Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

domenica 31 agosto 2014

Il giorno in cui i polacchi invasero il Terzo Reich, apparentemente.

La stazione radio esiste ancora (a Glivice,
Polonia). È la più alta struttura in legno
in Europa
31 agosto 1939 - Un commando di sabotatori polacchi sconfina nel Terzo Reich e prende temporaneamente possesso di una stazione radio. Adolf Hitler non ha altra scelta che scatenare la Seconda Guerra Mondiale. Ma andò davvero così?

Da settimane tutti i quotidiani del Reich riportavano le inquietanti notizie da Danzica, la città di lingua tedesca che i polacchi avevano avuto in dote come sbocco sul mare al Congresso di Versailles. Persino il fuehrer si era scomodato per denunciare le operazioni di pulizia etnica che i polacchi stavano portando avanti a Danzica. Nel frattempo la situazione alla frontiera stava degenerando - i polacchi avevano già ordinato la mobilitazione generale. Francesi e inglesi, sbigottiti, non si erano ancora del tutto resi conto che il verbale della Conferenza di Monaco era carta straccia. In questa situazione, alle otto di sera di 75 anni fa, migliaia di radioascoltatori tedeschi delle regioni orientali sperimentarono uno choc in diretta. Il programma che stavano ascoltando fu all'improvviso interrotto da grida e rumori frastornanti che i reduci riconobbero subito come spari. Poi si sentì una voce slavofona. Chi masticava un po' di polacco spiegò che qualcuno stava usando una radioemittente tedesca per invitare tutti gli slavi del Reich a ribellarsi dal giogo nazista. Mein Gott, i polacchi ci hanno invaso! Possibile?

sabato 30 agosto 2014

I dieci peggiori blog d'opinione d'Italia

Macchianera Italian Awards 2014: NominationMacchianera Italian Awards 2014: Nomination30 agosto 2008 - un oscuro blog dell'epoca arcaica fa incetta di nomination ai Macchianera Blog Awards, come si chiamavano a quel tempo. Sei anni dopo, c'è ancora qualcuno che lo vota, a dispetto di ogni buon senso e logica commerciale. 

Ciao, siete meravigliosi. Volevo ringraziare tutti gli affezionati lettori e in particolare le batterie di scimpanzé che Gianluca Neri evidentemente mantiene in cattività in un ambiente cablato (probabilmente spera che scrivano l'Amleto o magari qualcosa di meglio) e che anno dopo anno, quando si tratta di votare per i MIA, continuano a spuntare la voce "leonardo", probabilmente per inerzia. Anche quest'anno sono in lizza per il "miglior post" - mai meno meritato - e per il "miglior blog di opinione", inserito in un mazzo di avversari che mi polverizzeranno. Ve li presento qui di seguito, con un'avvertenza: STO SCHERZANDO. In realtà li stimo tutti molto. No, perché c'è chi si è bevuto la storia del critico musicale e quella della Gioconda falsa, e insomma non si mettono mai abbastanza mani avanti.



Dice che si è spento ieri sera alle 21 e 50.
Licenza Politica (www.licenzapolitica.it)

Licenza Politica è (apre la pagina) un "blog controcorrente, dall'anima liberale, liberista e libertaria": complimenti, mi sei già salita sulle palle col sottotitolo. E insomma sarà da vent'anni che sfracassate con la trimurti liberali-liberisti-libertari e ogni volta mi verrebbe da chiedervi: ma perché "libertini" no? Cosa v'hanno fatto i libertini, eh? Eh? Restif de la Bretonne non è forse degno di entrare nella vostra accolita di liberti liberati battenti bandiera liberiana? La notizia in homepage è che Stalin è morto. Giuro. No, è un effetto dei layout con le foto immense. Allora io posso anche sbagliarmi, dopotutto sono in giro solo da un milione di anni, però più grosse ci mettete le foto, più piccole sembrano le vostre opinioni. La più recente è sul fallimento dell'Unità, che sarebbe un "fallimento di mercato". Uhm, se ne può discut- NO. Che altro c'è? Un endorsement a Forza Italia perché a inizio luglio devono aver aperto alle coppie gay - me n'ero già dimenticato, per fortuna che c'è Licenza Politica che va controcorrente e mi ricorda queste verità scomode. "Quindi, chapeau Francesca e chapeau Cav. Se questo è il nuovo inizio di Forza Italia, forse la vera rivoluzione liberale non è ancora perduta". Qualcuno ha visto la salma di Gobetti di recente? Mi saprebbe dire quante rotazioni riesce a compiere nel minuto-secondo? No perché io ho questa idea che se riuscissimo ad attaccare una dinamo alla salma di Gobetti avremmo risolto il fabbisogno energetico di una popolosa provincia italiana. È pur vero che le hanno abolite. E poi lui è al Père-Lachaise direi. E coi francesi non si ragiona, loro hanno il nucleare da rivenderci. Les salauds. Stavamo dicendo?



