Lavoratori? Prrrrrrrrrrrrr!
Se penso a Sordi la prima cosa che mi viene in mente non sono i titoli dei suoi film, ma le qualifiche professionali. Sordi è stato vigile urbano, tassinaro, medico della mutua, primario, magistrato, presentatore, impiegato dell'ufficio pensioni, cabarettista, commesso viaggiatore, imprenditore televisivo, e l'elenco potreste continuarlo voi. Da un film all'altro la faccia e la voce (la voce di Oliver Hardy) non cambiavano: quello che cambiava era il mestiere.
Sordi ha indossato tutti gli abiti di lavoro della società del boom, e ha raccontato con partecipazione, e senza pietà, l'età magica in cui i mestieri si inventavano, le fabbriche si aprivano, i servizi arrivavano anche nei centri minori, e un'uniforme, una casacca, un camice bianco avevano il potere di trasformare un ragazzino in un uomo. E di prendergli la mano: è questa in fondo l'eterna trama di tanti "film di Alberto Sordi": un giovane ingenuo e un po' idealista trova un lavoro, crede di realizzarsi, ma progressivamente il lavoro prende il sopravvento su di lui, svuota i suoi ideali, lo spersonalizza. Il medico della mutua diventa una macchina di certificati, il magistrato inquisisce tutti fino a diventare inquisito, eccetera.
Per questo non posso dire che mi mancherà, Alberto Sordi, per il triste motivo che mi mancava (ci mancava) già da tanto: dopo essere stato il ritratto dell'italiano al lavoro, l'età gli imponeva ruoli da pensionato che facevano tristezza a noi e probabilmente anche a lui.
Nessuno ha veramente preso il suo posto: la "storia dell'italiano del Novecento attraverso i mestieri" sembra essere finita con lui. Che mestiere fanno i protagonisti dei film di oggi? E' difficile dirlo. Per esempio, avete capito che lavoro fa esattamente il protagonista dell'ultimo film di Muccino? Nell'ultimo di Bellocchio c'è un pittore, nell'ormai penultimo di Salvatores ("Denti") un professore (di che?). In quello di Calopresti un architetto: ma hanno l'aria di semplici pretesti, quello che conta è un metafisico male di vivere che ha poco a che vedere con l'orario di lavoro. Segno che il lavoro non è più il pretesto per vivere, per cercare di realizzarsi o di dannarsi. E' un semplice contorno, la vita è altrove.
E poi è sempre più difficile capire i lavori che facciamo: mentre in testa abbiamo ancora le categorie dei film di Alberto Sordi (vigile urbano, impiegato, muratore, ecc.), nella pratica nemmeno noi spesso conosciamo la nostra qualifica professionale; se qualcuno ce lo chiede abbiamo grosse difficoltà a trovare un nome al nostro mestiere. Siamo collaboratori, consulenti, bit-worker, operatori, cococò... "sarebbe a dì?", direbbe lui. Un volto che riesca a interpretare le nostre professioni non esiste ancora, e forse non esisterà mai. (E intanto, ai piani inferiori, c'è una folla di gente che continua a fare gli stessi lavori degli anni '50: fornai, camerieri, saldatori... ma non parla la nostra lingua, non ha la nostra pelle, e forse al cinema non ci va; certo non per vedere un film italiano).
Ma che, s'ammazza una persona così? Ahò! Ma che siete matti?
E' la famosa battuta della Grande Guerra, detta da Sordi al colmo della disperazione, quando gli fucilano il compare. E' una frase simbolica: sì, d'accordo, denuncia gli orrori della guerra, ma nel suo contesto è quasi surreale: e infatti il graduato che lo sta interrogando ribatte, con accento tedesco: "E allora?"
I tedeschi, gli austriaci (ma anche gli americani, gli inglesi, i cinesi, gli slovacchi) sanno bene che in guerra le persone s'ammazzano così. Alberto Sordi, no. Lui fa la faccia stupita. Lui fino a qualche minuto prima credeva di essere nella solita commedia all'italiana. E invece era alla prima Guerra Mondiale.
E anche questo è tipico, davvero tipico italiano. Viene da pensare al Ministro Martino, che crede (o vuol farci credere) che gli alpini vadano in Afganistan per aiutare le vecchine ad attraversare la strada (possibilmente senza burqa). Viene da pensare all'incredulità di tanti, che sono persino disposti a sdraiarsi sulle rotaie, ma in forma simbolica, perché per loro è impossibile, i m p o s s i b i l e che le armi passino proprio di lì. Perché non esistono le armi in Italia. Perché non si fanno le guerre in Italia. Perché in Italia siamo tutti brava gente, magari distruggiamo gli stadi, ma mai e poi mai potremmo bombardare o invadere un altro Paese, e magari torturare i prigionieri. Queste cose le fanno gli altri (anche i nostri alleati), ma noi no. Ahò! Ma che, siamo matti?
E allora rendiamo a Sordi quel che è di Sordi: tra i tanti mestieri, negli anni Settanta, aveva voluto essere anche un mercante d'armi, in un film dal titolo eloquente: Finché c'è guerra, c'è speranza. L'industria delle armi è una delle più importanti, in Italia, ma se ne parla poco. Al cinema, a parte Sordi, non se ne parla proprio. Armi noi? Aho! Ma che, siamo matti? Noi siamo brava gente.
Comandante, è successa una cosa incredibile! I tedeschi si sono alleati con gli americani!
Il mio Sordi preferito è quello di Tutti a casa di Comencini, un sottotenente che l'otto settembre cerca di salvare la pelle e, potendo, anche un minimo di dignità. Tiene molto, come al solito, alla sua casacca: se incontra dei sottoposti non perde l'occasione per far notare la sua superiorità di sottotenente. Ed è convinto che la guerra sia finita, semplicemente perché non si fanno guerre in Italia, ahò. Non crede a quel che vede: si ostina a percorrere l'Italia a ritroso, a tornare alla casa, all'infanzia, alla famiglia. Ma la famiglia non c'è più, c'è solo suo padre (Edoardo De Filippo!), che per un pugno di lire lo consegna alla Milizia.
Eppure non è del tutto uno stupido: e quello stesso, maniacale attaccamento alla sua pelle alla fine lo salva. Certo, ne deve fare di strada, per ritrovarsi a Napoli nel bel mezzo dell'insurrezione. E i tedeschi gli devono uccidere anche l'ultimo compagno per fargli capire che c'è una guerra, e che il fronte passa proprio su di lui. Però alla fine capisce, e si mette al pezzo d'artiglieria, non solo perché è un italiano, ma perché quello è il suo mestiere.
Mi rendo conto che non è un esempio di coerenza, per un blog pacifista, ricordare con affetto una scena in cui Alberto Sordi (non Clint Eastwood, non Steve McQueen: Alberto Sordi) imbraccia una mitragliatrice e cerca di stendere più tedeschi che può, però le cose stanno così. C'è un momento per fuggire e un momento per combattere; e poi ci sono gli italiani, che arrivano sempre un po' in ritardo, ma quanto sono simpatici, ahò. Ciao.
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi.
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venerdì 28 febbraio 2003
giovedì 27 febbraio 2003
Chi vi paga per darci lezioni?
Un pezzo fazioso
Ricopio da un vecchio pezzo di Rolli:
Conviene demonizzare Berlusconi?
Uno studio pubblicato sulla rivista Italianieuropei, guidata da Massimo D'Alema e Giuliano Amato, rileva come se da una parte la demonizzazione ha contenuto la sconfitta dell'Ulivo, dall'altra ha avuto l'effetto di far calare la fiducia non solo in Berlusconi ma anche nei leader della sinistra, determinando un allontanamento dal voto o il rifugio in partiti minori...
Ma chi ha i soldi per fare politica, in Italia? A parte Berlusconi, naturalmente.
Diamo per scontato che il sistema italiano stia scivolando verso il modello americano: campagne elettorali sempre più costose, candidati sempre più ricattabili dai loro finanziatori. In Italia però ci sono vistose anomalie: se da una parte c’è l’uomo più ricco d’Italia, dall’altra c’è un partito (i DS) che è in bancarotta cronica da più di dieci anni. In teoria i giochi dovrebbero essere fatti in partenza…
…ma in pratica non è così, perché la stessa ambizione di Berlusconi a diventare padrone di mezza Italia (la mezza che non possiede già) è destinata a generare una spinta uguale in senso contrario. In Italia c’è fior di finanziatori interessati a investire sull’opposizione; ma la novità è che i soldi non passano più attraverso il Partito, per vari motivi (anche perché la legislazione post – Mani Pulite ha reso più difficile certi giochini).
Così, mentre noi continuiamo a lamentare la crisi d’identità del Partito, la crisi di leadership del Partito, ecc., non ci accorgiamo che al Partito manca qualcosa di ben più concreto: i soldi. Non ci sono soldi per fare le campagne (proprio nel momento in cui Berlusconi alza la posta e si mette a girare l’Italia in nave), non ci sono soldi per fare informazione (e così l’Unità chiude, per risorgere come quotidiano indipendente e tutt’altro che in linea con la dirigenza del partito). Negli ultimi anni i DS si sono ridotti a cedere le loro proprietà (uffici, terreni per i festival, ecc.) per trasferirsi in locali presi in affitto: cosa che io o voi faremmo soltanto se fossimo con l’acqua alla gola.
Eppure ci sono esponenti DS che fanno politica, anzi, che si sentono già in campagna elettorale, e che stanno già affrontando le spese del caso: i sondaggi, i comizi (che adesso si chiamano “incontri”), eccetera. Ma non li finanzia il Partito, il Partito è una struttura pesante, superata. E allora chi?
Un ruolo importante lo hanno quelle misteriose strutture che si chiamano Fondazioni, e che da che mondo è mondo svolgono un ruolo di cuscinetto tra la politica, la finanza e… qualsiasi altra cosa. Spesso sono pensioni di lusso per ex dirigenti di successo. La tensione che nell’ultimo anno ha lacerato i DS, potremmo anche descriverla come la lotta sotterranea tra la Fondazione Di Vittorio e la Fondazione Italianieuropei. La prima è il dopolavoro del chimico Sergio Cofferati; la seconda è l’invenzione di D’Alema e Amato.
Prendiamo l’esempio citato all’inizio (ne ha parlato anche il Foglio): una ricerca statistica di buon livello e, presumo, di un certo costo, che fornisce un fondamento scientifico alla linea politica di D’Alema. Chi l’ha pagata? Certo non il Partito, che già fatica a sbarcare il mese (e di cui D’Alema dovrebbe essere il Presidente super partes, ma lasciamo perdere). Evidentemente l’ha pagata la Fondazione Italianieuropei, che problemi d’affitto non ne ha. E chi finanzia la Fondazione Italianieuropei?
Ecco qui:
I donatori che indirizzano il proprio contributo al patrimonio costitutivo per una somma una tantum pari o superiore a cinquanta milioni di lire divengono Soci benemeriti e partecipano in queste veste alle attività pubbliche e sociali della Fondazione. L’assemblea dei Soci benemeriti nomina tra i propri membri tre Consiglieri di Amministrazione della Fondazione.
Tra i Soci benemeriti della Fondazione figurano esponenti del mondo imprenditoriale come, tra gli altri, Guidalberto Guidi, Gianni Agnelli, Francesco Micheli, Vittorio Merloni, Claudio Cavazza, Carlo De Benedetti, Gianfranco Dioguardi e Paolo Marzotto insieme ad aziende quali Pirelli, Gruppo Marchini, Philip Morris, Glaxo Wellcome, Pharmacia & UpJohn, Lega delle Cooperative, ABB ed Ericcson.
Se ne potrebbe dire tanto, veramente tanto, su questi soci benemeriti. Prendiamone uno a caso, che so, la Glaxo Wellcome. Dove ho già sentito parlare di Glaxo Wellcome? Ah, ecco, la Glaxo Wellcome. Beh, non credo che aggiungerò altro sulla Glaxo Wellcome, solo a pronunciarne il nome (Glaxo Wellcome) sento odore di querela. Lasciamo perdere.
Prendiamo allora… la Philip Morris. Beh, non credo che ci sia bisogno di spiegare cos’è la Philip Morris. Direi anzi che tutti conoscano bene la Philip Morris, le sue battaglie, i suoi valori, le sue idee. E questo è tutto anche sulla Philip Morris.
Sì, mi rendo conto, il mio moralismo è d'accatto e d'annata. In realtà per fare politica servono i sondaggi, e per ordinare i sondaggi ci vogliono soldi. Se D’Alema ritiene di poterli chiedere alle multinazionali, è libero di farlo. E tra prendere soldi dalle multinazionali ed essere al soldo delle multinazionali c’è una certa differenza, che io non saprei misurare in centimetri, ma c’è.
Quello che veramente mi stupisce è la franchezza. I casi sono due: o gli Italianieuropei sottovalutano internet e pensano che tanto su questa pagina non ci vada nessuno (e neanch’io ci sarei andato, senza Indymedia), oppure trovano che non ci sia nulla di male, per i rappresentanti di un partito europeo di centrosinistra, nel dichiarare quanti soldi prendono dalle multinazionali, anche quando le multinazionali vengono coinvolte in illeciti eclatanti. In entrambi i casi, io resto di stucco. E voi? Perché magari è un problema solo mio.
Comunque, in attesa che uno studio scientifico mi dimostri che sbaglio, io smetterò di demonizzare Berlusconi e comincerò a demonizzare direttamente D’Alema.
E ora mi aspetto che qualcuno dell’opposta fazione mi porti le prove che la fondazione Di Vittorio è finanziata dalla Corea del Nord, da Al Qaeda, dai Sette Savi di Sion, dalla Spectre. Per stasera il mio fazioso dovere l’ho fatto, alla prossima
Un pezzo fazioso
Ricopio da un vecchio pezzo di Rolli:
Conviene demonizzare Berlusconi?
Uno studio pubblicato sulla rivista Italianieuropei, guidata da Massimo D'Alema e Giuliano Amato, rileva come se da una parte la demonizzazione ha contenuto la sconfitta dell'Ulivo, dall'altra ha avuto l'effetto di far calare la fiducia non solo in Berlusconi ma anche nei leader della sinistra, determinando un allontanamento dal voto o il rifugio in partiti minori...
Ma chi ha i soldi per fare politica, in Italia? A parte Berlusconi, naturalmente.
Diamo per scontato che il sistema italiano stia scivolando verso il modello americano: campagne elettorali sempre più costose, candidati sempre più ricattabili dai loro finanziatori. In Italia però ci sono vistose anomalie: se da una parte c’è l’uomo più ricco d’Italia, dall’altra c’è un partito (i DS) che è in bancarotta cronica da più di dieci anni. In teoria i giochi dovrebbero essere fatti in partenza…
…ma in pratica non è così, perché la stessa ambizione di Berlusconi a diventare padrone di mezza Italia (la mezza che non possiede già) è destinata a generare una spinta uguale in senso contrario. In Italia c’è fior di finanziatori interessati a investire sull’opposizione; ma la novità è che i soldi non passano più attraverso il Partito, per vari motivi (anche perché la legislazione post – Mani Pulite ha reso più difficile certi giochini).
Così, mentre noi continuiamo a lamentare la crisi d’identità del Partito, la crisi di leadership del Partito, ecc., non ci accorgiamo che al Partito manca qualcosa di ben più concreto: i soldi. Non ci sono soldi per fare le campagne (proprio nel momento in cui Berlusconi alza la posta e si mette a girare l’Italia in nave), non ci sono soldi per fare informazione (e così l’Unità chiude, per risorgere come quotidiano indipendente e tutt’altro che in linea con la dirigenza del partito). Negli ultimi anni i DS si sono ridotti a cedere le loro proprietà (uffici, terreni per i festival, ecc.) per trasferirsi in locali presi in affitto: cosa che io o voi faremmo soltanto se fossimo con l’acqua alla gola.
Eppure ci sono esponenti DS che fanno politica, anzi, che si sentono già in campagna elettorale, e che stanno già affrontando le spese del caso: i sondaggi, i comizi (che adesso si chiamano “incontri”), eccetera. Ma non li finanzia il Partito, il Partito è una struttura pesante, superata. E allora chi?
Un ruolo importante lo hanno quelle misteriose strutture che si chiamano Fondazioni, e che da che mondo è mondo svolgono un ruolo di cuscinetto tra la politica, la finanza e… qualsiasi altra cosa. Spesso sono pensioni di lusso per ex dirigenti di successo. La tensione che nell’ultimo anno ha lacerato i DS, potremmo anche descriverla come la lotta sotterranea tra la Fondazione Di Vittorio e la Fondazione Italianieuropei. La prima è il dopolavoro del chimico Sergio Cofferati; la seconda è l’invenzione di D’Alema e Amato.
Prendiamo l’esempio citato all’inizio (ne ha parlato anche il Foglio): una ricerca statistica di buon livello e, presumo, di un certo costo, che fornisce un fondamento scientifico alla linea politica di D’Alema. Chi l’ha pagata? Certo non il Partito, che già fatica a sbarcare il mese (e di cui D’Alema dovrebbe essere il Presidente super partes, ma lasciamo perdere). Evidentemente l’ha pagata la Fondazione Italianieuropei, che problemi d’affitto non ne ha. E chi finanzia la Fondazione Italianieuropei?
Ecco qui:
I donatori che indirizzano il proprio contributo al patrimonio costitutivo per una somma una tantum pari o superiore a cinquanta milioni di lire divengono Soci benemeriti e partecipano in queste veste alle attività pubbliche e sociali della Fondazione. L’assemblea dei Soci benemeriti nomina tra i propri membri tre Consiglieri di Amministrazione della Fondazione.
Tra i Soci benemeriti della Fondazione figurano esponenti del mondo imprenditoriale come, tra gli altri, Guidalberto Guidi, Gianni Agnelli, Francesco Micheli, Vittorio Merloni, Claudio Cavazza, Carlo De Benedetti, Gianfranco Dioguardi e Paolo Marzotto insieme ad aziende quali Pirelli, Gruppo Marchini, Philip Morris, Glaxo Wellcome, Pharmacia & UpJohn, Lega delle Cooperative, ABB ed Ericcson.
Se ne potrebbe dire tanto, veramente tanto, su questi soci benemeriti. Prendiamone uno a caso, che so, la Glaxo Wellcome. Dove ho già sentito parlare di Glaxo Wellcome? Ah, ecco, la Glaxo Wellcome. Beh, non credo che aggiungerò altro sulla Glaxo Wellcome, solo a pronunciarne il nome (Glaxo Wellcome) sento odore di querela. Lasciamo perdere.
Prendiamo allora… la Philip Morris. Beh, non credo che ci sia bisogno di spiegare cos’è la Philip Morris. Direi anzi che tutti conoscano bene la Philip Morris, le sue battaglie, i suoi valori, le sue idee. E questo è tutto anche sulla Philip Morris.
Sì, mi rendo conto, il mio moralismo è d'accatto e d'annata. In realtà per fare politica servono i sondaggi, e per ordinare i sondaggi ci vogliono soldi. Se D’Alema ritiene di poterli chiedere alle multinazionali, è libero di farlo. E tra prendere soldi dalle multinazionali ed essere al soldo delle multinazionali c’è una certa differenza, che io non saprei misurare in centimetri, ma c’è.
Quello che veramente mi stupisce è la franchezza. I casi sono due: o gli Italianieuropei sottovalutano internet e pensano che tanto su questa pagina non ci vada nessuno (e neanch’io ci sarei andato, senza Indymedia), oppure trovano che non ci sia nulla di male, per i rappresentanti di un partito europeo di centrosinistra, nel dichiarare quanti soldi prendono dalle multinazionali, anche quando le multinazionali vengono coinvolte in illeciti eclatanti. In entrambi i casi, io resto di stucco. E voi? Perché magari è un problema solo mio.
Comunque, in attesa che uno studio scientifico mi dimostri che sbaglio, io smetterò di demonizzare Berlusconi e comincerò a demonizzare direttamente D’Alema.
E ora mi aspetto che qualcuno dell’opposta fazione mi porti le prove che la fondazione Di Vittorio è finanziata dalla Corea del Nord, da Al Qaeda, dai Sette Savi di Sion, dalla Spectre. Per stasera il mio fazioso dovere l’ho fatto, alla prossima
mercoledì 26 febbraio 2003
A Fornovo di Taro è stato segnalato un Carabiniere in lacrime.
E oggi c'è un presidio a Bologna.
Ma la vera notizia, forse, è che Indymedia è tornata un ambiente vivibile. E nell'aria si sente già la differenza.
E oggi c'è un presidio a Bologna.
Ma la vera notizia, forse, è che Indymedia è tornata un ambiente vivibile. E nell'aria si sente già la differenza.
martedì 25 febbraio 2003
Anche i ricchi piangono
(e hanno tutta la nostra solidarietà)
È una storia vecchia. Direi che si tratta di una generazione di passaggio (come tutte), che fa discretamente fatica a crescere (come tutte), e che è composta più o meno da una quarantina di persone che mi conosco e mi stanno simpatiche, quasi tutte comprese tra Bologna e Reggio, con casuali propaggini in altre città della penisola.
