Si- Mi-
Che delizia la pioggia! che orrore il sereno!
La7
Non c'è cosa più triste dell'arcobaleno.
Re
Il cielo blu mi fa star male,
Fa#
perché il più grande amore che mai mi fu dato
Si- Do#7 Fa# Si-
io lo devo ad un cielo cupo ed imbronciato:
Mi- Sol Fa# Si-
ad un furioso temporale.
Una notte d'autunno, sopra la mia magione,
una folgore, con terribile esplosione
s'era venuta a scaricare.
Giù dal letto schizzata, ancora semisvestita,
la mia bella vicina, tremante ed impaurita,
all'uscio mio venne a bussare:
"Sono sola ho paura! Aprite vi prego,
mio marito è lontano a causa del suo impiego
(o direi meglio del suo guaio),
che lo obbliga a uscire sotto l'acqua sferzante
per la buona ragione che fa il rappresentante
dei parafulmini d'acciaio".
Lode a Benjamin Franklin per la bella invenzione!
Abbracciandola a me le diedi protezione,
e poi... l'amore fece il resto.
Tu, di punte di acciaio, venditore provetto,
Non pensasti a piazzarne neanche una sul tuo tetto!
Error non fu mai più funesto.
Quando Pluvio andò oltre nel suo vagabondaggio
la mia bella, ripreso un poco di coraggio,
tornò nel proprio appartamento;
ad attender lo sposo con coperte e cordiale,
e alle prossime piogge, a un nuovo temporale,
già ci fissammo appuntamento.
Con un'ansia crescente io mi misi da allora
a scrutare fremente i cieli ad ogni ora,
giorno e notte, notte e giorno;
a spiar nembi e cirri, sempre più preoccupato,
a fare gli occhi dolci anche a un cumulostrato,
ma lei non fece più ritorno.
Seppi poi che il marito, in quella notte famosa,
parafulmini aveva seminato a iosa;
e milionario divenuto,
se l'era portata in quei luoghi laggiù,
dove non piove mai, e il cielo è sempre blu,
laddove il tuono è sconosciuto.
Ma voglia Dio che il mio pianto a tamburo battente
la raggiunga e le parli del tempo inclemente
che ci portò su in paradiso;
e le dica che un fulmine un po' mascalzone
m'ha lasciato nel cuore una piccola incisione
con i contorni del suo viso.
A questo punto dell'agosto, non so voi, ma io ho solo voglia di cieli grigi e nuvole radenti su pianure verdi e gialle, di Francia insomma. Cerco di farmela passare su internet; per esempio ho trovato il Pornografo, che non è quello che pensate voi, bensì un sito che raccoglie le versioni di Brassens cantabili in italiano. Sono tutte un po' infedeli, come è giusto che sia. Questa per esempio è più o meno L'orage tradotta da Nanni Svampa ed Enrico Médail. Questo, invece, è un serio tentativo di far piovere. Il juke-box finisce qui, l'estate non ci metterà ancora molto; spero che vi abbia lasciato qualche bella canzone.
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi.
Noi no. Donate all'UNRWA.
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martedì 31 agosto 2010
lunedì 30 agosto 2010
Veltroni fra i Mammut
Come qualcuno dei più affezionati lettori saprà, il blog Leonardo è misteriosamente in contatto con un universo parallelo che è praticamente identico al nostro, proprio uguale uguale, salvo il trascurabile fatto che i mammut non si sono estinti. In quell'universo ci sono tutti i personaggi che ci sono nel nostro; per esempio c'è Berlusconi e fa più o meno le stesse cose. E Veltroni c'è? Ovviamente c'è, e la scorsa settimana ha scritto una lettera, per fortuna un po' più corta. Solo che invece di leggerla sul Corriere la trovate sull'Unità. E si commenta qui.
[Nel frattempo, in un universo parallelo praticamente identico al nostro, salvo il trascurabile fatto che i mammut non si sono mai estinti, è arrivata in redazione la lettera di Walter Veltroni. In quell'universo ci ha messo qualche giorno in più perché è arrivata via posta aerea].
Caro direttore,
non so se si ricorda di me, sono stato segretario del PD per qualche tempo... scherzi a parte, a me sembra davvero una vita fa. Comunque. Mi ero solennemente ripromesso di non intervenire più nel dibattito del partito che ho contribuito a fondare, ma mi sono sentito in qualche modo chiamato in causa dalla discussione degli ultimi giorni. Mi scuserete se intervengo in modo un po' sbrigativo; lo so, ai vecchi tempi vi avevo abituato a pagine e pagine sui massimi sistemi... in questi giorni però ho molto da fare e cercherò di essere breve. Per quanto mi è possibile.
Da quel che mi è parso di capire (non arrivano molti giornali, qui da noi, e la connessione internet fa i capricci), le possibilità che la maggioranza di centrodestra collassi sono concrete, e nel partito si discute sulla strategia da adottare in caso di crisi di governo. Urne subito o governo tecnico con tutti quelli che ci stanno (tutti, presumo, tranne Bossi e Berlusconi)? Ecco, per prima cosa voglio dire che trovo naturalissimo e per niente scandaloso il fatto che ci siano pareri divergenti. È questo che rende il PD uno dei pochi veri partiti (se non l'unico) dove esiste un confronto: ai vertici così come alla base.
Detto questo, bisogna anche tener conto che qualsiasi opinione lievemente diversa da quella del segretario (che saluto) sarà per forza di cose amplificata e distorta dagli organi di informazione, che campano di scontri e titoli strillati. Alla fine può passare l'idea che il PD non abbia una linea chiara. A dire il vero neanche il centrodestra ce l'ha: la differenza è che al PD la linea a volte non è chiara perché c'è un dibattito; nel centrodestra la linea non è chiara perché quei due signori, Bossi e Berlusconi, cambiano idea una volta alla settimana. C'è una bella differenza, e vorrei che gli italiani la notassero. Anche se abbiamo tutti misurato quanto sia difficile fargliela notare.
Il segretario Bersani è stato abbastanza chiaro, fin qui: lui è per un governo tecnico, che ci restituisca una legge elettorale decente, e la par condicio sui mezzi d'informazione. In pratica, si tratta di ripristinare i minimi fondamentali di una democrazia. Poi si potrà anche andare a votare, presentando il PD in uno schieramento di forze che dovrà essere comunque più compatto di quell'accozzaglia che era l'Ulivo del 2006 (dieci partiti). Ecco. Quanto sto per scrivere sbalordirà alcuni lettori, ma per quanto riguarda l'agenda dei prossimi mesi io tutto sommato non la penso molto diversamente da lui. In fondo non esistono molte vie d'uscita praticabili dal disastro in cui Berlusconi e Bossi ci hanno portato.
Per contro, altri ritengono che il PD dovrebbe essere pronto a costruire un'alternativa, che credo significhi andare alle elezioni subito e cercare di vincerle, anche da solo. È a questo punto che mi sento tirato in ballo, perché chi ritiene il PD pronto oggi a una sfida di questo genere non può rifarsi che a un precedente: le elezioni del 2008, quando il partito lo guidavo io.
Il problema è che quelle elezioni io le ho perse. Le ho perse anche male. Non credo che sia il momento dell'autocritica (ritengo di averne fatta abbastanza), però mi trovo costretto a dover ribadire questa semplice evidenza. Nel 2008 io ritenevo (sbagliandomi) che il progetto di un grande Partito Democratico avrebbe potuto polarizzare intorno ai sostenitori di DS e Margherita un corpo elettorale assai più consistente. Lo dissi anche al Lingotto, mi pare: il PD era un partito che doveva “affascinare quei milioni di italiani che credono nei valori dell’innovazione, del talento, del merito, delle pari opportunità”, ecc. ecc. Fu con questo obiettivo (affascinare un po' tutti), che mi misi ad attraversare l'Italia facendo lunghissimi discorsi alla Obama, arruolando per strada Parri, De Gasperi, Saviano, Kennedy, Charlie Chaplin, chiunque potesse essere funzionale alla creazione di un immaginario collettivo progressista postmoderno, alternativo all'immaginario televisivo berlusconiano. Un pantheon, lo chiamavamo. Anche se alla fine somigliava più alla rassegna del lunedì di un cinemino d'essai.
È stato un progetto che rivendico: voglio dire che c'era un ragionamento, dietro, che è facile liquidare col senno del poi, ma che in quel momento poteva sembrare vincente, e che nel tentativo di realizzarlo ho speso molte energie. Credo che nessuno in Italia abbia fatto lo sforzo di sintesi e di rielaborazione che ho fatto io. Oltre ad averci messo la faccia. Resta il fatto che ho perso: che il mio tentativo alla fine si è dimostrato velleitario e fondato su un'errata interpretazione della realtà. Alla prova dei fatti la corazzata mediatica berlusconiana ha schiacciato il nostro cinemino d'essai, lasciando giusto qualche poster appeso alle macerie. Ora, quelli che ritengono che il Pd possa andare alle elezioni da solo anche a febbraio, pensano di avere più carisma e più energie di quante ne avessi io nel 2008? Ma andiamo.
Non mi si fraintenda, io rimango un convinto assertore dell'uninominale, e credo nella vocazione maggioritaria del PD. Su questo ho ancora una posizione diversa da quella della segreteria che ha vinto le primarie: ma appunto, hanno vinto loro, non tocca a me rimettere in discussione le loro scelte. Affrontiamo un problema alla volta: qualcuno davvero ritiene che il PD di oggi sia capace di presentarsi da solo alle elezioni con questa legge elettorale e questa concentrazione mediatica? Costui non si rende ancora conto che sarebbero semplicemente elezioni truccate. Berlusconi vi sembra davvero così bollito? Abbandonato? Qualcosa di simile ci sembrava anche nel 2006. Poi cominciò la campagna elettorale: le corazzate televisive e pubblicitarie fecero il loro lavoro; Berlusconi recuperò i cinque punti di svantaggio e pareggiò. Prodi, penalizzato dalla legge "porcellum", cercò di governare con una maggioranza risicatissima, e fu cucinato a fuoco lento. Oggi volete andare alle elezioni nella stessa situazione? Va bene l'ottimismo della volontà, ma il pessimismo della ragione mi suggerisce che andrebbe a finire più o meno nello stesso modo. Sono lieto che anche Franceschini mostri di pensarla così.
Ho finito – e avrei dovuto essere più breve. Spero comunque di aver contribuito in modo costruttivo al dibattito di questi giorni. Ora scusate, ma devo accompagnare una carovana di turisti all'Oasi dei Mammut. È un lavoraccio, anche se sono molto fiero di come sta andando la mia piccola cooperativa qui a Nburunburu. L'idea di ripopolare la zona con questi meravigliosi animali si è rivelata vincente: l'indotto creato dai safari fotografici ha risollevato le sorti di un villaggio di cinquemila anime. I giovani ormai preferiscono restare qui e frequentare l'istituto tecnico artigianale invece di tentare la via del deserto verso le carrette del mare. Capirete anche voi che da questa distanza mi riesce più semplice giudicare le mie sconfitte del passato, e accettare gli sbagli che ho commesso. Può darsi che io passi alla Storia solo per i miei errori; se è il mio destino, lo accetto con abnegazione; ma vorrei almeno che da questi errori s'imparasse qualcosa. Ringrazio lei, direttore, e tutti i lettori, per la pazienza e l'attenzione.
sabato 28 agosto 2010
Il DJ sta spaccando la consolle
“Rimini che non gli frega niente
della gente dentro ai bar il ventinove
di agosto, che
piove
sempre
e scritte luminose laggiù al Luna Park
che smanie e desideri da bambini
le ombre che si allungano
fino a toccare il mare riniziando poi a tremare
il vento soffia e qui non cambia niente, ma
il dj sta spaccando la consolle
c'è sempre techno e house sul giradischi
c'è sempre un buon motivo per sbattere le mani
sbatti un po' le mani
il dj sta spaccando la consolle
c'è sempre techno e house sul giradischi
c'è sempre un buon motivo per sbattere le mani
quindi, sbatti un po' le mani”.
Fitness pump, Rimini (da Riviere, 2006).
Sono state scritte, negli ultimi 10 anni in Italia, tantissime belle canzoni, per lo più da semisconosciuti che non lo facevano di mestiere. Le hanno scritte per hobby, sono stati un po' in giro nei locali e poi hanno messo su famiglia, o vinto una borsa a Oxbridge, o si sono semplicemente rotti i coglioni, oppure no, oppure sono ancora lì che autoproducono i loro cd, curano il loro myspace, caricano gli strumenti sulla fiat multipla e si fanno centinaia di chilometri per suonare al festival di un tizio che ha un casolare col cortile. Francamente non so nemmeno se esistano ancora, questi Fitness Pump.
Di solito quando succedono questa cose si parla di “musica indipendente”, di “underground”, e nel mondo reale si dà per scontato che siano loro i primi a non voler uscire davvero dalla loro nicchia confortevole, per misurarsi col mercato vero, col professionismo, con le necessità e i gusti del grande pubblico. Sono stronzate.
Davvero, stronzate, non c'è altra parola. Ditemi dov'è la spocchia in un pezzo come questo. Ditemi il motivo per cui le radio “commerciali” non avrebbero dovuto programmarla fino alla noia, una manciata di estati fa. Ma anche oggi. Ditemi per quale motivo Rimini dei Fitness Pump non dovrebbe piacere al mio fornaio, alla tua estetista, a te che andavi ai rave, a tuo fratello che ci va adesso, al commercialista quarantenne che venerdì si fa quattro ore di autostrada per ballare ancora sulla spiaggia come un cretino: ditemi perché non gli sarebbe piaciuto ascoltarla alle cinque del mattino mentre esce dall'autogrill, anche su isoradio. È una canzone minimale, orecchiabile, che manovra con semplicità sensazioni che sono moneta corrente. Poteva diventare la piccola Estate-Sta-Finendo degli anni Zero, ma i radiofonici non se ne sono accorti. Per via che c'è la crisi, le case discografiche non si sentono di rischiare (e quindi puntano sui Finley, certo), eccetera. Oppure perché dal '96 hanno i padiglioni auricolari completamente ostruiti da una strana cricca bianca che si è cristallizzata, non viene più via.
della gente dentro ai bar il ventinove
di agosto, che
piove
sempre
e scritte luminose laggiù al Luna Park
che smanie e desideri da bambini
le ombre che si allungano
fino a toccare il mare riniziando poi a tremare
il vento soffia e qui non cambia niente, ma
il dj sta spaccando la consolle
c'è sempre techno e house sul giradischi
c'è sempre un buon motivo per sbattere le mani
sbatti un po' le mani
il dj sta spaccando la consolle
c'è sempre techno e house sul giradischi
c'è sempre un buon motivo per sbattere le mani
quindi, sbatti un po' le mani”.
Fitness pump, Rimini (da Riviere, 2006).