Byoblu (www.byoblu.com)

Ora se ne va in giro per le capitali europee a spese nostre, ma c'è stato un periodo, ve lo giuro, in cui Claudio Messora sembrava più sfigato di me. Lo so che appare impossibile. Ricordo quando l'ho visto per la prima volta risalire le classifiche, e mi domandavo: ma chi è questo sconosciuto, ma cosa fa nella vita a parte dire di aver vinto il festival di Castrocaro? Niente. Aveva scoperto i blog (nel 2007, quando erano già stati dati per morti cinque o sei volte) e aveva mollato tutto per mettere su un videoblog. Pazzo! Avrei voluto dirglielo in faccia. Folle sconsiderato, torna subito a fare il compositore "con all'attivo molti dischi venduti in numerosi paesi del mondo", o il "Project Manager e Amministratore Delegato in start-up di innovazione tecnologica", qualunque cosa, ma lascia queste acque melmose. Non hai capito che uno su mille ce la fa, ed è comunque Beppe Grillo? Non so se fosse già infeudato con la Casaleggio. So che non se la passava bene e non ne faceva mistero:

Quanto tempo dedichi al blog? Per lungo tempo ho passato anche 2 o 3 giorni senza dormire. Questo è un videoblog e, a parte adesso che sto lavorando al Documentario INTERNET FOR GIULIANI, l’editing video, tra la registrazione, il montaggio, la conversione e via dicendo, è un lavoro massacrante. [...] Quindi la risposta finale è: 24 ore al giorno. Ma solo perché non ce ne sono di più.
Vedo che hai anche pubblicità nel blog e … quanto ti rende? Domanda ambigua cui, per i motivi che spiegavo prima, non credo di essere costretto a rispondere. Però, siccome non ho nulla da temere, ti allego questa immagine, uno screenshot delle entrate AdSense di oggi: click per scaricare. Potrai e potrete constatare che l’incasso di oggi, per il momento (ma la giornata volge al termine) ammonta a € 5,22, di cui €1,78 da proventi dei banner sul blog, e €3,44 da proventi dei banner sui video di YouTube. Non mi sembra una gran fortuna, soprattutto considerato che solo il server (macchina dedicata su Aruba) costa 1600€ all’anno, altri 1000€ se ne vanno per la connessione domestica alla rete, altri 240€ per quella mobile (se mi sposto, devo lavorare), 1500€ costa la videocamera, 500€ tra luci e cose varie, 600€ di microfoni, 2000€ tra Adobe Premiere e vari altri softare di montaggio video, un qualsiasi spostamento per raggiungere un evento o una persona da intervistare significa altre centinaia di euro, più altre spese che sto tralasciando. In più devi considerare che questo è il mio lavoro – non posso e non ho tempo di farne un altro, per cui ho smesso di fare l’informatico, che mi faceva guadagnare bene – per cui oltre alle spese vive dovrei anche riuscire a guadagnare per pagare il mutuo, la macchina, la scuola di mio figlio, la spese, le bollette, l’amministrazione del condominio e… devo continuare? :)

Era una domanda retorica, vero? No, cristiddio, non devi continuare. Ti sei pure fatto lo spazio su Aruba, seicento euro di microfoni, sei matto da legare. Hai un figlio, una macchina, un mutuo, le spese condominiali, qualcuno faccia qualcosa. Ero veramente preoccupato.
Adesso non sono più così preoccupato. So che di recente ha lasciato il ruolo di responsabile della comunicazione del Gruppo Parlamentare del M5S al Senato della Repubblica per assumere il ruolo di responsabile della comunicazione del M5S al Parlamento Europeo. Insomma direi che alla fine i microfoni li ha ampiamente ammortizzati.

