovrebbe essere la spirale da rompere, prima ancora della spirale dell'odio. Giuste o ingiuste le guerre le facciano gli armati, assumendosi la responsabilità di uccidersi tra di loro, in nome di dio, della patria o di qualsiasi altra ragione.
Assassini oggettivi
Michele Marziani non ha tutti i torti: una guerra civile è molto più orrenda di una guerra tra professionisti. Ma Michele Marziani non ha tutte le ragioni: non è giusto lasciare la guerra ai soli militari, non è così facile separare i civili indifesi e gli assassini.
Il caso di Israele è l’esempio più eclatante. I soldati della Israeli Defence Force non sono “gente che per scelta o per mestiere mette in conto anche di essere ammazzata”. Sono i giovani e le giovani di Israele, molti dei quali in servizio di leva. Non necessariamente condividono le vedute del governo in carica, anche se – in quanto militari – il loro mestiere consiste nell’eseguire gli ordini.
E i civili? Cosa significa “essere civili” per un cittadino israeliano? Nella maggior parte dei casi, significa vivere nel terrore di un attentato.
Ma sono civili, per esempio, i 400 coloni insediati nel centro di Hebron, che un tempo era città palestinese? Certo, loro non si sporcano le mani di sangue (anche se girano armati). Sono perfino esentati dal servizio militare. E sono protetti da 2500 effettivi dell’esercito, come se la città si assediasse da sola.
Mettiamo ora che noi – vi chiedo un grosso sforzo di fantasia – mettiamo che noi fossimo giovani palestinesi, cresciuti in un campo profughi di Gaza o della Cisgiordania, e che avessimo l’insana idea di voler combattere per l’indipendenza del nostro Paese. Mettendo in conto di essere ammazzati, è chiaro.
Dovremmo arruolarci in un esercito, e qui cominciano i problemi, perché in Palestina l’esercito non c’è.
Potremmo farci assumere dalla polizia di Arafat, ma istintivamente non ci fidiamo di quel capobanda che è sulle foto di tutti i giornali e che in tanti anni non è riuscito a fare uscire dai campi profughi i nostri padri e le nostre madri.
Molto più probabilmente ci rivolgeremmo a qualche Mullah che ci conosce, che nel campo si fa rispettare, che non si macchia di compromessi col nemico, che in questi anni ha già aiutato la nostra famiglia.
Il Mullah prenderebbe nota del nostro nome e cognome, e poi, un bel giorno, si farebbe vivo con una pettorina di esplosivo e ci ordinerebbe di esplodere in un dato posto, a maggior gloria di Dio. Promettendoci – in più – una buona pensione per la nostra famiglia, che vive nella miseria. Noi cosa faremmo?
Non abbiamo lavoro, non abbiamo prospettive, non abbiamo educazione; abbiamo la rabbia di un’occupazione militare che è più vecchia di noi. Ci propongono di morire come eroi, raggiungere rapidamente il paradiso e allo stesso tempo garantire il mantenimento dei nostri cari che restano quaggiù. Potremmo davvero dire di no?
E il giorno che, aggirati i posti di blocco, ci ritrovassimo in una città israeliana pronti a esplodere, come faremmo a decidere chi uccidere e chi no? Dovremmo avere pietà di un ragazzo o di una ragazza soltanto perché in quel momento non indossa la casacca verde? Dovremmo avere pietà dei bambini, quando uno di quei bambini potrebbe crescere e diventare Sharon? E forse che Sharon ha avuto pietà dei nostri?
Ma noi (fortunatamente) non viviamo in un campo profughi di Gaza e della Cisgiordania. Noi (fortunatamente) non siamo cittadini di Haifa o Tel Aviv. Stiamo dall’altra parte del mare e, anche se facciamo il possibile per tenerci informati, guardiamo tutto da un curioso punto di vista, che chiamiamo Oggettività.
Crediamo che oggettivamente si possano tirare delle righe, in Palestina. Non solo tra i Due Popoli e i Due Stati, ma anche tra i civili e i militari, e tra i militari e i terroristi. Per noi il colono di Hebron, che tiene in ostaggio un’intera città, è un civile innocente, mentre il ragazzo di Tel Aviv vestito di verde al posto di blocco ha il dovere di morire per difenderlo.
Per noi il ragazzo di Gaza con la pettorina è un terrorista, mentre chi l’ha lasciato crescere in quell’inferno è un civile innocente.
Di più. Noi siamo convinti che tutto sommato ci possano essere anche guerre giuste, finché si combattono molto lontano da qui, e finché a combatterle sono assassini regolarmente iscritti a eserciti regolari. Eppure lo sappiamo che nei processi per omicidio si condanna anche il mandante.
E il mandante non siamo forse noi, quando abbiamo deciso che il nostro petrolio, la nostra sicurezza, il nostro stile di vita non erano in discussione?
Certo, noi non ci sporchiamo le mani. Stiamo dall’altra parte del mondo e valutiamo i pro e i contro con oggettività. Nel frattempo abbiamo abolito il servizio di leva. Così, d’ora in poi, gli assassini regolari saranno soltanto quelli che non si possono permettere qualche professione più appagante. Magari saranno gli emigrati arabi, curdi, albanesi. E noi li manderemo a combattere in Arabia, in Kurdistan, in Albania, con le mostrine dei nostri eserciti.
Insomma, noi non siamo così migliori di quei coloni di Hebron. E in fondo la guerra in Palestina non è che la prova generale della grande guerra delle Civiltà. Ma non c’è da aver paura: la combatteranno altri per noi. L’essenziale è tenere lontani i soldati dai civili, cioè da noi, che siamo persone responsabili e oggettive. Mentre loro – i soldati – se vanno in giro per il mondo a uccidersi, in fondo è il mestiere che si sono scelti, no?
Oggettivamente.
(Io con chi sto? Io sto con tutti i giovani dei campi profughi che non aderiscono ad Hamas, non aderiscono alla Jihad, non si mettono pettorine: sono tanti, anche se non vanno sui telegiornali. E sto con i giovani dell’esercito israeliano che hanno rifiutato di prestare servizio nei Territori Occupati. Per ora sono 525).
Assassini oggettivi
Michele Marziani non ha tutti i torti: una guerra civile è molto più orrenda di una guerra tra professionisti. Ma Michele Marziani non ha tutte le ragioni: non è giusto lasciare la guerra ai soli militari, non è così facile separare i civili indifesi e gli assassini.
Il caso di Israele è l’esempio più eclatante. I soldati della Israeli Defence Force non sono “gente che per scelta o per mestiere mette in conto anche di essere ammazzata”. Sono i giovani e le giovani di Israele, molti dei quali in servizio di leva. Non necessariamente condividono le vedute del governo in carica, anche se – in quanto militari – il loro mestiere consiste nell’eseguire gli ordini.
E i civili? Cosa significa “essere civili” per un cittadino israeliano? Nella maggior parte dei casi, significa vivere nel terrore di un attentato.
Ma sono civili, per esempio, i 400 coloni insediati nel centro di Hebron, che un tempo era città palestinese? Certo, loro non si sporcano le mani di sangue (anche se girano armati). Sono perfino esentati dal servizio militare. E sono protetti da 2500 effettivi dell’esercito, come se la città si assediasse da sola.
Mettiamo ora che noi – vi chiedo un grosso sforzo di fantasia – mettiamo che noi fossimo giovani palestinesi, cresciuti in un campo profughi di Gaza o della Cisgiordania, e che avessimo l’insana idea di voler combattere per l’indipendenza del nostro Paese. Mettendo in conto di essere ammazzati, è chiaro.