Sono state scritte, negli ultimi 10 anni in Italia, tantissime belle canzoni, per lo più da semisconosciuti che non lo facevano di mestiere. Le hanno scritte per hobby, sono stati un po' in giro nei locali e poi hanno messo su famiglia, o vinto una borsa a Oxbridge, o si sono semplicemente rotti i coglioni, oppure no, oppure sono ancora lì che autoproducono i loro cd, curano il loro myspace, caricano gli strumenti sulla fiat multipla e si fanno centinaia di chilometri per suonare al festival di un tizio che ha un casolare col cortile. Francamente non so nemmeno se esistano ancora, questi Fitness Pump.
Di solito quando succedono questa cose si parla di “musica indipendente”, di “underground”, e nel mondo reale si dà per scontato che siano loro i primi a non voler uscire davvero dalla loro nicchia confortevole, per misurarsi col mercato vero, col professionismo, con le necessità e i gusti del grande pubblico. Sono stronzate.
Davvero, stronzate, non c'è altra parola. Ditemi dov'è la spocchia in un pezzo come questo. Ditemi il motivo per cui le radio “commerciali” non avrebbero dovuto programmarla fino alla noia, una manciata di estati fa. Ma anche oggi. Ditemi per quale motivo Rimini dei Fitness Pump non dovrebbe piacere al mio fornaio, alla tua estetista, a te che andavi ai rave, a tuo fratello che ci va adesso, al commercialista quarantenne che venerdì si fa quattro ore di autostrada per ballare ancora sulla spiaggia come un cretino: ditemi perché non gli sarebbe piaciuto ascoltarla alle cinque del mattino mentre esce dall'autogrill, anche su isoradio. È una canzone minimale, orecchiabile, che manovra con semplicità sensazioni che sono moneta corrente. Poteva diventare la piccola Estate-Sta-Finendo degli anni Zero, ma i radiofonici non se ne sono accorti. Per via che c'è la crisi, le case discografiche non si sentono di rischiare (e quindi puntano sui Finley, certo), eccetera. Oppure perché dal '96 hanno i padiglioni auricolari completamente ostruiti da una strana cricca bianca che si è cristallizzata, non viene più via.
venerdì 27 agosto 2010
Lo voglio perché è mio
Non so bene come andò in quell'agosto; dovevo essere tornato dal mare o dai monti prima di tutti gli altri, insomma, ero solo, mollato, senza risorse. Chiuse le biblioteche, i circoli, i negozi, i fornai, non ancora aperti i festival, neanche un prete per chiacchierar. Anche le radio erano chiuse, riprogrammavano i nastroni a intervalli regolari, ti facevano sentire l'ultimo uomo sulla terra. Una di quelle situazioni in cui persino i portatori sani di solitudine, come me, si appendono al cellulare. Salvo che i cellulari ancora non c'erano. Insomma dovevo essere davvero disperato, perché mi cercai un lavoretto.
Io non so perché in quell'anno si ritrovarono a distribuire le Pagine Utili in agosto. Evidentemente c'era stato un ritardo nella produzione, ma non aveva senso lo stesso, a quel punto è meglio aspettare settembre, il rientro. Conosco le abitudini. Capivo che c'era qualcosa che non andava, ma ero tramortito dal sole, dalla solitudine, e nello scantinato del caporale c'era un enorme planisfero politico, io non riesco a concentrarmi sui miei problemi da piccolo umano quando mi mettete davanti a un planisfero politico, uno sguardo più puro sul mondo, così gli dissi sì, conosco la Bassa, vi posso coprire un comune, ma piccolo, facciamo... Camposanto.
Camposanto, adesso io non voglio polemizzare, ci ho anche degli amici, però c'è un motivo se tra tutti i nomi al mondo gli è rimasto appiccicato Camposanto. Camposanto, secondo i tabulati che mi consegnarono, faceva tremila abitanti: meno di mille pezzi da distribuire. Ma era un calcolo fatto d'inverno, forse nei ruggenti anni Ottanta. Camposanto, quando ci arrivai in quell'agosto, il baule carico di pagine utili intonse, era la cosa più simile al villaggio del west quando si esaurisce la miniera. I cespugli rotolanti, avete presente? Ne ho visti. Un miraggio, probabilmente, ma ciò non toglie.
Il mestiere consisteva nel distribuire questi ingombranti parallelepipedi utili di carta, che se fossero stati realizzati in ghisa non avrebbero pesato meno, agli abitanti. Qualcuno in seguito avrebbe telefonato a un campione di questi abitanti, per verificare se il lavoro era stato fatto. Il problema era che essi abitanti avevano visibilmente abbandonato Camposanto al suo omonimo destino. L'età media della popolazione residua si aggirava intorno ai settanta. Molte casette anni '50, con la scala esterna e il garage interrato, risultavano sprangate. I cinque nativi che incrociai il primo giorno mi recitarono più o meno la stessa scena:
ABITANTE DEL CAMPOSANTO: Guardi che è inutile che suona a quelli lì. Non ci abitano mica più.
IO: Mi scusi, sto distribuendo gli elenchi telefonici, io...
AdC: Gli elenchi in agosto? Ma a noi li han già dati.
IO: Sì, ma questi sono un po' diversi... comunque io li lascio qui, sul davanzale, così quando ritornano...
AdC: Ma guardi che lì ormai ci abitava solo la Pina, ma poi si è ammalata... è da tanto che è in ospedale... lasci perdere...
Ogni volta che nella vita mi hanno detto di investire sul mattone, che era una sicurezza e non sarebbe mai sceso, mi torna in mente la situazione immobiliare di Camposanto. La gente aveva tirato giù le tapparelle ed era andata a morire, e la casa stava lì, ammuffendo, nel nulla. Chi se la sarebbe presa. E a che prezzo. Insomma, lasciatemi perdere. Non voglio comperare (né essere comprato).
Al termine del primo giorno potevo già constatare il fallimento: solo un elenco telefonico su quattro era stato consegnato a persone apparentemente viventi. Gli altri erano stati appoggiati sui davanzali, davanti alle porte, il mattone di carta essendo troppo ingombrante per la cassetta della posta. Inoltre i dati del mio stradario risultavano completamente sballati, perché proprio in quei mesi Camposanto aveva preso una di quelle misure impopolari che si prendono una volta ogni cinquant'anni, ovvero cambiare il nome e la numerazione delle strade. Probabilmente per dar fastidio a me. Cioè, sul serio, cominciavo a pensare che Camposanto fosse un fondale realizzato per farmi impazzire. 24mila pensieri al secondo fruiscono, inarrestabili.
Il giorno dopo mi recai a Modena per il secondo carico di parallelepipedi utili. Avevo il baule vuoto, eppure all'altezza di Albareto cominciai a sentire un tonfo sordo, come un ostaggio che bussava. Era l'albero di distribuzione del motore, come seppi poi, che si era trinciato di netto, e se muoveva ancora pistoni nei cilindri era solo per sbaglio, come quegli animaletti decapitati che ancora respirano. La macchina si fermò in Villa d'Oro, di botto.
Mi feci prestare quella dei miei, con l'aria condizionata. Comodo, ma come dire: poca soddisfazione. Il secondo giorno mi addentrai nella Madonna del Bosco, la zona più selvaggia della bassa modenese. Le strade non erano ancora asfaltate. Lungo la Panaria scoprii tutta una serie di vecchie fattorie occupate da neri e magrebini. Loro non erano segnati nei tabulati, ma gli elenchi glieli davo lo stesso. A quel punto li avrei dati anche i marziani, pur di farla finita. Alimentando voglie e necessità.
A un certo punto tornai nel ventre di Camposanto, e un'osservazione mi sollevò l'umore: gran parte delle pagine utili che avevo 'distribuito' il giorno prima erano ancora sui davanzali, nelle fessure dei cancelli. Certo, e dove avrebbero dovuto essere? Nessuno era così sciocco da portarseli via. Sarebbero rimasti lì fino a settembre, e con un po' di fortuna molti abitanti del Camposanto le avrebbero trovate, avrebbero testimoniato che il lavoro era stato fatto. Bastava solo che non piovesse. Del resto il cielo era limpido.
Quel pomeriggio grandinò. In pochi minuti l'acqua inondò i marciapiedi, decine di pagine bianche andarono a intasare i tombini. La cosa positiva è che Antenna uno aveva ripreso la programmazione. Stavano scartando le novità, addirittura. Una lunga lagna di quei tizi che avevano avuto successo anni prima e poi si erano persi di vista, i Radiohead. E un pezzo dei CSI un po' più tirato del solito.
Proprio in quei giorni qualcuno che era rimasto negli uffici compilò i dati di vendita e scoprì qualcosa che aveva dell'incredibile: il nuovissimo disco dei CSI era primo in classifica. Fu una svolta storica; ma adesso, ripensandoci, chi accidenti se li andava a comprare i dischi a metà agosto? Bisognava essere persone strane, intrappolate in situazioni assurde, attratti, fortemente attratti. Civilizzati, sì, civilizzati.
Ma voi volete sapere se alla fine mi pagarono; se irruppi nello scantinato gridando "Voglio ciò che mi spetta". No, non lo feci, e sì. Qualcosa mi diedero. Nulla che valesse un albero di distribuzione, ovviamente.
Io non so perché in quell'anno si ritrovarono a distribuire le Pagine Utili in agosto. Evidentemente c'era stato un ritardo nella produzione, ma non aveva senso lo stesso, a quel punto è meglio aspettare settembre, il rientro. Conosco le abitudini. Capivo che c'era qualcosa che non andava, ma ero tramortito dal sole, dalla solitudine, e nello scantinato del caporale c'era un enorme planisfero politico, io non riesco a concentrarmi sui miei problemi da piccolo umano quando mi mettete davanti a un planisfero politico, uno sguardo più puro sul mondo, così gli dissi sì, conosco la Bassa, vi posso coprire un comune, ma piccolo, facciamo... Camposanto.
Camposanto, adesso io non voglio polemizzare, ci ho anche degli amici, però c'è un motivo se tra tutti i nomi al mondo gli è rimasto appiccicato Camposanto. Camposanto, secondo i tabulati che mi consegnarono, faceva tremila abitanti: meno di mille pezzi da distribuire. Ma era un calcolo fatto d'inverno, forse nei ruggenti anni Ottanta. Camposanto, quando ci arrivai in quell'agosto, il baule carico di pagine utili intonse, era la cosa più simile al villaggio del west quando si esaurisce la miniera. I cespugli rotolanti, avete presente? Ne ho visti. Un miraggio, probabilmente, ma ciò non toglie.
Il mestiere consisteva nel distribuire questi ingombranti parallelepipedi utili di carta, che se fossero stati realizzati in ghisa non avrebbero pesato meno, agli abitanti. Qualcuno in seguito avrebbe telefonato a un campione di questi abitanti, per verificare se il lavoro era stato fatto. Il problema era che essi abitanti avevano visibilmente abbandonato Camposanto al suo omonimo destino. L'età media della popolazione residua si aggirava intorno ai settanta. Molte casette anni '50, con la scala esterna e il garage interrato, risultavano sprangate. I cinque nativi che incrociai il primo giorno mi recitarono più o meno la stessa scena:
ABITANTE DEL CAMPOSANTO: Guardi che è inutile che suona a quelli lì. Non ci abitano mica più.
IO: Mi scusi, sto distribuendo gli elenchi telefonici, io...
AdC: Gli elenchi in agosto? Ma a noi li han già dati.
IO: Sì, ma questi sono un po' diversi... comunque io li lascio qui, sul davanzale, così quando ritornano...
AdC: Ma guardi che lì ormai ci abitava solo la Pina, ma poi si è ammalata... è da tanto che è in ospedale... lasci perdere...
Ogni volta che nella vita mi hanno detto di investire sul mattone, che era una sicurezza e non sarebbe mai sceso, mi torna in mente la situazione immobiliare di Camposanto. La gente aveva tirato giù le tapparelle ed era andata a morire, e la casa stava lì, ammuffendo, nel nulla. Chi se la sarebbe presa. E a che prezzo. Insomma, lasciatemi perdere. Non voglio comperare (né essere comprato).
Al termine del primo giorno potevo già constatare il fallimento: solo un elenco telefonico su quattro era stato consegnato a persone apparentemente viventi. Gli altri erano stati appoggiati sui davanzali, davanti alle porte, il mattone di carta essendo troppo ingombrante per la cassetta della posta. Inoltre i dati del mio stradario risultavano completamente sballati, perché proprio in quei mesi Camposanto aveva preso una di quelle misure impopolari che si prendono una volta ogni cinquant'anni, ovvero cambiare il nome e la numerazione delle strade. Probabilmente per dar fastidio a me. Cioè, sul serio, cominciavo a pensare che Camposanto fosse un fondale realizzato per farmi impazzire. 24mila pensieri al secondo fruiscono, inarrestabili.
Il giorno dopo mi recai a Modena per il secondo carico di parallelepipedi utili. Avevo il baule vuoto, eppure all'altezza di Albareto cominciai a sentire un tonfo sordo, come un ostaggio che bussava. Era l'albero di distribuzione del motore, come seppi poi, che si era trinciato di netto, e se muoveva ancora pistoni nei cilindri era solo per sbaglio, come quegli animaletti decapitati che ancora respirano. La macchina si fermò in Villa d'Oro, di botto.
Mi feci prestare quella dei miei, con l'aria condizionata. Comodo, ma come dire: poca soddisfazione. Il secondo giorno mi addentrai nella Madonna del Bosco, la zona più selvaggia della bassa modenese. Le strade non erano ancora asfaltate. Lungo la Panaria scoprii tutta una serie di vecchie fattorie occupate da neri e magrebini. Loro non erano segnati nei tabulati, ma gli elenchi glieli davo lo stesso. A quel punto li avrei dati anche i marziani, pur di farla finita. Alimentando voglie e necessità.
A un certo punto tornai nel ventre di Camposanto, e un'osservazione mi sollevò l'umore: gran parte delle pagine utili che avevo 'distribuito' il giorno prima erano ancora sui davanzali, nelle fessure dei cancelli. Certo, e dove avrebbero dovuto essere? Nessuno era così sciocco da portarseli via. Sarebbero rimasti lì fino a settembre, e con un po' di fortuna molti abitanti del Camposanto le avrebbero trovate, avrebbero testimoniato che il lavoro era stato fatto. Bastava solo che non piovesse. Del resto il cielo era limpido.
Quel pomeriggio grandinò. In pochi minuti l'acqua inondò i marciapiedi, decine di pagine bianche andarono a intasare i tombini. La cosa positiva è che Antenna uno aveva ripreso la programmazione. Stavano scartando le novità, addirittura. Una lunga lagna di quei tizi che avevano avuto successo anni prima e poi si erano persi di vista, i Radiohead. E un pezzo dei CSI un po' più tirato del solito.
Proprio in quei giorni qualcuno che era rimasto negli uffici compilò i dati di vendita e scoprì qualcosa che aveva dell'incredibile: il nuovissimo disco dei CSI era primo in classifica. Fu una svolta storica; ma adesso, ripensandoci, chi accidenti se li andava a comprare i dischi a metà agosto? Bisognava essere persone strane, intrappolate in situazioni assurde, attratti, fortemente attratti. Civilizzati, sì, civilizzati.