venerdì 29 agosto 2014

Il ritorno dell'uomo che insisteva a stroncare i Beatles

29 agosto 1966 - I Beatles terminano il loro tour americano con una data al Candlestick Park di San Francisco. Nemmeno loro lo sanno, ma è il loro penultimo concerto. L'ultimo si terrà tre anni dopo, su un tetto di Londra, ma nessuno lo ricorda davvero volentieri. Nemmeno il nostro beniamino, Sir Perceval R. Deafon, Esq., celebre per aver salutato tutti i loro dischi con abominevoli stroncature che oggi terminiamo di pubblicare (le prime sono qui). Ci tengo comunque a far presente che a me invece i Beatles piacciono. 


Abbey Road (Apple Music, 1969)

Quando l'anno scorso uscì il disco bianco, mi permisi di scrivere che i Beatles erano ufficialmente finiti; che il seguito di un disco così straordinario (nel bene e nel male) mi sembrava inimmaginabile. Avevo ragione. Il disco che segna il ritorno dei Quattro è davvero, in qualche modo, inimmaginabile. Una mossa laterale, che non risolve le tensioni dell'album precedente, ma nemmeno le allevia, prolungando in qualche modo l'agonia di un sodalizio di musicisti ormai in aperto conflitto tra loro, tenuti assieme da qualche obbligo contrattuale e dall'inerzia. Sappiamo che dopo aver seriamente rischiato lo scioglimento - il disco bianco testimonia a suo modo un processo già ben avviato di disgregazione - il gruppo nello scorso gennaio aveva tentato una marcia indietro, nel tentativo di incidere un nuovo disco in presa diretta, come ai vecchi tempi: un tentativo subito abortito. A questo punto cosa restava da fare? Separarsi non aveva funzionato, tornare assieme neppure - è come se, messi di fronte a una decisione importante da prendere, una di quelle che possono consacrare o rovinare la carriera, i quattro milionari si siano semplicemente rifiutati di imboccare una qualsiasi delle strade che avevano davanti, e si fossero messi a chiacchierare del più e del meno sotto le indicazioni stradali, permettendosi anche di fare un po' di musica, nel modo superficiale e inconcludente che è l'unico che ancora gli riesce e che gli riuscirà, temo, finché resteranno assieme a tarparsi le ali a vicenda.

La prima facciata di questo disco non potrebbe illustrare meglio questa impressione: più che un album unitario sembra una compilation di artisti diversi (c'è anche l'ora dell'eterno debuttante, il simpatico Richard Starkey con la sua nuova canzoncina simpatica ma non proprio indispensabile). Non solo non c'è più compatibilità tra le canzoni di Paul o John, ma persino i pezzi di Paul (l'irritante Maxwell's Silver Hammer e il pastiche doo-wop di Oh! Darling) non sembrano davvero composti dalla stessa penna. All'eclettismo del rivale, John reagisce con la reiterazione ossessiva degli stessi temi e persino degli stessi accordi: ormai scrive solo dei blues. A volte li infioretta coi suoi soliti nonsense (Come together), troppo furbi per sembrare davvero ispirati; in altri casi ormai non si preoccupa nemmeno più di scrivere una seconda strofa - l'uomo che ha già riempito otto minuti di un disco pop con una collezione di rumori di fondo può ben permettersi stavolta di cantare nient'altro che "I want you so bad it's driving me mad" per altri sette. Probabilmente si aspetta che lo ringraziamo.