Dovremmo arruolarci in un esercito, e qui cominciano i problemi, perché in Palestina l’esercito non c’è.
Potremmo farci assumere dalla polizia di Arafat, ma istintivamente non ci fidiamo di quel capobanda che è sulle foto di tutti i giornali e che in tanti anni non è riuscito a fare uscire dai campi profughi i nostri padri e le nostre madri.
Molto più probabilmente ci rivolgeremmo a qualche Mullah che ci conosce, che nel campo si fa rispettare, che non si macchia di compromessi col nemico, che in questi anni ha già aiutato la nostra famiglia.
Il Mullah prenderebbe nota del nostro nome e cognome, e poi, un bel giorno, si farebbe vivo con una pettorina di esplosivo e ci ordinerebbe di esplodere in un dato posto, a maggior gloria di Dio. Promettendoci – in più – una buona pensione per la nostra famiglia, che vive nella miseria. Noi cosa faremmo?
Non abbiamo lavoro, non abbiamo prospettive, non abbiamo educazione; abbiamo la rabbia di un’occupazione militare che è più vecchia di noi. Ci propongono di morire come eroi, raggiungere rapidamente il paradiso e allo stesso tempo garantire il mantenimento dei nostri cari che restano quaggiù. Potremmo davvero dire di no?
E il giorno che, aggirati i posti di blocco, ci ritrovassimo in una città israeliana pronti a esplodere, come faremmo a decidere chi uccidere e chi no? Dovremmo avere pietà di un ragazzo o di una ragazza soltanto perché in quel momento non indossa la casacca verde? Dovremmo avere pietà dei bambini, quando uno di quei bambini potrebbe crescere e diventare Sharon? E forse che Sharon ha avuto pietà dei nostri?
Ma noi (fortunatamente) non viviamo in un campo profughi di Gaza e della Cisgiordania. Noi (fortunatamente) non siamo cittadini di Haifa o Tel Aviv. Stiamo dall’altra parte del mare e, anche se facciamo il possibile per tenerci informati, guardiamo tutto da un curioso punto di vista, che chiamiamo Oggettività.
Crediamo che oggettivamente si possano tirare delle righe, in Palestina. Non solo tra i Due Popoli e i Due Stati, ma anche tra i civili e i militari, e tra i militari e i terroristi. Per noi il colono di Hebron, che tiene in ostaggio un’intera città, è un civile innocente, mentre il ragazzo di Tel Aviv vestito di verde al posto di blocco ha il dovere di morire per difenderlo.
Per noi il ragazzo di Gaza con la pettorina è un terrorista, mentre chi l’ha lasciato crescere in quell’inferno è un civile innocente.
Di più. Noi siamo convinti che tutto sommato ci possano essere anche guerre giuste, finché si combattono molto lontano da qui, e finché a combatterle sono assassini regolarmente iscritti a eserciti regolari. Eppure lo sappiamo che nei processi per omicidio si condanna anche il mandante.
E il mandante non siamo forse noi, quando abbiamo deciso che il nostro petrolio, la nostra sicurezza, il nostro stile di vita non erano in discussione?
Certo, noi non ci sporchiamo le mani. Stiamo dall’altra parte del mondo e valutiamo i pro e i contro con oggettività. Nel frattempo abbiamo abolito il servizio di leva. Così, d’ora in poi, gli assassini regolari saranno soltanto quelli che non si possono permettere qualche professione più appagante. Magari saranno gli emigrati arabi, curdi, albanesi. E noi li manderemo a combattere in Arabia, in Kurdistan, in Albania, con le mostrine dei nostri eserciti.
Insomma, noi non siamo così migliori di quei coloni di Hebron. E in fondo la guerra in Palestina non è che la prova generale della grande guerra delle Civiltà. Ma non c’è da aver paura: la combatteranno altri per noi. L’essenziale è tenere lontani i soldati dai civili, cioè da noi, che siamo persone responsabili e oggettive. Mentre loro – i soldati – se vanno in giro per il mondo a uccidersi, in fondo è il mestiere che si sono scelti, no?
Oggettivamente.
(Io con chi sto? Io sto con tutti i giovani dei campi profughi che non aderiscono ad Hamas, non aderiscono alla Jihad, non si mettono pettorine: sono tanti, anche se non vanno sui telegiornali. E sto con i giovani dell’esercito israeliano che hanno rifiutato di prestare servizio nei Territori Occupati. Per ora sono 525).
venerdì 7 marzo 2003
Basic Culture Simulator special release – edizione speciale in occasione dell’8 marzo
Alle donne piace Klimt
Klimt, Gustav: pittore austriaco, ma che dico, mitteleuropeo. Fu uno degli artefici della Secessione, (secessione da cosa? Non si sa). Nei suoi quadri i dettagli anatomici delle figure si confondono con i motivi ornamentali dei lenzuoli e della carta da parati, creando un gradevole effetto patchwork. Alle donne piace un sacco. Ma perché?
Una sera io e il mio amico Ivo, non mi ricordo cosa avessimo bevuto, ma ci eravamo immaginati di essere agenti di un corpo speciale in cui vestiti tutti di nero con gli occhiali scuri si andava a bussare alla porta delle signorine dai 22 ai 30 anni:
Toc toc.
“Ma chi è a quest’ora?”
“Siamo il Corpo Speciale per la tutela del gusto, veniamo a requisire i suoi poster di Klimt”.
“Ma… ma io non ho poster di Klimt!”
“Hai sentito? Dice che non ha poster di Klimt! E magari non ha nemmeno una cartolina di Schiele”.
“Beh, una sì, ma piccola…”
“Appunto. Tu, Ivo, parti dalla camera. Io darà un’occhiata al soggiorno…”
“Come sarebbe a dire? Lei non può fare questo!”
“In base alla nuova normativa (srotolo un codicillo scritto in caratteri incomprensibili) posso farlo, sì. Mi dispiace… (Alzo appena appena i miei occhiali scuri lasciando filtrare il ghiaccio dei miei occhi) nulla di personale”.
“Ma non capisco perché…”
Arriva Ivo dal corridoio, con un quadretto in mano: “Ho trovato lo Schiele, e qui c’è anche una Lempicka.
“Peerò! È la terza questa settimana”.
Io la Lempicka posso anche capirla, perché i suoi quadri sono molto colorati e assomigliano a cartelloni pubblicitari (del Campari). Ma Schiele e Klimt? Grandi artisti, indubbiamente. Ma perché sono gli artisti più presenti nelle camere da letto femminili? Perché in tutte le cartolerie rispettabili ci trovi almeno due o tre Klimt e nessun Tiziano? Non è una questione di armonia, perché non sono pittori armoniosi, anzi. Un motivo ci dev’essere. Quando avrò capito questo motivo, avrò capito le donne.
Forse ha a che fare con le tette. Le tette piacciono a tutti, uomini e donne, perché tutti siamo stati allattati, o comunque ne soffriamo una cocente nostalgia. Ma appena scesi dal grembo materno le nostre strade si biforcano. Per i maschietti la tetta diventa un traguardo lontano, un frutto glorioso da conquistare con anni di ricerche, appostamenti, lotte. Così la tetta diventa racconto, e come tutti i racconti perde gradatamente contatto con la realtà, tracima nel favoloso. I maschietti sognano tette enormi ma leggere, morbide ma sode, che sfidano le leggi della fisica e che non sono mai state viste sulla terra, prima dell’avvento della chirurgia plastica. I maschietti attaccano alle pareti calendari di donne mostruose, campionesse mondiali di circonferenza, fenomeni da guinness dei primati (ma anche un po’ da baraccone).