Ma voi volete sapere se alla fine mi pagarono; se irruppi nello scantinato gridando "Voglio ciò che mi spetta". No, non lo feci, e sì. Qualcosa mi diedero. Nulla che valesse un albero di distribuzione, ovviamente.
giovedì 26 agosto 2010
Burning bright
Oggi poteva anche essere la volta di Coltrane che interpreta Gershwin, ma mi sono reso conto che l'estate sta finendo, il juke box è agli sgoccioli, e non è ancora uscito un vero pezzo da autoscontro. Questo è semplicemente inverosimile, quindi tante scuse Johncoltrane, ma qui scatta il momento Baby Records. Siete pronti?
Io non so se abbia ragione Jo Squillo quando dice che Lady Gaga le ha copiato la frangetta. Ho il terribile sospetto che le acconciature siano un numero finito, così come le melodie, e che le popstar abbiano finito entrambe da un pezzo. Però è indiscutibile che la Germanotta debba molto all'europop Ottanta, e forse questo si capisce meglio in America che da noi, dove certi ritornelli cacchi (catchy) non sono mai veramente scomparsi dall'orizzonte radio. Perché insomma, al netto delle indiscutibili trovate di scena (non scorderò mai la pelliccia di rane Kermit), musicalmente cosa può dire a un italiano della mia generazione Lady Gaga? Niente che io non abbia già ascoltato ruotando intorno a un calcinculo al Festival dell'Avanti di San Prospero nel 1984. La situazione cambia già se siamo negli States: un mio coetaneo americano gravitante intorno a un analogo calcinculo, probabilmente ci ascoltava i Boston o i Foreigner, e questo gli ha impedito di immunizzarsi contro i ritornelli cacchi. Quindi non c'è da stupirsi se al primo po-po-po-po o al primo wa-wa-wa o Ale-ale-ale cascano tutti come mosche. È come se non si fossero fatti il vaiolo. Cioè, il vaiolo, parliamone: Tom Hooker. Den Harrow (che era sempre Tom Hooker). Spagna. Sabrina Salerno. Tracy Spencer. Gli Industry. Gli Scotch. Noi siamo sopravvissuti a tutto questo, cosa vuoi che ci potesse fare il vaiolo.
Ne portiamo i segni, comunque. Dobbiamo provarne nostalgia? È inevitabile, e ribadisco: gli amori non si scelgono. Se da bambino ti è piaciuta Tarzan Boy non è colpa di nessuno (o al limite di Claudio Cecchetto, che ha responsabilità ben più gravi). Tutto quello che ti si chiede è un po' di contegno in società. Quindi se qualcun altro la mette su a una festa puoi ballarla, purché goffamente e con autoironia, e deve comunque essere una festa di coetanei: i figli non dovrebbero nemmeno sospettare quello che succedeva intorno ai nostri autoscontri. Noi non commetteremo gli errori dei nostri genitori, non infliggeremo i vari bobbysolo o litteltoni a innocenti che non se li meritano...
Il guaio, però, è che in questo modo anche loro rischiano di cadere come mosche alla prima tizia stravagante che azzecca un po-po-po o un wa-wa-wa. E che male c'è?
C'è che... come faccio a dirlo... oh, vabbe', me ne prendo le responsabilità.
C'è che forse Baltimora era meglio.
Potrebbe essere una mia valutazione errata, viziata da quel famoso effetto doppler del giudizio estetico, lo spostamento verso il rosa di tutto quello che ci scivola all'indietro, la nostalgia insomma.
Però potrei anche aver ragione. Insomma, ritengo che ci siano parametri oggettivi per affermare che l'oh-oh-oh di Tarzan Boy suoni meglio del wa-wa-wa 2010. C'è una freschezza che nelle versioni surgelate si è perse. C'è la sporcizia degli strumenti ancora un po' analogici, ingredienti non ancora ben dosati: ancora qualche anno e tutto sarebbe quagliato perfettamente in quella confezione di plastica che ci affligge da vent'anni. E un meraviglioso senso di dissipazione: quelli che montavano i “progetti musicali” come Baltimora non vedevano più in là di un'estate o due, e sapevano di dover sparare tutte le cartucce alla svelta. Non c'era nessun olimpo pop da scalare, Madonna era una sciamannata e Michael Jackson su un altro pianeta, il successo in questo tipo di cose era vissuto come un assalto alla diligenza. Piazzi tre singoli, te li fai infilare in qualche compilescion, e scompari col malloppo. Poi, se le cose andavano bene ti trovavi un altro mestiere (Hooker si diede alla fotografia) e magari dopo vent'anni t'invitano a uno show per nostalgici. Se invece andavano male... Jimmy McShane ci ha lasciato nel 1995. È lui che cantava Tarzan boy.
Ora provate ad ascoltarla come se non foste mai saliti su un autoscontro in vita vostra, come se fosse la prima volta. Lo so che è difficile. Provate a fare a meno dei ricordi, del sapore del Magic Cola che cola sulla pelle e s'impiastriccia col Coppertone. Fate finta che sia il tormentone 2010. Che ne pensate? Io penso: non male, ma che spreco. Va bene il ritornello catchy, ma qui è catchy anche la strofa, l'inciso e il mini-stacchetto di organetto roland. Ci si potevano scrivere tre successi e mezzo, con la roba che hanno messo in Tarzan Boy. Uno che vuole imbastire una carriera, uno che ha una mentalità industriale, con le idee di Tarzan Boy oggi ci annacqua quattro singoli; ci vende suonerie per due anni. C'è che oggi sappiamo che le melodie cacchie sono un numero finito, come le frangette, e bisogna economizzare. E negli anni '80 non lo sapevano? Lo sapevano, ma avevano una fretta dannata di crescere e fare altro, diventare fotografi o al massimo morire. A rivederlo Jimmy McShane sembra un replicante alla Rutger Hauer, uno che a vivere si deve sbrigare. The light that burns twice as bright burns for half as long.
Io non so se abbia ragione Jo Squillo quando dice che Lady Gaga le ha copiato la frangetta. Ho il terribile sospetto che le acconciature siano un numero finito, così come le melodie, e che le popstar abbiano finito entrambe da un pezzo. Però è indiscutibile che la Germanotta debba molto all'europop Ottanta, e forse questo si capisce meglio in America che da noi, dove certi ritornelli cacchi (catchy) non sono mai veramente scomparsi dall'orizzonte radio. Perché insomma, al netto delle indiscutibili trovate di scena (non scorderò mai la pelliccia di rane Kermit), musicalmente cosa può dire a un italiano della mia generazione Lady Gaga? Niente che io non abbia già ascoltato ruotando intorno a un calcinculo al Festival dell'Avanti di San Prospero nel 1984. La situazione cambia già se siamo negli States: un mio coetaneo americano gravitante intorno a un analogo calcinculo, probabilmente ci ascoltava i Boston o i Foreigner, e questo gli ha impedito di immunizzarsi contro i ritornelli cacchi. Quindi non c'è da stupirsi se al primo po-po-po-po o al primo wa-wa-wa o Ale-ale-ale cascano tutti come mosche. È come se non si fossero fatti il vaiolo. Cioè, il vaiolo, parliamone: Tom Hooker. Den Harrow (che era sempre Tom Hooker). Spagna. Sabrina Salerno. Tracy Spencer. Gli Industry. Gli Scotch. Noi siamo sopravvissuti a tutto questo, cosa vuoi che ci potesse fare il vaiolo.
Ne portiamo i segni, comunque. Dobbiamo provarne nostalgia? È inevitabile, e ribadisco: gli amori non si scelgono. Se da bambino ti è piaciuta Tarzan Boy non è colpa di nessuno (o al limite di Claudio Cecchetto, che ha responsabilità ben più gravi). Tutto quello che ti si chiede è un po' di contegno in società. Quindi se qualcun altro la mette su a una festa puoi ballarla, purché goffamente e con autoironia, e deve comunque essere una festa di coetanei: i figli non dovrebbero nemmeno sospettare quello che succedeva intorno ai nostri autoscontri. Noi non commetteremo gli errori dei nostri genitori, non infliggeremo i vari bobbysolo o litteltoni a innocenti che non se li meritano...
Il guaio, però, è che in questo modo anche loro rischiano di cadere come mosche alla prima tizia stravagante che azzecca un po-po-po o un wa-wa-wa. E che male c'è?
C'è che... come faccio a dirlo... oh, vabbe', me ne prendo le responsabilità.
C'è che forse Baltimora era meglio.
Potrebbe essere una mia valutazione errata, viziata da quel famoso effetto doppler del giudizio estetico, lo spostamento verso il rosa di tutto quello che ci scivola all'indietro, la nostalgia insomma.
Però potrei anche aver ragione. Insomma, ritengo che ci siano parametri oggettivi per affermare che l'oh-oh-oh di Tarzan Boy suoni meglio del wa-wa-wa 2010. C'è una freschezza che nelle versioni surgelate si è perse. C'è la sporcizia degli strumenti ancora un po' analogici, ingredienti non ancora ben dosati: ancora qualche anno e tutto sarebbe quagliato perfettamente in quella confezione di plastica che ci affligge da vent'anni. E un meraviglioso senso di dissipazione: quelli che montavano i “progetti musicali” come Baltimora non vedevano più in là di un'estate o due, e sapevano di dover sparare tutte le cartucce alla svelta. Non c'era nessun olimpo pop da scalare, Madonna era una sciamannata e Michael Jackson su un altro pianeta, il successo in questo tipo di cose era vissuto come un assalto alla diligenza. Piazzi tre singoli, te li fai infilare in qualche compilescion, e scompari col malloppo. Poi, se le cose andavano bene ti trovavi un altro mestiere (Hooker si diede alla fotografia) e magari dopo vent'anni t'invitano a uno show per nostalgici. Se invece andavano male... Jimmy McShane ci ha lasciato nel 1995. È lui che cantava Tarzan boy.
Ora provate ad ascoltarla come se non foste mai saliti su un autoscontro in vita vostra, come se fosse la prima volta. Lo so che è difficile. Provate a fare a meno dei ricordi, del sapore del Magic Cola che cola sulla pelle e s'impiastriccia col Coppertone. Fate finta che sia il tormentone 2010. Che ne pensate? Io penso: non male, ma che spreco. Va bene il ritornello catchy, ma qui è catchy anche la strofa, l'inciso e il mini-stacchetto di organetto roland. Ci si potevano scrivere tre successi e mezzo, con la roba che hanno messo in Tarzan Boy. Uno che vuole imbastire una carriera, uno che ha una mentalità industriale, con le idee di Tarzan Boy oggi ci annacqua quattro singoli; ci vende suonerie per due anni. C'è che oggi sappiamo che le melodie cacchie sono un numero finito, come le frangette, e bisogna economizzare. E negli anni '80 non lo sapevano? Lo sapevano, ma avevano una fretta dannata di crescere e fare altro, diventare fotografi o al massimo morire. A rivederlo Jimmy McShane sembra un replicante alla Rutger Hauer, uno che a vivere si deve sbrigare. The light that burns twice as bright burns for half as long.
mercoledì 25 agosto 2010
And if you think it obsolete
Noi ogni tanto sentiamo parlare di qualche vecchio disco; da come ne parlano le persone in cui riponiamo la nostra fiducia, capiamo che si tratta di un disco che potremmo amare. E allora cosa aspettiamo a procurarcelo? Il fatto è che abbiamo il triste sospetto che sia troppo tardi, per innamorarsi di una dozzina di canzoni. Una cosa puerile in fin dei conti, e noi cominciamo ad avere un'età. Certe canzoni dovevamo incontrarle per caso quando avevamo ancora il cuore giovane, come sconosciute al campeggio: farci l'amore una notte e poi magari non scordarcele più. Se non è successo, è inutile recriminare: abbiamo avuto altre canzoni, poteva andarci molto peggio. Per esempio, avere 16 anni oggi e doverseli gestire coi ritornelli di Rihanna...
Forever Changes non è un disco che si incontra per caso. Bisogna andarselo a cercare, e quindi tanto vale programmare l'esperienza: tirarne fuori tutto il meglio che si può ricavare da un incontro tra adulti. Certo, non sarà l'amore dei nostri sedici anni, ma ci si può imbastire comunque un rapporto solido, basato sulla fiducia e il rispetto reciproco. Io consiglio di aspettare l'estate (la prossima, perché questa ormai è andata: fatevi un appunto per il giugno 2011). Raccomando di non nutrire aspettative eccessive, perché vi è già successo di portarvi in casa questo o quell'osannato capolavoro e scoprire che in fin dei conti era solo l'ennesima collanina di canzonette vintage. Ecco, prendetela così: Forever Changes è una deliziosa collanina di canzonette vintage, istoriata con fregi spagnoleggianti, quasi fintoaztechi. Un regalo della cugina avventuriera che ha passato un fine settimana a Tijuana. Se poi vi capiterà di innamorarvene sul serio, tanto di guadagnato. In caso contrario, avrete pur sempre una collanina buffa da tirare fuori nei giorni d'estate.
Consiglio di aspettare il termine della siesta pomeridiana, quando il sudore vi appiccica i pensieri. Ascoltatelo svagati, in una stanza rivolta a occidente, pensando ad altro e facendo altro, mode repeat all, senza preoccuparsi di distinguere i ritornelli. Può darsi che vi cresca dentro, così come può darsi di no. Dategli comunque un po' di fiducia all'inizio: riconoscete che è un lavoro fatto con grande amore e un notevole sprezzo del pericolo, in anni in cui il rock non si sapeva ancora esattamente che direzione avrebbe preso (avrebbe preso la direzione opposta, poveri Love). Lasciatelo aperto fino a tutto il tardo pomeriggio, che s'impregni dell'afa del giorno e della luce del tramonto. Ripetete l'applicazione più volte nel corso dell'estate, e a fine agosto richiudete ermeticamente fino al giugno successivo.
Se tutto va come deve andare, sarete riusciti a insufflare un po' della vostra personale melanconia estiva in Forever Changes: che ve la restituirà fedelmente, ogni volta che gliene chiederete. Se non funziona, che vi posso dire. Ognuno s'innamora di quel che può (no, l'amore non si merita: ti capita e basta). Magari a voi è toccata Rihanna. Inutile recriminare.
Forever Changes non è un disco che si incontra per caso. Bisogna andarselo a cercare, e quindi tanto vale programmare l'esperienza: tirarne fuori tutto il meglio che si può ricavare da un incontro tra adulti. Certo, non sarà l'amore dei nostri sedici anni, ma ci si può imbastire comunque un rapporto solido, basato sulla fiducia e il rispetto reciproco. Io consiglio di aspettare l'estate (la prossima, perché questa ormai è andata: fatevi un appunto per il giugno 2011). Raccomando di non nutrire aspettative eccessive, perché vi è già successo di portarvi in casa questo o quell'osannato capolavoro e scoprire che in fin dei conti era solo l'ennesima collanina di canzonette vintage. Ecco, prendetela così: Forever Changes è una deliziosa collanina di canzonette vintage, istoriata con fregi spagnoleggianti, quasi fintoaztechi. Un regalo della cugina avventuriera che ha passato un fine settimana a Tijuana. Se poi vi capiterà di innamorarvene sul serio, tanto di guadagnato. In caso contrario, avrete pur sempre una collanina buffa da tirare fuori nei giorni d'estate.