E George? Tutti si stanno congratulando per come è riuscito a uscire dall'ombra dei due colleghi più famosi. Nessuno sembra voler notare che questa emancipazione è avvenuta a scapito dell'originalità: accantonati ormai i sitar e la tabla che pure avevano portato una ventata d'aria fresca in Rubber Soul e nobilitato perfino Sgt. Pepper, Harrison si è messo a scrivere pezzi in perfetto stile Lennon-McCartney: proprio nel momento in cui il vero Lennon e il vero McCartney probabilmente neanche si parlano più. Something e Here Comes the Sun mettono assieme il meglio, ma anche e soprattutto il peggio di entrambi i maestri: la saccarina di Paul e la goffa irresolutezza di John. Poi c'è la facciata B, la definitiva resa dei tre colleghi alle incomprensibili ambizioni di Paul McCartney: questo ventenne che qualche anno fa cantando il rock'n'roll scatenava l'isteria in milioni di ragazzine, e che improvvisamente ha deciso di mettersi a comporre operette per scolaresche primarie e nonnetti orfani di Gilbert e Sullivan. Immaginatelo arrivare negli studi, recuperare una dozzina di abbozzi di canzone mai sviluppati per stanchezza o per disperazione, e appiccicarli assieme senza soluzione di continuità e di buon gusto. Ecco, con questo pastrocchio - impreziosito da involuti aborti di John, rabberciati insieme probabilmente contro la sua volontà - dovrebbe concludersi la traiettoria della rock band più famosa del mondo. Come non rimpiangere i tempi di Tomorrow Never Knows, o il crescendo struggente di A Day in the Life? E invece la storia sembra proprio finire così. Non con un bang, nemmeno con un sussurro, o con la sciocca gara di assoli di The End. La storia finisce con una filastrocca di venti secondi, uno scarto di missaggio in cui Paul McCartney ripromette di farsi la regina. Un finale tanto indegno, imbarazzante, avvilente per il gruppo che più ci ha fatto sognare, è una cosa difficile da accettare. E invece dovremmo sentici sollevati: coraggio, almeno l'agonia è finita.

giovedì 28 agosto 2014

Come tenere i negretti al loro posto

28 agosto 1955 - Emmett Till viene seviziato, ucciso, gettato come un rifiuto nelle acque limacciose del fiume Tallahatchie. I suoi assassini, subito arrestati, non saranno mai puniti.

A casa del pastore Wright arrivarono alle due del mattino, senza infilare cappucci bianchi o altre pagliacciate: che bisogno c'era di nascondersi? Erano armati e avevano le torce. C'erano Roy Bryant e il fratellastro JW Milam, e qualcun altro che lavorava con loro e forse era nero. Chiesero a Wright di vedere gli amici di famiglia, i tre ragazzi di Chicago venuti in villeggiatura. Chi dei tre era passato dalla bottega di Bryant quattro giorni prima, chi dei tre aveva rivolto la parola alla moglie di Roy? Fu Emmett a rispondere: sono stato io. Aveva quattordici anni, ma sembrava più grande. Gli dissero di vestirsi, che doveva venire con loro. Il pastore non protestò troppo, sapeva cosa stava rischiando. Solo la zia fece un po' di baccano. Senza vergogna offrì del denaro a Bryant e Milam. Finsero di non averla sentita. Infilarono il ragazzo nel pick-up e sparirono. Mose Wright attese venti minuti, poi prese la macchina e si diresse verso il centro del paese. È là che l'avrebbe ritrovato, se i due volevano soltanto dargli una lezione e poi lasciarlo libero. Ma Emmett non era pratico della zona e c'era comunque rischio che si perdesse.

Emmett fu picchiato con criterio, forse col calcio di una pistola. In un fienile, e poi di nuovo sul pick-up. In una baracca in mezzo a una piantagione, e sul pick-up di nuovo. Non riuscivano a lasciarlo andare. Ammesso che l'idea iniziale fosse davvero di risparmiarlo, il ragazzo non stava reagendo nel modo giusto.

mercoledì 27 agosto 2014

L'uomo che stroncava i Beatles

27 agosto 1967 - I Beatles vengono ricevuti dal guru Maharishi Mahesh Yogi. Nel frattempo il loro manager, Brian Epstein, muore per overdose di carbamazepina. L'evento tragico segna l'inizio della fine per il gruppo (che si scioglierà ufficialmente due anni dopo), almeno a detta di alcuni critici. Tra costoro non manca, come avrete indovinato, Sir Perceval Reginald Deafon, Esq., il critico che tra il 1963 e il 1970 stroncò tutti i dischi dei Beatles. Proseguiamo la pubblicazione delle sue recensioni (le prime sono qui).