Questa generazione avrà senz’altro le sue tradizioni e i suoi svaghi, molto interessanti da rievocare, mentre tutte le altre generazioni intorno sbadigliano. Qual era il nostro telefilm preferito? E il cartone animato? Cosa cantavamo intorno al fuoco sulla spiaggia? C’è un libro, una marca di scarpe, una droga, una lettera dell’alfabeto che ci possa identificare? Per me andrebbe bene anche Lambrusco Generation, ma tu sei astemia e fai le smorfie, come non detto.
E quando la nostra generazione va al cinema, cosa guarda? Per prima cosa guarda il prezzo del biglietto, e non è una battuta. Quest’estate la mia generazione era in vacanza in Spagna e passava più tempo a studiare i menu dei ristoranti che a mangiare. Potremmo chiamarla Nice Price Generation: ha studiato, sa cos’è buono e pretende di consumarlo, ma non sempre se lo può permettere. Cavalca con passione tutte le tendenze finto-povere, nella speranza di riuscire a passare l’inverno con la giacca dell’anno prima. Perché in effetti il sushi è buono, ma pensa che colpo se lo gnocco fritto andasse di moda.
Perciò va al cinema i giorni dispari (prezzo tagliato), cercando di non farsi fregare. Diffida naturalmente dei kolossal, e non ha apprezzato molto la svolta splatter di Scorsese. L’appartamento spagnolo meglio di no, perché la nostra generazione non c’è andata, in Erasmus. Oh, ci sarebbe piaciuto. Ma costava un po’ e non abbiamo mai avuto il coraggio di chiederlo alla generazione dei nostri genitori.
Così andiamo a vedereil film di Muccino, un regista che nei suoi film “indaga sui rapporti tra le generazioni”. E che almeno è un ragazzo sveglio: infila nei suoi film il maggior numero di personaggi possibili, così è costretto a lavorare per sottrazione, a condensare una sequenza in una scena, un dialogo in un’occhiata: e intanto il pubblico resta sveglio, anche se i critici preferiscono ritmi più lenti. Molti entrano per vedere un ritratto destabilizzante della loro generazione, e anche noi, nel buio della sala, facciamo finta di destabilizzarci un po’. Anche se le generazioni di Muccino pagano d’affitto in un mese quello che noi guadagnamo in tre.
Dunque più o meno andrà così: tra vent’anni avremo un bell’appartamento, nostro figlio ci fregherà il bancomat per comprare fumo da offrire a tutta la sua classe, nostra figlia sognerà di fare i calendari, noi continueremo ad alimentare i fuochi di paglia delle nostre velleità di ragazzini, quando volevamo scrivere un libro o fare gli attori. Ogni tanto andremo in crisi, ogni tanto faremo la pace. Andrà così?
Beh, magari.
Se tutti i problemi della mia vita dovessero consistere nel vivere in tre camere, cucina e soggiorno di un quartiere signorile, nel fare un lavoro noioso con un capo che posso permettermi di mandare affanculo, nel dover scegliere, a 45 anni, tra Laura Morante e Monica Bellucci… io ci farei la firma.
Ma temo che la mia vita non andrà così, perché sono precario, e ho sentito dire da fonte autorevole che la precarietà invecchierà con me. L’inflazione galoppa, i buoni del tesoro sono carta straccia, e mi pare che la guerra non stia aiutando le borse e i mercati. Anche se dicono che sarà una guerra breve (ma allora perché la chiamano “Infinita”?)
Per tutti questi motivi, temo che non riuscirò mai a permettermi quell’appartamento, e forse non avrò nemmeno le risorse per riuscire a mantenere un paio di figli stronzi. Credo che continuerò ad avere un lavoro difficile, e non finirò mai il mio romanzo, probabilmente non lo inizierò nemmeno. Credo che la mia compagna, anche volendo, non avrà il tempo di fare teatro, perché continuerà a lavorare più di otto ore al giorno. E se avremo amanti, saranno poveri cristi come noi, non registi di teatro, non Moniche Bellucci, e non avranno seconde case al mare in cui ospitarci. Insomma, in fin dei conti forse questi amanti non li avremo proprio, sotto un certo standard economico l’adulterio perde ogni romanticismo, diventa una povera, squallida cosa.
Di più: credo che se dopo vent’anni di società precaria esisterà ancora il bancomat, e io sarò stato così fortunato da conservare il mio, me lo terrò ben stretto, e se mio figlio lo userà per comprare un etto di fumo, prima lo romperò di botte, poi lo costringerò a rivendere quel fumo nella sua scuola per restituirmi il maltolto con gli interessi. Perché la precarietà rende tutti più nervosi e violenti, e la mia generazione non farà eccezione.
E credo che il giorno che mi capiterà un incidente, tipico deus ex machina delle moderne sceneggiature, forse dovrò indebitarmi per pagare l’operazione, forse non potrò permettermi una riabilitazione a regola d’arte. Insomma, forse alla fine resterò su una sedia a rotelle. E a quel punto tu dovrai volermi bene a tutti i costi, o assumere una badante più precaria di me, che mi spinga lungo il viale del tramonto aggirando le barriere architettoniche.
Insomma, credo che le cose non andranno così bene per noi due. Abbiamo contro tutte le statistiche del mondo, il buco dell’ozono, le micropolveri, le pensioni che paghiamo agli altri e che nessuno pagherà a noi. Meglio non pensare troppo al futuro. Meglio infilarci in un cinema, a guardare le case e le scenate di persone che anche se vanno in crisi stanno comunque meglio di noi. Così come una volta andava di moda la decadenza asburgica, destini infelici in un tripudio di stucchi e waltzer, così ora va in scena la decadenza della borghesia italiana. Ma il vero modello resta il Sudamerica: loro lo sanno da vent’anni, che gran consolazione sia per la povera gente sapere che Anche I Ricchi Piangono.
E noi piangiamo con loro, amore. È un momento difficile per incontrarsi, per volersi bene, per guardare avanti. Ma è il nostro momento. Tra un po’ scorreranno i titoli e si tratterà di uscire. Ma io non ho paura, almeno finché mi tieni la mano. E tu?
lunedì 24 febbraio 2003
Ingenuità
Se si pianta il seme della democrazia in Iraq, l'intera regione ne uscirà rivoluzionata, sostiene la dottrina Bush. Ci sarà, dicono, un virtuoso effetto domino. Questa è la nuova politica estera americana…
Ma i pacifisti sono ingenui? Alcuni sì, senza dubbio. Però non significa che abbiano il monopolio dell’ingenuità.
Prendi un “idealista conservatore”, Christian Rocca. In un lungo articolo sul Foglio spiega, dati alla mano, che il petrolio iracheno farebbe soltanto fallire i petrolieri texani. Il vero motivo per cui vale la pena bombardare l’Iraq è la democrazia…
In Iran la guerra rivoluzionaria è già in atto. La società civile (che in Iran c'è) è in rivolta, le manifestazioni contro il regime non si contano più, la partecipazione è incredibile, gli operai scioperano, i ragazzi scendono in piazza per il diritto di potersi tenere per mano. Più di metà della popolazione ha un'età inferiore ai 25 anni. Non ne possono più delle imposizioni dei mullah e della polizia religiosa, vogliono uscire per strada, divertirsi come i coetanei occidentali. Il programma tv più popolare è Baywatch, trasmesso via satellite dalla California.
Il regime crollerà. Questo si pensa a Washington. Specie se cadrà Saddam. Il destino di Iran e Iraq è comune. Non è immaginabile che il popolo iraniano tolleri ancora le imposizioni degli ayatollah, se la libertà arrivasse a Baghdad. L'effetto domino riguarderebbe anche la Siria, l'Arabia Saudita e di conseguenza aiuterà una soluzione pacifica della questione palestinese. E così, a cascata, la caduta di Teheran toglierà fiato agli Hezbollah in Libano. Anche la Siria, dipendente dal petrolio iracheno, sarebbe costretta a cambiare, a liberare il Libano, a lasciare in pace Israele, a chiudere i ponti con il terrorismo. Sembra Risiko, ma è la nuova politica americana.
Stasera è troppo tardi per definire il mio ingenuo concetto di “democrazia” o “libertà” (Sospetto che abbia comunque più a che fare con il concetto di responsabilità individuale e collettiva che con Baywatch). M’interessava però annotare quello di Rocca: per lui la libertà, la democrazia, consistono nel poter manifestare la propria simpatia per l’alleato americano e tenersi mano nella mano. Per ottenere questa svolta democratica in un Paese è sufficiente bombardare il Paese confinante.
Sarà probabilmente la mia ingenuità, ma non capisco in che modo il regime iraniano dovrebbe cadere, quando si troverà accerchiato tra tre protettorati americani (Afganistan, Iraq e Kuwait). Storicamente, in queste situazioni i regimi diventano ancor più autoritari e soffocano ogni tipo di dissenso interno. Ma probabilmente baywatch è più forte di ogni repressione.
Sarà ancora la mia ingenuità, ma io non capisco in che modo l’Iraq, una volta bombardato, si trasformerà di colpo in una libera democrazia, con cittadini sorridenti pronti a entrare nelle urne per votare un governo filo-americano. È andata così in Afganistan? (qualcuno ha capito com'è andata?) E se invece i fondamentalisti religiosi vincessero le elezioni, come in Algeria? A quel punto un Iraq democratico avrebbe diritto a dotarsi di armi di distruzioni di massa, come l’altra gloriosa democrazia del medio oriente, Israele?
E a proposito: nella regione c’è un popolo che cerca disperatamente di autogovernarsi attraverso forme di rappresentanza democratiche: sono i palestinesi. Certo, il fatto di vivere in un territorio occupato militarmente e vessato economicamente li rende fin troppo sensibili ai richiami del terrorismo: ma si tratta più di disperazione che di fanatismo religioso.
Forse sono troppo ingenuo a suggerire che ancor più di Saddam Hussein, ancor più di Osama Bin Laden, è la questione Palestinese il maggior motivo di frustrazione degli arabi nei confronti degli occidentali? E allora perché invece di seminare democrazia tramite bombardamenti in un terreno refrattario come l’Iraq, gli USA non si degnano di curare quell’esile pianticella che è l’Autorità Palestinese? Basterebbe così poco: ordinare il ritiro immediato dai Territori Occupati, e l’abbattimento della Grande Muraglia di Sharon. Perché non lo fanno? Non lo so. Non capisco.
È perché sono ingenuo.
Un povero, ingenuo pacifista.
Ho tanto da imparare.
Se si pianta il seme della democrazia in Iraq, l'intera regione ne uscirà rivoluzionata, sostiene la dottrina Bush. Ci sarà, dicono, un virtuoso effetto domino. Questa è la nuova politica estera americana…
Ma i pacifisti sono ingenui? Alcuni sì, senza dubbio. Però non significa che abbiano il monopolio dell’ingenuità.
Prendi un “idealista conservatore”, Christian Rocca. In un lungo articolo sul Foglio spiega, dati alla mano, che il petrolio iracheno farebbe soltanto fallire i petrolieri texani. Il vero motivo per cui vale la pena bombardare l’Iraq è la democrazia…
In Iran la guerra rivoluzionaria è già in atto. La società civile (che in Iran c'è) è in rivolta, le manifestazioni contro il regime non si contano più, la partecipazione è incredibile, gli operai scioperano, i ragazzi scendono in piazza per il diritto di potersi tenere per mano. Più di metà della popolazione ha un'età inferiore ai 25 anni. Non ne possono più delle imposizioni dei mullah e della polizia religiosa, vogliono uscire per strada, divertirsi come i coetanei occidentali. Il programma tv più popolare è Baywatch, trasmesso via satellite dalla California.
Il regime crollerà. Questo si pensa a Washington. Specie se cadrà Saddam. Il destino di Iran e Iraq è comune. Non è immaginabile che il popolo iraniano tolleri ancora le imposizioni degli ayatollah, se la libertà arrivasse a Baghdad. L'effetto domino riguarderebbe anche la Siria, l'Arabia Saudita e di conseguenza aiuterà una soluzione pacifica della questione palestinese. E così, a cascata, la caduta di Teheran toglierà fiato agli Hezbollah in Libano. Anche la Siria, dipendente dal petrolio iracheno, sarebbe costretta a cambiare, a liberare il Libano, a lasciare in pace Israele, a chiudere i ponti con il terrorismo. Sembra Risiko, ma è la nuova politica americana.
Stasera è troppo tardi per definire il mio ingenuo concetto di “democrazia” o “libertà” (Sospetto che abbia comunque più a che fare con il concetto di responsabilità individuale e collettiva che con Baywatch). M’interessava però annotare quello di Rocca: per lui la libertà, la democrazia, consistono nel poter manifestare la propria simpatia per l’alleato americano e tenersi mano nella mano. Per ottenere questa svolta democratica in un Paese è sufficiente bombardare il Paese confinante.
Sarà probabilmente la mia ingenuità, ma non capisco in che modo il regime iraniano dovrebbe cadere, quando si troverà accerchiato tra tre protettorati americani (Afganistan, Iraq e Kuwait). Storicamente, in queste situazioni i regimi diventano ancor più autoritari e soffocano ogni tipo di dissenso interno. Ma probabilmente baywatch è più forte di ogni repressione.
Sarà ancora la mia ingenuità, ma io non capisco in che modo l’Iraq, una volta bombardato, si trasformerà di colpo in una libera democrazia, con cittadini sorridenti pronti a entrare nelle urne per votare un governo filo-americano. È andata così in Afganistan? (qualcuno ha capito com'è andata?) E se invece i fondamentalisti religiosi vincessero le elezioni, come in Algeria? A quel punto un Iraq democratico avrebbe diritto a dotarsi di armi di distruzioni di massa, come l’altra gloriosa democrazia del medio oriente, Israele?
E a proposito: nella regione c’è un popolo che cerca disperatamente di autogovernarsi attraverso forme di rappresentanza democratiche: sono i palestinesi. Certo, il fatto di vivere in un territorio occupato militarmente e vessato economicamente li rende fin troppo sensibili ai richiami del terrorismo: ma si tratta più di disperazione che di fanatismo religioso.
Forse sono troppo ingenuo a suggerire che ancor più di Saddam Hussein, ancor più di Osama Bin Laden, è la questione Palestinese il maggior motivo di frustrazione degli arabi nei confronti degli occidentali? E allora perché invece di seminare democrazia tramite bombardamenti in un terreno refrattario come l’Iraq, gli USA non si degnano di curare quell’esile pianticella che è l’Autorità Palestinese? Basterebbe così poco: ordinare il ritiro immediato dai Territori Occupati, e l’abbattimento della Grande Muraglia di Sharon. Perché non lo fanno? Non lo so. Non capisco.
È perché sono ingenuo.
Un povero, ingenuo pacifista.
Ho tanto da imparare.
giovedì 20 febbraio 2003
Ogni tanto qui si parla di blog. Ripeto: è inevitabile
I blog sono ecologici (egologici?)
...un blog o weblog non è altro che un flusso di (in)coscienza alla Joyce in forma imbastardita per il web. Cioè un pappone di pensieri insulsi e sconnessi partoriti da qualche egocentrico ammiratore di sè stesso, che si ritiene talmente importante (à la Rochefoucauld) da dover fare dono delle sue perle all'universo mondo...
Mettiamo che un qualsiasi bloggatore (tipo questo) un bel giorno (tipo oggi) non sappia cosa scrivere.
Mettiamo che questo bloggatore, in cerca di ispirazione, si metta a curiosare nei blog altrui.
Si trova di tutto. Cose interessanti. Cose simpatiche. E, naturalmente, l’Orrore. Quello con la O maiuscola, quello che fa impazzire Marlon Brando in Apocalypse mo’.
Che cos’è l’Orrore? Un blog scritto male, nella forma o nel contenuto. Un blog eccessivamente egotico (alcuni lo sono più degli altri) o eccessivamente ideologico (dove per ideologia si intende la convinzione che chi non la pensa come me è un imbecille). Un blog infestato da commentatori assatanati (gli splinderiani conoscono bene questo tipo di fenomeno). Un blog scritto da un ragazzino/a, con l’acne giovanile che schizza dal monitor. Eccetera.
Eh, ne esistono, di blog così.
Anche parecchi.
E se mi mettessi a segnalarli? Probabilmente avrei risolto il problema dell’ispirazione, non soltanto oggi, ma per l’eternità. E sono sicuro che riuscirei anche ad essere divertente. Nonché intelligente, perché non c’è nulla che ci faccia sentire più intelligenti di segnalare le cretinate degli altri. Che è poi il motivo per cui noi italiani abbiamo una tv così stupida: ci fa sentire, per contrasto, molto intelligenti.
“Hai visto il grande fratello? Che scemenza”.
“Eh già”.
“Non sanno più cosa inventarsi”.
“Proprio”.
“Secondo me stavolta eliminano XXXXXX, è davvero un imbecille”.
“Ma anche YYYYYY non scherza”.
Anche a me, del resto, piace farmi bello sugli errori degli altri: forse è proprio il motivo per cui mi sono messo a scrivere.
Se trovo un film, o un articolo di quotidiano, o un libro, che mi sembra ridicolo, non mi risparmio. Perché dovrei avere pietà dei blog?
Un motivo c’è, e secondo me è fondamentale: i blog sono media ecologici.
Cerco di spiegarmi. Per me, la scrittura è (anche) il riempimento di uno spazio. Uno spazio fisico (la colonna di un quotidiano, la pagina di un libro), uno spazio temporale (la mia attenzione, che non è infinita). Chi scrive su un giornale a larga diffusione occupa uno spazio importante e ha il dovere di non sprecarlo.Stesso discorso per chi scrive un libro per una casa editrice prestigiosa, o per chi lavora in radio o in televisione.
Queste persone sono privilegiate (e sono, in teoria, professionisti): se qualche volta sbagliano, noi lettori-fruitori abbiamo il dovere di protestare. Di ridere di loro.
E ci capita spesso.
E quando, spenta la tv, ci ritroviamo su internet, crediamo che le regole del gioco siano le stesse: scovare il trash, metterlo alla berlina. Ma ci sbagliamo. Internet non funziona così.
Chi scrive su un blog ha ben poco in comune con chi lavora nei media tradizionali. Non è un privilegiato: è una persona qualunque che usa uno strumento accessibile a tutti. Anche quando è un personaggio famoso, non occupa più spazio di quanto non ne stia occupando io adesso.
E soprattutto – qui sta il punto – chi tiene un blog non dà fastidio a nessuno.
Il trash televisvo è una vergogna, perché lo stesso spazio potrebbe essere utilizzato per spettacoli di qualità. Il trash giornalistico è un deplorevole spreco di carta, un dileggio all’Amazzonia. Ma chi scrive su un blog non occupa nessuno spazio che qualcun altro potrebbe occupare meglio al suo posto.
Un blog è una casa, e in casa propria ognuno è il Re. Nessuno, in casa propria, ha il dovere di essere intelligente, costumato, maturo, responsabile.
Chi passa a visitare, invece, sarebbe tenuto a mantenere una certa buona creanza, perché è vero che le pareti sono trasparenti, ma nessuno lo ha invitato.
Per questo motivo credo che non sia giusto prendere in giro i blog altrui. Anche se questo significa rinunciare a un’inesauribile fonte d’ispirazione per post cinici e intelligenti. (E io ci terrei tanto, a sembrare cinico e intelligente).
Credo che gli idioti abbiano il diritto a scrivere idiozie sui loro blog. (Di più: credo che anche le persone intelligenti abbiano il diritto a scrivere idiozie sui loro blog). Credo che gli adolescenti abbiano il diritto di fare gli adolescenti, gli anziani abbiano il diritto a essere anziani, i trentenni complessati di rompere i coglioni coi loro complessi. E i fascisti? Anche i fascisti.
Mi spingo più in là: i blog hanno una profonda utilità sociale. Il mondo è sempre stato pieno di persone che non si trovavano a loro agio con la propria identità e con la propria mediocrità. Chi sono? Sono le persone che attaccano lunghe pezze al bar, quelli che scrivono lunghe lettere ai giornali. Quelli che occupano i forum e le mailing list con diluvi di considerazioni personali. Quelli che importunano i consulenti editoriali con manoscritti di trecento pagine. Quelli che vanno ai provini mediaset (o anche rai). Eccetera.
Da qualche anno, tutte queste persone hanno un nuovo strumento per sfogare i propri egotici impulsi: il blog. Il vero merito dei blog sta qui, nei fiumi d’inchiostro risparmiati, nelle scrivanie dei consulenti editoriali più pulite, nei cestini delle redazioni dei giornali più vuoti. Nei bar, dove le discussioni filano più lisce. Questa è la missione dei blog: assorbire l’egotismo degli utenti, coinvogliarlo in un ambiente confortevole, con un notevole risparmio di tempo e di risorse.
Diamo un blog a ogni egotista frustrato: non solo ce lo saremo tolti per un po’ dai coglioni, ma gli avremo dato anche una chance per addomesticare il suo egotismo, trasformarlo in qualcosa di gradevole o perfino utile.