Consiglio di aspettare il termine della siesta pomeridiana, quando il sudore vi appiccica i pensieri. Ascoltatelo svagati, in una stanza rivolta a occidente, pensando ad altro e facendo altro, mode repeat all, senza preoccuparsi di distinguere i ritornelli. Può darsi che vi cresca dentro, così come può darsi di no. Dategli comunque un po' di fiducia all'inizio: riconoscete che è un lavoro fatto con grande amore e un notevole sprezzo del pericolo, in anni in cui il rock non si sapeva ancora esattamente che direzione avrebbe preso (avrebbe preso la direzione opposta, poveri Love). Lasciatelo aperto fino a tutto il tardo pomeriggio, che s'impregni dell'afa del giorno e della luce del tramonto. Ripetete l'applicazione più volte nel corso dell'estate, e a fine agosto richiudete ermeticamente fino al giugno successivo.
Se tutto va come deve andare, sarete riusciti a insufflare un po' della vostra personale melanconia estiva in Forever Changes: che ve la restituirà fedelmente, ogni volta che gliene chiederete. Se non funziona, che vi posso dire. Ognuno s'innamora di quel che può (no, l'amore non si merita: ti capita e basta). Magari a voi è toccata Rihanna. Inutile recriminare.
martedì 24 agosto 2010
Un giorno sfondo
Diceva d'essere un attore,
e anche un po' fotografo;
la sua vita era una commedia,
perciò era pure un comico.
Avrebbe fatto i milioni,
ormai stavano arrivando...
e nel frattempo cazzeggiava.
Si guardò indietro nello specchio:
tutti quegli anni, formidabili.
Posò lo stuzzicadenti
e rise un po' dei cazzi suoi.
Vedeva l'odio per sé stesso
già inciso nell'autoritratto
che avrebbero esposto a Brera
di fianco a un Tintoretto,
ma era in ritardo con l'affitto.
Spiegava: sono un musicista,
che ha questa ambizione:
che tutti possano ascoltare
il mio ritmo interiore...
Nel frattempo stava immobile
e diceva così:
È una questione di tempo,
vedrai che arriva il mio momento.
Io credo ancora nel mio sogno:
sto per spaccare il culo al mondo,
sto per spaccare il culo al mondo.
Non negava di esser bello,
aveva fatto anche il modello,
ma non mandava giù l'idea
di sfilare in mutande
(rendeva più in Autunno-Inverno).
E lavorava a un portale(*)
che avrebbe aperto a Natale.
Faceva tutto anche da casa
con il suo cellulare,
finché è rimasto senza credito.
Un gran lavoratore,
che non riusciva a stare fermo:
cercava ancora il suo Dio,
senza più credere all'inferno
(ma andava ancora a confessarsi).
Un uomo molto indipendente,
ma con qualche dipendenza;
un vero uomo libero,
(dormiva in case occupate);
aspettava un bonifico,
che ormai stava arrivando,
e nel frattempo cazzeggiando
mi spiegava così:
È una questione di tempo,
ma arriverà il mio momento.
Io ci credo un giorno sfondo,
spaccherò il culo al mondo,
spaccherò il culo al mondo...
Fatti spiegare il mio sistema,
mentre mi offri la cena,
ecco vedi,
Io sono un attore,
e anche un po' un fotografo;
poi la mia vita è una commedia,
il che fa di me un comico.
Vedrai farò i milioni,
vedrai vedrai che arrivano...
(*) Era il 2000, dopotutto. Succedeva persino a me.
lunedì 23 agosto 2010
Ils ont pris tout
Prima o poi doveva succedere:
il cielo ci è caduto sulla testa.
Un Big Mac per Obelix si legge sull'Unità.it, e si commenta qui.
Nel 2010 dopo Cristo tutta la Gallia, pardon, la Francia, è stabilmente integrata nel mercato globale. Tutta? No! Un villaggio dell'Armorica, abitato da irriducibili Galli, resiste ancora e sempre all'invasore... Perlomeno, resisteva. Fino a qualche settimana fa. Quando anche il villaggio di Asterix ha ceduto alla globalizzazione, e nel modo più plateale possibile: vendendo la sua immagine al prodotto meno francese e più globalizzato che si possa immaginare.
Immaginatevi un Topolino convertitosi al nazismo, o uno zio Paperone che scopra il Capitale di Marx e trasformi il suo deposito in una Cassa Operaia di Mutuo Soccorso. Il cartellone pubblicitario che raffigura un banchetto degli Irriducibili non più sotto le stelle, ma sotto il tetto a pagoda di un McDonald's, è uno choc del genere. Sin dal loro arrivo nelle edicole francesi, 51 anni fa, i Galli di Goscinny e Uderzo hanno incarnato l'orgoglio dei francesi, la loro “irriducibilità” nei confronti dei costumi e delle mode che arrivavano da fuori – in primis, dall'America.
In realtà Asterix deve moltissimo al sogno americano del suo inventore, René Goscinny, emigrato a 19 anni nella patria delle comic strips. Americano è il suo fratello maggiore, il pellerossa Umpa-pà, primo personaggio creato da Goscinny. Prima di essere localizzato in Armorica, il primo villaggio che Goscinny immagina assediato dai 'civilizzatori' è un proprio un accampamento di tepee. Certo, la decisione di creare un eroe gallico era un tentativo di smarcarsi da un immaginario già profondamente colonizzato dagli eroi anglosassoni: cow-boys, gangster, pirati, erano già il pane quotidiano dei giovani lettori francesi degli anni Cinquanta. Eppure anche nel momento in cui creava il suo personaggio francese al 100%, Goscinny in fondo stava mettendo in pratica le sue lezioni americane. Così come Disney aveva voluto concentrare le doti dell'americano medio in un piccolo, simpatico roditore, Asterix sarebbe stato un concentrato delle qualità francesi. I due personaggi mantengono tratti comuni: la bassa statura (che suscita nei piccoli lettori un'istintiva solidarietà), l'astuzia priva di malizie, la disponibilità all'avventura, il naso pronunciato e, sul capo, due grosse appendici che accentuano l'espressività del viso: due enormi orecchie nere per Mickey, due ali bianche per Asterix. Anche le due spalle comiche presentano caratteristiche simili: come Pippo, Obelix è un bambino che non teme di crescere, perché sa che questo non potrà succedergli mai: la marmitta di pozione magica in cui è caduto da bambino lo ha reso irriducibile anche alle preoccupazioni dell'età adulta.
Asterix e Obelix dovrebbero dunque offrirci l'immagine che i francesi hanno di loro stessi: ed è un'immagine piuttosto sorprendente, per come si discosta da quella che noi non-francesi abbiamo di loro. Mancano del tutto, nel popolatissimo universo di Asterix, gli stereotipi che più spesso rappresentano i francesi all'estero: la femme fatale disinibita e chic o l'intellettuale snob parigino. Del resto ai tempi di Asterix Parigi, anzi Lutezia, pur essendo già “la città più bella del mondo” è poco più di un affollato villaggio su un'isolotto della Senna, e i suoi abitanti non sono che paesani rifatti.
La Francia di Asterix e Obelix è sorprendente perché è quella che non si vede quasi mai nei film: la provincia profonda. Per noi la Francia è la patria dell'eleganza e della cucina raffinata: gli eroi di Goscinny disdegnano qualsiasi cibo che non sia il cinghiale arrostito, da sbafare con le mani o con lo stesso spadino con cui si affrontano gli avversari. A ben vedere, nella Gallia di Asterix e Obelix i raffinati sono i nemici, i Romani. Sono loro a cucinare piatti insopportabilmente chic, a ostentare modi effeminati, a costruire dappertutto città di marmo eleganti ma anonime, dotate di modernissime terme. A questo processo di globalizzazione Asterix e Obelix si ribellano con l'astuzia e il buon senso dei provinciali (e una buona dose di barbarica forza bruta). Dopo le prime trionfali avventure contro i Romani, nel corso degli anni '70 le sceneggiature di Goscinny diventano più complesse e profonde, lasciando intendere sempre più chiaramente che il vero invasore a cui resiste il villaggio non sono i poveri legionari Romani, ma il progresso. Nel tentativo di "civilizzare" gli irriducibili, i Romani le proveranno tutte: abbatteranno la foresta per trasformarla in un villaggio residenziale; in una delle ultime e più amare storie di Goscinny, un sosia del giovane Chirac riuscirà addirittura a corrompere Obelix, trasformando la sua attività di intagliatore di menhir in un'impresa industriale che, fortunatamente, avrà una vita breve. La voglia di menare le mani avrà il sopravvento, e la foresta ricoprirà ancora una volta i progetti imperialisti dei civilizzatori. È questo che rende la resa a McDonald insopportabile ai lettori. Asterix avrebbe potuto farsi gladiatore o legionario, visitare l'America o crescere un figlio: tutto questo nel corso degli anni è effettivamente successo, senza che nessun lettore si sentisse tradito. Ma vendersi a McDonald è davvero troppo.
Da parte loro, gli addetti marketing McDonald non possono che essere entusiasti. Sostituendo all'inquietante clown Ronald il piccolo Gallo, sanno di poter sfruttare la visibilità di un personaggio amato da generazioni di lettori. Nel gergo dell'ambiente, Asterix oggi è quello che si chiama un franchise: un personaggio già affermato che può fruttare milioni di euro grazie ai film (animazione e live action), al merchandising, e a operazioni pubblicitarie come questa. I veri asterixologi si potevano consolare, fino a qualche tempo fa, col pensiero che tutto questo avesse poco a che fare con il vero Asterix: quello, orgogliosamente artigianale, sceneggiato e disegnato da Uderzo, unico autore delle storie dopo la scomparsa prematura del grande Goscinny. Questo significava accettare che le avventure di Asterix fossero ormai giunte molto vicine al loro termine naturale: del resto Asterix e Obelix hanno ormai viaggiato in tutte le terre conosciute e sconosciute, solidarizzando lungo la strada con tanti piccoli villaggi disposti a resistere "ora e sempre" all'invasore. Ultimamente però Uderzo si è scelto i suoi successori. Asterix quindi sopravvivrà al suo autore; magari tornerà a occupare con materiale inedito quelle edicole dalle quali era praticamente sparito negli ultimi 15 anni: ma per farlo dovrà necessariamente tradire un po' sé stesso. L'universo in cui ha vissuto il suo mezzo secolo di avventure dovrà essere svecchiato e aggiornato ai gusti dei nuovi giovani lettori, che probabilmente lo hanno conosciuto prima nelle sue versioni cinematografiche: e cosa c'è di meglio, per avvicinare Asterix e co. alle nuove generazioni, di un happy meal da McDonald, stampato e riprodotto su milioni di manifesti?
Insomma il patto tra Asterix e il Big Mac conviene a entrambi, e non dovrebbe scandalizzarci troppo. In fondo Asterix e Obelix non hanno mai voluto sconfiggere il loro nemico. In molti casi si sono trovati addirittura a collaborare con Giulio Cesare. Tutte le loro energie si sono spese nel tentativo di preservare lo status quo, la loro condizione di eterni bambini: il villaggio di Irriducibili circondato da una foresta che è un giardino di delizie, ricca com'è di cinghiali da sbafare e legionari da pestare. Gli Irriducibili hanno un senso perché esiste, oltre la finestra, la modernità, che la cinge in un blando stato d'assedio. Purché tutto rimanga com'era nelle prime tavole schizzate da Uderzo: un piccolo villaggio che resiste, ora e sempre. I francesi amano immaginarsi così. E per difendere questa loro fantasia, sono disposti a venire a patti anche con Cesare. O con Ronald McDonald, in questo caso.
domenica 22 agosto 2010
The Happy Birth of You (& me)
Le Man Avec Les Lunettes è il nome di un gruppo che gode di una certa popolarità in Val Trompia, Svezia, Giappone, e in piazza Rodolfo Pio a Carpi. All'inizio era un duo, poi è diventata una piccola orchestra che suona l'indiepop meno fracassone e più raffinato che possiate sentire in giro. Il loro ultimo album, intitolato più o meno Plaskaplaskabombelibom, per un paio d'anni è stato il nostro privato Sgt. Pepper: ci ha accompagnato in tutti i luoghi e soprattutto in tutti i laghi, senza prendere mai polvere. Mezz'ora di scandalosa armonia. Però una mezz'ora passa in fretta, e in due anni ne sono passate davvero tante, e insomma quando arriva un disco nuovo?
Nel frattempo, voi che non li conoscete potete ascoltarvelo tutto in streaming, e un po' v'invidio. In giro per la rete ci sono decine di video, alcuni molto professionali, che tolgono ogni dubbio sulle qualità artistiche e le competenze tecniche dei componenti del progetto. In un qualche modo però mi sembra ineluttabile mostrarvi questo, dove la resa acustica non è un granché, ma si vede un angolino di Mattatoio e ci si diverte molto. Forse a causa di uno scambio di chitarre, o semplicemente perché suonare nei Le Man è divertente. Questo è il migliore giorno in cui vivere. Buon compleanno.
Nel frattempo, voi che non li conoscete potete ascoltarvelo tutto in streaming, e un po' v'invidio. In giro per la rete ci sono decine di video, alcuni molto professionali, che tolgono ogni dubbio sulle qualità artistiche e le competenze tecniche dei componenti del progetto. In un qualche modo però mi sembra ineluttabile mostrarvi questo, dove la resa acustica non è un granché, ma si vede un angolino di Mattatoio e ci si diverte molto. Forse a causa di uno scambio di chitarre, o semplicemente perché suonare nei Le Man è divertente. Questo è il migliore giorno in cui vivere. Buon compleanno.
sabato 21 agosto 2010
Cheap day return
Ian Anderson non è per tutti. Lo so, lo accetto.
C'è un sacco di gente che odia il progressive. È roba pretenziosa, la rivincita dei secchioni delle belle arti sui proletari del rock. Tutto prima o poi è tornato di moda, ma il prog no – troppo pesante per qualsiasi rigurgito di hype. Il prog è vecchio, e se lo ascolti sei patetico. Lo so, lo accetto.
C'è un po' di gente che ama il progressive, ma non sopporta comunque i Jethro Tull, che non erano veramente prog. Hard rock col flauto, questo facevano. Lo fanno ancora, se è per questo, e o li ami o li odi. In realtà no. Ti possono anche lasciare indifferenti.