Magical Mistery Tour (Capital Records, 1967)
Magical Mistery Tour è la colonna sonora del prossimo film dei Beatles, che sarà trasmesso a quanto pare dalla BBC a Natale. Nel Regno Unito verrà pubblicata solo la prossima settimana nell'assurdo formato di doppio EP - sì, i fans dei Beatles dovranno cambiare quattro facciate per ascoltare sei canzoni: fino a questo livello si sta spingendo il sadismo dei loro beniamini. Negli USA la colonna sonora è già uscita sotto forma di LP, insieme agli altri singoli prodotti dai Beatles in quest'anno per loro così difficile. Non dubitiamo che il pubblico premierà anche questo assortimento un po' raccogliticcio, e che la maggior parte dei miei colleghi critici non perderà l'occasione per abbaiare all'ennesimo capolavoro. E in effetti se avete apprezzato lo sconclusionato disco precedente non avrete difficoltà a farvi piacere anche questo, che se non altro è un po' meno ambizioso. Rimane in chi scrive l'impressione che il gruppo, dopo aver perso tragicamente il manager, abbia del tutto smarrito la direzione. Sepolto alla chetichella il cadavere del rock'n'roll (non c'è una sola canzone in questa raccolta che ricordi le gloriose origini della band), il viaggio magico e misterioso dei Beatles verso qualche nuova dimensione musicale si perde subito dopo la partenza in qualche nebbiosa regione al confine tra la filastrocca infantile e i peggiori vezzi dell'avanguardia. Qui i due compositori del gruppo si dividono, forse per sempre: McCartney sembra puntare esplicitamente a un pubblico inferiore ai dodici anni di età, l'unico a poter trarre qualche soddisfazione dall'ascolto di brani ormai dichiaratamente disneyani come Hello Goodbye o The Fool on the Hill. È una strategia un po' avvilente, ma ha almeno un senso commerciale. Meno comprensibile sembra la svolta artistoide di John Lennon, che qualche misteriosa pillola ha radicalmente trasformato nel giro di pochi mesi: da macho sbruffone a sognante poeta surrealista da due soldi, purtroppo assecondato da un George Martin sempre più debordante - riguardo a quest'ultimo, sembra ormai impossibile immaginare un solo orpello che non gli piaccia: ottoni, violini, chiacchiere in sottofondo, disturbi di ricezione radio e altri rumori assortiti, nel tentativo sempre più disperato di distoglierci da canzoni poco riuscite come quella Strawberry Fields che ci afflisse un anno fa, o il bislacco talking blues di I Am the Walrus. Martin è anche il principale indiziato per quel crimine contro la musica che porta il titolo di All You Need Is Love, l'inno intonato (si fa per dire) in mondovisione la scorsa estate. Un patchwork di Marsigliese e In the Mood, cantato ovviamente fuoritempo da un Lennon in versione guru che dovrebbe spalancare in noi qualche nuovo livello di consapevolezza e invece riesce a farci venire tanta voglia di riascoltare Nowhere Man, Girl, persino Michelle - pensate, era appena il 1965 quando ci concedevamo il lusso di trovare difetti in canzoni del genere. Magari non erano capolavori, ma provate ad accostarle a queste sciocchezze posticce, a questi variopinti specchietti per le allodole: e ditemi se al confronto anche un disco come Rubber Soul non vi sembra oro puro.

The Beatles (Apple Music, 1968)
Che i Beatles fossero ormai al capolinea come gruppo era chiaro sin dal sopravvalutato 'capolavoro' dell'anno scorso, dove la frattura tra l'eclettismo pop di Paul e le fumisterie di John sembrava già insanabile. Rammentate come suonava già 'strano' sentire a un certo punto la voce del primo in A Day in the Life? come se Paul non avesse già cantato in dozzine di canzoni di John e viceversa. A distanza di un anno (e tacendo per pietà sul flop televisivo natalizio) anche quella collaborazione tra i due sembra un ricordo lontano: la novità del nuovo anonimo disco doppio è che i Beatles non sono più semplicemente due compositori distinti e autonomi, ma tre - facciamo tre e mezzo: non solo George si è definitivamente emancipato, ma persino Ringo è riuscito a firmare una canzone e non è neanche la peggiore del mucchio. Lo spazio finalmente concesso dai due storici autori ai comprimari è uno dei tanti segnali di quanto sia grave la crisi d'ispirazione che li ha costretti a licenziare, dopo mesi di lavoro, questo strano monumento al nulla, questo album di trenta canzoni, di mille colori che sovrapposti finiscono per diventarne uno solo, un bianco uniforme spalmato sulla pietra tombale del quartetto che pochi anni fa incantava il mondo. All'interno c'è un'interminabile ora e mezza di sgargiante confusione: decine di idee anche buone, ma pigiate l'una contro l'altra senza criterio, e incise con negligenza; come se i Beatles ormai senza guida avessero capricciosamente deciso di buttar via il risultato finale e pubblicare le prove. Si fatica a immaginare John Lennon in studio durante l'incisione di brani dall'alto contenuto di saccarina come Mother's Nature Sun Marha my Dear; parimenti, sembra impossibile che Paul McCartney abbia acconsentito a pubblicare abbozzi incompiuti, veri e propri aborti come I'm so Tired o Happiness Is a Warm Gun. 