No, non sto scherzando: sto parlando di me.
Io credo di essere una persona migliore da quando ho un blog. Ho pensieri più chiari, perché mi sono abituato a metterli in nero su bianco. Se mi ritrovo coinvolto in una discussione, difendo i miei argomenti con meno aggressività. Mi sfogo qui. Mi costa relativamente poco, e non do fastidio a nessuno.
Di più. C’è persino gente che viene a leggermi. Quello che prima era solo frustrazione, ansia di avere delle idee e non riuscire a spiegarle, è diventato qualcosa di gradevole per il prossimo.
Non so se i blog avranno un futuro, ma credo che il mondo sarebbe un ambiente più confortevole, il giorno che tutti aprissero un loro blog.
Dedicato a Uomonero – che lascia il web italiano molto migliore di quando lo trovato
I blog sono ecologici (egologici?)
...un blog o weblog non è altro che un flusso di (in)coscienza alla Joyce in forma imbastardita per il web. Cioè un pappone di pensieri insulsi e sconnessi partoriti da qualche egocentrico ammiratore di sè stesso, che si ritiene talmente importante (à la Rochefoucauld) da dover fare dono delle sue perle all'universo mondo...
Mettiamo che un qualsiasi bloggatore (tipo questo) un bel giorno (tipo oggi) non sappia cosa scrivere.
Mettiamo che questo bloggatore, in cerca di ispirazione, si metta a curiosare nei blog altrui.
Si trova di tutto. Cose interessanti. Cose simpatiche. E, naturalmente, l’Orrore. Quello con la O maiuscola, quello che fa impazzire Marlon Brando in Apocalypse mo’.
Che cos’è l’Orrore? Un blog scritto male, nella forma o nel contenuto. Un blog eccessivamente egotico (alcuni lo sono più degli altri) o eccessivamente ideologico (dove per ideologia si intende la convinzione che chi non la pensa come me è un imbecille). Un blog infestato da commentatori assatanati (gli splinderiani conoscono bene questo tipo di fenomeno). Un blog scritto da un ragazzino/a, con l’acne giovanile che schizza dal monitor. Eccetera.
Eh, ne esistono, di blog così.
Anche parecchi.
E se mi mettessi a segnalarli? Probabilmente avrei risolto il problema dell’ispirazione, non soltanto oggi, ma per l’eternità. E sono sicuro che riuscirei anche ad essere divertente. Nonché intelligente, perché non c’è nulla che ci faccia sentire più intelligenti di segnalare le cretinate degli altri. Che è poi il motivo per cui noi italiani abbiamo una tv così stupida: ci fa sentire, per contrasto, molto intelligenti.
“Hai visto il grande fratello? Che scemenza”.
“Eh già”.
“Non sanno più cosa inventarsi”.
“Proprio”.
“Secondo me stavolta eliminano XXXXXX, è davvero un imbecille”.
“Ma anche YYYYYY non scherza”.
Anche a me, del resto, piace farmi bello sugli errori degli altri: forse è proprio il motivo per cui mi sono messo a scrivere.
Se trovo un film, o un articolo di quotidiano, o un libro, che mi sembra ridicolo, non mi risparmio. Perché dovrei avere pietà dei blog?
Un motivo c’è, e secondo me è fondamentale: i blog sono media ecologici.
Cerco di spiegarmi. Per me, la scrittura è (anche) il riempimento di uno spazio. Uno spazio fisico (la colonna di un quotidiano, la pagina di un libro), uno spazio temporale (la mia attenzione, che non è infinita). Chi scrive su un giornale a larga diffusione occupa uno spazio importante e ha il dovere di non sprecarlo.Stesso discorso per chi scrive un libro per una casa editrice prestigiosa, o per chi lavora in radio o in televisione.
Queste persone sono privilegiate (e sono, in teoria, professionisti): se qualche volta sbagliano, noi lettori-fruitori abbiamo il dovere di protestare. Di ridere di loro.
E ci capita spesso.
E quando, spenta la tv, ci ritroviamo su internet, crediamo che le regole del gioco siano le stesse: scovare il trash, metterlo alla berlina. Ma ci sbagliamo. Internet non funziona così.
Chi scrive su un blog ha ben poco in comune con chi lavora nei media tradizionali. Non è un privilegiato: è una persona qualunque che usa uno strumento accessibile a tutti. Anche quando è un personaggio famoso, non occupa più spazio di quanto non ne stia occupando io adesso.
E soprattutto – qui sta il punto – chi tiene un blog non dà fastidio a nessuno.
Il trash televisvo è una vergogna, perché lo stesso spazio potrebbe essere utilizzato per spettacoli di qualità. Il trash giornalistico è un deplorevole spreco di carta, un dileggio all’Amazzonia. Ma chi scrive su un blog non occupa nessuno spazio che qualcun altro potrebbe occupare meglio al suo posto.
Un blog è una casa, e in casa propria ognuno è il Re. Nessuno, in casa propria, ha il dovere di essere intelligente, costumato, maturo, responsabile.
Chi passa a visitare, invece, sarebbe tenuto a mantenere una certa buona creanza, perché è vero che le pareti sono trasparenti, ma nessuno lo ha invitato.
Per questo motivo credo che non sia giusto prendere in giro i blog altrui. Anche se questo significa rinunciare a un’inesauribile fonte d’ispirazione per post cinici e intelligenti. (E io ci terrei tanto, a sembrare cinico e intelligente).
Credo che gli idioti abbiano il diritto a scrivere idiozie sui loro blog. (Di più: credo che anche le persone intelligenti abbiano il diritto a scrivere idiozie sui loro blog). Credo che gli adolescenti abbiano il diritto di fare gli adolescenti, gli anziani abbiano il diritto a essere anziani, i trentenni complessati di rompere i coglioni coi loro complessi. E i fascisti? Anche i fascisti.
Mi spingo più in là: i blog hanno una profonda utilità sociale. Il mondo è sempre stato pieno di persone che non si trovavano a loro agio con la propria identità e con la propria mediocrità. Chi sono? Sono le persone che attaccano lunghe pezze al bar, quelli che scrivono lunghe lettere ai giornali. Quelli che occupano i forum e le mailing list con diluvi di considerazioni personali. Quelli che importunano i consulenti editoriali con manoscritti di trecento pagine. Quelli che vanno ai provini mediaset (o anche rai). Eccetera.
Da qualche anno, tutte queste persone hanno un nuovo strumento per sfogare i propri egotici impulsi: il blog. Il vero merito dei blog sta qui, nei fiumi d’inchiostro risparmiati, nelle scrivanie dei consulenti editoriali più pulite, nei cestini delle redazioni dei giornali più vuoti. Nei bar, dove le discussioni filano più lisce. Questa è la missione dei blog: assorbire l’egotismo degli utenti, coinvogliarlo in un ambiente confortevole, con un notevole risparmio di tempo e di risorse.
Diamo un blog a ogni egotista frustrato: non solo ce lo saremo tolti per un po’ dai coglioni, ma gli avremo dato anche una chance per addomesticare il suo egotismo, trasformarlo in qualcosa di gradevole o perfino utile.
No, non sto scherzando: sto parlando di me.
Io credo di essere una persona migliore da quando ho un blog. Ho pensieri più chiari, perché mi sono abituato a metterli in nero su bianco. Se mi ritrovo coinvolto in una discussione, difendo i miei argomenti con meno aggressività. Mi sfogo qui. Mi costa relativamente poco, e non do fastidio a nessuno.
Di più. C’è persino gente che viene a leggermi. Quello che prima era solo frustrazione, ansia di avere delle idee e non riuscire a spiegarle, è diventato qualcosa di gradevole per il prossimo.
Non so se i blog avranno un futuro, ma credo che il mondo sarebbe un ambiente più confortevole, il giorno che tutti aprissero un loro blog.
Dedicato a Uomonero – che lascia il web italiano molto migliore di quando lo trovato
mercoledì 19 febbraio 2003
Stasera penso a Em., che è molto lontano.
L’anno scorso mi disse: “Vado in Palestina”, io gli risposi: “quasi quasi vengo anch’io”.
Quest’anno mi ha detto: “Vado in Iraq”, io gli ho risposto: “sei matto”.
Oggi dovrebbe essere a Bassora. Il suo 15 febbraio l’ha fatto a Bagdad.
... [la sintassi è quella che è, provateci voi con le tastiere del medioriente] Qui tutto ok, la manifestazione bellissima. Temevamo che si inserissero iracheni con le foto di S.H. ma cosi' non è stato. Però la gente, i bambini, le donne ci salutavamo dalla finestra con sorrisi e "thank you", gli operai dalla impalcature ci chiedevano le bandiere della pace per sventolarle. Bello. […]
Per il resto incontri, visita al suk, alla università, al rifugio della famosa strage del 92. La gente e la città sono molto più laiche di come pensavo. Rarissimi i burka e perfino i veli non tanti, molte donne vestite occidentali, la gente ti parla, accetta le foto perfino nella moschea. Certo niente alcool, ecc, la strada è lunga ma diversa da come ce la raccontano. La paura non si sente, viene esorcizzata con vita intensa e festosa, molti matrimoni, gente in strada, musica, ecc. Un po' sarà anche che non sanno tutto e un po' che sono fatalisti ma non del tutto, vedo la tv in camera e non parla quasi d'altro.
Em. non lo sa (e quando lo saprà s’incazzerà molto), ma è un porco fascista. Almeno stando a Fred Barnes, direttore del Weekly Standard (segnalato da Camillo). Come tanti altri opinionisti non solo americani, Barnes ha improvvisamente scoperto che in Iraq c’è una vergognosa dittatura da abbattere, altro che petrolio. E chi non lo ha ancora capito è un “porco fascista” (testuale: “Fascist pigs”). Compresi i milioni che hanno manifestato sabato.
Siam tre (milioni di) piccoli porcellin
Mi scuserete per la traduzione casereccia.
“La corruzione della Sinistra si è aggravata negli ultimi anni. Questo non è mai stato tanto evidente come lo scorso Sabato, quando massicce manifestazioni contro la guerra si sono svolte a New York, San Francisco e altre città degli Stati Uniti e del mondo, tra cui Londra. Forse che i manifestanti hanno marciato contro il consolato iracheno di New York per chiedere di porre fine ai crimini di Saddam? No. Forse che lo hanno condannato nei loro slogan e nei loro striscioni? Macchè. Forse che hanno difeso le vittime di Saddam? No. La sinistra, oggi, sta sdoganando i dittatori fascisti. Il suo nemico sono gli Stati Uniti”.
“Mr. Barnes?
Mr. Barnes, la chiamo dall’Italia. È una nazione fuori dagli Stati Uniti. Ha presente Roma? Lì intorno. Roma, sì, il Colosseo, Ridley Scott ci ha fatto un film.
Anche a Roma c’è stata una manifestazione, un po’ più grande che a Londra. Eravamo tre milioni. Mancava praticamente solo il Papa, per motivi di salute. Chi è il Papa? È… un capo religioso, molto importante. Fascista anche lui, evidentemente.
Lo sa che il Fascismo lo abbiamo inventato noi? Poi, grazie a voi, lo abbiamo scacciato. Anche se a dire il vero, nell’inverno del ’44 potevate darvi una mossa, invece di lasciarci i tedeschi in casa … ma è inutile recriminare. Ci avete salvati. Vi saremo eternamente grati. Oddio, senza l’Armata Rossa ci avreste messo ancora più tempo, ma noi preferiamo essere grati a voi piuttosto che all’Armata Rossa. Voi siete più simpatici, anche se non avete mai brillato in Storia e Geografia.
Mr. Barnes, ho letto il suo ultimo editoriale. Secondo lei tutti quelli che danno una chance a Saddam Hussein sono porci fascisti. Beh, è un’idea coerente. E io apprezzo la coerenza.
Apprezzo la coerenza che la portò, negli anni Ottanta, a scrivere vibranti editoriali contro l’amministrazione Reagan che finanziava Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran. A quel tempo scriveva che non è giusto finanziare una dittatura fascista per combattere una dittatura religiosa. Ed aveva perfettamente ragione.
Apprezzo la coerenza che la portò, nel ’91, a dare del porco fascista a George Bush Primo, quando ordinò al generale Schwarzkopf di ritirarsi invece di entrare a Bagdad. Aveva ragione: quale insulso calcolo geopolitico poteva valere più della libertà di un popolo? Forse che i cittadini iracheni non avevano lo stesso diritto alla libertà degli emiri del Kuwait?
Per tutti questi anni ha continuato a tenerci informato sugli abusi criminali di quel regime. Non ha mai distolto lo sguardo. Diede del porco fascista a Clinton, che a parte qualche bombardamento di routine non sembrava assolutamente intenzionato a cambiare nulla in Iraq. Spiegò con pazienza che anche l’embargo, che colpisce la popolazione e rafforza la classe dirigente (e quindi la dittatura) in realtà è solo una porcata fascista. E aveva ragione, Mr. Barnes. Lei è l’autentico paladino delle libertà irachene.
Mentre noi, poveri illusi pacifisti, per tutto questo tempo neanche sapevamo dove fosse sulla cartina, l’Iraq. Non ce n’è mai fregato niente. Lo abbiamo tirato fuori solo come scusa per parlar male dell’America.
Il fatto è che oltre a essere porci e fascisti, siamo anche schifosamente modaioli. Nel 2001 ce la menavamo tanto con l’Afganistan, dicevamo che era ingiusto bombardarlo: ma che ne sapevamo? Credevamo che i bombardamenti anglo-americani avessero lasciato diverse migliaia di vittime, ma a quanto pare ci sbagliavamo: le vittime civili sono solo poche centinaia, “few hundred”. Lo dice lei, che è un giornalista informato, noi non abbiamo motivo per dubitarne. Quest’anno c’è venuta la smania per Saddam Hussein. Ma ci passerà presto. Piuttosto c’è da chiedersi cosa ci verrà in mente dopo. L’Iran? Il Venezuela? Il mondo è pieno di dittatori da difendere. C’è solo l’imbarazzo della scelta, per dei piccoli porcellini fascisti come noi”.
(Se qualcuno mi dà una mano a tradurre, gliela spedisco pure.
Dite che capirà l’ironia?)
L’anno scorso mi disse: “Vado in Palestina”, io gli risposi: “quasi quasi vengo anch’io”.
Quest’anno mi ha detto: “Vado in Iraq”, io gli ho risposto: “sei matto”.
Oggi dovrebbe essere a Bassora. Il suo 15 febbraio l’ha fatto a Bagdad.
... [la sintassi è quella che è, provateci voi con le tastiere del medioriente] Qui tutto ok, la manifestazione bellissima. Temevamo che si inserissero iracheni con le foto di S.H. ma cosi' non è stato. Però la gente, i bambini, le donne ci salutavamo dalla finestra con sorrisi e "thank you", gli operai dalla impalcature ci chiedevano le bandiere della pace per sventolarle. Bello. […]
Per il resto incontri, visita al suk, alla università, al rifugio della famosa strage del 92. La gente e la città sono molto più laiche di come pensavo. Rarissimi i burka e perfino i veli non tanti, molte donne vestite occidentali, la gente ti parla, accetta le foto perfino nella moschea. Certo niente alcool, ecc, la strada è lunga ma diversa da come ce la raccontano. La paura non si sente, viene esorcizzata con vita intensa e festosa, molti matrimoni, gente in strada, musica, ecc. Un po' sarà anche che non sanno tutto e un po' che sono fatalisti ma non del tutto, vedo la tv in camera e non parla quasi d'altro.
Em. non lo sa (e quando lo saprà s’incazzerà molto), ma è un porco fascista. Almeno stando a Fred Barnes, direttore del Weekly Standard (segnalato da Camillo). Come tanti altri opinionisti non solo americani, Barnes ha improvvisamente scoperto che in Iraq c’è una vergognosa dittatura da abbattere, altro che petrolio. E chi non lo ha ancora capito è un “porco fascista” (testuale: “Fascist pigs”). Compresi i milioni che hanno manifestato sabato.
Siam tre (milioni di) piccoli porcellin
Mi scuserete per la traduzione casereccia.
“La corruzione della Sinistra si è aggravata negli ultimi anni. Questo non è mai stato tanto evidente come lo scorso Sabato, quando massicce manifestazioni contro la guerra si sono svolte a New York, San Francisco e altre città degli Stati Uniti e del mondo, tra cui Londra. Forse che i manifestanti hanno marciato contro il consolato iracheno di New York per chiedere di porre fine ai crimini di Saddam? No. Forse che lo hanno condannato nei loro slogan e nei loro striscioni? Macchè. Forse che hanno difeso le vittime di Saddam? No. La sinistra, oggi, sta sdoganando i dittatori fascisti. Il suo nemico sono gli Stati Uniti”.
“Mr. Barnes?
Mr. Barnes, la chiamo dall’Italia. È una nazione fuori dagli Stati Uniti. Ha presente Roma? Lì intorno. Roma, sì, il Colosseo, Ridley Scott ci ha fatto un film.
Anche a Roma c’è stata una manifestazione, un po’ più grande che a Londra. Eravamo tre milioni. Mancava praticamente solo il Papa, per motivi di salute. Chi è il Papa? È… un capo religioso, molto importante. Fascista anche lui, evidentemente.
Lo sa che il Fascismo lo abbiamo inventato noi? Poi, grazie a voi, lo abbiamo scacciato. Anche se a dire il vero, nell’inverno del ’44 potevate darvi una mossa, invece di lasciarci i tedeschi in casa … ma è inutile recriminare. Ci avete salvati. Vi saremo eternamente grati. Oddio, senza l’Armata Rossa ci avreste messo ancora più tempo, ma noi preferiamo essere grati a voi piuttosto che all’Armata Rossa. Voi siete più simpatici, anche se non avete mai brillato in Storia e Geografia.
Mr. Barnes, ho letto il suo ultimo editoriale. Secondo lei tutti quelli che danno una chance a Saddam Hussein sono porci fascisti. Beh, è un’idea coerente. E io apprezzo la coerenza.
Apprezzo la coerenza che la portò, negli anni Ottanta, a scrivere vibranti editoriali contro l’amministrazione Reagan che finanziava Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran. A quel tempo scriveva che non è giusto finanziare una dittatura fascista per combattere una dittatura religiosa. Ed aveva perfettamente ragione.
Apprezzo la coerenza che la portò, nel ’91, a dare del porco fascista a George Bush Primo, quando ordinò al generale Schwarzkopf di ritirarsi invece di entrare a Bagdad. Aveva ragione: quale insulso calcolo geopolitico poteva valere più della libertà di un popolo? Forse che i cittadini iracheni non avevano lo stesso diritto alla libertà degli emiri del Kuwait?
Per tutti questi anni ha continuato a tenerci informato sugli abusi criminali di quel regime. Non ha mai distolto lo sguardo. Diede del porco fascista a Clinton, che a parte qualche bombardamento di routine non sembrava assolutamente intenzionato a cambiare nulla in Iraq. Spiegò con pazienza che anche l’embargo, che colpisce la popolazione e rafforza la classe dirigente (e quindi la dittatura) in realtà è solo una porcata fascista. E aveva ragione, Mr. Barnes. Lei è l’autentico paladino delle libertà irachene.
Mentre noi, poveri illusi pacifisti, per tutto questo tempo neanche sapevamo dove fosse sulla cartina, l’Iraq. Non ce n’è mai fregato niente. Lo abbiamo tirato fuori solo come scusa per parlar male dell’America.
Il fatto è che oltre a essere porci e fascisti, siamo anche schifosamente modaioli. Nel 2001 ce la menavamo tanto con l’Afganistan, dicevamo che era ingiusto bombardarlo: ma che ne sapevamo? Credevamo che i bombardamenti anglo-americani avessero lasciato diverse migliaia di vittime, ma a quanto pare ci sbagliavamo: le vittime civili sono solo poche centinaia, “few hundred”. Lo dice lei, che è un giornalista informato, noi non abbiamo motivo per dubitarne. Quest’anno c’è venuta la smania per Saddam Hussein. Ma ci passerà presto. Piuttosto c’è da chiedersi cosa ci verrà in mente dopo. L’Iran? Il Venezuela? Il mondo è pieno di dittatori da difendere. C’è solo l’imbarazzo della scelta, per dei piccoli porcellini fascisti come noi”.
(Se qualcuno mi dà una mano a tradurre, gliela spedisco pure.
Dite che capirà l’ironia?)
martedì 18 febbraio 2003
Eros e thanatos uniti indissolubilmente come sempre, più di sempre, sotto un muro di chitarre melodiosamente sporche e disturbate, tra “Noise” e avanguardia. “La scelta ha a che fare con “Le lezioni americane”, di Italo Calvino, un libro che mi è stato regalato di recente e che sulla leggerezza dice cose folgoranti”.
(I Marlene Kuntz sull'Espresso...)
Il popolo lo vuole, il popolo si becchi il
Basic Culture Simulator 1.3
(mai più nozioni superflue)
La citazione qui sopra è un semplice esempio di come fare per non sembrare colti in due righe. Infatti:
– Non si dice mai, mai che un libro “ci è stato regalato di recente”! La vera persona colta ha già letto tutti i libri del mondo prima che qualcuno glieli regalasse.