Con le donne il discorso cambia. Con le tette ci devono convivere, e non dev’essere una convivenza facile. Come si può continuare a trovare piacevole qualcosa che si ha continuamente sotto gli occhi?
Le donne riescono a farlo. Le donne non hanno passione per i record, e forse non amano nemmeno troppo i racconti, ma riescono a trovare la bellezza nel quotidiano: nella linea di un abito, o nel motivo della carta da parati. Così alle pareti ci attaccano Klimt, quello che dipinge donne nude come se fossero motivi ornamentali.
Ma questa è semiologia da cialtroni, centounismo d’accatto, e sessista per di più. Perché mai dovrei ostinarmi a capire le donne? Cosa significa capirle? Non sono che un uomo, che pensa per racconti, e ha davanti sempre un record da battere. Per me "capire" significa "dominare", non è vero?
“Che bella casa che hai!”
“Ti piace?”
“Sì, è molto… è molto… elegante, ecco”.
“Perché ti guardi intorno in quel modo?”
“In che modo?”
“È come se stessi cercando qualcosa”.
“N-no, è solo che…”
“È come se tu stessi cercando se ho dei poster di Klimt alle pareti”.
“Come hai fatto a capirlo?”
“Non ho poster di Klimt alle pareti. A me piace il Cinquecento italiano”.
“Davvero! Anche a me, moltissimo. Eppure a dirlo in giro sembra banale”.
“È sempre il solito problema. Dici Cinquecento e tutti pensano alla Gioconda…”.
“…o alla Cappella Sistina…”
“Mai nessuno che si fermi a guardare un Parmigianino”.
“Non dirmi che ti piace il Parmigianino!”
“Moltissimo”.
“E Pontormo?”
“Adoro Pontormo”.
“Sul serio… E magari hai un debole anche per il Correggio…”
“È chiaro, no? Ma perché fai quella faccia?”
“No, è che… di solito alle ragazze piace Klimt, ma tu… tu sei diversa”.
“Senti, vuoi venire di là?”
“Eh? Di là dove?”
“Dove secondo te? Siamo in un bilocale… Ti voglio mostrare una cosa”.
“Ma io… non so”.
“Dai, facciamo in un minuto”.
“Dici?”
“M’interessa il tuo parere”.
“Se insisti”.
Lei apre la porta di camera sua e accende la luce.
Urlo.
Sulla testiera del letto c’è un puzzle ravensburger 1000 con i due puttini di Raffaello.
Fuggo via strappandomi ciocche di capelli ed emettendo latrati sconnessi.
“Peccato”, dice lei. “Sembrava così sensibile...”
Alle donne piace Klimt
Klimt, Gustav: pittore austriaco, ma che dico, mitteleuropeo. Fu uno degli artefici della Secessione, (secessione da cosa? Non si sa). Nei suoi quadri i dettagli anatomici delle figure si confondono con i motivi ornamentali dei lenzuoli e della carta da parati, creando un gradevole effetto patchwork. Alle donne piace un sacco. Ma perché?
Una sera io e il mio amico Ivo, non mi ricordo cosa avessimo bevuto, ma ci eravamo immaginati di essere agenti di un corpo speciale in cui vestiti tutti di nero con gli occhiali scuri si andava a bussare alla porta delle signorine dai 22 ai 30 anni:
Toc toc.
“Ma chi è a quest’ora?”
“Siamo il Corpo Speciale per la tutela del gusto, veniamo a requisire i suoi poster di Klimt”.
“Ma… ma io non ho poster di Klimt!”
“Hai sentito? Dice che non ha poster di Klimt! E magari non ha nemmeno una cartolina di Schiele”.
“Beh, una sì, ma piccola…”
“Appunto. Tu, Ivo, parti dalla camera. Io darà un’occhiata al soggiorno…”
“Come sarebbe a dire? Lei non può fare questo!”
“In base alla nuova normativa (srotolo un codicillo scritto in caratteri incomprensibili) posso farlo, sì. Mi dispiace… (Alzo appena appena i miei occhiali scuri lasciando filtrare il ghiaccio dei miei occhi) nulla di personale”.
“Ma non capisco perché…”
Arriva Ivo dal corridoio, con un quadretto in mano: “Ho trovato lo Schiele, e qui c’è anche una Lempicka.
“Peerò! È la terza questa settimana”.
Io la Lempicka posso anche capirla, perché i suoi quadri sono molto colorati e assomigliano a cartelloni pubblicitari (del Campari). Ma Schiele e Klimt? Grandi artisti, indubbiamente. Ma perché sono gli artisti più presenti nelle camere da letto femminili? Perché in tutte le cartolerie rispettabili ci trovi almeno due o tre Klimt e nessun Tiziano? Non è una questione di armonia, perché non sono pittori armoniosi, anzi. Un motivo ci dev’essere. Quando avrò capito questo motivo, avrò capito le donne.
Forse ha a che fare con le tette. Le tette piacciono a tutti, uomini e donne, perché tutti siamo stati allattati, o comunque ne soffriamo una cocente nostalgia. Ma appena scesi dal grembo materno le nostre strade si biforcano. Per i maschietti la tetta diventa un traguardo lontano, un frutto glorioso da conquistare con anni di ricerche, appostamenti, lotte. Così la tetta diventa racconto, e come tutti i racconti perde gradatamente contatto con la realtà, tracima nel favoloso. I maschietti sognano tette enormi ma leggere, morbide ma sode, che sfidano le leggi della fisica e che non sono mai state viste sulla terra, prima dell’avvento della chirurgia plastica. I maschietti attaccano alle pareti calendari di donne mostruose, campionesse mondiali di circonferenza, fenomeni da guinness dei primati (ma anche un po’ da baraccone).
Con le donne il discorso cambia. Con le tette ci devono convivere, e non dev’essere una convivenza facile. Come si può continuare a trovare piacevole qualcosa che si ha continuamente sotto gli occhi?
Le donne riescono a farlo. Le donne non hanno passione per i record, e forse non amano nemmeno troppo i racconti, ma riescono a trovare la bellezza nel quotidiano: nella linea di un abito, o nel motivo della carta da parati. Così alle pareti ci attaccano Klimt, quello che dipinge donne nude come se fossero motivi ornamentali.
Ma questa è semiologia da cialtroni, centounismo d’accatto, e sessista per di più. Perché mai dovrei ostinarmi a capire le donne? Cosa significa capirle? Non sono che un uomo, che pensa per racconti, e ha davanti sempre un record da battere. Per me "capire" significa "dominare", non è vero?
“Che bella casa che hai!”
“Ti piace?”
“Sì, è molto… è molto… elegante, ecco”.
“Perché ti guardi intorno in quel modo?”
“In che modo?”
“È come se stessi cercando qualcosa”.
“N-no, è solo che…”
“È come se tu stessi cercando se ho dei poster di Klimt alle pareti”.
“Come hai fatto a capirlo?”
“Non ho poster di Klimt alle pareti. A me piace il Cinquecento italiano”.
“Davvero! Anche a me, moltissimo. Eppure a dirlo in giro sembra banale”.
“È sempre il solito problema. Dici Cinquecento e tutti pensano alla Gioconda…”.