Ma Cheap day return la devi ascoltare. Dura un minuto. Dove lo trovi un pezzo orchestrale di un minuto? Quelli erano tempi in cui bisognava dimostrare di aver studiato solfeggio, sotto i cinque si scendeva raramente. Cheap day return è appena uno schizzo, la storia di una visita al padre in casa di riposo. Ian abbozza un sospetto sulla badante, ma poi lei gli chiede un autografo, che risate. C'è una chitarra acustica che dialoga coi violini, e sembra la cosa più naturale del mondo. E no che non lo è. Cheap day return è un piccolo gioiello di semplice ma straordinaria fattura, se fossi stato un critico musicale in quegli anni avrei scritto così, incastonato nel primo lato di Aqualung, che comprai ad occhi chiusi la mattina in cui scoprii che non mi avevano rimandato. Mi meritavo dunque un disco a prezzo intero, anche se uscito più di vent'anni prima. L'anacronismo in sé non era un problema, i miei compagni compravano Pink Floyd e Genesis senza pudore. Ma io ero affascinato ancor più impudicamente da certi dischi che suonavano ancora più antichi di quel che erano; come la voce di Robert Plant che a volte sembra riverberare direttamente sulle pietre di Stonehenge, o come i Jethro Tull che avevano questa immagine medioevale già allora imbarazzante, ma a quel tempo me ne fregavo alla grande di quello che potevate pensare di me. La migliore colonna sonora per leggersi il Signore degli anelli, come feci quell'estate; e misi giù anche il pavimento del terrazzo, ma non venne bene. Poi lunghi e tortuosi giri in bicicletta, durante i quali pioppi e cipressi di Albareto impararono a memoria il primo lato di Aqualung. E se ci tornassi, uno di questi pomeriggi, senza queste stupide cuffiette, so che me lo canterebbero ancora, solco dopo solco, dal riff iniziale alle risate di chiusura. Ma fa troppo caldo.
Non ci giro più molto in bicicletta. Il Signore degli Anelli non lo tengo neanche in casa. Il pavimento del terrazzo è stato rifatto da personale competente, e comunque ora è un terrazzo di casa d'altri. La paura di essere rimandato a settembre in qualcosa è una sensazione che non riesco più nemmeno a evocare. Sono insomma un'altra persona, fatta di cellule in gran parte generate nei vent'anni successivi. Se m'incontrassi non mi capirei, anzi mi prenderei a ceffoni. Ma per fortuna non mi può succedere. Tranne una volta all'anno, quando ascolto Aqualung. Neanche tutto. Il primo lato. Ed è come se il ragazzo venisse a trovarmi all'ospizio, ciao vecchio, come va, la nurse ti tratta bene? On Preston platform, do you hear shoe shuffle dance?
C'è un sacco di gente che odia il progressive. È roba pretenziosa, la rivincita dei secchioni delle belle arti sui proletari del rock. Tutto prima o poi è tornato di moda, ma il prog no – troppo pesante per qualsiasi rigurgito di hype. Il prog è vecchio, e se lo ascolti sei patetico. Lo so, lo accetto.
C'è un po' di gente che ama il progressive, ma non sopporta comunque i Jethro Tull, che non erano veramente prog. Hard rock col flauto, questo facevano. Lo fanno ancora, se è per questo, e o li ami o li odi. In realtà no. Ti possono anche lasciare indifferenti.
Ma Cheap day return la devi ascoltare. Dura un minuto. Dove lo trovi un pezzo orchestrale di un minuto? Quelli erano tempi in cui bisognava dimostrare di aver studiato solfeggio, sotto i cinque si scendeva raramente. Cheap day return è appena uno schizzo, la storia di una visita al padre in casa di riposo. Ian abbozza un sospetto sulla badante, ma poi lei gli chiede un autografo, che risate. C'è una chitarra acustica che dialoga coi violini, e sembra la cosa più naturale del mondo. E no che non lo è. Cheap day return è un piccolo gioiello di semplice ma straordinaria fattura, se fossi stato un critico musicale in quegli anni avrei scritto così, incastonato nel primo lato di Aqualung, che comprai ad occhi chiusi la mattina in cui scoprii che non mi avevano rimandato. Mi meritavo dunque un disco a prezzo intero, anche se uscito più di vent'anni prima. L'anacronismo in sé non era un problema, i miei compagni compravano Pink Floyd e Genesis senza pudore. Ma io ero affascinato ancor più impudicamente da certi dischi che suonavano ancora più antichi di quel che erano; come la voce di Robert Plant che a volte sembra riverberare direttamente sulle pietre di Stonehenge, o come i Jethro Tull che avevano questa immagine medioevale già allora imbarazzante, ma a quel tempo me ne fregavo alla grande di quello che potevate pensare di me. La migliore colonna sonora per leggersi il Signore degli anelli, come feci quell'estate; e misi giù anche il pavimento del terrazzo, ma non venne bene. Poi lunghi e tortuosi giri in bicicletta, durante i quali pioppi e cipressi di Albareto impararono a memoria il primo lato di Aqualung. E se ci tornassi, uno di questi pomeriggi, senza queste stupide cuffiette, so che me lo canterebbero ancora, solco dopo solco, dal riff iniziale alle risate di chiusura. Ma fa troppo caldo.
Non ci giro più molto in bicicletta. Il Signore degli Anelli non lo tengo neanche in casa. Il pavimento del terrazzo è stato rifatto da personale competente, e comunque ora è un terrazzo di casa d'altri. La paura di essere rimandato a settembre in qualcosa è una sensazione che non riesco più nemmeno a evocare. Sono insomma un'altra persona, fatta di cellule in gran parte generate nei vent'anni successivi. Se m'incontrassi non mi capirei, anzi mi prenderei a ceffoni. Ma per fortuna non mi può succedere. Tranne una volta all'anno, quando ascolto Aqualung. Neanche tutto. Il primo lato. Ed è come se il ragazzo venisse a trovarmi all'ospizio, ciao vecchio, come va, la nurse ti tratta bene? On Preston platform, do you hear shoe shuffle dance?
venerdì 20 agosto 2010
E versa, versa
Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, quando ci entri davvero, ti sembra di rinvenire sotto le strutture pop sapientemente disegnate da Don Was tutto un mondo di spiritualità e mistero, come una moschea mozarabica dissimulata sotto volute gotiche o barocche. Puoi anche prendere Serbi Serbi per il grido del muezzin che ti richiama alla preghiera del crepuscolo. Se non conosci le parole.
Quando leggi le parole in traduzione, scopri che Khaled è infelice per amore – fin qui ci potrebbe anche stare – e quindi si sta ubriacando. La parola alcohol è incastrata come un brillante pagano in una ka'aba di gorgheggi sacri, e Serbi Serbi forse significa “Versa versa”. Altro che mezzuin. Questo è ubriaco perso, e la sua preghiera è l'equivalente algerino di “si son cioc purtev'm a ca' su 'na carriola”. Uno ci può anche restare male.
Poi però, se uno ci riflette bene: cosa c'è di più rock'n'roll di cantare pene per amore alcoliche, mentre il Fronte Islamico di Salvezza prende il potere? Alcuni colleghi di Khaled morirono ammazzati per non aver fatto altro: cantare di amorazzi e bevute. Una cosa molto banale qui da noi, roba da cospiratori in Algeria. Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, anche l'alcol diventa qualcosa per cui lottare, qualcosa di sacro.
Quando leggi le parole in traduzione, scopri che Khaled è infelice per amore – fin qui ci potrebbe anche stare – e quindi si sta ubriacando. La parola alcohol è incastrata come un brillante pagano in una ka'aba di gorgheggi sacri, e Serbi Serbi forse significa “Versa versa”. Altro che mezzuin. Questo è ubriaco perso, e la sua preghiera è l'equivalente algerino di “si son cioc purtev'm a ca' su 'na carriola”. Uno ci può anche restare male.
Poi però, se uno ci riflette bene: cosa c'è di più rock'n'roll di cantare pene per amore alcoliche, mentre il Fronte Islamico di Salvezza prende il potere? Alcuni colleghi di Khaled morirono ammazzati per non aver fatto altro: cantare di amorazzi e bevute. Una cosa molto banale qui da noi, roba da cospiratori in Algeria. Quando cominci ad ascoltare Khaled sul serio, anche l'alcol diventa qualcosa per cui lottare, qualcosa di sacro.
giovedì 19 agosto 2010
We are billion year old carbon
Se c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.
Ma non ci ha creduto a lungo. Due anni dopo, all'isola di Wight, un fricchettone sale sul palco e la interrompe proprio mentre canta We are stardust. Il manager lo prende a calci – il pubblico fischia Joni. Joni chiede il rispetto per l'artista, cioè per sé stessa. Non ci si bagna più nello stesso fango del pubblico, non gli si insegnano più i ritornelli. Gli hippie saranno anche polvere di stelle, ma troppo spesso sono piantagrane sciroccati senza rispetto per gli artisti. Big Sur è lontana, Woodstock è già un museo di cere. La versione di Matthews scala le classifiche nello stesso periodo.
La distanza tra le versioni di CYSN e della Mitchell è di pochi mesi. Eppure Matthews ha saputo metterci qualcosa che interpreti più conosciuti di lui non avevano ancora trovato. La pedal steel, direte voi. Bravi. In realtà io intendevo la nostalgia. La Mitchell non aveva nostalgia per Woodstock; solo un po' di rimpianto per non esserci stata, e tutta la fantasia per immaginarsela più bella, un sogno oltre il tempo e lo spazio. Iain Matthews la sfoglia già come un vecchio album delle vacanze. In quegli anni le fotografie ingiallivano in fretta, le speranze duravano un paio d'estati e poi finivano, e anche le canzoni migliori dopo venti mesi erano roba vecchia. D'altro canto nascevano continuamente nuove speranze e nuove canzoni, per cui la nostalgia restava un prodotto di nicchia.
Oggi tutto quel passato è stato surgelato, per la comodità degli utenti: quando ne vuoi un pezzo lo scongeli e lo consumi in pochi minuti. Così ogni estate ci si mette a parlare di Woodstock, il grande evento che ha cambiato la storia della musica eccetera. Anche la nostalgia sa un po' di precotto. Del resto è tutta gente che a Woodstock non c'era, non era nata o ascoltava Gianni Morandi. Per quelli che c'erano passati, Woodstock era probabilmente roba vecchia già nel 1970. Ne sfogliavano le foto, e cominciavano a non riconoscersi più. Siamo polvere. Di stelle, ma pur sempre polvere.
mercoledì 18 agosto 2010
Il grande Giovane
(Questo pezzo è un esperimento: l'unica fonte è wikipedia).
Cossiga – può esser difficile ricordarselo proprio oggi – è stato per molto tempo un giovane. Nel senso molto relativo che la parola “giovane” poteva avere nell'ambiente stagnante della prima repubblica, Cossiga è stato addirittura il “più” giovane. Laureato a 20 anni, deputato d'assalto a trenta (leader dei “giovani turchi” sassaresi), sottosegretario alla difesa a 38 (record), ministro degli Interni a 48 (record), presidente del Senato a 55 (record), Capo di Stato a 56 (record imbattuto). Fino a ieri era ancora il più giovane tra i Presidenti della Repubblica in vita: più giovane di Scalfaro, Ciampi, Napolitano. Giovani, volete far politica? Seguite Cossiga: laureatevi presto e buttatevi nella mischia. Sceglietevi comunque un partito importante; se non vi piace del tutto scalatelo comunque: potrete sempre picconarlo una volta in cima.
È possibile isolare questo elemento “giovane” nella carriera politica di Francesco Cossiga? Si parla molto tra noi di come sarebbe migliore l'Italia se la governassero i 40-50enni piuttosto che i 70-80enni: Cossiga è un esempio a favore o contro? In che modo la sua (relativa) “giovinezza” può aver cambiato le cose? È difficile da dire, anche perché Cossiga più che un politico è stato un uomo delle istituzioni: non scriveva disegni di legge, ma riformava i servizi segreti. Gli si può riconoscere una certa irruenza, uno stile spiccio nella gestione dell'ordine pubblico: mandare mezzi blindati contro gli studenti è, in un certo senso, una cosa 'da giovani' (il vecchio Giolitti non lo avrebbe fatto). Nella sua lunga carriera però Cossiga è stato anche l'esatto contrario: un notaio attentissimo al rispetto del dettaglio, della norma più desueta e obsoleta. O non c'è qualcosa di giovanile anche in questo? Tra le varie onoreficenze che collezionava, c'era il grado di Capitano di Fregata. Quando il parlamento lo elesse Presidente nessuno se ne ricordava, tranne lui: che deviò il corteo presidenziale per chiedere il consenso allo Stato Maggiore della Marina Militare. Si presentò in divisa da Capitano di Fregata, appunto. La passione per le uniformi, le cariche, le battaglie... se tutto questo non è sufficiente a definire Cossiga un nerd, ecco l'arma segreta: era un radioamatore. Quando salì al Quirinale si portò il baracchino con sé. Persino nei tre anni del “presidente notaio” (1985-1988), quando nessuno avrebbe potuto immaginare che ragazzaccio sguaiato covava in lui, Cossiga si dimostrò in qualche misura giovanile: pose fine a una delle più lunghe crisi del pentapartito nominando a Palazzo Chigi, nel 1987, Giovanni Goria. È ancora il più giovane Presidente del Consiglio.
Invecchiando, Cossiga ha mantenuto i tratti dell'enfant terrible; anche se davanti a certi sbalzi di umore diventava più facile pensare a una psicosi maniaco-depressiva. Le istituzioni erano tutto per lui; allo stesso tempo, fare il presidente durante il semestre bianco era una palla; si dimise due mesi prima.
Chi comincia giovane ha più tempo per re-inventarsi. Di Cossiga ne abbiamo avuti tanti, e diversi tra loro. Io ne riesco a isolare quattro, ma chi lo conosce meglio senz'altro ne conosce molti di più. Abbiamo il Cossiga Giovane Turco, spericolato innovatore della sinistra DC; il Kossiga boia, mandante di assassini di Stato; il Presidente Notaio, che nelle vignette di allora occhieggiava da una fessura delle finestre del Quirinale; e dopo il Muro di Berlino, il Picconatore. Questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere conto della complessità del tipo; il Cossiga post-Quirinale mi sembra ancora un sequel del Picconatore, sempre più stemperato col passare degli anni. I quattro Cossiga sono anche autosufficienti, nel senso che ognuno si comporta in maniera indipendente dall'altro: studiando le mosse del Giovane Turco non si capisce come sia potuto diventare Kossiga; allo stesso tempo non è facile capire come il Kossiga dalle maniere forti sia diventato, nella prima parte del suo settennato, il presidente più opaco della storia della Repubblica. Quanto al picconatore, ciarliero e imprudente, rappresenta una negazione di tutte e tre le identità precedenti. Potrei concludere definendo Cossiga come il David Bowie della politica italiana, ma forse chi legge qui ormai ricorda Bowie meno di Cossiga (è un cantante inglese di qualche anno fa, che sul palco cambiava spesso identità).