– In effetti, la persona veramente colta non usa mai il verbo “leggere” riferito a un libro. I libri non si leggono mai! I libri si rileggono soltanto! (“Rileggevo giusto ieri le lezioni americane di Calvino, e sono rimasto ancora una volta folgorato…”)
– Infine, se proprio dobbiamo folgorarci con un libro, sarebbe opportuno evitare di farlo nelle prime pagine, perché così suggeriamo l’idea di non avere letto oltre. Uno dei motivi per cui in tanti citano la leggerezza di Calvino, è che si trova nelle prime dieci pagine delle Lezioni Americane. Per questo il mio consiglio è: cominciate a leggere un libro da pagina 100. Poi, alla prima folgorazione, potete pure fermarvi, ma darete un’impressione di maggior serietà.
E proseguiamo coi vostri dotti contributi:
da Vinci, Leonardo: questa ditela che fa effetto: “Ha attraversato tutte le arti con il talento del neofita”. Nella sua bottega ha inventato, scoperto, dipinto, scolpito, inchiappettato i suoi apprendisti. Ma soprattutto non dimenticatevi di dire che mangiava e defecava allo stesso tempo (non ditelo a tavola!)! (Uiallalla)
D’Annunzio, Gabriele: I maschietti lo ricordano per l’uso piuttosto scanzonato delle costole (una leggenda che passa di spogliatoio scolastico in spogliatoio scolastico); le femminucce gradiranno sapere che ha dato il nome alla Rinascente. Entrambi poi ricordano la Pioggia nel Pineto, una poesia che descrive con un profluvio di versi brevi la tipica situazione degli spot badedas: una tipa cammina in un bosco con una maglietta bagnata.
(Uno dei miei massimi successi come prof fu quando lessi la Pioggia nel Pineto in classe, per dimostrare come si leggono le poesie. All’ultimo “Ermione” partì un applauso spontaneo:
“Ma almeno avete capito di cosa parla?”
“Assolutamente no, prof!”)
Mann, Thomas: scrittore tedesco. Da non confondere con il fratello, comunista. Lui invece era omosessuale. Quando ti parlano di un libro noioso citare "La montagna incantata" : 1000 pagine in un sanatorio dove non succede assolutamente nulla. Tanto nessuno l'ha letto, hanno letto tutti "la morte a venezia" perché è corto.
(Massimo)
Mendel, Gregor: Abate boemo, naturalista. Evidentemente i frati non hanno molto da fare nei conventi, sicche' il buon Gregor si mise a studiare le piantine di piselli. In pratica, la prima teoria degli OGM. (Marcello Barisonzi)
Pascal, Blaise: personaggio confuso, religioso, filosofo, matematico...Ha inventato la calcolatrice da piccolo per aiutare il papà a fare i conti, ma la cosa più famosa è il linguaggio Pascal per il computer (per una spruzzata di conoscenza di computer: "ma ormai non lo usa più nessuno: meglio il C++!") (Apicella)
Rousseau, Gian Giacomo: ha scritto l'"Emilio" per spiegare all'umanità come si allevano i bambini e come si educano i giovani. Peccato che poi ha mandato i suoi 5 figli in orfanotrofio!
Gli anarchici, poi, vedono in Rousseau il punto di riferimento culturale. Ah, chiamava la sua morosa "Mamma". Era permalosissimo e si faceva fino a 10 clisteri al mese. (Bramiero Pinna)
Saba, Umberto : Saba è da citare solo con gli amici gay o triestini, dal momento che nessun altro lo conosce. E' una versione contemporanea di Leopardi ma essendo gay non fa battere il cuore alle prof.
(Luca)
Schroedinger, Erwin: Fisico austriaco, fondatore della meccanica quantistica.
Famoso il suo esperimento del "gatto di Schroedinger": se chiudamo un gatto in una scatola, non possiamo sapere se sia morto o vivo finche' la scatola non viene riaperta; quindi, finche' il gatto si trova dentro la scatola, lo possiamo definire come 50% vivo e 50% morto. Scrisse il suo piu' famoso lavoro sulla meccanica quantistica in uno chalet di montagna, spassandosela con l'amante. Ebbe tre figli ileggittimi da mogli di colleghi. (Marcello Barisonzi)
la fisica quantistica: "e, come diceva aisenberg [mi raccomando! mai aspirare la "a" iniziale!], se conosci la velocità di un oggetto non conosci la sua posizione - o era viceversa? bè, comunque, fai conto che sei in macchina: se sei dentro leggi il tachimetro e vedi a quanto vai, ma non puoi sapere in che punto della strada sei finché non ti fermi".(Delio)
Queneau, Raymond: enigmista francese, in un libro (Esercizi di stile) ha scritto la stessa piccola storia in cento stili diversi. Una bazzecola. Zop è molto più bravo…
(I Marlene Kuntz sull'Espresso...)
Il popolo lo vuole, il popolo si becchi il
Basic Culture Simulator 1.3
(mai più nozioni superflue)
La citazione qui sopra è un semplice esempio di come fare per non sembrare colti in due righe. Infatti:
– Non si dice mai, mai che un libro “ci è stato regalato di recente”! La vera persona colta ha già letto tutti i libri del mondo prima che qualcuno glieli regalasse.
– In effetti, la persona veramente colta non usa mai il verbo “leggere” riferito a un libro. I libri non si leggono mai! I libri si rileggono soltanto! (“Rileggevo giusto ieri le lezioni americane di Calvino, e sono rimasto ancora una volta folgorato…”)
– Infine, se proprio dobbiamo folgorarci con un libro, sarebbe opportuno evitare di farlo nelle prime pagine, perché così suggeriamo l’idea di non avere letto oltre. Uno dei motivi per cui in tanti citano la leggerezza di Calvino, è che si trova nelle prime dieci pagine delle Lezioni Americane. Per questo il mio consiglio è: cominciate a leggere un libro da pagina 100. Poi, alla prima folgorazione, potete pure fermarvi, ma darete un’impressione di maggior serietà.
E proseguiamo coi vostri dotti contributi:
da Vinci, Leonardo: questa ditela che fa effetto: “Ha attraversato tutte le arti con il talento del neofita”. Nella sua bottega ha inventato, scoperto, dipinto, scolpito, inchiappettato i suoi apprendisti. Ma soprattutto non dimenticatevi di dire che mangiava e defecava allo stesso tempo (non ditelo a tavola!)! (Uiallalla)
D’Annunzio, Gabriele: I maschietti lo ricordano per l’uso piuttosto scanzonato delle costole (una leggenda che passa di spogliatoio scolastico in spogliatoio scolastico); le femminucce gradiranno sapere che ha dato il nome alla Rinascente. Entrambi poi ricordano la Pioggia nel Pineto, una poesia che descrive con un profluvio di versi brevi la tipica situazione degli spot badedas: una tipa cammina in un bosco con una maglietta bagnata.
(Uno dei miei massimi successi come prof fu quando lessi la Pioggia nel Pineto in classe, per dimostrare come si leggono le poesie. All’ultimo “Ermione” partì un applauso spontaneo:
“Ma almeno avete capito di cosa parla?”
“Assolutamente no, prof!”)
Mann, Thomas: scrittore tedesco. Da non confondere con il fratello, comunista. Lui invece era omosessuale. Quando ti parlano di un libro noioso citare "La montagna incantata" : 1000 pagine in un sanatorio dove non succede assolutamente nulla. Tanto nessuno l'ha letto, hanno letto tutti "la morte a venezia" perché è corto.
(Massimo)
Mendel, Gregor: Abate boemo, naturalista. Evidentemente i frati non hanno molto da fare nei conventi, sicche' il buon Gregor si mise a studiare le piantine di piselli. In pratica, la prima teoria degli OGM. (Marcello Barisonzi)
Pascal, Blaise: personaggio confuso, religioso, filosofo, matematico...Ha inventato la calcolatrice da piccolo per aiutare il papà a fare i conti, ma la cosa più famosa è il linguaggio Pascal per il computer (per una spruzzata di conoscenza di computer: "ma ormai non lo usa più nessuno: meglio il C++!") (Apicella)
Rousseau, Gian Giacomo: ha scritto l'"Emilio" per spiegare all'umanità come si allevano i bambini e come si educano i giovani. Peccato che poi ha mandato i suoi 5 figli in orfanotrofio!
Gli anarchici, poi, vedono in Rousseau il punto di riferimento culturale. Ah, chiamava la sua morosa "Mamma". Era permalosissimo e si faceva fino a 10 clisteri al mese. (Bramiero Pinna)
Saba, Umberto : Saba è da citare solo con gli amici gay o triestini, dal momento che nessun altro lo conosce. E' una versione contemporanea di Leopardi ma essendo gay non fa battere il cuore alle prof.
(Luca)
Schroedinger, Erwin: Fisico austriaco, fondatore della meccanica quantistica.
Famoso il suo esperimento del "gatto di Schroedinger": se chiudamo un gatto in una scatola, non possiamo sapere se sia morto o vivo finche' la scatola non viene riaperta; quindi, finche' il gatto si trova dentro la scatola, lo possiamo definire come 50% vivo e 50% morto. Scrisse il suo piu' famoso lavoro sulla meccanica quantistica in uno chalet di montagna, spassandosela con l'amante. Ebbe tre figli ileggittimi da mogli di colleghi. (Marcello Barisonzi)
la fisica quantistica: "e, come diceva aisenberg [mi raccomando! mai aspirare la "a" iniziale!], se conosci la velocità di un oggetto non conosci la sua posizione - o era viceversa? bè, comunque, fai conto che sei in macchina: se sei dentro leggi il tachimetro e vedi a quanto vai, ma non puoi sapere in che punto della strada sei finché non ti fermi".(Delio)
Queneau, Raymond: enigmista francese, in un libro (Esercizi di stile) ha scritto la stessa piccola storia in cento stili diversi. Una bazzecola. Zop è molto più bravo…
lunedì 17 febbraio 2003
Marciare o marcire
Quello che mi sarebbe piaciuto sentire, il giorno dopo, non sono i soliti dibattiti intorno alle cifre (tra due e tre milioni sembra che non faccia una grande differenza), e nemmeno il solito Bertinotti raggiante che annuncia: “È nato un nuovo soggetto politico” (un altro? Ma non era nato l’anno scorso, o l’anno prima?)
Quello che mi piacerebbe sentire, o leggere, e che non ho trovato (ma onestamente non ho cercato molto), è una riflessione scientifica su questo fatto: in Italia, da due o tre anni a questa parte, si radunano in piazza folle oceaniche. Perché?
La prima risposta spontanea è che si tratta di un momento storico senza precedenti, ma se abbiamo un po’ di memoria e di onestà intellettuale dobbiamo ammettere che l’unica cosa speciale di questo momento storico è il fatto che lo stiamo vivendo adesso. Per il resto, l’inverno 2002-2003 sembra un collage di momenti storici del passato: c’è una guerra nel golfo alle porte (come 12 anni fa) e Berlusconi al governo (come 9 anni fa). Anche 12 e 9 anni fa si organizzavano manifestazioni nazionali. Ma non riuscivano così oceaniche. Cos’è cambiato, esattamente?
C’è chi spiega il fenomeno come una reazione al “vuoto della politica” (come ad esempio Ilvo Diamanti sulla Repubblica di domenica (“Quel vuoto della politica che crea partecipazione”):
È che il linguaggio della politica prevalente, inaridito, povero, chiuso, genera claustrofobia politica; e suscita una diffusa domanda di partecipazione e condivisione fuori e oltre i modelli tradizionali
Non mi basta. Da quando sto al mondo sento dire che il linguaggio della politica è inaridito, povero, chiuso, claustrofobico; però è solo da due anni che mi ritrovo in strade e piazze insieme a milioni di persone. Dev’esserci qualcosa di nuovo, perché la crisi (anche economica) dei grandi partiti di massa dura da più di quindici anni. E in ogni caso non mi sembrerebbe un motivo a favore, al contrario.
Proviamo a sgomberare il campo da ogni residuato ideologico. Se tanta gente si ritrova in piazza, non sarà per una mera questione tecnica? Forse che l’innovazione tecnologica lo ha reso in qualche modo più facile? Per quanto riguarda i trasporti, no di certo: viaggiare in treno o in corriera continua a essere – per i manifestanti – comodo, costoso e pericoloso. (Ogni volta che scendo da una corriera mi vien voglia di baciare il suolo. Sabato il nostro conducente si era perso nel Raccordo Anulare, e abbiamo sorpassato un’altra corriera che aveva tamponato una volante della polizia).
L’unica vera innovazione che mi viene in mente sono i cellulari. Molta gente, che forse prima avrebbe avuto paura di perdersi nella folla e non ritrovare più la sua comitiva, oggi non conosce più questo tipo di paura: s’infila il cellulare nello zaino e va nella manifestazione. Salvo bestemmiare, perché in un caso su tre la rete non tiene e il caos diventa generale: a parte questo, il corteo è diventata una di quelle situzioni che non riesci più a immaginare senza cellulare (“ma come diavolo facevano prima?”)
Già che ci siamo, potremmo timidamente suggerire che anche Internet c’entri in qualche modo. Gli organi di partito non esistono più (a stento esistono ancora i partiti), i grandi leader hanno altro da fare che invitare alle adunate (tipo brigare per un posto in prima fila da Vespa): ma le mailing list arrivano ogni giorno a centinaia di migliaia di italiani. Magari non le leggiamo, ma le teniamo lì: quando poi ci ricordiamo che il tal giorno c’è una manifestazione, le informazioni pratiche le andiamo a cercare nella nostra casella. È solo un esempio.
In generale, Internet ti abitua a dialogare con persone che non abitano nella tua città, a pensare, se non globale, per lo meno nazionale. E qui si potrebbe parlare anche dei bloggatori, e di quanto gli piaccia andare alle manifestazioni e incontrarsi di persona (e organizzare dei progetti, come è successo con l’UBW): con l’avvertenza che i blog non rappresentano che un millesimo del fenomeno.
È possibile, poi, che molta gente vada tutta assieme nello stesso posto perché si diverte? Ammetto che la mia idea di divertimento è molto lontana dal marciare in una ressa di migliaia di persone: ma forse se sommassimo tutte le nostre idee di divertimento e le dividessimo per ciascuno di noi, il risultato sarebbe una cosa del genere. In corteo ci si trova ormai di tutto, e mescolato: sabato, cercando di entrare in Piazza San Giovanni, ci siamo incastrati tra i manifestanti del centro islamico di Bergamo che inscenavano il funerale di un bambino; più indietro c’erano ragazzi accampati sul furgone di un sound system che sembravano venire da un rave, anzi esserci; più indietro ancora boy scout, pensionati, lo SLAI Cobas che gridava “datti una mossa classe operaia”, ma come rivendicazioni era rimasta al pacchetto Treu.
È possibile che tutta questa gente sia in grado di fare qualcosa insieme, a parte marciare? Credo di no. Ed è forse per questo che continuiamo a marciare: perché è l’unica cosa che ci riesce bene. Per questo ogni volta Bertinotti saluta la nascita di un nuovo soggetto politico che, a parte nascere, riesce a fare ben poco.
Triste ironia, per un movimento pacifista e anche un po’ anarcoide: condannati a marciare compatti, per dimostrare (anche a noi stessi) che esistiamo.
Poi, appena il corteo si scioglie, ripartono i dibattiti, i distinguo, le polemiche, i rancori. Ne è prova il dopo-23 marzo: è passato quasi un anno da quando “la manifestazione più grande del dopoguerra” (perché, prima le facevano più grandi?) in mezza giornata ha detto no alla riforma sull’articolo 18. Il contenuto della manifestazione era chiaro e condiviso, lo schiaffo al governo fu sonoro e ben piazzato. Berlusconi smise di parlare di riforma del lavoro e iniziò a preoccuparsi d’altro. Bertinotti salutò la nascita, ecc..
Oggi potremmo cantare vittoria. E invece no. Il fronte che un anno fa era compatto si è già spezzato, grazie al referendum sull’estensione dei diritti. Referendum promosso anche da Rifondazione.
A me non dispiace marciare, anche se non posso dire di divertirmi. Non mi dà fastidio se molta gente intorno a me non sa che altro fare, a parte marciare: forse non lo so neanch’io. Quello che m’infastidisce è vedere persone che hanno le idee chiare su cosa intendono fare: intendono marciare. Se possibile, in testa, sennò nel mezzo, ma comunque marciare. Il problema di passare a una fase successiva non li tocca, non c’è mai una fase successiva, ogni giorno è un buon giorno per nascere. Anche cambiare il mondo, non è necessario, quel che è importante sono le loro ragioni, la loro identità. Che il mondo se ne vada a p u t t a n e, loro avevano ragione, loro lo sapevano. Avevano ragione sin dai tempi del pacchetto Treu, prima del Kossovo e del Vietnam, l’avevano prima che noialtri nascessimo. E del resto, noialtri cosa vuoi che ne sappiamo: nasciamo tutti i giorni, quindi siamo anche nati ieri. Auguri a tutti.
che il primo che mi dice qualcosa sulla bandiera appesa al balcone chiamo i miei amici, e occhio che sono centodieci milioni...
Quello che mi sarebbe piaciuto sentire, il giorno dopo, non sono i soliti dibattiti intorno alle cifre (tra due e tre milioni sembra che non faccia una grande differenza), e nemmeno il solito Bertinotti raggiante che annuncia: “È nato un nuovo soggetto politico” (un altro? Ma non era nato l’anno scorso, o l’anno prima?)
Quello che mi piacerebbe sentire, o leggere, e che non ho trovato (ma onestamente non ho cercato molto), è una riflessione scientifica su questo fatto: in Italia, da due o tre anni a questa parte, si radunano in piazza folle oceaniche. Perché?
La prima risposta spontanea è che si tratta di un momento storico senza precedenti, ma se abbiamo un po’ di memoria e di onestà intellettuale dobbiamo ammettere che l’unica cosa speciale di questo momento storico è il fatto che lo stiamo vivendo adesso. Per il resto, l’inverno 2002-2003 sembra un collage di momenti storici del passato: c’è una guerra nel golfo alle porte (come 12 anni fa) e Berlusconi al governo (come 9 anni fa). Anche 12 e 9 anni fa si organizzavano manifestazioni nazionali. Ma non riuscivano così oceaniche. Cos’è cambiato, esattamente?
C’è chi spiega il fenomeno come una reazione al “vuoto della politica” (come ad esempio Ilvo Diamanti sulla Repubblica di domenica (“Quel vuoto della politica che crea partecipazione”):
È che il linguaggio della politica prevalente, inaridito, povero, chiuso, genera claustrofobia politica; e suscita una diffusa domanda di partecipazione e condivisione fuori e oltre i modelli tradizionali
Non mi basta. Da quando sto al mondo sento dire che il linguaggio della politica è inaridito, povero, chiuso, claustrofobico; però è solo da due anni che mi ritrovo in strade e piazze insieme a milioni di persone. Dev’esserci qualcosa di nuovo, perché la crisi (anche economica) dei grandi partiti di massa dura da più di quindici anni. E in ogni caso non mi sembrerebbe un motivo a favore, al contrario.
Proviamo a sgomberare il campo da ogni residuato ideologico. Se tanta gente si ritrova in piazza, non sarà per una mera questione tecnica? Forse che l’innovazione tecnologica lo ha reso in qualche modo più facile? Per quanto riguarda i trasporti, no di certo: viaggiare in treno o in corriera continua a essere – per i manifestanti – comodo, costoso e pericoloso. (Ogni volta che scendo da una corriera mi vien voglia di baciare il suolo. Sabato il nostro conducente si era perso nel Raccordo Anulare, e abbiamo sorpassato un’altra corriera che aveva tamponato una volante della polizia).
L’unica vera innovazione che mi viene in mente sono i cellulari. Molta gente, che forse prima avrebbe avuto paura di perdersi nella folla e non ritrovare più la sua comitiva, oggi non conosce più questo tipo di paura: s’infila il cellulare nello zaino e va nella manifestazione. Salvo bestemmiare, perché in un caso su tre la rete non tiene e il caos diventa generale: a parte questo, il corteo è diventata una di quelle situzioni che non riesci più a immaginare senza cellulare (“ma come diavolo facevano prima?”)
Già che ci siamo, potremmo timidamente suggerire che anche Internet c’entri in qualche modo. Gli organi di partito non esistono più (a stento esistono ancora i partiti), i grandi leader hanno altro da fare che invitare alle adunate (tipo brigare per un posto in prima fila da Vespa): ma le mailing list arrivano ogni giorno a centinaia di migliaia di italiani. Magari non le leggiamo, ma le teniamo lì: quando poi ci ricordiamo che il tal giorno c’è una manifestazione, le informazioni pratiche le andiamo a cercare nella nostra casella. È solo un esempio.