“…o alla Cappella Sistina…”
“Mai nessuno che si fermi a guardare un Parmigianino”.
“Non dirmi che ti piace il Parmigianino!”
“Moltissimo”.
“E Pontormo?”
“Adoro Pontormo”.
“Sul serio… E magari hai un debole anche per il Correggio…”
“È chiaro, no? Ma perché fai quella faccia?”
“No, è che… di solito alle ragazze piace Klimt, ma tu… tu sei diversa”.
“Senti, vuoi venire di là?”
“Eh? Di là dove?”
“Dove secondo te? Siamo in un bilocale… Ti voglio mostrare una cosa”.
“Ma io… non so”.
“Dai, facciamo in un minuto”.
“Dici?”
“M’interessa il tuo parere”.
“Se insisti”.
Lei apre la porta di camera sua e accende la luce.
Urlo.
Sulla testiera del letto c’è un puzzle ravensburger 1000 con i due puttini di Raffaello.
Fuggo via strappandomi ciocche di capelli ed emettendo latrati sconnessi.
“Peccato”, dice lei. “Sembrava così sensibile...”
giovedì 6 marzo 2003
Ci insospettisce anche il fatto che l'attentato terroristico casualmente fallito era stato programmato nello stesso giorno e nelle stesse ore in cui il PMLI commemorava solennemente a Firenze Stalin, quasi che si volesse oscurare questo evento storico. Ciò conferma che l'altro obiettivo dei mandanti del terrorismo è quello di spingere i sinceri rivoluzionari a compiere azioni avventuristiche e sanguinarie per sottrarli alla lotta per buttar giù il governo del neoduce Berlusconi, per l'Italia unita, rossa e socialista....
Per la rubrica: “Chi ci paga i politici”...
...questa settimana esaminiamo il caso di uno dei più surreali partiti italiani: il PMLI. ML sta per Marxista-Leninista; in realtà il PMLI è la piccola conventicola degli stalinisti italiani. Le loro bandiere mettono ben in evidenza i profili dei “Cinque maestri”: Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao (li vedete, no?). Il loro sito (www.pmli.it) sembra una retrospettiva sulla propaganda comunista anni ’50, e ci vuole un po’ di tempo prima di rendersi conto che nei proclami inneggianti a Stalin nel cinquantenario della morte non c’è nessuna ironia.
Ora, è ben vero che in Italia non esistono (o non dovrebbero esistere) i reati d’opinione. Come è vero che i Marxisti-Leninisti, pur giustificando i morti di Stalin e Mao, non hanno mai ucciso nessuno.
Eppure io non sono d’accordo con chi li trova più patetici che pericolosi. C’è qualcosa che non mi torna.
Per esempio, i manifesti in quadricromia.
Chi ha fatto un po’ di politica ‘dal basso’, cioè distribuendo volantini, capirà quello che intendo: di solito i volantini sono tristi, in bianco e nero, con macchie grigie là dove un grafico improvvisato aveva immaginato di inserire una fotografia. Quando ci si vuole rovinare, quando c’è qualche soldo in cassa (e quando mai?), alcuni comitati o associazioni si spingono fino a stampare manifestini a due colori. E non di più, coi tempi che corrono.
Ma i Marxisti.Leninisti, che sono con tutta evidenza tre-quattro gatti, hanno manifesti in quadricromia, con tutti i colori dell’iride (il rosso specialmente). E quando vogliono ne stampano a volontà, e li affiggono dove gli pare.
Per esempio: nella mia città, dove i Marxisti-Leninisti si contano sull’unghia di un dito, sul palazzo di fianco alla sede di Rifondazione c’è un loro manifesto, abusivo, ma incollato così bene che in due anni non è ancora venuto via. È un montaggio di dubbio gusto e di sicuro effetto: un martello (contornato di falce) picchia sulla testa di un Berlusconi travestito da Mussolini. Gli automobilisti che passano di lì (e ne passano tanti), danno un’occhiata al manifesto e lo identificano con Rifondazione, che ha la sua bandiera sul terrazzo a pochi metri di distanza.
La stessa malizia che mostrano nell’arte di attaccare manifesti, si riscontra anche durante le manifestazioni di piazza. Da quando c’è il Movimento… diciamo da Genova in poi, il PMLI non s’è perso un corteo. Ma siccome sono quattro gatti e non hanno nessuna intenzione di allargare la base (se si iscrivesseo altri cinque gatti il Comitato Centrale sarebbe messo in minoranza), di solito preferiscono non marciare compatti. Piuttosto si mescolano tra la folla, con le loro belle bandierine colorate con Stalin in evidenza, e cercano di sventolarle davanti al maggior numero di teleobiettivi – preferibilmente quelli del Tg4 e di StudioAperto. Così la prima Fallaci che si sveglia durante il servizio può tuonare che è una vergogna, tutti questi milioni nelle piazze in realtà sono i soliti stalinisti, che lei quelle bandiere se le ricorda bene.
Succede la stessa cosa anche in provincia, badate: a ogni manifestazione, presidio, sit-in, ce n’è sempre uno con la sua brava bandierina che cerca di venderti il Bolscevico. Naturalmente nessuno lo ha invitato. Ma nessuno ha il coraggio di mandarlo via. Poi arriva il fotografo del giornale… ecc..
Insomma: dietro un'apparenza di partitino settario anni'70, qui c'è gente che sa fare branding in modo spregiudicato. (Dicesi branding l'abitudine dei pubblicitari di mostrare continuamente il marchio di un prodotto, per imprimerlo sulla coscienza del consumatore). Forse un po' troppo spregiudicato per degli anti-capitalisti, ma le vie della rivoluzione sono infinite, diceva Mao... o non lo diceva? Beh, avrebbe potuto dirlo.
Un discorso a parte meriterebbe il contributo del pmli a Indymedia: quando il newswire era ancora un ambiente vivibile, i marxisti-leninisti facevano del loro meglio per intasarlo con lunghissimi polentoni a base di lotta di classe e citazioni del libretto rosso, nell'ilarità generale dei frequentatori, dapprima increduli, poi divertiti, infine mortalmente scocciati. Anche qui, non sai dove l’ingenuità cede alla malizia: nell’estate del 2001 i marxisti-leninisti terminavano una loro torrenziale analisi, firmata Koba (nomignolo di Stalin), auspicando “la nascita del Forum Sociale Italiano”. Sai che roba, Koba, in quei mesi ne parlavano tutti. Ma loro lo mettono per iscritto: vuoi scommettere che tra qualche anno uno studioso, un editorialista, un magistrato, ritrova i documenti in archivio e si mette a dire che il Forum Sociale l’hanno inventato gli stalinisti?
L’ultimo episodio, forse il più significativo, è quello di ieri sera: in occasione del cinquantenario della morte di Stalin, un rappresentante del PMLI (Mino Pasca) ha avuto a disposizione una buona mezz’ora di diretta televisiva in prima serata per attaccare lo Stato Borghese e difendere le politiche di Stalin e della Terza Internazionale. Il tutto, mi duole dirlo, a “Otto e Mezza”, su La7. Va bene, Giuliano Ferrara e Luca Sofri hanno il diritto di invitare chi vogliono.
Quello che non capisco è come mai stavolta da nessun pulpito non sia partita la domanda rituale: chi vi paga? Ammesso e magari concesso che siate stalinisti per scelta di vita, chi vi finanzia le stampe in quadricromia, le bandiere serigrafate? I lettori del Bolscevico coi bollettini postali? Ma andiamo.