Del cadere in piedi. Cossiga è il ministro degli Interni che non riesce a liberare Aldo Moro. Si dimette. Un anno dopo è nominato Presidente del Consiglio. Il PCI del cugino Berlinguer porta in parlamento l'accusa di aver rivelato al senatore Carlo Donat Cattin che il figlio Marco era indagato per terrorismo. Il caso è archiviato; Cossiga si dimette nel 1980. Tre anni dopo lo nominano Presidente del Senato. Vent'anni dopo Cossiga ammette parzialmente la circostanza: rivelando di averne parlato col cugino Berlinguer, aspettandosi un sostegno. Berlinguer invece lo accusò in Parlamento. Vatti a fidare dei cugini comunisti.
Dopo il 1989 Cossiga ha ripreso a fare 'politica', conquistando spesso le prime pagine con dichiarazioni fantasiose e sboccate che cambiarono il lessico della politica italiana. A distanza di anni diventa difficile capire quale fosse il suo progetto, se ne aveva uno. Sbaglierò, non sono un cossigologo, ma non mi sembra di avere mai sentito un parere di Cossiga sull'economia, sul lavoro, sui diritti civili. Cossiga aveva sempre qualcosa da dire su magistrati, sui colleghi politici: non suggeriva campagne politiche, quanto alchimie parlamentari. Un satrapo di palazzo, convinto che l'Italia si potesse salvare modificando una maggioranza in parlamento o un comma in una legge. Mettiamola così: fino al 1989 era un atlantista convinto, disposto a chiudere un occhio e a volte entrambi pur di mantenere lo status quo in uno degli Stati strategicamente più importanti per la Nato. Al crollo del muro capisce subito (con una prontezza che stupisce tutti) che quel progetto è finito: l'Italia non è più un fronte, ma sta scivolando nelle retrovie. Dal suo osservatorio privilegiato nota che gli americani sono sempre più insofferenti nei confronti della Dc; ostili alla costituzione dell'ennesimo governo Andreotti (filopalestinese?) Ne trae le conseguenze e inizia a tirare bordate alla Dc. Voleva forse creare le premesse per ripristinare l'alternanza di governo? Andreotti però reagisce aprendo al giudice Casson gli archivi del caso Gladio. Il PCI-PDS di Occhetto scopre di essere stato sotto tiro per tutto il dopoguerra (non doveva essere una gran scoperta) e chiede al parlamento l'impeachment. Cossiga, che cannoneggiava a centrodestra, si ritrova bersaglio della sinistra. A quel punto il piccone presidenziale comincia a roteare a 360°: l'uomo forse ricorda che nelle vite passate è stato il depositario di segreti ben più indecenti. Ha infiltrato i movimenti studenteschi; ha lasciato che ammazzassero Moro: di tutto questo erano informati quando lo nominarono al Quirinale: e ora osavano accusarlo per una faccenda risibile come Gladio? Pivelli, avrà pensato. Giudici ragazzini.
In realtà, visto da lontano, il Cossiga post-Quirinale non ha mai fatto mancare il suo sostegno al centro-sinistra. D'Alema è uno dei pochi politici che in questi anni Cossiga abbia stimato davvero: anche lui non proprio popolare, ma ben ferrato nelle logiche di palazzo. Nel 1998 è stato il primo presidente del Consiglio ex comunista, e lo è stato grazie al voto del Senatore a vita Cossiga, dopo che Bertinotti aveva ritirato il sostegno al Prodi I. Otto anni più tardi Cossiga è stato altrettanto decisivo a salvare (o meglio: a protrarre l'agonia) del Prodi II, il governo che si teneva a galla coi voti dei senatori a vita. Insomma, Cossiga non ha mai negato il suo aiuto a quella parte politica: la parte di quelli che nei salotti magari indulgevano alle battute sul Kossiga-Boia, ma tiravano un sospiro di sollievo quando gli autonomi venivano sgomberati da Bologna; quelli che lo mettevano in stato d'accusa in parlamento, ma poi nello stesso parlamento mendicavano il suo voto. Cossiga li ha sempre sostenuti, magari disprezzandoli. Forse avrebbe fatto lo stesso col centrodestra (di fatto ha votato la fiducia all'ultimo governo), se il centrodestra avesse mai avuto bisogno di lui.
Cossiga lascia quattro lettere indirizzate alle quattro cariche. Il sogno di tutti noi è che esse contengano la soluzione di almeno uno dei cento misteri d'Italia: uno tra i tanti scheletri che Cossiga è riuscito a contenere tutta la vita nell'armadio. Potrebbe anche essere, l'uomo amava i coup de theatre. Però chi ama veramente il teatro non resiste all'idea di assistervi: Cossiga ha avuto molti anni per raccontare le sue verità. In certi casi lo ha fatto, nel modo più teatrale possibile: affermando di avere “ucciso Moro”, o raccontando al Resto del Carlino come si gestiscono i movimenti di piazza (“infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri”).
Con tutte le sue manie e le sue depressioni, Cossiga ha mantenuto un forte senso di appartenenza nei confronti dello Stato, delle forze dell'ordine, di tutte quelle cose organizzate che fanno la Storia, e che continuano anche dopo di lui. Posso sbagliarmi, ma per chi vive al servizio di queste cose la morte assume un senso relativo: quello che non poteva proprio dire da vivo, non credo possa rivelarlo da morto. Quel che invece può fare da morto è continuare a depistare, magari suggerendo altre illazioni sull'attentato di Bologna (quella famosa pista palestinese basata sull'idea che l'OLP spostasse gli esplosivi sui treni di linea, e non uno straccio di prova), o qualche altra chicca inedita su Ustica o sulle BR. Insomma io non mi fido di lui neanche da morto. Tanto più che da oggi tra i depositari di quei segreti c'è Silvio Berlusconi.
Cossiga – può esser difficile ricordarselo proprio oggi – è stato per molto tempo un giovane. Nel senso molto relativo che la parola “giovane” poteva avere nell'ambiente stagnante della prima repubblica, Cossiga è stato addirittura il “più” giovane. Laureato a 20 anni, deputato d'assalto a trenta (leader dei “giovani turchi” sassaresi), sottosegretario alla difesa a 38 (record), ministro degli Interni a 48 (record), presidente del Senato a 55 (record), Capo di Stato a 56 (record imbattuto). Fino a ieri era ancora il più giovane tra i Presidenti della Repubblica in vita: più giovane di Scalfaro, Ciampi, Napolitano. Giovani, volete far politica? Seguite Cossiga: laureatevi presto e buttatevi nella mischia. Sceglietevi comunque un partito importante; se non vi piace del tutto scalatelo comunque: potrete sempre picconarlo una volta in cima.
È possibile isolare questo elemento “giovane” nella carriera politica di Francesco Cossiga? Si parla molto tra noi di come sarebbe migliore l'Italia se la governassero i 40-50enni piuttosto che i 70-80enni: Cossiga è un esempio a favore o contro? In che modo la sua (relativa) “giovinezza” può aver cambiato le cose? È difficile da dire, anche perché Cossiga più che un politico è stato un uomo delle istituzioni: non scriveva disegni di legge, ma riformava i servizi segreti. Gli si può riconoscere una certa irruenza, uno stile spiccio nella gestione dell'ordine pubblico: mandare mezzi blindati contro gli studenti è, in un certo senso, una cosa 'da giovani' (il vecchio Giolitti non lo avrebbe fatto). Nella sua lunga carriera però Cossiga è stato anche l'esatto contrario: un notaio attentissimo al rispetto del dettaglio, della norma più desueta e obsoleta. O non c'è qualcosa di giovanile anche in questo? Tra le varie onoreficenze che collezionava, c'era il grado di Capitano di Fregata. Quando il parlamento lo elesse Presidente nessuno se ne ricordava, tranne lui: che deviò il corteo presidenziale per chiedere il consenso allo Stato Maggiore della Marina Militare. Si presentò in divisa da Capitano di Fregata, appunto. La passione per le uniformi, le cariche, le battaglie... se tutto questo non è sufficiente a definire Cossiga un nerd, ecco l'arma segreta: era un radioamatore. Quando salì al Quirinale si portò il baracchino con sé. Persino nei tre anni del “presidente notaio” (1985-1988), quando nessuno avrebbe potuto immaginare che ragazzaccio sguaiato covava in lui, Cossiga si dimostrò in qualche misura giovanile: pose fine a una delle più lunghe crisi del pentapartito nominando a Palazzo Chigi, nel 1987, Giovanni Goria. È ancora il più giovane Presidente del Consiglio.
Invecchiando, Cossiga ha mantenuto i tratti dell'enfant terrible; anche se davanti a certi sbalzi di umore diventava più facile pensare a una psicosi maniaco-depressiva. Le istituzioni erano tutto per lui; allo stesso tempo, fare il presidente durante il semestre bianco era una palla; si dimise due mesi prima.
Chi comincia giovane ha più tempo per re-inventarsi. Di Cossiga ne abbiamo avuti tanti, e diversi tra loro. Io ne riesco a isolare quattro, ma chi lo conosce meglio senz'altro ne conosce molti di più. Abbiamo il Cossiga Giovane Turco, spericolato innovatore della sinistra DC; il Kossiga boia, mandante di assassini di Stato; il Presidente Notaio, che nelle vignette di allora occhieggiava da una fessura delle finestre del Quirinale; e dopo il Muro di Berlino, il Picconatore. Questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere conto della complessità del tipo; il Cossiga post-Quirinale mi sembra ancora un sequel del Picconatore, sempre più stemperato col passare degli anni. I quattro Cossiga sono anche autosufficienti, nel senso che ognuno si comporta in maniera indipendente dall'altro: studiando le mosse del Giovane Turco non si capisce come sia potuto diventare Kossiga; allo stesso tempo non è facile capire come il Kossiga dalle maniere forti sia diventato, nella prima parte del suo settennato, il presidente più opaco della storia della Repubblica. Quanto al picconatore, ciarliero e imprudente, rappresenta una negazione di tutte e tre le identità precedenti. Potrei concludere definendo Cossiga come il David Bowie della politica italiana, ma forse chi legge qui ormai ricorda Bowie meno di Cossiga (è un cantante inglese di qualche anno fa, che sul palco cambiava spesso identità).
Del cadere in piedi. Cossiga è il ministro degli Interni che non riesce a liberare Aldo Moro. Si dimette. Un anno dopo è nominato Presidente del Consiglio. Il PCI del cugino Berlinguer porta in parlamento l'accusa di aver rivelato al senatore Carlo Donat Cattin che il figlio Marco era indagato per terrorismo. Il caso è archiviato; Cossiga si dimette nel 1980. Tre anni dopo lo nominano Presidente del Senato. Vent'anni dopo Cossiga ammette parzialmente la circostanza: rivelando di averne parlato col cugino Berlinguer, aspettandosi un sostegno. Berlinguer invece lo accusò in Parlamento. Vatti a fidare dei cugini comunisti.
Dopo il 1989 Cossiga ha ripreso a fare 'politica', conquistando spesso le prime pagine con dichiarazioni fantasiose e sboccate che cambiarono il lessico della politica italiana. A distanza di anni diventa difficile capire quale fosse il suo progetto, se ne aveva uno. Sbaglierò, non sono un cossigologo, ma non mi sembra di avere mai sentito un parere di Cossiga sull'economia, sul lavoro, sui diritti civili. Cossiga aveva sempre qualcosa da dire su magistrati, sui colleghi politici: non suggeriva campagne politiche, quanto alchimie parlamentari. Un satrapo di palazzo, convinto che l'Italia si potesse salvare modificando una maggioranza in parlamento o un comma in una legge. Mettiamola così: fino al 1989 era un atlantista convinto, disposto a chiudere un occhio e a volte entrambi pur di mantenere lo status quo in uno degli Stati strategicamente più importanti per la Nato. Al crollo del muro capisce subito (con una prontezza che stupisce tutti) che quel progetto è finito: l'Italia non è più un fronte, ma sta scivolando nelle retrovie. Dal suo osservatorio privilegiato nota che gli americani sono sempre più insofferenti nei confronti della Dc; ostili alla costituzione dell'ennesimo governo Andreotti (filopalestinese?) Ne trae le conseguenze e inizia a tirare bordate alla Dc. Voleva forse creare le premesse per ripristinare l'alternanza di governo? Andreotti però reagisce aprendo al giudice Casson gli archivi del caso Gladio. Il PCI-PDS di Occhetto scopre di essere stato sotto tiro per tutto il dopoguerra (non doveva essere una gran scoperta) e chiede al parlamento l'impeachment. Cossiga, che cannoneggiava a centrodestra, si ritrova bersaglio della sinistra. A quel punto il piccone presidenziale comincia a roteare a 360°: l'uomo forse ricorda che nelle vite passate è stato il depositario di segreti ben più indecenti. Ha infiltrato i movimenti studenteschi; ha lasciato che ammazzassero Moro: di tutto questo erano informati quando lo nominarono al Quirinale: e ora osavano accusarlo per una faccenda risibile come Gladio? Pivelli, avrà pensato. Giudici ragazzini.
In realtà, visto da lontano, il Cossiga post-Quirinale non ha mai fatto mancare il suo sostegno al centro-sinistra. D'Alema è uno dei pochi politici che in questi anni Cossiga abbia stimato davvero: anche lui non proprio popolare, ma ben ferrato nelle logiche di palazzo. Nel 1998 è stato il primo presidente del Consiglio ex comunista, e lo è stato grazie al voto del Senatore a vita Cossiga, dopo che Bertinotti aveva ritirato il sostegno al Prodi I. Otto anni più tardi Cossiga è stato altrettanto decisivo a salvare (o meglio: a protrarre l'agonia) del Prodi II, il governo che si teneva a galla coi voti dei senatori a vita. Insomma, Cossiga non ha mai negato il suo aiuto a quella parte politica: la parte di quelli che nei salotti magari indulgevano alle battute sul Kossiga-Boia, ma tiravano un sospiro di sollievo quando gli autonomi venivano sgomberati da Bologna; quelli che lo mettevano in stato d'accusa in parlamento, ma poi nello stesso parlamento mendicavano il suo voto. Cossiga li ha sempre sostenuti, magari disprezzandoli. Forse avrebbe fatto lo stesso col centrodestra (di fatto ha votato la fiducia all'ultimo governo), se il centrodestra avesse mai avuto bisogno di lui.
Cossiga lascia quattro lettere indirizzate alle quattro cariche. Il sogno di tutti noi è che esse contengano la soluzione di almeno uno dei cento misteri d'Italia: uno tra i tanti scheletri che Cossiga è riuscito a contenere tutta la vita nell'armadio. Potrebbe anche essere, l'uomo amava i coup de theatre. Però chi ama veramente il teatro non resiste all'idea di assistervi: Cossiga ha avuto molti anni per raccontare le sue verità. In certi casi lo ha fatto, nel modo più teatrale possibile: affermando di avere “ucciso Moro”, o raccontando al Resto del Carlino come si gestiscono i movimenti di piazza (“infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri”).