In generale, Internet ti abitua a dialogare con persone che non abitano nella tua città, a pensare, se non globale, per lo meno nazionale. E qui si potrebbe parlare anche dei bloggatori, e di quanto gli piaccia andare alle manifestazioni e incontrarsi di persona (e organizzare dei progetti, come è successo con l’UBW): con l’avvertenza che i blog non rappresentano che un millesimo del fenomeno.
È possibile, poi, che molta gente vada tutta assieme nello stesso posto perché si diverte? Ammetto che la mia idea di divertimento è molto lontana dal marciare in una ressa di migliaia di persone: ma forse se sommassimo tutte le nostre idee di divertimento e le dividessimo per ciascuno di noi, il risultato sarebbe una cosa del genere. In corteo ci si trova ormai di tutto, e mescolato: sabato, cercando di entrare in Piazza San Giovanni, ci siamo incastrati tra i manifestanti del centro islamico di Bergamo che inscenavano il funerale di un bambino; più indietro c’erano ragazzi accampati sul furgone di un sound system che sembravano venire da un rave, anzi esserci; più indietro ancora boy scout, pensionati, lo SLAI Cobas che gridava “datti una mossa classe operaia”, ma come rivendicazioni era rimasta al pacchetto Treu.
È possibile che tutta questa gente sia in grado di fare qualcosa insieme, a parte marciare? Credo di no. Ed è forse per questo che continuiamo a marciare: perché è l’unica cosa che ci riesce bene. Per questo ogni volta Bertinotti saluta la nascita di un nuovo soggetto politico che, a parte nascere, riesce a fare ben poco.
Triste ironia, per un movimento pacifista e anche un po’ anarcoide: condannati a marciare compatti, per dimostrare (anche a noi stessi) che esistiamo.
Poi, appena il corteo si scioglie, ripartono i dibattiti, i distinguo, le polemiche, i rancori. Ne è prova il dopo-23 marzo: è passato quasi un anno da quando “la manifestazione più grande del dopoguerra” (perché, prima le facevano più grandi?) in mezza giornata ha detto no alla riforma sull’articolo 18. Il contenuto della manifestazione era chiaro e condiviso, lo schiaffo al governo fu sonoro e ben piazzato. Berlusconi smise di parlare di riforma del lavoro e iniziò a preoccuparsi d’altro. Bertinotti salutò la nascita, ecc..
Oggi potremmo cantare vittoria. E invece no. Il fronte che un anno fa era compatto si è già spezzato, grazie al referendum sull’estensione dei diritti. Referendum promosso anche da Rifondazione.
A me non dispiace marciare, anche se non posso dire di divertirmi. Non mi dà fastidio se molta gente intorno a me non sa che altro fare, a parte marciare: forse non lo so neanch’io. Quello che m’infastidisce è vedere persone che hanno le idee chiare su cosa intendono fare: intendono marciare. Se possibile, in testa, sennò nel mezzo, ma comunque marciare. Il problema di passare a una fase successiva non li tocca, non c’è mai una fase successiva, ogni giorno è un buon giorno per nascere. Anche cambiare il mondo, non è necessario, quel che è importante sono le loro ragioni, la loro identità. Che il mondo se ne vada a p u t t a n e, loro avevano ragione, loro lo sapevano. Avevano ragione sin dai tempi del pacchetto Treu, prima del Kossovo e del Vietnam, l’avevano prima che noialtri nascessimo. E del resto, noialtri cosa vuoi che ne sappiamo: nasciamo tutti i giorni, quindi siamo anche nati ieri. Auguri a tutti.
che il primo che mi dice qualcosa sulla bandiera appesa al balcone chiamo i miei amici, e occhio che sono centodieci milioni...
venerdì 14 febbraio 2003
C'è vita oltre la Rai
Sabato, a Roma, ci sarà una grande manifestazione per la pace senza diretta Rai. E allora?
E' così grave?
Voi avete mai seguito la diretta di un corteo? Io no. Mi annoio già abbastanza a camminare, figurarsi a guardare gente che cammina in diretta tv.
"Sì, d'accordo, ma la manifestazione è un fatto politico importante".
Forse dobbiamo abituarci all'idea che possiamo fare politica senza diretta tv. Visto che già la stiamo facendo. Abbiamo giornali, abbiamo siti internet (abbiamo i blog). Abbiamo le tv di strada, e global tv, per chi proprio non vuole uscire dalla civiltà dell'immagine. Abbiamo tutte le finestre che vogliamo per appenderci bandiere colorate, senza bisogno di ripetitori. Onestamente, tra il negarci una diretta tv e negarci la libertà di espressione, ci passa un universo, ed è un universo in espansione.
"Sì, ma nulla è efficace come una diretta tv".
Questa è un'idea vostra. Probabilmente siete anche convinti che una comparsata da Costanzo sia più efficace di un buon articolo su internet (o alla radio, o sui giornali). E finché sarete di quest'avviso, continuerete ad addormentarvi davanti a Costanzo e a non guardare cosa cosa c'è d'interessante su internet (o alla radio, o sui giornali). A salarvi il fegato perché a Excalibur parlano di Maria Goretti invece che del WTO, e Vespa è più interessato a Cogne che al Forum Sociale Mondiale.
Guardate che a questo incubo c'è una soluzione a portata di mano. E' un tasto, a volte rosso e a volte nero, che sta in un angolo del telecomando. Spingendolo, la tv improvvisamente si spegne. E di colpo tornate liberi di trovare canali d'informazione meno controllati e più intelligenti.
"Sì, d'accordo, ma la rai sta soffocando ogni spazio di libera informazione... Biagi... Santoro...".
Sì, la rai sta facendo diverse cazzate. Ma Biagi e Santoro possono benissimo esprimersi attraverso altri mezzi, se vogliono. Quali mezzi? Internet, la radio, la carta stampata. I teatri (Santoro ci ha provato). I libri - magari non Mondadori. Il fatto che gli spazi di libera espressione in Italia siano ridotti e minacciati non significa che essi non siano ancora estesi. Ma se non li frequentiamo mai, se preferiamo continuare ad abbruttirci con Vespa ed Excalibur...
"Resta una questione di principio. La manifestazione è un fatto importante! La rai dovrebbe coprirla perché è un servizio pubblico".
La rai - non da oggi - è controllata dalla maggioranza parlamentare.
Che è quella che è.
Trovate che si stia comportando scorrettamente? Che manchi, per così dire, di fair play?
Oh, povere stelle.
Io quasi quasi v'invidio, perché riuscite ancora, dopo due anni, a stupirvi per cose del genere. Io, sarà l'età, ma è da un pezzo che non mi stupisco più di niente. Anche perché, 11 settembre a parte, era tutto abbastanza prevedibile.
E mi chiedo - antica polemica - dov'eravate voi gente stupita nell'unico giorno in cui come cittadini si poteva evitare tutto questo. Sì, parlo del 12 maggio 2001.
Se eravate a votare, e avete dato un voto utile contro Berlusconi, siete padronissimi di continuare a indignarvi e a stupirvi, e complimenti per l'energia.
Ma se quel giorno avevate problemi di mal di pancia, di puzza sotto il naso, di identità culturale, be', credo che sia inutile cercare di farvi ragionare.
Perché non siete solo stupiti. Siete anche un po' stupidi.
E non è colpa della tv, stavolta. E' colpa vostra.
Scusate, eh.
Sabato, a Roma, ci sarà una grande manifestazione per la pace senza diretta Rai. E allora?
E' così grave?
Voi avete mai seguito la diretta di un corteo? Io no. Mi annoio già abbastanza a camminare, figurarsi a guardare gente che cammina in diretta tv.
"Sì, d'accordo, ma la manifestazione è un fatto politico importante".
Forse dobbiamo abituarci all'idea che possiamo fare politica senza diretta tv. Visto che già la stiamo facendo. Abbiamo giornali, abbiamo siti internet (abbiamo i blog). Abbiamo le tv di strada, e global tv, per chi proprio non vuole uscire dalla civiltà dell'immagine. Abbiamo tutte le finestre che vogliamo per appenderci bandiere colorate, senza bisogno di ripetitori. Onestamente, tra il negarci una diretta tv e negarci la libertà di espressione, ci passa un universo, ed è un universo in espansione.
"Sì, ma nulla è efficace come una diretta tv".
Questa è un'idea vostra. Probabilmente siete anche convinti che una comparsata da Costanzo sia più efficace di un buon articolo su internet (o alla radio, o sui giornali). E finché sarete di quest'avviso, continuerete ad addormentarvi davanti a Costanzo e a non guardare cosa cosa c'è d'interessante su internet (o alla radio, o sui giornali). A salarvi il fegato perché a Excalibur parlano di Maria Goretti invece che del WTO, e Vespa è più interessato a Cogne che al Forum Sociale Mondiale.
Guardate che a questo incubo c'è una soluzione a portata di mano. E' un tasto, a volte rosso e a volte nero, che sta in un angolo del telecomando. Spingendolo, la tv improvvisamente si spegne. E di colpo tornate liberi di trovare canali d'informazione meno controllati e più intelligenti.
"Sì, d'accordo, ma la rai sta soffocando ogni spazio di libera informazione... Biagi... Santoro...".
Sì, la rai sta facendo diverse cazzate. Ma Biagi e Santoro possono benissimo esprimersi attraverso altri mezzi, se vogliono. Quali mezzi? Internet, la radio, la carta stampata. I teatri (Santoro ci ha provato). I libri - magari non Mondadori. Il fatto che gli spazi di libera espressione in Italia siano ridotti e minacciati non significa che essi non siano ancora estesi. Ma se non li frequentiamo mai, se preferiamo continuare ad abbruttirci con Vespa ed Excalibur...
"Resta una questione di principio. La manifestazione è un fatto importante! La rai dovrebbe coprirla perché è un servizio pubblico".
La rai - non da oggi - è controllata dalla maggioranza parlamentare.
Che è quella che è.
Trovate che si stia comportando scorrettamente? Che manchi, per così dire, di fair play?
Oh, povere stelle.
Io quasi quasi v'invidio, perché riuscite ancora, dopo due anni, a stupirvi per cose del genere. Io, sarà l'età, ma è da un pezzo che non mi stupisco più di niente. Anche perché, 11 settembre a parte, era tutto abbastanza prevedibile.
E mi chiedo - antica polemica - dov'eravate voi gente stupita nell'unico giorno in cui come cittadini si poteva evitare tutto questo. Sì, parlo del 12 maggio 2001.
Se eravate a votare, e avete dato un voto utile contro Berlusconi, siete padronissimi di continuare a indignarvi e a stupirvi, e complimenti per l'energia.
Ma se quel giorno avevate problemi di mal di pancia, di puzza sotto il naso, di identità culturale, be', credo che sia inutile cercare di farvi ragionare.
Perché non siete solo stupiti. Siete anche un po' stupidi.
E non è colpa della tv, stavolta. E' colpa vostra.
Scusate, eh.
giovedì 13 febbraio 2003
Il palazzo dei corvi
Nel cuore della mia città c’è un grande Palazzo, dove noi civili non possiamo entrare: e questo, vi giuro, non è Kafka.
È la realtà.
La colpa, se vogliamo, è di un duca, che aveva perso il suo vero ducato in battaglia.
A quel tempo Modena era un tipico comune padano, portici stretti e fogne a cielo aperto, molto legato al suo locale medioevo. Arrivò dunque questo duca, con un po’ di corte al seguito e una collezioni di quadri da far girar la testa, e decise in mancanza di meglio di farne la nuova capitale. Fuori Modena era già il Seicento, e andavano di moda i palazzi grandi come città: anche i nostri duchi ne ordinarono uno, ma pareva che non avessero molta fretta, e nemmeno molti soldi. A ogni architetto di passaggio (Bernini incluso) facevano ridisegnare il progetto. Poi il marmo finì, più o meno a metà dei lavori, e si continuò col mattone: una cosa un po’ ridicola, ma il risultato non è male.
Il risultato è un palazzo smisurato, assolutamente fuori scala rispetto alla città, che sbarra il Centro Storico su tutto il lato nord, senza essere né fuori né dentro. La facciata dà su una piazza che sarebbe bella, se la gente venisse a passeggio o si desse appuntamento. Ma i modenesi non hanno mai pensato a quello spazio come a una piazza: per loro è solo il parcheggio più vicino al Centro. E il palazzo è solo una enorme transenna da aggirare. Non lo notano neanche, e sì che è grande. Ma siccome nessuno può entrare, è come se non ci fosse.
Il palazzo, infatti, non appartiene al comune. È una piccola città nella città, come a Roma il Vaticano. Ed è la città dei Corvi.
I Corvi vengono da tutt’Italia, ma soprattutto “da giù”. Arrivano a diciotto anni e hanno già le idee chiare, anche se ancora non sanno cosa sia la nebbia. Vengono a studiare e ad addestrarsi per la patria. Faranno esami e marce, marce ed esami, finché non diventeranno ufficiali del nostro esercito: quell’esercito che in caso di guerra è spesso d’intralcio alle operazioni. Non tutti però arrivano alla fine: alcuni si fermano prima. Dev’essere una scuola molto dura, ma in realtà non ne sappiamo niente.
Non ci sono simpatici, è vero, ma non è del tutto colpa nostra. Il fatto è che noi dobbiamo ancora digerire il vecchio duca, con le sue smanie di grandezza. Poi arrivano questi, e si prendono il posto più bello della città, con degli interni che stanno sui manuali di Storia dell’Arte. Se pensate a quanto può costare un posto letto in Centro…
Il fatto è che viviamo davvero in due città diverse, noi e loro. Dalle nostre finestre noi guardiamo il Palazzo, e pensiamo all’ampio parcheggio. Ma dalle loro finestre, loro, cosa vedono? Senz’altro non guardano noi, che siamo lì solo per caso, uno sfondo piuttosto incongruo ai loro studi e alle loro battaglie. Guardano al loro futuro, che è appena un po’ meno grigio della nebbia; alla loro carriera nell’esercito, a quando finalmente potranno levarsi quel ridicolo mantello dalle spalle e combattere come uomini: fare quello a cui si stanno preparando da anni, da una vita.
Ma sanno che probabilmente non combatteranno mai, perché non ci sono più città da difendere: e Modena men che meno. C’è solo un deserto, grigio, e i Tartari non arrivano.
E poi c’è la questione del mantello.
Il mantello è l’uniforme da passeggio dei corvi. È un ampio tabarro nero, che forse tiene caldo, ma che in combattimento risulterebbe un bell’impiccio. Fa molto Ottocento. Sotto il tabarro, appeso a un fianco, il corvo tiene l’altro segno di distinzione: un sottile tagliacarte d’ottone, il cosiddetto “spadino”. Un arma di difesa un po’ improbabile, per non dire ridicola. (Al maiale il codino / al corvo lo spadino, si leggeva su un muro alla Pomposa).
Per un lungo inverno, che va da ottobre a maggio, questo ragazzo di vent’anni è costretto ad andare in giro per le nostre strade conciato così, come la comparsa di un film di Zeffirelli. Nel fine settimana è seguito dai famigliari o dalla fidanzata, venuti a trovarlo “da giù”; e da un facchino, perché un ferreo regolamento gli impedisce di portare bagagli quando indossa l’uniforme.
È chiaro che chi ha voluto un costume così mirava a una sola cosa: che il corvo si sentisse odiato dalla città, e che la ricambiasse. Cosa c’è di più penoso, per un ragazzo di vent’anni, di girare per una piaccola città straniera e sentire una sfumatura di presa in giro in ogni sguardo? Il mantello e lo spadino lo proteggono da ogni contatto amichevole con gli indigeni. Senza di loro non gli è consentito di uscire. Il mantello è un pezzo del palazzo che il corvo si porta ovunque con sé. E questo non è Kafka, badate: è la loro vita, per cinque e più anni.
Poi, ogni tanto, qualcuno di loro se ne va. Si uccide, lasciandosi cadere da quelle finestre così grandi.
Allora i suoi compagni, e i superiori, si affrettano a ricordare che era un bravo ragazzo, appassionato studente e molto ligio al dovere, ma, come dire, un po’ debole. Immaturo, disse una volta un generale importante – poi gli hanno spiegato che quella parola non la deve dire più, che non sta bene davanti ai genitori, ma comunque ci siamo capiti. E che non si tratta di nonnismo, per carità, non esiste il nonnismo all’Accademia Militare di Modena. Esistono solo ragazzi motivati e preparati al loro futuro, ma non tutti reggono allo stress. Punto.
E noi, a sentire queste cose, scuotiamo la testa e alziamo le spalle. Stress da esami, figuriamoci. Tre suicidi in sei anni…
E poi voltiamo pagina. Che cambiare le cose non tocca certo a noi.
Al centro dell’ampio parcheggio sta la statua di un patriota, che guarda il Palazzo con aria di sfida.
Era un vicino di casa del duca, che col suo tacito consenso stava organizzando una mezza rivoluzione. Finché quest’ultimo non aveva preso paura – in fin dei conti era solo un piccolo duca, schiacciato tra Regni ed Imperi – e lo aveva condannato a morte, un atto inaudito in uno Stato da operetta come il nostro. La statua guarda proprio alla stanza in cui il Duca firmò la sentenza.
Forse non è una gran statua, ma per me è un bel simbolo del nostro atteggiamento nei confronti del Palazzo: Ciro Menotti lo guarda a testa alta, per nulla impressionato. Sembra che stia dicendo: “E alòra?” Tutta questa facciata di finto marmo, cos’è? A parte ostruire il traffico, a cosa serve? Non ci si poteva fare un giardino, o ancora meglio, ampliare il parcheggio?
È così strano che la scuola dei militari l’abbiano voluta mettere da noi. Noi abbiamo così poca fiducia nell’esercito, e in chiunque voglia metterci i piedi in testa.
Però, in fondo, questo nostro fregarcene è comodo a tutti. Noi ci facciamo i fatti nostri e non diamo nessun fastidio. Non è la nostra città, quella. Che se la sbrighino loro.
Eppure quei ragazzi, nel fine settimana, camminano tra noi, nelle nostre strade, nella nostra nebbia. Per quanto il mantello li possa nascondere al prossimo, si vede bene che sono ragazzi. Che meriterebbero una giovinezza migliore.
Ma noi abbiamo sempre troppe cose da fare: li guardiamo passare, abbozziamo un sorriso e tiriamo per la nostra strada.
Che cambiare il mondo non tocca a noi.
Ma a chi tocca, allora?
Nel cuore della mia città c’è un grande Palazzo, dove noi civili non possiamo entrare: e questo, vi giuro, non è Kafka.
È la realtà.
La colpa, se vogliamo, è di un duca, che aveva perso il suo vero ducato in battaglia.
A quel tempo Modena era un tipico comune padano, portici stretti e fogne a cielo aperto, molto legato al suo locale medioevo. Arrivò dunque questo duca, con un po’ di corte al seguito e una collezioni di quadri da far girar la testa, e decise in mancanza di meglio di farne la nuova capitale. Fuori Modena era già il Seicento, e andavano di moda i palazzi grandi come città: anche i nostri duchi ne ordinarono uno, ma pareva che non avessero molta fretta, e nemmeno molti soldi. A ogni architetto di passaggio (Bernini incluso) facevano ridisegnare il progetto. Poi il marmo finì, più o meno a metà dei lavori, e si continuò col mattone: una cosa un po’ ridicola, ma il risultato non è male.
Il risultato è un palazzo smisurato, assolutamente fuori scala rispetto alla città, che sbarra il Centro Storico su tutto il lato nord, senza essere né fuori né dentro. La facciata dà su una piazza che sarebbe bella, se la gente venisse a passeggio o si desse appuntamento. Ma i modenesi non hanno mai pensato a quello spazio come a una piazza: per loro è solo il parcheggio più vicino al Centro. E il palazzo è solo una enorme transenna da aggirare. Non lo notano neanche, e sì che è grande. Ma siccome nessuno può entrare, è come se non ci fosse.
Il palazzo, infatti, non appartiene al comune. È una piccola città nella città, come a Roma il Vaticano. Ed è la città dei Corvi.
I Corvi vengono da tutt’Italia, ma soprattutto “da giù”. Arrivano a diciotto anni e hanno già le idee chiare, anche se ancora non sanno cosa sia la nebbia. Vengono a studiare e ad addestrarsi per la patria. Faranno esami e marce, marce ed esami, finché non diventeranno ufficiali del nostro esercito: quell’esercito che in caso di guerra è spesso d’intralcio alle operazioni. Non tutti però arrivano alla fine: alcuni si fermano prima. Dev’essere una scuola molto dura, ma in realtà non ne sappiamo niente.
Non ci sono simpatici, è vero, ma non è del tutto colpa nostra. Il fatto è che noi dobbiamo ancora digerire il vecchio duca, con le sue smanie di grandezza. Poi arrivano questi, e si prendono il posto più bello della città, con degli interni che stanno sui manuali di Storia dell’Arte. Se pensate a quanto può costare un posto letto in Centro…
Il fatto è che viviamo davvero in due città diverse, noi e loro. Dalle nostre finestre noi guardiamo il Palazzo, e pensiamo all’ampio parcheggio. Ma dalle loro finestre, loro, cosa vedono? Senz’altro non guardano noi, che siamo lì solo per caso, uno sfondo piuttosto incongruo ai loro studi e alle loro battaglie. Guardano al loro futuro, che è appena un po’ meno grigio della nebbia; alla loro carriera nell’esercito, a quando finalmente potranno levarsi quel ridicolo mantello dalle spalle e combattere come uomini: fare quello a cui si stanno preparando da anni, da una vita.