Ferrara invece s’interrogava sul perché un neo-stalinista possa essere invitato a un anniversario in tv e un neo-nazista no. Bella faccia tosta, visto che la scelta d’invitarlo è stata sua.
Dal mio punto di vista di spettatore di Otto e Mezza, mi sento di poterlo rassicurare: la presenza di un neo-stalinista in tv m’indigna come la presenza di un neonazista. Stavo per dire “esattamente come”, ma non mi piacciono certe simmetrie. PMLI e Forza Nuova mi fanno schifo entrambi, ma non è lo stesso schifo. E non sono nemmeno in grado di fare una graduatoria dello schifo.
Se poi Ferrara (e con lui Sofri) preferisce dare visibilità a un neo-stalinista e glissare sui neo-nazisti, il minimo che possa fare è assumersene la responsabilità.
(Piccola curiosità: lo sapevate in che partito milita attualmente il fondatore del PMLI? E' il terzo della lista)
Per la rubrica: “Chi ci paga i politici”...
...questa settimana esaminiamo il caso di uno dei più surreali partiti italiani: il PMLI. ML sta per Marxista-Leninista; in realtà il PMLI è la piccola conventicola degli stalinisti italiani. Le loro bandiere mettono ben in evidenza i profili dei “Cinque maestri”: Marx, Engels, Lenin, Stalin, Mao (li vedete, no?). Il loro sito (www.pmli.it) sembra una retrospettiva sulla propaganda comunista anni ’50, e ci vuole un po’ di tempo prima di rendersi conto che nei proclami inneggianti a Stalin nel cinquantenario della morte non c’è nessuna ironia.
Ora, è ben vero che in Italia non esistono (o non dovrebbero esistere) i reati d’opinione. Come è vero che i Marxisti-Leninisti, pur giustificando i morti di Stalin e Mao, non hanno mai ucciso nessuno.
Eppure io non sono d’accordo con chi li trova più patetici che pericolosi. C’è qualcosa che non mi torna.
Per esempio, i manifesti in quadricromia.
Chi ha fatto un po’ di politica ‘dal basso’, cioè distribuendo volantini, capirà quello che intendo: di solito i volantini sono tristi, in bianco e nero, con macchie grigie là dove un grafico improvvisato aveva immaginato di inserire una fotografia. Quando ci si vuole rovinare, quando c’è qualche soldo in cassa (e quando mai?), alcuni comitati o associazioni si spingono fino a stampare manifestini a due colori. E non di più, coi tempi che corrono.
Ma i Marxisti.Leninisti, che sono con tutta evidenza tre-quattro gatti, hanno manifesti in quadricromia, con tutti i colori dell’iride (il rosso specialmente). E quando vogliono ne stampano a volontà, e li affiggono dove gli pare.
Per esempio: nella mia città, dove i Marxisti-Leninisti si contano sull’unghia di un dito, sul palazzo di fianco alla sede di Rifondazione c’è un loro manifesto, abusivo, ma incollato così bene che in due anni non è ancora venuto via. È un montaggio di dubbio gusto e di sicuro effetto: un martello (contornato di falce) picchia sulla testa di un Berlusconi travestito da Mussolini. Gli automobilisti che passano di lì (e ne passano tanti), danno un’occhiata al manifesto e lo identificano con Rifondazione, che ha la sua bandiera sul terrazzo a pochi metri di distanza.
La stessa malizia che mostrano nell’arte di attaccare manifesti, si riscontra anche durante le manifestazioni di piazza. Da quando c’è il Movimento… diciamo da Genova in poi, il PMLI non s’è perso un corteo. Ma siccome sono quattro gatti e non hanno nessuna intenzione di allargare la base (se si iscrivesseo altri cinque gatti il Comitato Centrale sarebbe messo in minoranza), di solito preferiscono non marciare compatti. Piuttosto si mescolano tra la folla, con le loro belle bandierine colorate con Stalin in evidenza, e cercano di sventolarle davanti al maggior numero di teleobiettivi – preferibilmente quelli del Tg4 e di StudioAperto. Così la prima Fallaci che si sveglia durante il servizio può tuonare che è una vergogna, tutti questi milioni nelle piazze in realtà sono i soliti stalinisti, che lei quelle bandiere se le ricorda bene.
Succede la stessa cosa anche in provincia, badate: a ogni manifestazione, presidio, sit-in, ce n’è sempre uno con la sua brava bandierina che cerca di venderti il Bolscevico. Naturalmente nessuno lo ha invitato. Ma nessuno ha il coraggio di mandarlo via. Poi arriva il fotografo del giornale… ecc..
Insomma: dietro un'apparenza di partitino settario anni'70, qui c'è gente che sa fare branding in modo spregiudicato. (Dicesi branding l'abitudine dei pubblicitari di mostrare continuamente il marchio di un prodotto, per imprimerlo sulla coscienza del consumatore). Forse un po' troppo spregiudicato per degli anti-capitalisti, ma le vie della rivoluzione sono infinite, diceva Mao... o non lo diceva? Beh, avrebbe potuto dirlo.
Un discorso a parte meriterebbe il contributo del pmli a Indymedia: quando il newswire era ancora un ambiente vivibile, i marxisti-leninisti facevano del loro meglio per intasarlo con lunghissimi polentoni a base di lotta di classe e citazioni del libretto rosso, nell'ilarità generale dei frequentatori, dapprima increduli, poi divertiti, infine mortalmente scocciati. Anche qui, non sai dove l’ingenuità cede alla malizia: nell’estate del 2001 i marxisti-leninisti terminavano una loro torrenziale analisi, firmata Koba (nomignolo di Stalin), auspicando “la nascita del Forum Sociale Italiano”. Sai che roba, Koba, in quei mesi ne parlavano tutti. Ma loro lo mettono per iscritto: vuoi scommettere che tra qualche anno uno studioso, un editorialista, un magistrato, ritrova i documenti in archivio e si mette a dire che il Forum Sociale l’hanno inventato gli stalinisti?
L’ultimo episodio, forse il più significativo, è quello di ieri sera: in occasione del cinquantenario della morte di Stalin, un rappresentante del PMLI (Mino Pasca) ha avuto a disposizione una buona mezz’ora di diretta televisiva in prima serata per attaccare lo Stato Borghese e difendere le politiche di Stalin e della Terza Internazionale. Il tutto, mi duole dirlo, a “Otto e Mezza”, su La7. Va bene, Giuliano Ferrara e Luca Sofri hanno il diritto di invitare chi vogliono.
Quello che non capisco è come mai stavolta da nessun pulpito non sia partita la domanda rituale: chi vi paga? Ammesso e magari concesso che siate stalinisti per scelta di vita, chi vi finanzia le stampe in quadricromia, le bandiere serigrafate? I lettori del Bolscevico coi bollettini postali? Ma andiamo.
Ferrara invece s’interrogava sul perché un neo-stalinista possa essere invitato a un anniversario in tv e un neo-nazista no. Bella faccia tosta, visto che la scelta d’invitarlo è stata sua.
Dal mio punto di vista di spettatore di Otto e Mezza, mi sento di poterlo rassicurare: la presenza di un neo-stalinista in tv m’indigna come la presenza di un neonazista. Stavo per dire “esattamente come”, ma non mi piacciono certe simmetrie. PMLI e Forza Nuova mi fanno schifo entrambi, ma non è lo stesso schifo. E non sono nemmeno in grado di fare una graduatoria dello schifo.