Non è che manchi in quattro facciate qualche canzone gradevole: Obladì obladà farà senz'altro la gioia di nonne e bambini, Birthday e Everybody's Got Something to Hide sono due graditi ritorni al rock'n'roll, While my Guitar ha quanto meno un assolo decente (è di Eric Clapton). Revolution 9 invece è la sfida definitiva di John al masochismo dei suoi fan. Ci sembra di immaginarlo mentre pasticcia coi nastri e sogghigna: siete riusciti a farvi piacere quell'accrocchio rumorista di I Am the Walrus? Vediamo ora cosa vi inventerete pur di mostrarvi entusiasti di fronte a otto minuti di scarti di registrazione. C'è, insomma, del genio anche in questo disco. Ma è disseminato in una foresta di abbozzi lasciati a metà, pastiche scopertamente artificiosi di cui nessuno sentiva la necessità (il numero alla Donovan, il numero country, il numero vaudeville, la ninna-nanna...) Come se i quattro soci fondatori della Apple, che per convenzione e convenienza economica incidono ancora assieme con lo pseudonimo di The Beatles, non sopportassero l'idea di essere solo una band; magari la più famosa del mondo, ma una sola. Come se non riuscissero ad accettare che gli anni in cui potevano rappresentare tutto l'entusiasmo di una generazione semplicemente ondeggiando il caschetto e intonando un whoa yeah sono finiti per sempre. Non possono essere sempre più blues dei Rolling Stones, più hard rock degli Who, più old fashioned dei Kinks, più à la page degli Small Faces, più visionari dei Pink Floyd, più barocchi dei Beach Boys, più ispirati di Dylan, più avant-garde dei Soft Machine, eccetera. Non possono essere tutto, ma a furia di provarci si stanno trasformando in... niente, in quel bianco anonimo che campeggia sulla copertina che li descrive meglio di qualsiasi recensione. L'unica consolazione è che dopo un disco del genere, non ci può più davvero essere nient'altro. Ognuno dei quattro andrà per la sua strada, verso una maturità artistica che farà dimenticare - ce lo auguriamo - le false partenze accumulate in questi due anni di transizione. (Continua...)

E se George W Bush avesse avuto ragione?

Il nemico perfetto

La guerra, quindi, se giudichiamo dall'esperienza delle guerre passate non è se non una impostura. È come quei combattimenti fra certi animali appartenenti alla specie dei ruminanti, e le cui corna crescono secondo determinati angoli tali da impedire che essi possano effettivamente ferirsi l'un l'altro. Sfrutta in modo totale le eccedenze dei beni di consumo, ed aiuta, nel contempo, a conservare quella particolare atmosfera mentale che si richiede ad una società organizzata gerarchicamente. La guerra, come si vede, non è altro che un affare di politica interna. (E. Goldstein, Teoria e pratica del collettivismo oligarchico).