Ma sanno che probabilmente non combatteranno mai, perché non ci sono più città da difendere: e Modena men che meno. C’è solo un deserto, grigio, e i Tartari non arrivano.
E poi c’è la questione del mantello.
Il mantello è l’uniforme da passeggio dei corvi. È un ampio tabarro nero, che forse tiene caldo, ma che in combattimento risulterebbe un bell’impiccio. Fa molto Ottocento. Sotto il tabarro, appeso a un fianco, il corvo tiene l’altro segno di distinzione: un sottile tagliacarte d’ottone, il cosiddetto “spadino”. Un arma di difesa un po’ improbabile, per non dire ridicola. (Al maiale il codino / al corvo lo spadino, si leggeva su un muro alla Pomposa).
Per un lungo inverno, che va da ottobre a maggio, questo ragazzo di vent’anni è costretto ad andare in giro per le nostre strade conciato così, come la comparsa di un film di Zeffirelli. Nel fine settimana è seguito dai famigliari o dalla fidanzata, venuti a trovarlo “da giù”; e da un facchino, perché un ferreo regolamento gli impedisce di portare bagagli quando indossa l’uniforme.
È chiaro che chi ha voluto un costume così mirava a una sola cosa: che il corvo si sentisse odiato dalla città, e che la ricambiasse. Cosa c’è di più penoso, per un ragazzo di vent’anni, di girare per una piaccola città straniera e sentire una sfumatura di presa in giro in ogni sguardo? Il mantello e lo spadino lo proteggono da ogni contatto amichevole con gli indigeni. Senza di loro non gli è consentito di uscire. Il mantello è un pezzo del palazzo che il corvo si porta ovunque con sé. E questo non è Kafka, badate: è la loro vita, per cinque e più anni.
Poi, ogni tanto, qualcuno di loro se ne va. Si uccide, lasciandosi cadere da quelle finestre così grandi.
Allora i suoi compagni, e i superiori, si affrettano a ricordare che era un bravo ragazzo, appassionato studente e molto ligio al dovere, ma, come dire, un po’ debole. Immaturo, disse una volta un generale importante – poi gli hanno spiegato che quella parola non la deve dire più, che non sta bene davanti ai genitori, ma comunque ci siamo capiti. E che non si tratta di nonnismo, per carità, non esiste il nonnismo all’Accademia Militare di Modena. Esistono solo ragazzi motivati e preparati al loro futuro, ma non tutti reggono allo stress. Punto.
E noi, a sentire queste cose, scuotiamo la testa e alziamo le spalle. Stress da esami, figuriamoci. Tre suicidi in sei anni…
E poi voltiamo pagina. Che cambiare le cose non tocca certo a noi.
Al centro dell’ampio parcheggio sta la statua di un patriota, che guarda il Palazzo con aria di sfida.
Era un vicino di casa del duca, che col suo tacito consenso stava organizzando una mezza rivoluzione. Finché quest’ultimo non aveva preso paura – in fin dei conti era solo un piccolo duca, schiacciato tra Regni ed Imperi – e lo aveva condannato a morte, un atto inaudito in uno Stato da operetta come il nostro. La statua guarda proprio alla stanza in cui il Duca firmò la sentenza.
Forse non è una gran statua, ma per me è un bel simbolo del nostro atteggiamento nei confronti del Palazzo: Ciro Menotti lo guarda a testa alta, per nulla impressionato. Sembra che stia dicendo: “E alòra?” Tutta questa facciata di finto marmo, cos’è? A parte ostruire il traffico, a cosa serve? Non ci si poteva fare un giardino, o ancora meglio, ampliare il parcheggio?
È così strano che la scuola dei militari l’abbiano voluta mettere da noi. Noi abbiamo così poca fiducia nell’esercito, e in chiunque voglia metterci i piedi in testa.
Però, in fondo, questo nostro fregarcene è comodo a tutti. Noi ci facciamo i fatti nostri e non diamo nessun fastidio. Non è la nostra città, quella. Che se la sbrighino loro.
Eppure quei ragazzi, nel fine settimana, camminano tra noi, nelle nostre strade, nella nostra nebbia. Per quanto il mantello li possa nascondere al prossimo, si vede bene che sono ragazzi. Che meriterebbero una giovinezza migliore.
Ma noi abbiamo sempre troppe cose da fare: li guardiamo passare, abbozziamo un sorriso e tiriamo per la nostra strada.
Che cambiare il mondo non tocca a noi.
Ma a chi tocca, allora?
martedì 11 febbraio 2003
Maestri di vita (6) – Giovanni Papini: Amiamo la guerra
Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.
Non è solo per fare il bastan contrario – o forse sì – ma il fatto è che ultimamente sono un po’ stanco di sentire gente che odia la guerra. Specie quelli molto più idealisti, realisti, intelligenti e informati di me, che odiano la guerra più di me ma sono convinti che a questo punto sia necessaria, per poter arrivare più rapidi alla pace.
Ecco, dopo mesi e mesi di discorsi su quanto sia brutta e ineluttabile la guerra, mi vien voglia di andare a cercare quel pezzo in cui un giornalista italiano dichiarava francamente e senza vergogna di amarla, questa benedetta guerra. Ma chi era? E dove scriveva? E quand’è che l’abbiamo letto? Come facciamo a ricordarcelo così bene?
Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sudore nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre. […]
È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli son sempre buoni ad ammazzare i fratelli! I civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve.
Il giornalista si chiama Giovanni Papini (Firenze 1881-1957). Scriveva su una piccola rivista fiorentina, “Lacerba”, da lui fondata nel 1913 e sotterrata nel 1915, che ebbe un certo successo. A volte viene considerato un futurista: in realtà Papini e Marinetti non sono mai andati molto d’accordo, ma pescavano nello stesso bacino di malumori che sarebbe poi fermentato nelle trincee della Grande Guerra, dando luogo a quel singolare fenomeno politico italiano, il fascismo.
Però Marinetti, che di solito viene ricordato per aver scritto “Guerra, sola igiene del mondo”, non sarebbe mai stato capace di scrivere righe asciutte e feroci come queste:
C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita.
Non è un caso che in quasi tutte le antologie di letteratura italiana per la scuola superiore ci sia una foto di Marinetti, ma questa pagina di Papini. Volendo dare un esempio di letteratura francamente, schiettamente bellicista, i compilatori delle nostre antologie scolastiche (tutti comunisti, com’è noto) finiscono invariabilmente per ritagliare questo editoriale di Lacerba, datato primo ottobre 1914. E questo il motivo per cui ce la ricordiamo bene: in mezzo a tante letture soporifere, Papini ha uno stile che ti dà la sveglia. Senti qui:
Non si rinfaccino […] le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere.
Ah, se sentisse il Ministro Martino…
E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo pianto si sta meglio.
Papini di recente è finito anche al cinema, in una brevissima scena di Un viaggio chiamato amore: è in un caffè di Firenze con dei sottufficiali di passaggio, che declama un suo articolo. Indovinate quale.
C’è una linea fiorentina che forse non risale fino a Dante Alighieri, ma sicuramente a Machiavelli: una scia brillante di scrittori che non sempre (anzi, quasi mai) diventano classici della letteratura, ma conoscono un buon successo presso i loro contemporanei. Perché? Per due motivi. Primo: cercano di scrivere come parlano, un lusso che fino a poco tempo fa solo un fiorentino poteva permettersi. Secondo: dicono cose enormi, micidiali. Machiavelli scriveva saggi su come ammazzare gli avversari politici, con tanto di esempi documentati. Papini spiega che la guerra ha tutta una serie di ricadute positive in vari settori, l’agricoltura, per esempio:
I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchiano i fanti tedeschi e che grosse patate si caveranno in Galizia quest’altro anno!
Nel Novecento Papini è il primo interprete di questa scia. Dopo di lui la fiaccola passa a Maccari e a qualche altro strapaesano, ma c’è meno gusto a fare i gradassi quando il gradasso in capo è a Palazzo Chigi. Finché, dopo la seconda guerra la fiaccola viene afferrata da Montanelli, che la impugna con sicurezza, ma la normalizza, la imborghesisce. Ed essa languisce con lui.
Quando Montanelli muore (nell’estate del 2001), l’Italia resta senza il suo grillo parlante toscano, per alcuni mesi. Finché l’undici settembre, in un attico di New York un’anziana signora di Firenze perde la testa, scrivendo torrenti di insulti. Il Corriere della Sera glieli pubblica, senza cambiare una virgola. E gli italiani impazziscono, si rubano il Corriere dalle mani, corrono in copisteria per fotocopiarlo. Gli italiani hanno un bisogno disperato di toscanacci maldicenti.
E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici.
È fin troppo evidente quanto abbiamo perso nel passaggio da Papini alla Fallaci. Senza bisogno di scrivere Cazzo e Fottiti, come il peggio scrittore pulp, Papini resta oggi molto più osceno di quanto non sia mai riuscita a essere la povera signora. A proposito, io della Rabbia e dell’Orgoglio già non ricordo più niente. Mentre questo Amiamo la guerra, veramente, non me lo levo dalla testa.
È scritto bene, diciamolo. Papini è uno dei pochi scrittori italiani che sia veramente riuscito a campare con quello che scriveva. Ma ogni settimana doveva inventarsene una più grossa. Noi ricordiamo solo “Amiamo la guerra”, ma da un numero all’altro Papini doveva consigliare di chiudere le scuole, abolire il senato, picchiare le donne, i bambini e i cani. E quando i futuristi vennero da Milano a fargli i complimenti, lui per un po’ se li tenne cari, poi non ci fu niente da fare: si mise a insultare anche i futuristi. Doveva farlo: era il suo mestiere. Aveva moglie e figlie, tante figlie da mantenere.
Era un polemista, ma non uno qualsiasi: era l’inventore della moderna polemica giornalistica: stringata, ma linguacciuta, razionale ma vendicativa. Oggi ne abbiamo fin sopra i capelli, ma negli anni Dieci c’era solo lui; i suoi colleghi erano rimasti alla retorica dell’Ottocento. E ogni settimana lui li tirava giù, metodicamente, a colpi di temperino. I suoi lazzi e insulti a quel tempo erano un nuovo stile di giornalismo: oggi li chiameremmo satira. Perché, in fin dei conti, avete creduto che Papini parlasse sul serio?
E rimarrano anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un’arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa.
Può darsi che Papini si sentisse un po’ barbaro. Della sua famiglia era stato il primo a studiare, e l’ultimo a patire la fame. Aveva la foga rabbiosa tipica degli autodidatti: il suo libro di critica filosofica (una specie di Simulator, appena un po’ più serio) si chiamava Stroncature.
Ma non era uno stupido. Ce n’erano tanti, come lui, che scrivevano o dipingevano roboanti odi alla guerra: Marinetti, Boccioni, Soffici, Carrà… Finirono tutti al fronte, e dal fronte all’ospedale, e chi tornò a casa (Boccioni non tornò) scrisse poi cose molto più tranquille.
Papini – che probabilmente vedeva un po’ più lontano – preferì saltare un passaggio, e a guerra appena scoppiata si convertì al cattolicesimo, senza passare dal fronte. Evitando così un inutile perdita di tempo (e di sangue).
Ora che lo sappiamo, proviamo a rileggere “Amiamo la guerra”. Curioso: a differenza di tutti i suoi colleghi interventisti, Papini non s’immagina mai di dover combattere la sua amata guerra. Il suo è il più smaccato “armiamoci e partite”. Che la facciano gli altri, la guerra igenica: che si tolgano pure di mezzo.
Chi odia l’umanità – e come non si può non odiarla anche compiangendola? – si trova in questi giorni nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. “Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò sono contento che ne spariscano parecchi”.
E veniamo a noi. Dicevo che ultimamente sono un po’ stanco di sentire persone molto più idealiste, realiste, intelligenti e informate di me, che odiano la guerra più di me, ma sono convinti che sia necessaria. E mi viene da dire: signori, se proprio ne siete convinti, andateci. E levatevi un po’ dai coglioni.
Ma credo che loro scuoterebbero la testa, scettici: “non siamo noi che dobbiamo andarci, sciocco, noi saremmo d’intralcio. Lasciamo lavorare chi conosce il mestiere”.
Senza dubbio. Però, permettete: io non m’intendo di geopolitica, ma non volendo combattere, e non essendo tagliato per farlo, non oserei chiamare qualcun altro a far la guerra in vece mia. Non si fa. Non è fine. Chi è in grado di combattere combatta, chi non ne è capace stia zitto e attento. Tutti questi applausi d’incoraggiamento sono indecenti.Tanto si sa che voi resterete a casa, davanti alle vostre confortevoli finestre sul mondo. Sempre pronti a convertirvi al dio di turno, a seconda della convenienza.
E allora ditelo, che sotto sotto la guerra vi piace (purché la facciano gli altri): fa un sacco di spazio, e concima i terreni. E l’economia riparte. Coraggio. Ditelo. Non mi farete più schifo di quanto non mi facciate già. Non mi piace la retorica dei buoni sentimenti, preferisco la schiettezza di chi scrive come parla e parlando dice quello che pensa. La schiettezza di Giovanni Papini:
Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerrà e spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.
Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra.
Non è solo per fare il bastan contrario – o forse sì – ma il fatto è che ultimamente sono un po’ stanco di sentire gente che odia la guerra. Specie quelli molto più idealisti, realisti, intelligenti e informati di me, che odiano la guerra più di me ma sono convinti che a questo punto sia necessaria, per poter arrivare più rapidi alla pace.
Ecco, dopo mesi e mesi di discorsi su quanto sia brutta e ineluttabile la guerra, mi vien voglia di andare a cercare quel pezzo in cui un giornalista italiano dichiarava francamente e senza vergogna di amarla, questa benedetta guerra. Ma chi era? E dove scriveva? E quand’è che l’abbiamo letto? Come facciamo a ricordarcelo così bene?
Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sudore nero dopo tanti umidicci e tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto; e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre. […]
È finita la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli son sempre buoni ad ammazzare i fratelli! I civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve.
Il giornalista si chiama Giovanni Papini (Firenze 1881-1957). Scriveva su una piccola rivista fiorentina, “Lacerba”, da lui fondata nel 1913 e sotterrata nel 1915, che ebbe un certo successo. A volte viene considerato un futurista: in realtà Papini e Marinetti non sono mai andati molto d’accordo, ma pescavano nello stesso bacino di malumori che sarebbe poi fermentato nelle trincee della Grande Guerra, dando luogo a quel singolare fenomeno politico italiano, il fascismo.
Però Marinetti, che di solito viene ricordato per aver scritto “Guerra, sola igiene del mondo”, non sarebbe mai stato capace di scrivere righe asciutte e feroci come queste:
C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutare la vita.
Non è un caso che in quasi tutte le antologie di letteratura italiana per la scuola superiore ci sia una foto di Marinetti, ma questa pagina di Papini. Volendo dare un esempio di letteratura francamente, schiettamente bellicista, i compilatori delle nostre antologie scolastiche (tutti comunisti, com’è noto) finiscono invariabilmente per ritagliare questo editoriale di Lacerba, datato primo ottobre 1914. E questo il motivo per cui ce la ricordiamo bene: in mezzo a tante letture soporifere, Papini ha uno stile che ti dà la sveglia. Senti qui:
Non si rinfaccino […] le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere.
Ah, se sentisse il Ministro Martino…
E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo pianto si sta meglio.
Papini di recente è finito anche al cinema, in una brevissima scena di Un viaggio chiamato amore: è in un caffè di Firenze con dei sottufficiali di passaggio, che declama un suo articolo. Indovinate quale.
C’è una linea fiorentina che forse non risale fino a Dante Alighieri, ma sicuramente a Machiavelli: una scia brillante di scrittori che non sempre (anzi, quasi mai) diventano classici della letteratura, ma conoscono un buon successo presso i loro contemporanei. Perché? Per due motivi. Primo: cercano di scrivere come parlano, un lusso che fino a poco tempo fa solo un fiorentino poteva permettersi. Secondo: dicono cose enormi, micidiali. Machiavelli scriveva saggi su come ammazzare gli avversari politici, con tanto di esempi documentati. Papini spiega che la guerra ha tutta una serie di ricadute positive in vari settori, l’agricoltura, per esempio:
I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchiano i fanti tedeschi e che grosse patate si caveranno in Galizia quest’altro anno!
Nel Novecento Papini è il primo interprete di questa scia. Dopo di lui la fiaccola passa a Maccari e a qualche altro strapaesano, ma c’è meno gusto a fare i gradassi quando il gradasso in capo è a Palazzo Chigi. Finché, dopo la seconda guerra la fiaccola viene afferrata da Montanelli, che la impugna con sicurezza, ma la normalizza, la imborghesisce. Ed essa languisce con lui.
Quando Montanelli muore (nell’estate del 2001), l’Italia resta senza il suo grillo parlante toscano, per alcuni mesi. Finché l’undici settembre, in un attico di New York un’anziana signora di Firenze perde la testa, scrivendo torrenti di insulti. Il Corriere della Sera glieli pubblica, senza cambiare una virgola. E gli italiani impazziscono, si rubano il Corriere dalle mani, corrono in copisteria per fotocopiarlo. Gli italiani hanno un bisogno disperato di toscanacci maldicenti.
E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici.
È fin troppo evidente quanto abbiamo perso nel passaggio da Papini alla Fallaci. Senza bisogno di scrivere Cazzo e Fottiti, come il peggio scrittore pulp, Papini resta oggi molto più osceno di quanto non sia mai riuscita a essere la povera signora. A proposito, io della Rabbia e dell’Orgoglio già non ricordo più niente. Mentre questo Amiamo la guerra, veramente, non me lo levo dalla testa.
È scritto bene, diciamolo. Papini è uno dei pochi scrittori italiani che sia veramente riuscito a campare con quello che scriveva. Ma ogni settimana doveva inventarsene una più grossa. Noi ricordiamo solo “Amiamo la guerra”, ma da un numero all’altro Papini doveva consigliare di chiudere le scuole, abolire il senato, picchiare le donne, i bambini e i cani. E quando i futuristi vennero da Milano a fargli i complimenti, lui per un po’ se li tenne cari, poi non ci fu niente da fare: si mise a insultare anche i futuristi. Doveva farlo: era il suo mestiere. Aveva moglie e figlie, tante figlie da mantenere.
Era un polemista, ma non uno qualsiasi: era l’inventore della moderna polemica giornalistica: stringata, ma linguacciuta, razionale ma vendicativa. Oggi ne abbiamo fin sopra i capelli, ma negli anni Dieci c’era solo lui; i suoi colleghi erano rimasti alla retorica dell’Ottocento. E ogni settimana lui li tirava giù, metodicamente, a colpi di temperino. I suoi lazzi e insulti a quel tempo erano un nuovo stile di giornalismo: oggi li chiameremmo satira. Perché, in fin dei conti, avete creduto che Papini parlasse sul serio?
E rimarrano anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi castelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un’arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa.
Può darsi che Papini si sentisse un po’ barbaro. Della sua famiglia era stato il primo a studiare, e l’ultimo a patire la fame. Aveva la foga rabbiosa tipica degli autodidatti: il suo libro di critica filosofica (una specie di Simulator, appena un po’ più serio) si chiamava Stroncature.
Ma non era uno stupido. Ce n’erano tanti, come lui, che scrivevano o dipingevano roboanti odi alla guerra: Marinetti, Boccioni, Soffici, Carrà… Finirono tutti al fronte, e dal fronte all’ospedale, e chi tornò a casa (Boccioni non tornò) scrisse poi cose molto più tranquille.
Papini – che probabilmente vedeva un po’ più lontano – preferì saltare un passaggio, e a guerra appena scoppiata si convertì al cattolicesimo, senza passare dal fronte. Evitando così un inutile perdita di tempo (e di sangue).
Ora che lo sappiamo, proviamo a rileggere “Amiamo la guerra”. Curioso: a differenza di tutti i suoi colleghi interventisti, Papini non s’immagina mai di dover combattere la sua amata guerra. Il suo è il più smaccato “armiamoci e partite”. Che la facciano gli altri, la guerra igenica: che si tolgano pure di mezzo.
Chi odia l’umanità – e come non si può non odiarla anche compiangendola? – si trova in questi giorni nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. “Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò sono contento che ne spariscano parecchi”.
E veniamo a noi. Dicevo che ultimamente sono un po’ stanco di sentire persone molto più idealiste, realiste, intelligenti e informate di me, che odiano la guerra più di me, ma sono convinti che sia necessaria. E mi viene da dire: signori, se proprio ne siete convinti, andateci. E levatevi un po’ dai coglioni.
Ma credo che loro scuoterebbero la testa, scettici: “non siamo noi che dobbiamo andarci, sciocco, noi saremmo d’intralcio. Lasciamo lavorare chi conosce il mestiere”.