Se poi Ferrara (e con lui Sofri) preferisce dare visibilità a un neo-stalinista e glissare sui neo-nazisti, il minimo che possa fare è assumersene la responsabilità.
(Piccola curiosità: lo sapevate in che partito milita attualmente il fondatore del PMLI? E' il terzo della lista)
mercoledì 5 marzo 2003
martedì 4 marzo 2003
Il cammino del diritto internazionale
è lungo e irto di ostacoli, che mi accingo a illustrare:
Nel 1453, dopo lunghi mesi di assedio da parte dei turchi, le sorti di Costantinopoli sembrarono volgere al meglio quando una delegazione del Sultano Maometto II fu ricevuta con tutti gli onori dallo staff diplomatico Bizantino. Per un attimo l’intesa cordiale fra i due contendenti parve possibile. Purtroppo le richieste della delegazione turca furono stoltamente rifiutate dalla controparte, che le riteneva assurde e lesive della dignità bizantina.
La redazione di Leonardo è giunta in possesso delle pergamene riservate che mostrano l’ultimo, drammatico faccia a faccia tra il capo delegazione turca (Omar Balacs) e l’ufficio di gabinetto bizantino, l’eunuco Tarekon Amos:
Tarekon: Ah, questa no! Le torri poi no, per Santa Tecla! Io credo che dovrebbe esserci un limite anche alla faccia tosta dei Mori!
Balacs: Trovo singolare e alquanto buffa l’abitudine dei Bizantini di chiamare Mori noi Ottomani, che condividiamo con voi la medesima rosea carnagione.
(FSssssssss! Booooom!)
Tarekon: E non cambiare sempre argomento, brutta faccia di Beduino!
Balacs: Come? Non ho sentito, con tutto questo rumore.
Tarekon: “Questo rumore” sono i vostri infernali cannoni, a cinque leghe da qui.
Balacs: Si tratta di esercitazioni, la cosa non mi riguarda. Io sono un diplomatico.
Tarekon: Tu? Un diplomatico? Un ladro di casbah, ecco quello che sei, Omar! Con che faccia vieni a chiederci di abbattere le nostre stesse fortificazioni?
Balacs: Non tutte le fortificazioni, solo le torri che superano la misura di centocinquanta piedi.
Tarekon: E perché centocinquanta, di grazia?
Balacs: Dai 150 in poi noi le riteniamo armi offensive.
(Boooom! Tatrac!)
Tarekon: Offensive? Cosa c’è di offensivo in una torre, per San Diodato?
Balacs: Non fare il finto tonto, eunuco, sai benissimo che il fuoco greco cola dalle vostre torri in quantità, ed è un’arma esecrata dalla comunità internazionale. Sapete quanti padri di famiglia avete spedito ad Allah il Misericordioso, con quella diavoleria?
Tarekon: Tutti quei padri potevano starsene anche dalle loro pidocchiose famiglie in Cappadocia, invece di stazionare sotto le nostre torri difensive. È colpa nostra se ci state assediando da mesi?
Balacs: Non starò qui a discutere del concetto di colpa con un cane infedele, rappresentante di una monarchia tirannica ormai sconfitta dalla Storia. Un giorno, forse, ci sarà un organismo sovranazionale che dirimerà le controversie tra gli Stati…
Tarekon: Eh, magari.
Balacs: …ma nel frattempo ci si arrangia come si può. Allora il problema è tutto qui: Noi troviamo che quelle torri sono troppo alte, e noi vi chiediamo di tirarle giù.
(Tatrac! Booom!)
Tarekon: Ah sì, eh?
Balacs: Come segno di buona volontà.
(Entra il giovane scriba di Tarekon, tutto tremante)
Scriba: Ehm… illustrissimo Tarekon, è permesso?
Tarekon: Che c’è, ancora?
Scriba: Un… un dispaccio dal contrafforte orientale. Pare che gli infedeli – con rispetto parlando – gli infedeli, dicevo, pare che abbiano aperto una breccia.
Tarekon: Una breccia!
Scriba: Nel contrafforte orientale, sì.
Balacs: Non guardate me, non c’entro. Io sono un diplomatico.
Tarekon: Un diplomatico? Vieni qui col tuo asciugamano in testa a chiederci di abbattere le torri e intanto i tuoi cannoni stanno prendendo di mira i nostri contrafforti?
Balacs: Sono operazioni di routine, vedrete che…
Tarekon: Routine? Le nostre spie riferiscono che il tuo Sultano sta già facendo le gare d’appalto per ricostruire la città dopo il saccheggio! La vostra imprudenza è pari solo alla vostra supponenza! Fuori di qui.
Balacs: Bene, se le cose stanno così, me ne vado alla buon ora. Lungamente ho pregato in cuor mio (Crac! Booooom!) che la Montagna andasse da Maometto. Ma se le cose stanno così, non resta a Maometto che muoversi. E tanto peggio per la montagna. A presto, Tarekon.
Tarekon: A presto, Balacs, saraceno infame. Spero di strozzarti coi tuoi stessi genitali.
Balacs: Vorrei poter dire lo stesso. Addio.
Erano tempi bui, si sa, e il diritto internazionale era ancora indietro, indietro.
Veniamo al secolo scorso: 1940. Dopo aver invaso la Polonia e dilagato in Francia, il Terzo Reich sta studiando la prossima mossa. Isolata dal resto del Continente, la Gran Bretagna sembra una preda alla portata di mano: ma la Royal Air Force si sta dimostrando un osso più duro del previsto.
Mentre i caccia si scontrano sui cieli della Manica, un’altra battaglia di logoramento viene condotta sul piano diplomatico. La redazione di Leonardo è giunta in possesso di un altro documento riservatissimo: la conversazione tra Sir Terry Adsow, intmo amico di Winston Churchill, e Herr Heinz Blichsen, sottosegretario personale del marchese Von Ribbentrop. L’abboccamento tra i due ebbe luogo in uno chalet svizzero.
Adsow: Herr Blichsen, con tutto il rispetto, io credo che lei sia totalmente uscito di senno.
Blichsen: Non faccio che eseguire gli ordini dei miei superiori.
Adsow: In tal caso le pongo le mie scuse, ma la prego altresì di far presente ai suoi superiori che io li ritengo totalmente fuori di senno.
Blichsen: Bando alle cerimonie, si tratta soltanto di esaudire alcune semplici richieste, suggerite dal buon senso.
Adsow: Un tedesco che parla di buon senso è come un italiano che parla di treni in orario. Ma lasciamo perdere. Dunque, secondo i vostri superiori noi dovremmo smantellare il nostro sistema di contraerea…
Blichsen: Vede, è così semplice. Sappiamo che voi avete sviluppato quest’arma offensiva, contraria a tutte le più elementari regole della cavalleria, il… voi come lo chiamate? Quella cosa con le onde ellettromagnetiche…
Adsow: Il radar.
Blichsen: Ecco, sì, quello.
Adsow: E secondo voi il radar sarebbe un’arma offensiva?
Blichsen: Beh, senz’altro offende il nostro concetto di eroismo militare. Dove va a finire tutta la poesia del duello aereo? Lo Sturm, il Drang, l’impeto futurista dell’aviatore, membro scalpitante e ribollente nella guaina d’acciaio della fusoliera? Tutto questo, per voi non è che un bip bip su un quadro comandi. E la chiamate civiltà, questa?