Con tutte le sue manie e le sue depressioni, Cossiga ha mantenuto un forte senso di appartenenza nei confronti dello Stato, delle forze dell'ordine, di tutte quelle cose organizzate che fanno la Storia, e che continuano anche dopo di lui. Posso sbagliarmi, ma per chi vive al servizio di queste cose la morte assume un senso relativo: quello che non poteva proprio dire da vivo, non credo possa rivelarlo da morto. Quel che invece può fare da morto è continuare a depistare, magari suggerendo altre illazioni sull'attentato di Bologna (quella famosa pista palestinese basata sull'idea che l'OLP spostasse gli esplosivi sui treni di linea, e non uno straccio di prova), o qualche altra chicca inedita su Ustica o sulle BR. Insomma io non mi fido di lui neanche da morto. Tanto più che da oggi tra i depositari di quei segreti c'è Silvio Berlusconi.
martedì 17 agosto 2010
Trashmen didn't get my trash today
Spike Lee ha diretto alcuni tra i film più brutti e più belli che ho visto. A volte immagino che abbia un gemello cattivo, che lo odia e vuole rovinargli la reputazione, mettendo il nome di S. L. su quintali di pellicola senza capo o coda, come Miracolo a Sant'Anna o Bamboozled. In realtà Spike Lee ha un fratello e una sorella, che a un certo punto volevano scrivere un film sulla loro infanzia brooklynese. Fecero leggere la sceneggiatura a Spike, che glielo comprò; tolse le parti di sesso tra adolescenti, e realizzò Crooklyn. Non è senz'altro tra i film più brutti che ho visto. Ma la cosa che me lo rende caro più di ogni altro film di SL sono i titoli iniziali. Niente di trascendentale: un dignitoso isolato di Brooklyn, primi anni Settanta. I grandi giocano a domino, i bambini corrono sui marciapiedi, i ragazzi s'infrattano sotto le scale. L'estate in città, in tutto il suo splendore. In sottofondo gli Stylistics cantano di scioperi dei netturbini e varia umanità – le cose che fanno girare il mondo. Una pezzo soul sui generis, impregnato della luce del mattino, odoroso di donuts alla cannella. In seguito ho cercato in lungo in largo la loro versione di People make the world go round, senza soddisfazione. Ne ho trovato una, pregevole, di Micheal Jackson bambino, ma ora m'intristisce. Poi mi sono reso conto che la canzone mi piace ascoltarla così: col rumore dei bambini che fanno la conta. È anche questo che fa girare il mondo.
lunedì 16 agosto 2010
Isorabbia
Domanda: si può passare un buon ferragosto in autostrada, senza di lui?
Isoradio, cambia musica (anzi, toglila proprio). (Sull'Unita.it). (Si commenta qui).
Passato un buon ferragosto? O eravate anche voi intrappolati in una coda d'autostrada, cullati dalle dolci note di Sandro Giacobbe? Rassegnatevi, è l'Italia. Certi problemi sono complessi. Gli esodi di agosto, per esempio, non sono così facilmente aggirabili. Ma Sandro Giacobbe? Un modo di aggirarlo ci dovrebbe pur essere. Non so, per esempio... una class action contro Isoradio?
Chiedere i danni a Isoradio, che idea folle. Come calcolare la quantità di tempo e di denaro bruciate in tutti questi anni in centinaia di migliaia di code? Code che milioni di automobilisti avrebbero potuto evitare, se Isoradio li avesse informati prontamente di quello che succedeva 30 km più in là, invece di proporre un vecchio classico di Umberto Tozzi dopo l'ultimo successo di Biagio Antonacci...
La selezione musicale di Isoradio è una di quelle ingiustizie alle quali forse i potenti sperano di assuefarci con gli anni. Magari, pensano, col tempo ci affezioneremo a quest'Italia di svincoli presi senza sapere se dietro la curva c'è una coda o no, mentre i Ricchi e Poveri cantano Mammamarìa. E intanto gli anni passano, le code si allungano, dei Ricchi e Poveri si sarebbe perso anche il ricordo, se non fosse per i dj di Isoradio. Ma cosa vogliono da noi? Perché non si limitano a dirci in pochi secondi che le uscite sull'Adriatica sono intasate? Perché prima devono per forza somministrarci Gianni Togni? Cosa abbiamo fatto di male, esattamente? Di quale colpa oscura ci siamo macchiati (probabilmente a metà degli anni Settanta)? Non siamo anche noi automobilisti come gli altri? Perché Isoradio non sembra fatta per noi – ma a orecchio non sembra fatta per nessuno.
Credo che in partenza ci fosse un'idea: intervallare le informazioni sul traffico con un po' di musica 'popolare', per evitare che il conducente si assopisse o cambiasse frequenza. Forse trent'anni fa tutto questo aveva ancora un senso. Le autostrade erano meno trafficate, le code meno frequenti, e tra una notizia e l'altra si potevano programmare canzoni da hit parade, quel tipo di canzoni che rappresentavano un patrimonio collettivo, le conoscevano tutti e le cantavano... no, aspetta, trent'anni fa? Era il 1980, le autostrade erano già fiumane di lamiera rovente, i ragazzini ascoltavano il post-punk e vomitavano sulle note delle canzoni preferite da mamma e papà. Il sogno generalista di Isoradio viene ancora da più lontano. E non ha davvero più il minimo senso.
Oggi non esiste più un patrimonio di canzoni condivise (ammesso sia mai esistito). Se metti su Sanremo l'ascoltatore dei Pink Floyd cambierà frequenza. Techno e Hip-hop non sono più fenomeni 'giovani': è roba che gira da una ventina d'anni, una parte non piccola degli utenti delle autostrade c'è cresciuta in mezzo e magari non ascolta altro. Ma Isoradio non può programmarla, perché? Perché c'è il rischio che il camionista cinquantaseienne si addormenti, sbandi e schiacci l'appassionato dei Pink Floyd contro l'amante della techno. Va bene. D'altro canto il camionista 56enne ormai è un rumeno di Conegliano, e Tiziana Rivale non risveglia in lui nessuna luminosa epifania degli anni Ottanta: se è stanco si addormenta e sbanda uguale. E se mettessimo un notiziario sul traffico in più, semplicemente? Anche in rumeno, perché no, pensiamoci.
Di tante rivoluzioni a cui abbiamo assistito, ce n'è una che forse ci siamo lasciati sfuggire. Da qualche tempo in qua ascoltare musica in auto è diventata un'esperienza molto meno frustrante. Cos'è successo? Una piccola cosa: nelle auto sono entrati i lettori mp3. Ormai, nell'affannosa corsa al cliente, le concessionarie li offrono in serie. Con tutto quello che significa: caricare su ogni auto una valigia colma di cd, compressa in pochi centimetri cubici, e gestibile con una mano sola. Si può viaggiare per l'Italia e l'Europa con il proprio juke box personale, che quasi mai include i successi di Pupo tanto cari ai dj Isoradio. Questa rivoluzione impalpabile ha i suoi pro e i suoi contro. Non dipendiamo più dai selezionatori delle radio, non saremo più costretti a memorizzare il tormentone del momento. D'altro canto c'è il rischio di blindarci nella nostra bolla musicale personale, e di perdere ogni contatto coi gusti musicali delle persone che stanno vicino a noi.
Ma tutto questo in fondo non riguarda Isoradio. La diffusione dei lettori mp3 sulle auto metterà in discussione la programmazione delle emittenti commerciali, ma Isoradio è servizio pubblico; il suo scopo è offrire in tempo reale informazioni sul traffico. Non importa quante ore di buona musica abbiamo a bordo; in certi momenti avremo sempre voglia di sintonizzarci su Isoradio. A patto che ci dia immediatamente informazioni sul traffico, non sui momenti oscuri della carriera dei Matia Bazar. Non si può semplicemente programmare un notiziario dopo l'altro, senza interruzioni musicali? Dite che è troppo noioso? Più di un successo di Amedeo Minghi? http://leonardo.blogspot.com
sabato 14 agosto 2010
I mean, after all, it's just a road
Certo che io e te ne abbiamo fatti fuori, di chilometri.
Questi inglesini spariscono al confronto, noi ci siamo svegliati a Modena e coricati a Nevers. Abbiamo parcheggiato sotto il Guggenheim e a Finistère; davanti al museo contemporaneo di Rotterdam il ladro più sfigato del mondo non riuscì a forzarci la portiera. Abbiamo perso una marmitta a Montpellier, ne abbiamo trovata un'altra a Marsiglia, ma per trecento chilometri ci sembrava di sedere su una formula uno. Te lo ricordi l'odore del radiatore che fondeva sotto il Gottardo? E quando a Zandvoort ci tirarono un calcio alla fiancata?
Su e giù per mezza Europa, braccati dalle maledette Audi assassine, scansando gli italiani impalati nella corsia di mezzo e i turisti francesi coi loro perniciosi carrettini. Tutti i tornanti del Moncenisio, tutte le stazioni di servizio da Voghera a Saint Raphael. A Latina, un posto di blocco. La gente non lo sa, che parcheggiare a Parigi in agosto è semplicissimo. Quel tizio a cui ricaricammo la batteria a Monaco di Baviera, non ci voleva credere. Ancora ringrazia gli angeli italiani coi cavi e i morsetti nel baule.
Alla frontiera basca abbandonano le macchine sul ciglio dell'autostrada. Nella valle del Rodano ogni morto in strada è segnalato con una sagoma nera. A volte ci sono famiglie intere di sagome, papà mamma e i bambini. Nei boschi del Lussemburgo ci superò l'arciduca, faceva tipo i duecentoquaranta.
E magari era bella Biarritz, graziosa Treviri, non male Salisburgo. Ma alla fine quelle che più mi restano nel cuore sono le città bruttine. La skyline di Liegi (quanto sei brutta, Liegi), i detour di Fontenay, le fontane di Roanne, l'impossibilità di trovare cibo edibile a Orleans o l'enigmatico centro di Mulhouse. Dopo dieci d'ore d'auto Tarascona mi sembrò Gerusalemme. Ostenda a ferragosto era così triste che passammo il confine per respirare un po', e ci ritrovammo a Dunkerque. Ville fleurie, come tutte quante. A Bruxelles girammo mezza giornata tra una casbah e una specie di ZEN, inseguendo cartelli che dicevano “centro”, prima di capire che era il centro, sì, ma di Anderlecht. Avevo sempre pensato che fosse una squadra di calcio, invece è il gemello siamese cattivo del putto piscione. Perdonami.
Per tutte le chiese gotiche, in fin dei conti identiche, come i tetti dei Buffalo Grill in cui non siamo mai entrati, ma ormai ci facevano sentire a casa. Come i licheni incrostati sui templi bretoni. Come tutte le città di Olanda coi canali e i mulini, i mulini e i canali, che dopo averne apprezzate quattro o cinque cominci a pensare per fortuna che hanno bombardato almeno Rotterdam. Per quella volta che guidai mezza giornata per trovare il museo di Caen, e poi non volli comprare il biglietto. Per tutte le volte che ho trovato una scusa per tornare a Poitiers, e non ci conosco nessuno. Per ogni volta che ho provato a portarti al Mont Saint-Michel e il monastero era sempre chiuso al pubblico, monaci infingardi. Per la scorciatoia del lago d'Idro e la tappa criminale Bordeax-Gignac. Tu però ricordati di Basilea e Saint-Tropez, delle ostriche di Arcachon, e Portovenere. Lo sai come sono fatto, lo sai che mi bastano due parole: Dai, Andiamoci. Il gommista ha dato l'ok. Abbiamo il gpl, abbiamo l'essenza, un mese di playlist, e prima o poi salteranno fuori gli It's Immaterial. Sono il tuo re della strada, non ti piace? Cavaliere della strada, è lo stesso per me, sono qui, al tuo fianco. Voglio dire, in fin dei conti è solo strada. (Poi alla prima manovra in un parcheggio becco una fioriera in retromarcia, duecento euro, m'ammazzerei).
venerdì 13 agosto 2010
Il cinema come labirinto
(Niente spoiler, giuro)
Interrompo l'allegro carosello musicale perché magari passa di qui qualcuno che è curioso di sapere se Inception sia davvero questo ineffabile capolavoro o non piuttosto l'ennesima baracconata holliwoodiana sulle realtà oniriche, ormai un genere a sé stante. Insomma, se vale o no il prezzo dei popcorn.
Lo vale.
Potrebbero anche essere i popcorn migliori dell'anno, visto che quelli di Toy Story 3 li avete innaffiati di lacrime (a proposito, cara Pixar, ormai ho capito che vuoi farmi piangere; ma devi proprio farlo sempre nei primi dieci minuti, il tempo dedicato allo sgranocchio? È indecente).
Vi diranno che è un film cerebrale. A prima vista sì. È intricato, barocco, escheriano, tutto quanto, però... non credeteci troppo. In realtà alla fine si capisce tutto quel che c'è da capire. Se ce l'ho fatta io senza sottotitoli, fidatevi, ci riesce chiunque. Il fatto è che a volte al cinema confondiamo la complessità con la proiezione della complessità. In un disegno di Escher ci si può perdere, ma alla fine è solo un bel po' di inchiostro su un rettangolo di carta. Ma soprattutto, i paradossi di Escher sono tutti in piena luce, e si denunciano da soli: allo stesso modo mi sembra che faccia Nolan.
Non svelo nessun mistero del film se ne racconto un pezzettino minuscolo: il protagonista chiede al suo apprendista di disegnargli in un minuto, su un foglio di carta, un labirinto che in un altro minuto lui non sia in grado di risolvere. Credo che in questa sfida consista il cinema di Nolan: ho due ore per intrappolarvi in un mondo, voi avete due ore per trovare l'uscita. Memento era troppo facile? Proviamo con The Prestige. The Prestige, se non ve lo ricordate, è un altro film stupendo, anche quello imperniato su una sfida metaforica (in quel caso il gioco di prestigio, sempre più difficile e rischioso). Era una pellicola che chiedeva molta concentrazione agli spettatori: per dire, ci sono due voci narranti che leggono due diari diversi; all'inizio del film si mostra un diario e se ne legge un altro. Eppure ricordo che qualche spettatore esigente su internet osò lamentarsi che il trucco era troppo facile, si capiva a metà del secondo tempo... ma del resto è così, se hai deciso che il tuo modo di narrare consiste in una sfida con gli spettatori (“vediamo chi mi sgama”), devi essere disposto a perdere tutte le volte, e tutte le volte a raddoppiare la posta. Nolan è disposto. Ma soprattutto, Nolan è onesto. Gioca forte, rischia e non bara.
Lo paragoneranno alla trilogia di Matrix, o alla mitologia di Lost: altri esempi di labirinti volutamente complessi. Con la differenza che gli architetti di Matrix o di Lost a un certo punto hanno dato la sensazione di essersi persi: gli spettatori non trovavano l'uscita semplicemente perché l'uscita non c'era, gli autori avevano intenzione di aprirla all'ultimo momento con una breccia nel muro, e intanto distraevano il pubblico con digressioni filosofiche, sparatorie, spiegazioni volutamente oscure, botte di sentimentalismo... Questo Nolan non lo fa. Le sparatorie ci sono perché è un film d'azione; i sentimenti ci sono perché i protagonisti hanno emozioni; ma tutto questo non copre gli sbreghi di sceneggiatura. Nolan non vi trascina su un'isola piena di trabocchetti per dirvi, sei anni dopo, che i trabocchetti erano solo un pretesto per mostrarvi dei bei personaggi. Questo è sleale. Pensate a tutte le “non spiegazioni” di Lost. Ecco, Inception è l'esatto contrario. Un film che spiega sé stesso (e riesce a non annoiare). Paradossale, ma senza oscurità. Nolan non è un mago, un mistico, un ciarlatano: è un onesto e abile prestigiatore, con in più un budget hollywoodiano e Di Caprio nel cappello.