Senza dubbio. Però, permettete: io non m’intendo di geopolitica, ma non volendo combattere, e non essendo tagliato per farlo, non oserei chiamare qualcun altro a far la guerra in vece mia. Non si fa. Non è fine. Chi è in grado di combattere combatta, chi non ne è capace stia zitto e attento. Tutti questi applausi d’incoraggiamento sono indecenti.Tanto si sa che voi resterete a casa, davanti alle vostre confortevoli finestre sul mondo. Sempre pronti a convertirvi al dio di turno, a seconda della convenienza.
E allora ditelo, che sotto sotto la guerra vi piace (purché la facciano gli altri): fa un sacco di spazio, e concima i terreni. E l’economia riparte. Coraggio. Ditelo. Non mi farete più schifo di quanto non mi facciate già. Non mi piace la retorica dei buoni sentimenti, preferisco la schiettezza di chi scrive come parla e parlando dice quello che pensa. La schiettezza di Giovanni Papini:
Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerrà e spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.
lunedì 10 febbraio 2003
Il pezzo del lunedì è il più atteso e il più difficile.
Per questo sono grato a tutti quelli che hanno voluto partecipare alla nuova release del
Basic Culture Simulator 1.1
(Colti in cinque minuti!)
Prima di partire coi contributi (ringrazio tutti e mi scuso per i tagli), vi chiedo un’altra cortesia: se incontrate qualcuno che fa uso inconsapevole del Simulator, segnalatemelo!
Stasera ho trovato Antonio Di Pietro. Ma si può fare di meglio. Per esempio, ho sentito dire che i Marlene Kuntz di recente hanno citato la leggerezza di Calvino… esistono riscontri?
Archimede: inventore greco che facendo il bagno ha scoperto che un corpo immerso in liquido riceve una spinta eguale al contraria al suo peso... Prepararsi per la contestazione: "perchè una nave affonda se si riempie di acqua?"...."ma perchè è fatta di un materiale che a contatto con l'acqua perde peso!" ....per stupire tutti, ricordarsi che ha inventato anche gli specchi ustori per abbronzarsi. Eh, non ci sono più gli inventori di una volta, che sapevano far di tutto. Noi siamo molto più ignoranti di loro… (Apicella)
Beethoven, Ludwig: compositore dell'ottocento, se sia stato classico o romantico non lo sapeva nemmeno lui. Citare se possibile la "furia" e il "titanismo". Per un affondo finale alla Cyrano chiudere la combinazione "titanismo" + "michelangiolesco". Noto per aver scritto mari e monti da sordo. C'è chi sostiene che si fece il nipotino, ma il nipotino non ha sporto denuncia. Comunque buttare lì il dubbio sfoggia entrature particolari. (Effedipi)
Cartesio, Renato: era mezzo filosofo e mezzo matematico...non so di dove era, però i francesi ce lo vogliono rubare, anche se ha un tipico nome italiano (loro lo traducono con Descartes). Citare:
1) "Cogito, ergo sum", che vuol dire che se non uno pensa, non vale niente;
2) gli assi cartesiani
3) Via Paolo Fabbri 43 di Guccini: in fondo mi sono simpatici,
da quando ho incontrato Descartes,
ma pensa se le canzonette me le recensisse
Ronald Barthes. ...prepararsi per la domanda su Roland Barthes (vedi sotto)
Barthes, Ronald: famoso critico musicale francese che non voleva recensire le canzoni di Guccini, che ci restava male e si arrabbiava con Bertoncelli. (Apicella).
Einstein, Albert: Fisico tedesco, ebreo. Visse gli anni della gioventu' in Italia, poiche' il padre aveva una fabbrica di lampadine a Pavia. Anche lui come noi non era bravo in matematica. Ha inventato la teoria della relatività, molto complessa, che si può spiegare così: "10 minuti seduti sulla sedia del dentista passano piú lentamente di un'ora con la tua ragazza”.
Nei salotti a prevalenza femminile, accennare con garbo al fatto che i calcoli glieli faceva la moglie bulgara, e che lui la picchiava.
(un po’ Delio, un po’ Marcello, un po’ no).
Euclide: matematico greco, ha inventato la geometria con i quadrati...per fare vedere di saperne, citare sempre le "geometrie non euclidee", che vanno davvero forte..."siete ancora lì con le rette e i piani"?? (Apicella)
Gödel: inventore dell’omonimo teorema: "guarda che ti sei appena contraddetto" "ma che c'entra, gödel ha dimostrato che non esiste la verità assoluta". (Delio)
Hegel, Friedrich: filosofo tedesco vissuto fra il 700 e l'800, uno con le idee molto chiare, ma che amava scrivere in modo molto difficile. Pochissimi capivano quello che scriveva e per non passare male dicevano che era bravo.
I maligni però sostengono che il suo successo derivi dalla disinvolta capacità di cambiare idea. Rivoluzionario ai tempi della rivoluzione francese, Napoleonico ai tempi di Napoleone, conservatore dopo il congresso di Vienna.
Se fosse vivo oggi probabilmente sarebbe direttore di un quotidiano e conduttore tv. (Franco)
Hobbes, Thomas: diceva che l'uomo è fondamentalmente cattivo (quindi c'è bisogno dello Stato sennò gli uomini si scannano tra loro), Rousseau invece sosteneva che l'uomo è fondamentalmente buono (lo Stato non serve a un cazzo). (Bramiero Pinna)
Kerouac, Jack : Citabilissimo con 40/50enni con i jeans che si fanno le canne, fa molto figo. Basta farfugliare On the Road e Beat Generation con aria sognante da Isola di White. Nel caso il 50enne vi importunasse con la sfilza di concerti a cui ha assistito, vi è sufficiente dire che in fondo il finale di Easy Rider era l'unico possibile... e poi darvela a gambe! (Luca)
la teoria del caos: "ebbè, si sa, quando una farfalla sbatte le ali in brasile si scatena una tempesta in giappone". (Delio)
la legge dei grandi numeri: da quel che ho capito, significa che quando una cosa non è mai successa, ci sono molte probabilità che succeda presto. E per ora basta così. Ha suonato il citofono, e magari è Carla Bruni.
Per questo sono grato a tutti quelli che hanno voluto partecipare alla nuova release del
Basic Culture Simulator 1.1
(Colti in cinque minuti!)
Prima di partire coi contributi (ringrazio tutti e mi scuso per i tagli), vi chiedo un’altra cortesia: se incontrate qualcuno che fa uso inconsapevole del Simulator, segnalatemelo!
Stasera ho trovato Antonio Di Pietro. Ma si può fare di meglio. Per esempio, ho sentito dire che i Marlene Kuntz di recente hanno citato la leggerezza di Calvino… esistono riscontri?
Archimede: inventore greco che facendo il bagno ha scoperto che un corpo immerso in liquido riceve una spinta eguale al contraria al suo peso... Prepararsi per la contestazione: "perchè una nave affonda se si riempie di acqua?"...."ma perchè è fatta di un materiale che a contatto con l'acqua perde peso!" ....per stupire tutti, ricordarsi che ha inventato anche gli specchi ustori per abbronzarsi. Eh, non ci sono più gli inventori di una volta, che sapevano far di tutto. Noi siamo molto più ignoranti di loro… (Apicella)
Beethoven, Ludwig: compositore dell'ottocento, se sia stato classico o romantico non lo sapeva nemmeno lui. Citare se possibile la "furia" e il "titanismo". Per un affondo finale alla Cyrano chiudere la combinazione "titanismo" + "michelangiolesco". Noto per aver scritto mari e monti da sordo. C'è chi sostiene che si fece il nipotino, ma il nipotino non ha sporto denuncia. Comunque buttare lì il dubbio sfoggia entrature particolari. (Effedipi)
Cartesio, Renato: era mezzo filosofo e mezzo matematico...non so di dove era, però i francesi ce lo vogliono rubare, anche se ha un tipico nome italiano (loro lo traducono con Descartes). Citare:
1) "Cogito, ergo sum", che vuol dire che se non uno pensa, non vale niente;
2) gli assi cartesiani
3) Via Paolo Fabbri 43 di Guccini: in fondo mi sono simpatici,
da quando ho incontrato Descartes,
ma pensa se le canzonette me le recensisse
Ronald Barthes. ...prepararsi per la domanda su Roland Barthes (vedi sotto)
Barthes, Ronald: famoso critico musicale francese che non voleva recensire le canzoni di Guccini, che ci restava male e si arrabbiava con Bertoncelli. (Apicella).
Einstein, Albert: Fisico tedesco, ebreo. Visse gli anni della gioventu' in Italia, poiche' il padre aveva una fabbrica di lampadine a Pavia. Anche lui come noi non era bravo in matematica. Ha inventato la teoria della relatività, molto complessa, che si può spiegare così: "10 minuti seduti sulla sedia del dentista passano piú lentamente di un'ora con la tua ragazza”.
Nei salotti a prevalenza femminile, accennare con garbo al fatto che i calcoli glieli faceva la moglie bulgara, e che lui la picchiava.
(un po’ Delio, un po’ Marcello, un po’ no).
Euclide: matematico greco, ha inventato la geometria con i quadrati...per fare vedere di saperne, citare sempre le "geometrie non euclidee", che vanno davvero forte..."siete ancora lì con le rette e i piani"?? (Apicella)
Gödel: inventore dell’omonimo teorema: "guarda che ti sei appena contraddetto" "ma che c'entra, gödel ha dimostrato che non esiste la verità assoluta". (Delio)
Hegel, Friedrich: filosofo tedesco vissuto fra il 700 e l'800, uno con le idee molto chiare, ma che amava scrivere in modo molto difficile. Pochissimi capivano quello che scriveva e per non passare male dicevano che era bravo.
I maligni però sostengono che il suo successo derivi dalla disinvolta capacità di cambiare idea. Rivoluzionario ai tempi della rivoluzione francese, Napoleonico ai tempi di Napoleone, conservatore dopo il congresso di Vienna.
Se fosse vivo oggi probabilmente sarebbe direttore di un quotidiano e conduttore tv. (Franco)
Hobbes, Thomas: diceva che l'uomo è fondamentalmente cattivo (quindi c'è bisogno dello Stato sennò gli uomini si scannano tra loro), Rousseau invece sosteneva che l'uomo è fondamentalmente buono (lo Stato non serve a un cazzo). (Bramiero Pinna)
Kerouac, Jack : Citabilissimo con 40/50enni con i jeans che si fanno le canne, fa molto figo. Basta farfugliare On the Road e Beat Generation con aria sognante da Isola di White. Nel caso il 50enne vi importunasse con la sfilza di concerti a cui ha assistito, vi è sufficiente dire che in fondo il finale di Easy Rider era l'unico possibile... e poi darvela a gambe! (Luca)
la teoria del caos: "ebbè, si sa, quando una farfalla sbatte le ali in brasile si scatena una tempesta in giappone". (Delio)
la legge dei grandi numeri: da quel che ho capito, significa che quando una cosa non è mai successa, ci sono molte probabilità che succeda presto. E per ora basta così. Ha suonato il citofono, e magari è Carla Bruni.
venerdì 7 febbraio 2003
Il bello era sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. "Ho imparato", diceva, "a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza..."
Il Sabato seguente
A questo punto è passata ormai una settimana, e qualcuno magari è curioso di sapere come va in città con una sede di Forza Nuova aperta. Ci sono varie novità, ma purtroppo non ho sottomano tutte le fonti.
Per esempio: pare che Forza Nuova sia già stata sfrattata. Ma per ora è solo una voce che gira. Invece è sicuro che gli esercenti della zona stiano raccogliendo firme per mandarla via. E così, dove non è riuscita la Costituzione, potrebbero farcela i negozianti del Centro. Il Consiglio comunale ha votato un'unanime risoluzione di condanna: solo i consiglieri di AN hanno lasciato l'aula. A questo punto mi sento di fare una profezia: tra due anni i soliti personaggi faranno un nuovo comunicato stampa in cui avvertiranno dell'imminente apertura di una sede di Forza Nuova a Modena.
(Io, comunque, ho la sensazione che se davvero i Marziani atterrassero in via Gallucci con un disco volante, affittassero regolarmente una sede, e dichiarassero di voler stabilire rapporti pacifici con l’umanità, probabilmente finirebbero anche loro per scatenare una veemente raccolta di firme da parte dei commercianti del Centro Storico).
Dal canto loro, i forzanuovisti fanno il possibile per rendersi simpatici agli indigeni, distribuendo un volantino in cui promettono di trattare bene il quartiere e difenderne l’identità nazionale. Promettono anche (ho sentito dire) di allontanare "personaggi socialmente indesiderabili" tra cui pare ci siano “comunisti” e i “no global”.
E qui bisogna aprire una parentesi su cosa significa, a Modena, essere “no global”.
In voi forse la parola evoca immagini di tute bianche insanguinate, scudi in plexiglas, vetrine infrante, spalline in gommapiuma. Beh, da noi le cose sono un po’ diverse.
A Modena una volta ho sentito una ragazza dire (seriamente): “No, io preferisco andare al Forum Sociale di Bologna, quello di Modena non mi va, tanto i sacramenti li ho già presi tutti”.
“Come hai detto, scusa?”
“Li ho presi tutti: Battesimo, Comunione, Cresima… per ora sono a posto”.
“Vuoi dire che per te il Modena Social Forum è la continuazione dell’oratorio?”
“Ma insomma, sì”.
Non bisogna dedurne che siano tutti chierichetti, i noglobal modenesi (e sabato s’è visto), ma l’idea che un tabaccaio del centro possa sentirsi minacciato da un noglobal e difeso da un forzanuovista è qualcosa che sfida ogni senso della realtà e del ridicolo.
Pare anche che la polizia stia “visionando i filmati prima di far partire le denuncie”. Così leggevo sul giornale lunedì. Strano, pensavo, io telecamere proprio non ne ho viste. Mah, le avranno nascoste, quelle volpi (ne sanno sempre una più del diavolo).
Stasera mi telefona Cragno, “O, sei a casa? C’ho qui una perla, sapessi”.
“Sentiamo”.
“Sai che io c’ho un mio amico che ha un balcone su largo Garibaldi, no?”
“No”.
“Beh, lui ha girato tutto! La scena che tu insulti il poliziotto…”
“Non l’ho insultato”.
“E poi quando io vado a fotografarli e tu mi stai dietro e la polizia ci carica…”
“Non ci ha caricato”.
“Insomma, si vede tutto!”
“Bello”.
“No, il bello deve ancora venire”.
“Ah sì?”
“Sì, perché la Digos è arrivata in casa del mio amico con una foto ingrandita dove c’è lui sul balcone con la telecamera in mano, e gli hanno detto: vogliamo la videocassetta”.
“Ma lui gli avrà detto che l’aveva cancellata, no?”
“No, sai in quei momenti…”
“Gliel’hanno sequestrata?”
“No, figurati”.
“Ah, meno male”.
“Gliel’hanno chiesta in prestito”.
“Ma lui non gliel’ha data”.
“Eh no”.
“Ah, bene”.
“Gli ha dato solo una copia, l’originale se l’è tenuto”.
“Stai scherzando”.
“No no. Dai, vengo lì e te la mostro. È troppo forte! La tua faccia si vede benissimo!”
La mia faccia si vede fin troppo bene. Vado in giro per la piazza rannicchiato in un cappotto nero (mi stavo prendendo un raffreddore, ma questo nel video non si vede) a fomentar disordini. A parte me, la giacca arancione di ragno, e qualche testa rasata, non si vede nient’altro. Troppo forte.
Una cosa che forse non si è ancora capita, è che sabato in Piazza Torre eravamo pochini. Molti non sono venuti. Altri sono arrivati, hanno visto chi c’era e sono venuti via. Altri hanno mandato giusto il portabandiera. E forse è giusto così, perché Forza Nuova è un fatto grave, ma non basta a unirci un mattino, se per trecentosessanta giorni all’anno siamo divisi su tutto. Il Centro di Permanenza Temporanea, gli acquedotti in vendita, la Coop Estense che assume interinali il giorno dello sciopero dei dipendenti: tutte queste cose non sono meno gravi di Forza Nuova, e le viviamo tutti i giorni.
Infine, segnalo che l’antifascismo, a Modena, si sveglia sempre più presto: sabato il corteo della Sinistra Giovanile partirà alle 8:30. Ci sarà anche il Sindaco, pare. Io probabilmente arriverò più tardi. E alle dieci e mezza – se sono ancora a piede libero – andrò a stampare le pagelle. A (spero) presto.
Il Sabato seguente
A questo punto è passata ormai una settimana, e qualcuno magari è curioso di sapere come va in città con una sede di Forza Nuova aperta. Ci sono varie novità, ma purtroppo non ho sottomano tutte le fonti.
Per esempio: pare che Forza Nuova sia già stata sfrattata. Ma per ora è solo una voce che gira. Invece è sicuro che gli esercenti della zona stiano raccogliendo firme per mandarla via. E così, dove non è riuscita la Costituzione, potrebbero farcela i negozianti del Centro. Il Consiglio comunale ha votato un'unanime risoluzione di condanna: solo i consiglieri di AN hanno lasciato l'aula. A questo punto mi sento di fare una profezia: tra due anni i soliti personaggi faranno un nuovo comunicato stampa in cui avvertiranno dell'imminente apertura di una sede di Forza Nuova a Modena.
(Io, comunque, ho la sensazione che se davvero i Marziani atterrassero in via Gallucci con un disco volante, affittassero regolarmente una sede, e dichiarassero di voler stabilire rapporti pacifici con l’umanità, probabilmente finirebbero anche loro per scatenare una veemente raccolta di firme da parte dei commercianti del Centro Storico).
Dal canto loro, i forzanuovisti fanno il possibile per rendersi simpatici agli indigeni, distribuendo un volantino in cui promettono di trattare bene il quartiere e difenderne l’identità nazionale. Promettono anche (ho sentito dire) di allontanare "personaggi socialmente indesiderabili" tra cui pare ci siano “comunisti” e i “no global”.
E qui bisogna aprire una parentesi su cosa significa, a Modena, essere “no global”.
In voi forse la parola evoca immagini di tute bianche insanguinate, scudi in plexiglas, vetrine infrante, spalline in gommapiuma. Beh, da noi le cose sono un po’ diverse.
A Modena una volta ho sentito una ragazza dire (seriamente): “No, io preferisco andare al Forum Sociale di Bologna, quello di Modena non mi va, tanto i sacramenti li ho già presi tutti”.
“Come hai detto, scusa?”
“Li ho presi tutti: Battesimo, Comunione, Cresima… per ora sono a posto”.
“Vuoi dire che per te il Modena Social Forum è la continuazione dell’oratorio?”
“Ma insomma, sì”.
Non bisogna dedurne che siano tutti chierichetti, i noglobal modenesi (e sabato s’è visto), ma l’idea che un tabaccaio del centro possa sentirsi minacciato da un noglobal e difeso da un forzanuovista è qualcosa che sfida ogni senso della realtà e del ridicolo.
Pare anche che la polizia stia “visionando i filmati prima di far partire le denuncie”. Così leggevo sul giornale lunedì. Strano, pensavo, io telecamere proprio non ne ho viste. Mah, le avranno nascoste, quelle volpi (ne sanno sempre una più del diavolo).
Stasera mi telefona Cragno, “O, sei a casa? C’ho qui una perla, sapessi”.
“Sentiamo”.
“Sai che io c’ho un mio amico che ha un balcone su largo Garibaldi, no?”
“No”.
“Beh, lui ha girato tutto! La scena che tu insulti il poliziotto…”
“Non l’ho insultato”.
“E poi quando io vado a fotografarli e tu mi stai dietro e la polizia ci carica…”
“Non ci ha caricato”.
“Insomma, si vede tutto!”
“Bello”.
“No, il bello deve ancora venire”.
“Ah sì?”
“Sì, perché la Digos è arrivata in casa del mio amico con una foto ingrandita dove c’è lui sul balcone con la telecamera in mano, e gli hanno detto: vogliamo la videocassetta”.
“Ma lui gli avrà detto che l’aveva cancellata, no?”
“No, sai in quei momenti…”
“Gliel’hanno sequestrata?”
“No, figurati”.
“Ah, meno male”.
“Gliel’hanno chiesta in prestito”.
“Ma lui non gliel’ha data”.
“Eh no”.
“Ah, bene”.
“Gli ha dato solo una copia, l’originale se l’è tenuto”.
“Stai scherzando”.
“No no. Dai, vengo lì e te la mostro. È troppo forte! La tua faccia si vede benissimo!”
La mia faccia si vede fin troppo bene. Vado in giro per la piazza rannicchiato in un cappotto nero (mi stavo prendendo un raffreddore, ma questo nel video non si vede) a fomentar disordini. A parte me, la giacca arancione di ragno, e qualche testa rasata, non si vede nient’altro. Troppo forte.