Adsow: Ma lo facciamo per difenderci. Voi vorreste bombandarci e invaderci.
Blichsen: Vile propaganda, menzogne sioniste. La Gran Bretagna non è il nostro nemico naturale. Il nostro vero obiettivo è il blocco pluto-giudaico-bolscevico. Londra non ha nulla da temere.
Adsow: E che mi dite del Leone Marino?
Blichsen: Del che?
Adsow: L’Operazione Leone Marino. È il nome – fantasioso, invero – con cui il vostro Führer avrebbe battezzato un dettagliato piano d’invasione della nostra isola. Almeno stando al rapporto dei nostri servizi. Rapporto consegnato un mese fa.
Blichsen: Oh, i Servizi, si sa, ne dicono tante…
Adsow: Ogni giorno qualche vostro velivolo militare attenta al nostro spazio aereo. I vostri scenziati stanno studiando la possibilità di bombardarci con razzi a reazione, e chissà quale altra diavoleria. Il mare del Nord e la Manica pullulano dei vostri sommergibili. Il vostro Führer ha già pianificato la spartizione dell’Europa. E voi ci chiedete di smantellare il radar.
Blichsen: In segno di buona volontà.
Adsow: Il mio lignaggio e la mia educazione m’impediscono di riversare su di lei e sui suoi emissari le contumelie che vi meritereste.
Blichsen: Non so nemmeno perché sto a perder tempo col rappresentante di una decadente monarchia plutocratica, sconfitta dalla Storia e dall’insorgenza dei popoli giovani, forti, vivi, rigogliosi, ariani…
Adsow: Vada via, se ne torni nella birreria da dove è stato vomitato.
Blichsen: Come preferisce, ma si ricordi le parole di Brenno: guai ai vinti.
Adsow: Prenderò nota, grazie. E addio.
Ma oggi le cose vanno diversamente: oggi, finalmente, c’è un organismo sovranazionale che dirime le controversie tra gli stati. E infatti…
Hans Blix: Qui Blix.
Tareq Aziz: Sono Aziz. Niente, chiamavo solo per comunicare che abbiamo rottamato altri sei missili Al Samoud 2…
Blix: Molto bene.
Aziz: … E nel frattempo, gli americani hanno bombardato Bassora, uccidendo sei civili.
Blix: Sì, ne ho sentito parlare. Ma sai bene che la cosa non ci riguarda. È un’operazione di routine…
Aziz: Certo, certo. E poi ho letto del piano di Bush per il nuovo assetto democratico dell’Iraq dopo l’invasione.
Blix: Già. Beh, Bush è in democrazia, sai. Lui può dire tutto quello che vuole.
Aziz: Già.
Blix: Non farmi il broncio, Aziz, non provarci nemmeno. Non m’incanti. Sei il rappresentante di una feroce dittatura. Hai sterminato i curdi col gas nervino.
Aziz: Ma per l'appunto. Quando sterminavamo i curdi col gas nervino tutti ci rispettavano. Ma adesso che abbiamo quattro missili in croce, dobbiamo pure distruggerli con le nostre mani, mentre Bush grida ai quattro venti che ha intenzione d’invaderci.
Blix: Aziz…
Aziz: Ho la sensazione di trovarmi nella pagina più ridicola della Storia del mio Paese e dell’Umanità intera. Il mio nemico grida ai quattro venti che vuole invadermi. Il mio nemico vuole che io mi disarmi, così l’invasione gli riesce più comoda. E io mi disarmo. Che razza di politica è mai questa?
Blix: Che ti posso dire, Aziz. È il diritto internazionale. Una prima mondiale, quasi. Un esperimento.
Aziz: E noi saremmo le cavie, eh?
Penso che Saddam Hussein se avesse davvero avuto intenzione di disarmare, lo avrebbe fatto. Deve disarmare, perché è pericoloso. Quindi qualsiasi cosa gli sentiate dichiarare adesso, si tratta soltanto di un tentativo di prendere tempo e di ingannare il mondo, perché è abituato a fare esattamente questo...
è lungo e irto di ostacoli, che mi accingo a illustrare:
Nel 1453, dopo lunghi mesi di assedio da parte dei turchi, le sorti di Costantinopoli sembrarono volgere al meglio quando una delegazione del Sultano Maometto II fu ricevuta con tutti gli onori dallo staff diplomatico Bizantino. Per un attimo l’intesa cordiale fra i due contendenti parve possibile. Purtroppo le richieste della delegazione turca furono stoltamente rifiutate dalla controparte, che le riteneva assurde e lesive della dignità bizantina.
La redazione di Leonardo è giunta in possesso delle pergamene riservate che mostrano l’ultimo, drammatico faccia a faccia tra il capo delegazione turca (Omar Balacs) e l’ufficio di gabinetto bizantino, l’eunuco Tarekon Amos:
Tarekon: Ah, questa no! Le torri poi no, per Santa Tecla! Io credo che dovrebbe esserci un limite anche alla faccia tosta dei Mori!
Balacs: Trovo singolare e alquanto buffa l’abitudine dei Bizantini di chiamare Mori noi Ottomani, che condividiamo con voi la medesima rosea carnagione.
(FSssssssss! Booooom!)
Tarekon: E non cambiare sempre argomento, brutta faccia di Beduino!
Balacs: Come? Non ho sentito, con tutto questo rumore.
Tarekon: “Questo rumore” sono i vostri infernali cannoni, a cinque leghe da qui.
Balacs: Si tratta di esercitazioni, la cosa non mi riguarda. Io sono un diplomatico.
Tarekon: Tu? Un diplomatico? Un ladro di casbah, ecco quello che sei, Omar! Con che faccia vieni a chiederci di abbattere le nostre stesse fortificazioni?
Balacs: Non tutte le fortificazioni, solo le torri che superano la misura di centocinquanta piedi.
Tarekon: E perché centocinquanta, di grazia?
Balacs: Dai 150 in poi noi le riteniamo armi offensive.
(Boooom! Tatrac!)
Tarekon: Offensive? Cosa c’è di offensivo in una torre, per San Diodato?
Balacs: Non fare il finto tonto, eunuco, sai benissimo che il fuoco greco cola dalle vostre torri in quantità, ed è un’arma esecrata dalla comunità internazionale. Sapete quanti padri di famiglia avete spedito ad Allah il Misericordioso, con quella diavoleria?
Tarekon: Tutti quei padri potevano starsene anche dalle loro pidocchiose famiglie in Cappadocia, invece di stazionare sotto le nostre torri difensive. È colpa nostra se ci state assediando da mesi?
Balacs: Non starò qui a discutere del concetto di colpa con un cane infedele, rappresentante di una monarchia tirannica ormai sconfitta dalla Storia. Un giorno, forse, ci sarà un organismo sovranazionale che dirimerà le controversie tra gli Stati…
Tarekon: Eh, magari.
Balacs: …ma nel frattempo ci si arrangia come si può. Allora il problema è tutto qui: Noi troviamo che quelle torri sono troppo alte, e noi vi chiediamo di tirarle giù.
(Tatrac! Booom!)
Tarekon: Ah sì, eh?
Balacs: Come segno di buona volontà.
(Entra il giovane scriba di Tarekon, tutto tremante)
Scriba: Ehm… illustrissimo Tarekon, è permesso?
Tarekon: Che c’è, ancora?
Scriba: Un… un dispaccio dal contrafforte orientale. Pare che gli infedeli – con rispetto parlando – gli infedeli, dicevo, pare che abbiano aperto una breccia.
