Un giorno alla Rai
Sono stati tutti molto gentili.
Mi mandano un'auto alla stazione, non la trovo, allora mi pagano un taxi; mi offrono un lauto pranzo alla mensa Rai, in un momento in cui grazie al cielo non c'è folla (sono già passati i “lanzichenecchi”, quelli della Prova del Cuoco). Senza che io glielo domandi (e forse ne avrei avuto pudore) mi regalano anche il classico giro degli studios: la Prova del Cuoco no, pare che l'odore alla fine della trasmissione sia insostenibile, ma quello dello spezzone domenicale di Baudo, indovinate un po': in tv sembrava più grande. L'arena di Annozero mette perfino ansia, è piccolina e a fari accesi tutta grigia.
Fanno di tutto per farmi sentire a mio agio. Io faccio di tutto per sembrare a mio agio. Non sono a mio agio.
Devo parlare in televisione. Mal che vada nessuno se ne accorgerà; è un programma che va all'una di notte.
Rappresento, me lo dicono, tutti gli insegnanti anche più sfigati di me che non hanno mai voce in capitolo. Stavolta in teoria la voce ce l'ho, un cinque minuti su mezz'ora di trasmissione forse mi spettano, ma se m'incanto? Se m'impapero? Se mi sbaglio?
Non la persona più telegenica al mondo: allo stesso tempo credo di potermela giocare. Come oratore sono un po' incostante: so cavarmela, a volte regalo persino, ma ho bisogno di scaldarmi un po'. Non ci sarà tempo per scaldarsi: 40 minuti e sarà tutto finito. Se fossi in un'aula, davanti ai ragazzini, potrei dare il massimo. Ma non ci sono ragazzini qui: sono seduto tra l'Onorevole Aprea e la Senatrice Garavaglia.
L'On. Aprea me la sono studiata.
È la firmataria di una proposta di legge che, sepolta da qualche parte tra Palazzo Madama e Montecitorio, a tempo debito farà esplodere la scuola pubblica italiana. L'ho letta. In pratica ci si propone di trasformare le scuole in fondazioni. Le fondazioni ovviamente saranno libere di finanziarsi a modo loro. Questo tipo di scuole una quota del 30% di stranieri non avrà nemmeno bisogno di fissarla. Ecco una domanda che vorrei farle, ma ne avrò il tempo? Le domande mica devo farle io. Mi dicono di sì, che posso interrompere, se ho qualcosa di concreto. L'idea è che io rappresento la scuola concreta, contro gli alti papaveri. Però io so che l'On. Aprea è stata dirigente scolastica a Rozzano, mica Cambridge. Va a finire che è un mastino, l'On. Aprea. Non devo farmi intimorire, ma in realtà sono già intimorito. Se mi blocco, se faccio una papera, è tutto il corpo docente che s'impapera con me.
La Garavaglia è una sorpresa, lo scopro un paio d'ore prima di andare in onda. Appena penso a lei mi torna in mente un pezzo che le ho dedicato, in cui le proponevo di bruciare nottetempo le scuole cattoliche. La Garavaglia è del '47, potrebbe essere mia madre. Ecco un altro problema. Queste persone importanti, che masticano legislatura mentre io faccio fatica a tenere un registro, sono anche due signore. Queste due signore hanno anche una certa età. Possono anche essere il Nemico, se ci rifletto io so che sono il Nemico, però oggettivamente sono seduto tra due signore di una certa età. Devo interromperle? Essere sgarbato? Io, quando La Russa interrompe le signore in tv, gli tirerei le orecchie. Non voglio finire così. Nemmeno voglio fare tappezzeria.
Non ho neanche il tempo di pensarci che siamo già seduti. Cerco di tenere la schiena dritta – mi sento una scopa in c. - non devo voltare la testa – mentre ci penso la sto già voltando. Le due signore sono molto più tranquille, e poi si conoscono. Hanno fretta, ché c'è un aereo da prendere; da quel che ho capito lo prenderanno insieme. Ci sarà un convegno da qualche parte. Il dialogo seguente ovviamente è di fantasia.
ONOREVOLE: “Che bella spilla, a forma di farfalla”.
SENATRICE: “Vero? È stato mio marito a iniziare a regalarmele, quando ho finito il ministero... mi ha detto è una liberazione più per me che per te”.
ONOREVOLE: “Certo che le farfalline... in questo periodo”.
SENATRICE: “Eh, lo so... c'è un altro che le regala”.
È probabilmente la mia fantasia malata che mi fa immaginare due parlamentari d'opposta fazione intente a ironizzare sui cadeaux del Presidente del Consiglio. Ma insomma, le due signore vanno d'amore e d'accordo. Lodano le trasmissioni di RaiEdu, si lamentano perché vanno sempre in onda troppo tardi, “dovremmo fare qualcosa”. Io annuisco, vorrei essere gentile e allo stesso tempo so che se sarò troppo gentile poi non riuscirò più a essere cattivo.
ONOREVOLE: “Quant'è riposante l'orologio Rai, vero?”