Una cosa che forse non si è ancora capita, è che sabato in Piazza Torre eravamo pochini. Molti non sono venuti. Altri sono arrivati, hanno visto chi c’era e sono venuti via. Altri hanno mandato giusto il portabandiera. E forse è giusto così, perché Forza Nuova è un fatto grave, ma non basta a unirci un mattino, se per trecentosessanta giorni all’anno siamo divisi su tutto. Il Centro di Permanenza Temporanea, gli acquedotti in vendita, la Coop Estense che assume interinali il giorno dello sciopero dei dipendenti: tutte queste cose non sono meno gravi di Forza Nuova, e le viviamo tutti i giorni.
Infine, segnalo che l’antifascismo, a Modena, si sveglia sempre più presto: sabato il corteo della Sinistra Giovanile partirà alle 8:30. Ci sarà anche il Sindaco, pare. Io probabilmente arriverò più tardi. E alle dieci e mezza – se sono ancora a piede libero – andrò a stampare le pagelle. A (spero) presto.
giovedì 6 febbraio 2003
Il cielo è azzurro di un azzurro febbraio, e alla fermata del bus i ragazzini hanno facce torve: è Tempo di scrutini, again.
Tempo di dissanguar le rape.
Vi siete mai chiesti come si scrivono i “giudizi globali”? Quegli elaborati giri di parole sull’ultima facciata della pagella dove per venti righe si indugia sul concetto “il ragazzo ha qualità, ma potrebbe dare di più?”
Io sì, me lo sono sempre chiesto. Almeno per cinque secondi a quadrimestre. (Poi me ne dimenticavo. Nessuno ricorda i giudizi globali).
E ora che sono dall’altra parte della barricata, so. Esistono campionari di frasi fatte, che si tramandano di consiglio di classe in consiglio di classe. I più antichi si perdono nella notte del ciclostile, ma i più moderni si conservano nei computer, avete letto bene, c o m p u t e r .
L’anno scorso dovevo lavorare su un 386-Olivetti parastatale (sì, quelli con lo sportellino per l’alimentazione a carbonella), che ignorava ancora l’uso del mouse. Una bella scuola di umiltà per un ex cliccatore professionista: dovevo prendere lezione da gentili cinquantenni (“adesso premi effe dieci, poi vai a destra, premi return…”).
La scuola dove sto quest’anno è già nell’era “uord-per-uindos”. C’è un Dischetto con tutte le frasi usabili: tieni quello che ti piace e cancelli il resto.
L’attenzione in classe è stata sufficientemente/abbastanza/molto consapevole costante vivace buona discreta superficiale scarsa saltuaria discontinua labile
Possiede un metodo di studio sufficiente abbastanza molto ordinato autonomo diligente personale preciso produttivo efficace
Non ha ancora acquisito un metodo di studio e/perché l’organizzazione del lavoro è dispersiva disordinata superficiale frettolosa sbrigativa poco precisa poco autonoma manca di rielaborazione…
Resta ben poco spazio per l’improvvisazione creativa.
È per questo che vorrei salvare il piccolo capolavoro di una mia collega che, non sapendo dell’esistenza del Dischetto Globale, i giudizi se li è scritti a mano:
Si avvia lentamente verso l’acquisizione dei prerequisiti necessari ad affrontare le più elementari abilità di base.
Leggetelo due o tre volte e poi ditemi se non si merita un Oscar per l’Eufemismo.
Tempo di dissanguar le rape.
Vi siete mai chiesti come si scrivono i “giudizi globali”? Quegli elaborati giri di parole sull’ultima facciata della pagella dove per venti righe si indugia sul concetto “il ragazzo ha qualità, ma potrebbe dare di più?”
Io sì, me lo sono sempre chiesto. Almeno per cinque secondi a quadrimestre. (Poi me ne dimenticavo. Nessuno ricorda i giudizi globali).
E ora che sono dall’altra parte della barricata, so. Esistono campionari di frasi fatte, che si tramandano di consiglio di classe in consiglio di classe. I più antichi si perdono nella notte del ciclostile, ma i più moderni si conservano nei computer, avete letto bene, c o m p u t e r .
L’anno scorso dovevo lavorare su un 386-Olivetti parastatale (sì, quelli con lo sportellino per l’alimentazione a carbonella), che ignorava ancora l’uso del mouse. Una bella scuola di umiltà per un ex cliccatore professionista: dovevo prendere lezione da gentili cinquantenni (“adesso premi effe dieci, poi vai a destra, premi return…”).
La scuola dove sto quest’anno è già nell’era “uord-per-uindos”. C’è un Dischetto con tutte le frasi usabili: tieni quello che ti piace e cancelli il resto.
L’attenzione in classe è stata sufficientemente/abbastanza/molto consapevole costante vivace buona discreta superficiale scarsa saltuaria discontinua labile
Possiede un metodo di studio sufficiente abbastanza molto ordinato autonomo diligente personale preciso produttivo efficace
Non ha ancora acquisito un metodo di studio e/perché l’organizzazione del lavoro è dispersiva disordinata superficiale frettolosa sbrigativa poco precisa poco autonoma manca di rielaborazione…
Resta ben poco spazio per l’improvvisazione creativa.
È per questo che vorrei salvare il piccolo capolavoro di una mia collega che, non sapendo dell’esistenza del Dischetto Globale, i giudizi se li è scritti a mano:
Si avvia lentamente verso l’acquisizione dei prerequisiti necessari ad affrontare le più elementari abilità di base.
Leggetelo due o tre volte e poi ditemi se non si merita un Oscar per l’Eufemismo.
mercoledì 5 febbraio 2003
Fate colpo in società con il…
Leonardo’s Basic Culture Simulator!
Se lavorate dalle sei alle otto ore al giorno (e non dite di più, cazzeggiatori dissimulati che non siete altro), se passate un’ora nel traffico urbano e un’altra oretta e mezza nel traffico telematico, a evadere posta elettronica e leggere blog sempre interessantissimi, come questo; se appartenete a quella bolsa schiera di persone che non riescono a fare a meno di dormire almeno sei ore su 24; se mangiate, bevete, evacuate con la medesima banale regolarità; se avete una famiglia che gradirebbe in qualche modo interagire con voi nelle restanti ore del giorno (tacendo degli amici, della tv, dei concerti e di quando forse vale la pena di restare fermi a fissare il soffitto), la domanda sorge spontanea: che tempo vi resta per farvi una cultura?
Una cultura seria, dico, mica i fumetti.
“Adesso che ci penso hai proprio ragione, è da tanto che non leggo un libro, e l’ultimo era una scemenza pompata dal tale ufficio stampa, ma quando in società si parla di Dostoevskij mi faccio piccolo piccolo”.
Beh, non temere, amico utente! Sono qua per aiutarti col mio nuovo trendissimo progetto! Il Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base 1.0!
Come si usa? Facile. Tu impari a memoria la frase e non devi più leggere nulla dello specifico autore. Lo so che sembra assurdo, ma ti garantisco che funziona! Io lo sperimento da anni, e la gente mi porta rispetto. Provalo! È gratis!
Calvino, Italo: scrittore del Novecento. Ha scritto da qualche parte che bisogna essere leggeri, sempre molto leggeri. Ogni volta che qualcuno tira fuori la parola “leggerezza”, voi rubategli le parole di bocca ribadendo immediatamente: “Eh, sì, la leggerezza di Calvino”. La discussione si avvierà rapidamente alla conclusione.
(Calvino è uno degli scrittori italiani più complessi e pesanti, ma questo non occorre saperlo).
Pasolini, Pierpaolo: gay del Novecento. Quando i poliziotti menavano i sessantottini, lui stava coi poliziotti, perché erano veri proletari. Citarlo il giorno prima e il giorno dopo di qualsiasi scontro di piazza.
(Poi un giorno qualcuno, probabilmente più vicino a un poliziotto che a un sessantottino, gli passò e ripassò sopra con una macchina, ma questo non occore saperlo).
Brecht Bertolt: chi dice un comunista, chi un rapinatore, comunque del Novecento. Di lui bisogna saper recitare: “il vero ladro non è chi rompe una banca, ma chi la fonda”. È una frase che ti dà un tono, specie se ti trovano con una spranga davanti a un bancomat. Ha detto anche che, se tutti i posti sono occupati, bisogna sedersi dalla parte del torto. Cosa volesse dire non lo so, ma intanto accomodiamoci.
Manzoni, Alessandro: scrittore che si studia a scuola, quindi l’avete studiato anche voi, fa nulla se non vi ricordate il finale, tanto si sapeva fin dall’inizio che quei due si sposano. Cattolico, noioso, superato. La Divina Provvidenza, figurati. Una volta, al dipartimento d’Italianistica, una tipa mi disse che forse era gay.
Leopardi, Giacomo: poeta che si studia a scuola, di solito in quinta superiore a novembre (e le statistiche sui suicidi degli adolescenti levitano). Gobbo che viveva a Recanati e odiava tutti, tranne le donzellette già morte. Ha scritto poesie immortali sull’infelicità, però, diciamocelo, in quanto gobbo gli venivano facili.
Baudelaire, Charles: poeta dell’Ottocento. Eh, chissà che roba che si fumava. Ha scritto… ha scritto… ha scritto delle poesie indimenticabili, come per esempio… per esempio… il Battello Ebbro, non era suo? Ah, era di Rimbaud? Vabbè, tanto più o meno si fumavano la stessa roba.
Schopenhauer, Arthur: filosofo dell’Ottocento. Insegnava nelle stesse ore di Hegel per fargli dispetto. Diceva che tutto è vanità. Ai banchetti si abbuffava e tesseva le lodi del suicidio. Buttò una vecchietta giù dalle scale.
Wittgenstein, Ludwig: filosofo del Novecento. Ha scritto: “di quello che non si può parlare bisogna tacere”: è una frase che può venire molto utile, specie dopo le due del mattino. Picchiava i bambini.
Dostoevskij, Fëdor: scrittore dell’Ottocento. Nei suoi romanzi ci si interroga sul cos’è il Bene, così il Male, e se esista Dio: problemi che potevano venire in mente solo a un vecchio russo pazzo come lui. Forse ha s t u p r a t o dei bambini, ma non è sicuro.
Heidegger, Martin: filosofo del Novecento, uno dei più importanti. Ecco, io, se devo essere onesto, non ho mai capito assolutamente di cosa parlasse, e nelle conversazioni mi sono più di una volta rifugiato nel luogo comune: “Heidegger, ah, sì, quel nazista di merda”. Ma sotto sotto mi vergognavo. Poi, finalmente, domenica scorsa ho trovato sulla Repubblica un pezzo di Gianni Vattimo (pag. 35), e mi ci sono buttato con impegno:
La filosofia di Heidegger è una filosofia dell’emancipazione attraverso la riduzione del peso dell’essente a favore dell’essere. La frase di Sein und Zeit: “Essere, non ente, si dà nella misura in cui c’è verità; e verità c’è solo in quanto c’è l’esserci”, va letta, alla luce di tutta l’opera heideggeriana e anche dell’ermeneutica che si è sviluppata da lui, come un “imperativo” più che un indicativo. Dal resto non si può pensare che Heidegger voglia mai comunque “descrivere” o enunciare una qualche verità su come l’essere, le cose, l’esserci, è: giacché non ha mai creduto alla corrispondenza e dunque alla filosofia come descrizione dell’essere o del reale…
Heidegger dunque, beh…
Che nazista di merda.
(volete collaborare alla prossima release del Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base?: scrivete!)
Leonardo’s Basic Culture Simulator!
Se lavorate dalle sei alle otto ore al giorno (e non dite di più, cazzeggiatori dissimulati che non siete altro), se passate un’ora nel traffico urbano e un’altra oretta e mezza nel traffico telematico, a evadere posta elettronica e leggere blog sempre interessantissimi, come questo; se appartenete a quella bolsa schiera di persone che non riescono a fare a meno di dormire almeno sei ore su 24; se mangiate, bevete, evacuate con la medesima banale regolarità; se avete una famiglia che gradirebbe in qualche modo interagire con voi nelle restanti ore del giorno (tacendo degli amici, della tv, dei concerti e di quando forse vale la pena di restare fermi a fissare il soffitto), la domanda sorge spontanea: che tempo vi resta per farvi una cultura?
Una cultura seria, dico, mica i fumetti.
“Adesso che ci penso hai proprio ragione, è da tanto che non leggo un libro, e l’ultimo era una scemenza pompata dal tale ufficio stampa, ma quando in società si parla di Dostoevskij mi faccio piccolo piccolo”.
Beh, non temere, amico utente! Sono qua per aiutarti col mio nuovo trendissimo progetto! Il Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base 1.0!
Come si usa? Facile. Tu impari a memoria la frase e non devi più leggere nulla dello specifico autore. Lo so che sembra assurdo, ma ti garantisco che funziona! Io lo sperimento da anni, e la gente mi porta rispetto. Provalo! È gratis!
Calvino, Italo: scrittore del Novecento. Ha scritto da qualche parte che bisogna essere leggeri, sempre molto leggeri. Ogni volta che qualcuno tira fuori la parola “leggerezza”, voi rubategli le parole di bocca ribadendo immediatamente: “Eh, sì, la leggerezza di Calvino”. La discussione si avvierà rapidamente alla conclusione.
(Calvino è uno degli scrittori italiani più complessi e pesanti, ma questo non occorre saperlo).
Pasolini, Pierpaolo: gay del Novecento. Quando i poliziotti menavano i sessantottini, lui stava coi poliziotti, perché erano veri proletari. Citarlo il giorno prima e il giorno dopo di qualsiasi scontro di piazza.
(Poi un giorno qualcuno, probabilmente più vicino a un poliziotto che a un sessantottino, gli passò e ripassò sopra con una macchina, ma questo non occore saperlo).
Brecht Bertolt: chi dice un comunista, chi un rapinatore, comunque del Novecento. Di lui bisogna saper recitare: “il vero ladro non è chi rompe una banca, ma chi la fonda”. È una frase che ti dà un tono, specie se ti trovano con una spranga davanti a un bancomat. Ha detto anche che, se tutti i posti sono occupati, bisogna sedersi dalla parte del torto. Cosa volesse dire non lo so, ma intanto accomodiamoci.
Manzoni, Alessandro: scrittore che si studia a scuola, quindi l’avete studiato anche voi, fa nulla se non vi ricordate il finale, tanto si sapeva fin dall’inizio che quei due si sposano. Cattolico, noioso, superato. La Divina Provvidenza, figurati. Una volta, al dipartimento d’Italianistica, una tipa mi disse che forse era gay.
Leopardi, Giacomo: poeta che si studia a scuola, di solito in quinta superiore a novembre (e le statistiche sui suicidi degli adolescenti levitano). Gobbo che viveva a Recanati e odiava tutti, tranne le donzellette già morte. Ha scritto poesie immortali sull’infelicità, però, diciamocelo, in quanto gobbo gli venivano facili.
Baudelaire, Charles: poeta dell’Ottocento. Eh, chissà che roba che si fumava. Ha scritto… ha scritto… ha scritto delle poesie indimenticabili, come per esempio… per esempio… il Battello Ebbro, non era suo? Ah, era di Rimbaud? Vabbè, tanto più o meno si fumavano la stessa roba.
Schopenhauer, Arthur: filosofo dell’Ottocento. Insegnava nelle stesse ore di Hegel per fargli dispetto. Diceva che tutto è vanità. Ai banchetti si abbuffava e tesseva le lodi del suicidio. Buttò una vecchietta giù dalle scale.
Wittgenstein, Ludwig: filosofo del Novecento. Ha scritto: “di quello che non si può parlare bisogna tacere”: è una frase che può venire molto utile, specie dopo le due del mattino. Picchiava i bambini.
Dostoevskij, Fëdor: scrittore dell’Ottocento. Nei suoi romanzi ci si interroga sul cos’è il Bene, così il Male, e se esista Dio: problemi che potevano venire in mente solo a un vecchio russo pazzo come lui. Forse ha s t u p r a t o dei bambini, ma non è sicuro.
Heidegger, Martin: filosofo del Novecento, uno dei più importanti. Ecco, io, se devo essere onesto, non ho mai capito assolutamente di cosa parlasse, e nelle conversazioni mi sono più di una volta rifugiato nel luogo comune: “Heidegger, ah, sì, quel nazista di merda”. Ma sotto sotto mi vergognavo. Poi, finalmente, domenica scorsa ho trovato sulla Repubblica un pezzo di Gianni Vattimo (pag. 35), e mi ci sono buttato con impegno:
La filosofia di Heidegger è una filosofia dell’emancipazione attraverso la riduzione del peso dell’essente a favore dell’essere. La frase di Sein und Zeit: “Essere, non ente, si dà nella misura in cui c’è verità; e verità c’è solo in quanto c’è l’esserci”, va letta, alla luce di tutta l’opera heideggeriana e anche dell’ermeneutica che si è sviluppata da lui, come un “imperativo” più che un indicativo. Dal resto non si può pensare che Heidegger voglia mai comunque “descrivere” o enunciare una qualche verità su come l’essere, le cose, l’esserci, è: giacché non ha mai creduto alla corrispondenza e dunque alla filosofia come descrizione dell’essere o del reale…
Heidegger dunque, beh…
Che nazista di merda.
(volete collaborare alla prossima release del Leonardo’s Simulatore di Cultura di Base?: scrivete!)
martedì 4 febbraio 2003
L’ombelico dei blog
Certe sere mi chiedo se anche questi blog non siano per caso il proseguimento di quella letteratura del guardarsi l’ombelico, che andava qualche anno fa e che forse, chissà, va ancora.
Dipenderà dai casi, e poi è inevitabile: questa comunità di persone non ha altro in comune che tenere un blog; se vogliono comunicare tra loro è di blog che devono parlare.
Se però certe sere vi stancate, di leggere blog di persone che raccontano del loro blog, magari è il momento di consigliarvi il sito di un mio amico (e ti pareva), un blog narrativo, sincero, anche un po’ coraggioso, rigorosamente senza link, ma che merita di essere lincato più di quanto già non sia.
...Io stesso, siccome non mi porto mai a casa le Jinetere del Paraiso, vengo preso da qualcuno per omosessuale. E un ragazzino arriverà a offrirmisi. Ma sempre sottovoce. Con una discrezione che non è nemmeno lontana parente del baccano delle donne, che ti si gettano quasi letteralmente addosso.
Una ragazza (Jacqueline) arriverà una volta a dirmi che sono omosessuale perché mi lascio toccare il sedere dalle donne. Nessun macho cubano lo farebbe mai.
Ed effettivamente, anche nelle discoteche, le donne si permettono a volte di metterti la mano sui genitali. Mai sul sedere.
Il Diario di Cuba è on line da un mese. È un taccuino di viaggio senza fronzoli ed espressionismi: più che di un diario ha davvero lo stile di un blog (e qui si potrebbe aprire un dibattito, ma stasera no); più che imporre le sue esperienze, le mette a disposizione del lettore, che ne faccia quello che vuole. E senza tante cerimonie, pulitamente, racconta di Cuba, del turismo di nicchia e della prostituzione di massa. Forse certe sere può riuscire più interessante dei soliti blog che parlano di gente che ha un blog (questo incluso).
Diario di Cuba, dunque: ci trovi sempre ombelichi, ma più esotici del solito. E per una volta anche Google t’indirizza bene.
Certe sere mi chiedo se anche questi blog non siano per caso il proseguimento di quella letteratura del guardarsi l’ombelico, che andava qualche anno fa e che forse, chissà, va ancora.
Dipenderà dai casi, e poi è inevitabile: questa comunità di persone non ha altro in comune che tenere un blog; se vogliono comunicare tra loro è di blog che devono parlare.
Se però certe sere vi stancate, di leggere blog di persone che raccontano del loro blog, magari è il momento di consigliarvi il sito di un mio amico (e ti pareva), un blog narrativo, sincero, anche un po’ coraggioso, rigorosamente senza link, ma che merita di essere lincato più di quanto già non sia.
...Io stesso, siccome non mi porto mai a casa le Jinetere del Paraiso, vengo preso da qualcuno per omosessuale. E un ragazzino arriverà a offrirmisi. Ma sempre sottovoce. Con una discrezione che non è nemmeno lontana parente del baccano delle donne, che ti si gettano quasi letteralmente addosso.
Una ragazza (Jacqueline) arriverà una volta a dirmi che sono omosessuale perché mi lascio toccare il sedere dalle donne. Nessun macho cubano lo farebbe mai.
Ed effettivamente, anche nelle discoteche, le donne si permettono a volte di metterti la mano sui genitali. Mai sul sedere.
Il Diario di Cuba è on line da un mese. È un taccuino di viaggio senza fronzoli ed espressionismi: più che di un diario ha davvero lo stile di un blog (e qui si potrebbe aprire un dibattito, ma stasera no); più che imporre le sue esperienze, le mette a disposizione del lettore, che ne faccia quello che vuole. E senza tante cerimonie, pulitamente, racconta di Cuba, del turismo di nicchia e della prostituzione di massa. Forse certe sere può riuscire più interessante dei soliti blog che parlano di gente che ha un blog (questo incluso).
Diario di Cuba, dunque: ci trovi sempre ombelichi, ma più esotici del solito. E per una volta anche Google t’indirizza bene.
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