Tarekon: Una breccia!
Scriba: Nel contrafforte orientale, sì.
Balacs: Non guardate me, non c’entro. Io sono un diplomatico.
Tarekon: Un diplomatico? Vieni qui col tuo asciugamano in testa a chiederci di abbattere le torri e intanto i tuoi cannoni stanno prendendo di mira i nostri contrafforti?
Balacs: Sono operazioni di routine, vedrete che…
Tarekon: Routine? Le nostre spie riferiscono che il tuo Sultano sta già facendo le gare d’appalto per ricostruire la città dopo il saccheggio! La vostra imprudenza è pari solo alla vostra supponenza! Fuori di qui.
Balacs: Bene, se le cose stanno così, me ne vado alla buon ora. Lungamente ho pregato in cuor mio (Crac! Booooom!) che la Montagna andasse da Maometto. Ma se le cose stanno così, non resta a Maometto che muoversi. E tanto peggio per la montagna. A presto, Tarekon.
Tarekon: A presto, Balacs, saraceno infame. Spero di strozzarti coi tuoi stessi genitali.
Balacs: Vorrei poter dire lo stesso. Addio.
Erano tempi bui, si sa, e il diritto internazionale era ancora indietro, indietro.
Veniamo al secolo scorso: 1940. Dopo aver invaso la Polonia e dilagato in Francia, il Terzo Reich sta studiando la prossima mossa. Isolata dal resto del Continente, la Gran Bretagna sembra una preda alla portata di mano: ma la Royal Air Force si sta dimostrando un osso più duro del previsto.
Mentre i caccia si scontrano sui cieli della Manica, un’altra battaglia di logoramento viene condotta sul piano diplomatico. La redazione di Leonardo è giunta in possesso di un altro documento riservatissimo: la conversazione tra Sir Terry Adsow, intmo amico di Winston Churchill, e Herr Heinz Blichsen, sottosegretario personale del marchese Von Ribbentrop. L’abboccamento tra i due ebbe luogo in uno chalet svizzero.
Adsow: Herr Blichsen, con tutto il rispetto, io credo che lei sia totalmente uscito di senno.
Blichsen: Non faccio che eseguire gli ordini dei miei superiori.
Adsow: In tal caso le pongo le mie scuse, ma la prego altresì di far presente ai suoi superiori che io li ritengo totalmente fuori di senno.
Blichsen: Bando alle cerimonie, si tratta soltanto di esaudire alcune semplici richieste, suggerite dal buon senso.
Adsow: Un tedesco che parla di buon senso è come un italiano che parla di treni in orario. Ma lasciamo perdere. Dunque, secondo i vostri superiori noi dovremmo smantellare il nostro sistema di contraerea…
Blichsen: Vede, è così semplice. Sappiamo che voi avete sviluppato quest’arma offensiva, contraria a tutte le più elementari regole della cavalleria, il… voi come lo chiamate? Quella cosa con le onde ellettromagnetiche…
Adsow: Il radar.
Blichsen: Ecco, sì, quello.
Adsow: E secondo voi il radar sarebbe un’arma offensiva?
Blichsen: Beh, senz’altro offende il nostro concetto di eroismo militare. Dove va a finire tutta la poesia del duello aereo? Lo Sturm, il Drang, l’impeto futurista dell’aviatore, membro scalpitante e ribollente nella guaina d’acciaio della fusoliera? Tutto questo, per voi non è che un bip bip su un quadro comandi. E la chiamate civiltà, questa?
Adsow: Ma lo facciamo per difenderci. Voi vorreste bombandarci e invaderci.
Blichsen: Vile propaganda, menzogne sioniste. La Gran Bretagna non è il nostro nemico naturale. Il nostro vero obiettivo è il blocco pluto-giudaico-bolscevico. Londra non ha nulla da temere.
Adsow: E che mi dite del Leone Marino?
Blichsen: Del che?
Adsow: L’Operazione Leone Marino. È il nome – fantasioso, invero – con cui il vostro Führer avrebbe battezzato un dettagliato piano d’invasione della nostra isola. Almeno stando al rapporto dei nostri servizi. Rapporto consegnato un mese fa.
Blichsen: Oh, i Servizi, si sa, ne dicono tante…
Adsow: Ogni giorno qualche vostro velivolo militare attenta al nostro spazio aereo. I vostri scenziati stanno studiando la possibilità di bombardarci con razzi a reazione, e chissà quale altra diavoleria. Il mare del Nord e la Manica pullulano dei vostri sommergibili. Il vostro Führer ha già pianificato la spartizione dell’Europa. E voi ci chiedete di smantellare il radar.
Blichsen: In segno di buona volontà.
Adsow: Il mio lignaggio e la mia educazione m’impediscono di riversare su di lei e sui suoi emissari le contumelie che vi meritereste.
Blichsen: Non so nemmeno perché sto a perder tempo col rappresentante di una decadente monarchia plutocratica, sconfitta dalla Storia e dall’insorgenza dei popoli giovani, forti, vivi, rigogliosi, ariani…
Adsow: Vada via, se ne torni nella birreria da dove è stato vomitato.
Blichsen: Come preferisce, ma si ricordi le parole di Brenno: guai ai vinti.
Adsow: Prenderò nota, grazie. E addio.
Ma oggi le cose vanno diversamente: oggi, finalmente, c’è un organismo sovranazionale che dirime le controversie tra gli stati. E infatti…
Hans Blix: Qui Blix.
Tareq Aziz: Sono Aziz. Niente, chiamavo solo per comunicare che abbiamo rottamato altri sei missili Al Samoud 2…
Blix: Molto bene.
Aziz: … E nel frattempo, gli americani hanno bombardato Bassora, uccidendo sei civili.
Blix: Sì, ne ho sentito parlare. Ma sai bene che la cosa non ci riguarda. È un’operazione di routine…
Aziz: Certo, certo. E poi ho letto del piano di Bush per il nuovo assetto democratico dell’Iraq dopo l’invasione.
Blix: Già. Beh, Bush è in democrazia, sai. Lui può dire tutto quello che vuole.
Aziz: Già.
Blix: Non farmi il broncio, Aziz, non provarci nemmeno. Non m’incanti. Sei il rappresentante di una feroce dittatura. Hai sterminato i curdi col gas nervino.
Aziz: Ma per l'appunto. Quando sterminavamo i curdi col gas nervino tutti ci rispettavano. Ma adesso che abbiamo quattro missili in croce, dobbiamo pure distruggerli con le nostre mani, mentre Bush grida ai quattro venti che ha intenzione d’invaderci.
Blix: Aziz…
Aziz: Ho la sensazione di trovarmi nella pagina più ridicola della Storia del mio Paese e dell’Umanità intera. Il mio nemico grida ai quattro venti che vuole invadermi. Il mio nemico vuole che io mi disarmi, così l’invasione gli riesce più comoda. E io mi disarmo. Che razza di politica è mai questa?
Blix: Che ti posso dire, Aziz. È il diritto internazionale. Una prima mondiale, quasi. Un esperimento.
Aziz: E noi saremmo le cavie, eh?
Penso che Saddam Hussein se avesse davvero avuto intenzione di disarmare, lo avrebbe fatto. Deve disarmare, perché è pericoloso. Quindi qualsiasi cosa gli sentiate dichiarare adesso, si tratta soltanto di un tentativo di prendere tempo e di ingannare il mondo, perché è abituato a fare esattamente questo...
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