LEONARDO: “Eh?”
In effetti oltre la scenografia c'è un monitor in bianco e nero, con l'orologio in grafica anni '80 che manda l'ora esatta dell'Istituto G. Ferraris.
LEO: “Ma già, è vero... è da tanti anni che non lo vedo...”
ON: “Mi dà pace... è un po' come...”
LEO: “Le pecore”.
ON: “Le pecore, è vero, che bello che era l'Intervallo di una volta”.
Mi sento un uomo all'incrocio dei mondi, delle generazioni. Quanti come me conoscono Fabri Fibra e la Toccata In La Per Arpa Sola di Pier Domenico Paradisi, soundtrack immortale dell'Intervallo Con Le Pecore. Tra qualche anno, se il generational divide va avanti così, mi faranno fare l'interprete ufficiale: il rappresentante dei teenager chiede qualcosa (“le bottigliette d'acqua della macchinetta sono troppo piccole per farsi”, Leonardo traduce, il rappresentante degli adulti risponde “ma se introducessimo bottiglie da 1500 ml. voi potreste usarle come corpi contundenti”, Leonardo traduce).
È cominciata la trasmissione. Le immagini di Luzzara mi fanno sentire a casa, anche se io a Luzzara non ci sono mai stato; però i miei studenti hanno quel colore lì, gli indiani hanno quel buffo codino in cima alla testa, coperto con un fazzoletto, e lineamenti gentili che a volte ci fanno prendere maschi per femmine.
Mentre la conduttrice, Valeria Coiante, chiede qualcosa alle signore, io comincio a friggere. Per quanto equilibrato, il filmato suggerisce l'idea che il futuro di Luzzara sia indù. Non è così: i bambini italiani ci sono. Ma si sono iscritti alla scuola parrocchiale, che di alunni stranieri ne ha accettati soltanto otto. Per me l'ingiustizia è tutta qui: fissare delle quote nelle scuole pubbliche e lasciare che le scuole private accettino solo chi vogliono. In fondo è l'unica cosa che devo dire: poi posso anche tornarmene a casa.
Tocca a me. Stabilisco un punto: io gli stranieri in classe ormai non li conto più, perché cosa vuole dire “straniero”? Ce ne sono di perfettamente integrati, più di altri italiani. Dietro di me ho un foglietto ripiegato, il tema di un mio studente, che dice le stesse cose. Potrei tirarlo fuori, ma mi sembra troppo presto. Ovviamente l'occasione non si ripeterà.
Comunque, se proprio devo contarli, ne ho parecchi. Sono fuori quota: ma nella mia stessa scuola ci sono classi che quasi non ne hanno. Qui però la Garavaglia si intromette, ha già capito come stanno le cose: è colpa del Preside. Io metto chilometri di mani avanti, primo perché non voglio litigare col mio Preside; secondo perché non è vero che è colpa sua: è il Piano dell'Offerta Formativa, è la possibilità che hanno i genitori di scegliere le classi ai loro frugoletti... ma nel momento in cui getto sul piatto della discussione le parole “Piano dell'Offerta Formativa”, il ritmo sprofonda, e perdo la parola.
Domanda a bruciapelo: gli stranieri rallentano o no? Dico di sì, inutile essere ipocriti, e poi cerco di recuperare. Le classi dove va la maggior parte degli stranieri sono le classi meno ambite, vale a dire quelle dove si concentrano anche gli studenti italiani delle famiglie più... mi viene la parola “sfigate” ma non posso dirla. E allora fornisco questa garbata perifrasi: “anche gli italiani sono... italiani che... possono provenire da situazioni... non semplici”. Peggiore eufemismo 2009.
A questo punto sono carne per la Garavaglia. Che regala un bel quadretto anni Sessanta, quando il Preside metteva gli insegnanti bravi nel corso A, quelli meno bravi nel B, i supplenti nel C... io dico no, scrollo la testa, ma è inutile. La palla passa all'Aprea, che comincia a spiegare la necessità di mettere una quota al 30%. E a quel punto io la interrompo, sì: mando al diavolo la nostra solidarietà di antichi ammiratori di pecorelle Rai e miro al mio obbiettivo. Non so se faccio centro, ma non devo essere arrivato lontano. In sostanza dico questo: quote 30%? Va bene, ma anche nelle scuole paritarie. E qui la Garavaglia interviene di nuovo: non si può, finché le paritarie non saranno finanziate come le pubbliche. Ma qui è lei che s'accartoccia un po', la risposta non è convincente (anche perché tratteggia, senza volere, una rivoluzione: soldi a tutte le scuole, private o no).
Un altro filmato, stavolta su Bolzano. Nella penombra del fuori-onda, concordiamo in tre che Bolzano non è proprio la realtà più significativa. Poi gli insegnanti bolzanini cominciano a dire qualche strafalcione, e la Garavaglia s'adonta. Lo farà anche notare in onda.