Riguardo a Di Caprio: ho l'impressione che da qualche anno in qua stia recitando sempre lo stesso ruolo, con le stesse smorfie: il ruolo, come definirlo? Dell'ossesso. Ha sempre dei misteriosi sensi di colpa, ha sempre delle fobie, è sempre ingrugnato. The Aviator, The Departed, Shutter Island, e ora questo. Nel frattempo qualcosa di speculare sta succedendo a Matt Damon: non importa come lo trucchi, in qualsiasi film lui è il Bugiardo. È una cosa che parte da lontano, forse già da Mr Ripley, e arriva a The Informant (gran bel film, recuperatelo). Ormai vai a colpo sicuro: se c'è Damon, bugie a profusione; se c'è Di Caprio, tormenti e ossessioni. Se li metti assieme ottieni quel bell'esperimento che è The Departed, dove due ragazzi biondi della stessa età che fanno lo stesso mestiere cadono vittime uno delle sue bugie, l'altro delle sue ossessioni. Tutto molto caratteristico, però a questo punto forse le facce di Damon e di Di Caprio stanno diventando due maschere greche: le vediamo da lontano e già sappiamo cosa troveremo in scena. Il che va proprio contro quella concezione labirintesca del cinema contemporaneo alla Nolan, che le attese del pubblico vorrebbe disattenderle. A volte potrebbero scambiarsi i ruoli, giusto per movimentare un po' le cose – ma in effetti questo è già successo: Di Caprio ha fatto il truffatore di Prova a prendermi. Anche se io non me lo ricordo. Quando ho iniziato a scrivere questo pezzo ero convinto che il bugiardo braccato da Tom Hanks fosse Damon. Poi ho controllato. Ma non c'è niente da fare. Nella mia testa quel tizio è un bugiardo, quindi ha la faccia di Damon. L'inconscio è fatto così, non lo puoi controllare. È terribile, no? Ma anche un po' meraviglioso.
Interrompo l'allegro carosello musicale perché magari passa di qui qualcuno che è curioso di sapere se Inception sia davvero questo ineffabile capolavoro o non piuttosto l'ennesima baracconata holliwoodiana sulle realtà oniriche, ormai un genere a sé stante. Insomma, se vale o no il prezzo dei popcorn.
Lo vale.
Potrebbero anche essere i popcorn migliori dell'anno, visto che quelli di Toy Story 3 li avete innaffiati di lacrime (a proposito, cara Pixar, ormai ho capito che vuoi farmi piangere; ma devi proprio farlo sempre nei primi dieci minuti, il tempo dedicato allo sgranocchio? È indecente).
Vi diranno che è un film cerebrale. A prima vista sì. È intricato, barocco, escheriano, tutto quanto, però... non credeteci troppo. In realtà alla fine si capisce tutto quel che c'è da capire. Se ce l'ho fatta io senza sottotitoli, fidatevi, ci riesce chiunque. Il fatto è che a volte al cinema confondiamo la complessità con la proiezione della complessità. In un disegno di Escher ci si può perdere, ma alla fine è solo un bel po' di inchiostro su un rettangolo di carta. Ma soprattutto, i paradossi di Escher sono tutti in piena luce, e si denunciano da soli: allo stesso modo mi sembra che faccia Nolan.
Non svelo nessun mistero del film se ne racconto un pezzettino minuscolo: il protagonista chiede al suo apprendista di disegnargli in un minuto, su un foglio di carta, un labirinto che in un altro minuto lui non sia in grado di risolvere. Credo che in questa sfida consista il cinema di Nolan: ho due ore per intrappolarvi in un mondo, voi avete due ore per trovare l'uscita. Memento era troppo facile? Proviamo con The Prestige. The Prestige, se non ve lo ricordate, è un altro film stupendo, anche quello imperniato su una sfida metaforica (in quel caso il gioco di prestigio, sempre più difficile e rischioso). Era una pellicola che chiedeva molta concentrazione agli spettatori: per dire, ci sono due voci narranti che leggono due diari diversi; all'inizio del film si mostra un diario e se ne legge un altro. Eppure ricordo che qualche spettatore esigente su internet osò lamentarsi che il trucco era troppo facile, si capiva a metà del secondo tempo... ma del resto è così, se hai deciso che il tuo modo di narrare consiste in una sfida con gli spettatori (“vediamo chi mi sgama”), devi essere disposto a perdere tutte le volte, e tutte le volte a raddoppiare la posta. Nolan è disposto. Ma soprattutto, Nolan è onesto. Gioca forte, rischia e non bara.
Lo paragoneranno alla trilogia di Matrix, o alla mitologia di Lost: altri esempi di labirinti volutamente complessi. Con la differenza che gli architetti di Matrix o di Lost a un certo punto hanno dato la sensazione di essersi persi: gli spettatori non trovavano l'uscita semplicemente perché l'uscita non c'era, gli autori avevano intenzione di aprirla all'ultimo momento con una breccia nel muro, e intanto distraevano il pubblico con digressioni filosofiche, sparatorie, spiegazioni volutamente oscure, botte di sentimentalismo... Questo Nolan non lo fa. Le sparatorie ci sono perché è un film d'azione; i sentimenti ci sono perché i protagonisti hanno emozioni; ma tutto questo non copre gli sbreghi di sceneggiatura. Nolan non vi trascina su un'isola piena di trabocchetti per dirvi, sei anni dopo, che i trabocchetti erano solo un pretesto per mostrarvi dei bei personaggi. Questo è sleale. Pensate a tutte le “non spiegazioni” di Lost. Ecco, Inception è l'esatto contrario. Un film che spiega sé stesso (e riesce a non annoiare). Paradossale, ma senza oscurità. Nolan non è un mago, un mistico, un ciarlatano: è un onesto e abile prestigiatore, con in più un budget hollywoodiano e Di Caprio nel cappello.
Riguardo a Di Caprio: ho l'impressione che da qualche anno in qua stia recitando sempre lo stesso ruolo, con le stesse smorfie: il ruolo, come definirlo? Dell'ossesso. Ha sempre dei misteriosi sensi di colpa, ha sempre delle fobie, è sempre ingrugnato. The Aviator, The Departed, Shutter Island, e ora questo. Nel frattempo qualcosa di speculare sta succedendo a Matt Damon: non importa come lo trucchi, in qualsiasi film lui è il Bugiardo. È una cosa che parte da lontano, forse già da Mr Ripley, e arriva a The Informant (gran bel film, recuperatelo). Ormai vai a colpo sicuro: se c'è Damon, bugie a profusione; se c'è Di Caprio, tormenti e ossessioni. Se li metti assieme ottieni quel bell'esperimento che è The Departed, dove due ragazzi biondi della stessa età che fanno lo stesso mestiere cadono vittime uno delle sue bugie, l'altro delle sue ossessioni. Tutto molto caratteristico, però a questo punto forse le facce di Damon e di Di Caprio stanno diventando due maschere greche: le vediamo da lontano e già sappiamo cosa troveremo in scena. Il che va proprio contro quella concezione labirintesca del cinema contemporaneo alla Nolan, che le attese del pubblico vorrebbe disattenderle. A volte potrebbero scambiarsi i ruoli, giusto per movimentare un po' le cose – ma in effetti questo è già successo: Di Caprio ha fatto il truffatore di Prova a prendermi. Anche se io non me lo ricordo. Quando ho iniziato a scrivere questo pezzo ero convinto che il bugiardo braccato da Tom Hanks fosse Damon. Poi ho controllato. Ma non c'è niente da fare. Nella mia testa quel tizio è un bugiardo, quindi ha la faccia di Damon. L'inconscio è fatto così, non lo puoi controllare. È terribile, no? Ma anche un po' meraviglioso.
giovedì 12 agosto 2010
Save me from tomorrow!
Fire fu la prima fanzine su cui misi le mani, forse l'unica. Era l'organo del fan club italiano degli U2, che però non uscivano con un disco nuovo ogni tre mesi, maledetti. Per cui Fire doveva rassegnarsi a parlare anche d'altro: film di Wim Wenders e band di area celtica, Waterboys o In Tua Nua.
Su un numero di Fire, in terza di copertina, fu pubblicato il testo di Ship of Fools dei World Party. Mi sembrò subito meraviglioso, un salmo, una piccola apocalisse, e non avevo ancora sentito la musica. Ma poi miracolosamente quell'estate Ship of Fools sbarcò su Videomusic, che mi serbava dell'affetto. A nessun altro per chilometri e chilometri parevano interessare i World Party, che in pratica erano un progetto solista del tastierista gallese dei Waterboys. Nessuno voleva sentire fosche profezie di sventura con arrangiamenti retrò che non erano ancora tornati di moda.
Su un numero di Fire, in terza di copertina, fu pubblicato il testo di Ship of Fools dei World Party. Mi sembrò subito meraviglioso, un salmo, una piccola apocalisse, e non avevo ancora sentito la musica. Ma poi miracolosamente quell'estate Ship of Fools sbarcò su Videomusic, che mi serbava dell'affetto. A nessun altro per chilometri e chilometri parevano interessare i World Party, che in pratica erano un progetto solista del tastierista gallese dei Waterboys. Nessuno voleva sentire fosche profezie di sventura con arrangiamenti retrò che non erano ancora tornati di moda.
Però per me, vedete, Ship of Fools epitomizzava tutto quello che mi stava succedendo attorno e non si chiamavano ancora “Anni Ottanta”, perché ci eravamo dentro e non avevamo la minima idea di quando sarebbero finiti. Secondo Fukuyama anche mai. Ecco, quegli Anni-non-ancora-Ottanta si riconoscevano dal ritornello, che era “you're going to pay tomorrow”. Potevamo accomodarci, spendere e spandere, avremmo pagato con calma in seguito. Ma dopo quel ritornello nella canzone ce n'era un altro, più dolente, e mi sembrava di sentire la mia stessa voce mentre Wallinger lo cantava: Save me from tomorrow! Io non c'entro! Non è colpa mia! Non voglio salpare con la nave dei folli! Ma non c'era niente da fare, avevamo già tagliato gli ormeggi da un pezzo.
Dopo quel disco Wallinger si concentrò su una sconosciuta cantante irlandese che aveva il vezzo di esibirsi calva, Sinead Qualcosa. Ma nel giro di pochi mesi comunque ascoltare rock celtico smise di essere trendy, e io passai ad altre cose che francamente adesso non so. I World Party ricomparvero sul mio radar tantissimi anni dopo con un altro pezzo struggente e fuori moda, Is it like today. Poi basta, per quel che ne sapevo Wallinger poteva anche aver preso una pompa di benzina fuori Cardiff.
Scopro invece che ha fatto di tutto, compreso le colonne sonore di Giovani Carini e Disoccupati e Ragazze a Beverly Hills. E che She's the one, l'insulsa ballatona di Robbie Williams pattinatore, è un pezzo dei World Party. Dannata internet. Preferivo non saperle, queste cose, e immaginarti seduto sul molo, a guardarci mentre naufraghiamo, senza fretta.
Scopro invece che ha fatto di tutto, compreso le colonne sonore di Giovani Carini e Disoccupati e Ragazze a Beverly Hills. E che She's the one, l'insulsa ballatona di Robbie Williams pattinatore, è un pezzo dei World Party. Dannata internet. Preferivo non saperle, queste cose, e immaginarti seduto sul molo, a guardarci mentre naufraghiamo, senza fretta.
E invece, per tutti questi anni, anche tu, nascosto nella stiva.
mercoledì 11 agosto 2010
Per difendere un'effige
A questo punto si è ormai capito che per me, ex ragazzo triste, l'estate è una grande metafora della solitudine: tappato in casa o in giro per il mondo, io in estate devo forzatamente crogiolarmi in me stesso per estenuanti pomeriggi, ascoltando pezzi astrusi che mettano in fuga pure gli animali da cortile. Può darsi, anche se in realtà ero quasi sempre in campeggio a schitarrare. Comunque. Questa specifica varietà di solitudine è seriamente minacciata dall'ascesa di Youtube. Fate l'esperimento. Cercate quella canzone di cui avete pudore, perché siete convinti che ormai piaccia soltanto a voi. Quella che nessuno sembra ricordare. Su youtube molto spesso c'è. E sotto il video ci sono sempre almeno tre commenti. Di gente entusiasta.
E' una cosa commovente, la coda lunga che scodinzola. Non c'è un solo lurido accrocchio di note dissonanti che non abbia un suo estimatore, qualcuno che l'aveva cercato in lungo e in largo e piange di felicità per averlo finalmente trovato. E agli artisti si perdona tutto. Qui sotto c'è Rino Gaetano, (no, non è Sfiorivano le viole, fuochino) che uccide la sua stessa canzone con un playback criminale. Lo hanno abbandonato sul palcoscenico come un cane in autostrada; si protegge con un cappello e una coreografia stentata, e sembra aspettare che lo vengano a prendere, come gli strumenti che qualcuno ha lasciato lì sullo sfondo. Beh, nei commenti la gente applaude la sua pantomima, lo trova geniale 'come al solito', lo ringrazia per aver "rifiutato il playback". No, non è che lo rifiutasse. Non era capace (o aveva un ritardo in spia, possibile anche questo). Ma non importa, è da anni che sognavamo di vedere Rino che cantava le canzone. Finalmente l'abbiamo trovato. Non canta. Si muove a stento. Ma è Rino. Siamo un po' meno soli.
E' una cosa commovente, la coda lunga che scodinzola. Non c'è un solo lurido accrocchio di note dissonanti che non abbia un suo estimatore, qualcuno che l'aveva cercato in lungo e in largo e piange di felicità per averlo finalmente trovato. E agli artisti si perdona tutto. Qui sotto c'è Rino Gaetano, (no, non è Sfiorivano le viole, fuochino) che uccide la sua stessa canzone con un playback criminale. Lo hanno abbandonato sul palcoscenico come un cane in autostrada; si protegge con un cappello e una coreografia stentata, e sembra aspettare che lo vengano a prendere, come gli strumenti che qualcuno ha lasciato lì sullo sfondo. Beh, nei commenti la gente applaude la sua pantomima, lo trova geniale 'come al solito', lo ringrazia per aver "rifiutato il playback". No, non è che lo rifiutasse. Non era capace (o aveva un ritardo in spia, possibile anche questo). Ma non importa, è da anni che sognavamo di vedere Rino che cantava le canzone. Finalmente l'abbiamo trovato. Non canta. Si muove a stento. Ma è Rino. Siamo un po' meno soli.
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