Riparte il dibattito. Mi chiedono cosa penso delle classi Ponte. Io, ma qui è colpa mia, rallento la discussione. Pauso troppo. Dico che le classi ponte andrebbero bene in certi casi: ma dove sono tutti questi casi? Dove sono tutti questi paesini col 90% di studenti stranieri? Prendi quello del primo filmato, Luzzara: non è vero che ci sono solo studenti stranieri; c'è una scuola del parroco che ha scelto di non prenderli. Ci sono regole che valgono solo per lo Stato e non per i dirigenti di scuole paritarie. È fatta, l'ho detto. Spero di averlo detto bene, ma credo di sì. Posso anche andare a casa.
La discussione però prende una piaga curiosa: la Garavaglia, che prima aveva dato tutta la colpa ai presidi, ha capito che la colpa è dei genitori. Così, ha cambiato idea in cinque minuti: dai presidi generatori di apartheid ai genitori xenofobi. Mi tocca intervenire (scusandomi, e promettendo di non interrompere più) in difesa dei poveracci che a settembre non conoscono ancora i compagni dei loro figli, ma leggono solo uno strano cognome sull'appello: non è nulla di clamoroso, la xenofobia, è la paura dell'ignoto. Ma ho capito che la Garavaglia è una così: è una che ti fa la morale. I presidi non dovrebbero fare certe classi, i bolzanini dovrebbero parlare un italiano perfetto, i genitori non dovrebbero avere paura dell'ignoto. La Garavaglia giudica il mondo per quello che dovrebbe essere; e se non è così si lamenta dei suoi stessi elettori. Per carità, anch'io vorrei migliorare un po' il mondo che mi trovo attorno, però prima devo capire perché funziona in un certo modo; non è che appena le cose non vanno secondo il mio modello mi metto a fare la morale. Se lei fosse di sinistra direi che la sinistra perde anche per questo motivo. Ma preferisco dire che è per questo motivo che vince la destra, anche senza dire niente. In effetti l'Aprea dice poco o nulla. In mezzo a quel poco o nulla c'è anche una garbata autocritica al governo, ma garbata garbata, all'una di notte, non se ne accorgerà nessuno. In compenso l'Aprea non chiede all'italiano medio di non aver paura dell'unheimliche, che è un po' come chiedere alla zanzara di non pungere, o al mandrillo di non copulare, o a Berlusconi di non fare il mandrillo.
In un attimo è già finita. “Siamo andati bene, no?” mi chiedono le signore. Dicono “andati”, quindi parlano anche di me. “Abbiamo detto quel che c'è da dire”. Io addirittura chiedo scusa all'Onorevole per averla interrotta, lei sorride, anzi ho fatto bene, dice, in televisione serve a dare vivacità. Si avviano all'uscita, praticamente a braccetto. Io chiedo un po' in giro, com'è andata? Dicono tutti: bene. Anche a me sembra così. Le due cose che mi premeva dire le ho dette. Peccato per il tema che non ho letto, d'altronde... telefono a casa: dai, è andata bene. Posso avvertire tutti. Lo scrivo su Facebook, lo metto sul blog.
Venerdì notte, mentre aspetto che cominci il programma, do un'occhiata alla posta. C'è Valeria in persona che mi scrive. Ahi. Mi dice che avevamo sforato di 8 minuti, e che hanno tagliato tutti in parti uguali. Ahi ahi.
Comincio a guardare. Uf. La solita schiena storta, il solito accento, gli occhi che ballano, gli ehm eccessivi. Vabbè, dovevo scaldarmi. Vedrai che quando interrompo l'Aprea...
Non la interrompo più. Manca anche il punto dove tiro in ballo la scuola parrocchiale di Luzzara. In pratica, mancano le uniche due cose che mi sembrava di aver detto bene. Chissà se poi le avevo dette così bene. Ora faccio la figura del professorino tanto calmo che, l'unica volta che s'intromette, chiede persino scusa: quello che non accusa i presidi, non se la prende coi genitori, gli vanno bene le classi ponte e le quote... insomma: fatemi di tutto.
Avrà ragione Valeria, dovevo essere più diretto. Qualcosa tipo: voi volete che i ricchi vadano alle private e gli sfigati alla pubblica. Invece io insisto sempre per ficcare della complessità dappertutto.
In tv, con cinque minuti, non è il caso. La trasmissione è andata bene, ottimi ascolti rispetto alla media.
Sarà. Alla fine quello che mi lascia l'amaro in bocca è la performance. Non è stata una frana, ma io potevo essere più bravo di così. Comunicare fa parte del mio mestiere, sono convinto di saperlo fare meglio. Avrei dovuto prepararmi – ma no, mi ero preparato, ma non nel modo giusto. Negli uffici, per concentrarmi, recitavo l'articolo 3 a memoria: hai visto mai che mi servisse al volo ("È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli...") Non è servito.
Ringrazio ancora tutta la redazione; quelli che hanno aspettato l'una di notte e quelli che hanno provato a guardarla oggi. Meritavate tutti di meglio.
La trasmissione è qui. Chiudo i commenti, così andate a commentarla laggiù.