1. A un certo punto - più o meno a ridosso delle primavere arabe - abbiamo credo in molti percepito un'accelerazione degli eventi che mal si accordava con la nostra disponibilità, sempre più scarsa, a comprenderli. Avevamo tutti i nostri schemini, più o meno gli stessi dai tempi della Guerra al Terrore, e quando abbiamo visto che in Siria o in Libia non funzionavano più, non ci siamo dati troppa pena di abbozzarne altri. Avevamo già un sacco di problemi a casa nostra.
Quest'accelerazione, che magari segna l'inizio di una fase di instabilità mondiale, potrebbe viceversa essere del tutto soggettiva: siamo noi che rallentiamo, invecchiando. Se quel che succede in Palestina continua a interessarci un po' di più. non è perché la situazione sia meno ingarbugliata, ma perché ci abbiamo investito tanto tempo e attenzione che continua a risultarci più familiare. Come se l'Hamas di oggi fosse la stessa di dieci anni fa, come se Abu Mazen avesse mai più vinto un'elezione, eccetera.
La Siria viceversa è un pastrocchio inedito da cui abbiamo cercato di prendere le distanze. Chi non lo ha fatto - chi all'inizio ha parteggiato per gli insorti, o per Assad - adesso si ritrova scottato. Noi possiamo anche sopportare di risvegliarci in un mediterraneo che sfugge alle nostre capacità di comprensione, purché non ci tocchi ammettere che a un certo punto della discussione avevamo avuto torto. Piuttosto ce ne stiamo zitti, il che poi è quasi sempre l'opzione più elegante. Troppe cose ci sfuggono, troppi contendenti danno l'impressione di fare il doppio gioco. Ma a dirlo si passa per complottisti, che è pure peggio. La sensazione di non capire è tutto sommato sopportabile - l'esempio di tanti intellettuali svagati alla vigilia di ogni guerra mondiale ci conforta. L'unica cosa che non sopportiamo è che qualcuno ogni tanto ci voglia fregare. C'è sempre qualcuno che ci prova. È umiliante.

2. Prendi l'ISIS. Sembra davvero una cosa orrenda, anzi sicuramente lo è. Ma perché ce lo stanno vendendo come un'organizzazione terroristica? Le BR erano un'organizzazione terroristica. Settembre Nero era un'organizzazione terroristica. Al Qaida era una rete molto lasca di organizzazioni terroristiche quasi del tutto autonome tra di loro, che hanno organizzato attentati in una vasta porzione del mondo. L'ISIS, per adesso, no. È un'organizzazione o banda armata che ha imposto il suo controllo su un territorio vasto come una nazione, attraverso la violenza e il terrore. Gli osservatori la considerano ben organizzata e ben finanziata. Però attentati - per ora - non ne fa.
Tante altre dittature in tutto il mondo massacrano i propri cittadini e quelli dei paesi confinanti; non li chiamiamo però terroristi, non abbiamo bisogno di chiamarli così per esecrarli. Con l'ISIS è diverso. Non fa attentati (per ora) ma diamo per scontato che vorrebbe farli. Terroristi in potenza, insomma. Dobbiamo crederci per forza?
Tra le righe si intuisce un ragionamento: se l'ISIS per ora non è riuscita a terrorizzarci come vorrebbe, c'è solo da ringraziare lo stato dell'arte dell'antiterrorismo non solo aeroportuale. Tutte quelle leggi che hanno un po' ristretto le nostre libertà individuali; tutte quelle pratiche non sempre illegali che hanno consentito alla NSA di farsi un bel backup delle nostre conversazioni telefoniche; sì, è molto seccante, ma se l'alternativa è precipitare in un aereo di linea o soffocare in una metropolitana, non ci formalizzeremo più di tanto. Insomma, nel grande dibattito sulla libertà della Rete, lo spauracchio dell'ISIS ha una sua indubbia utilità. Che poi l'ISIS stia mostrando, nei fatti, tutta un'altra strategia, è un dettaglio in fondo trascurabile. Anzi, dimostra quanto il terrorismo stragista stia diventando impraticabile in Occidente. Anche se.

3. Anche se tre anni fa Anders Breivik ha fatto esplodere una bomba nella sede del governo a Oslo, e mentre la polizia accorreva si è spostato nell'isola dove campeggiavano i giovani socialdemocratici e ne ha ammazzati 69. Forse la Norvegia è un caso particolare, ma quel che è successo nell'isola di Utoya ci lascia sospettare che lo stragismo non sia poi così impraticabile come sembra. Gli eccidi antisemiti di Tolosa o Bruxelles ce lo confermano. In tutti questi casi però lo stragista sembra un individuo isolato, che magari si richiama a un'ideologia o a un'organizzazione (l'assassino di Tolosa si ispirava ancora ad Al Qaida), ma agiscono in solitudine. È proprio questa solitudine a costituire un vantaggio tattico: il fatto di non dover concertare con nessuno le proprie azioni rende questi assassini meno identificabili e tracciabili.

Ora, se esistesse realmente una grande organizzazione, ben finanziata, determinata a destabilizzare l'Occidente attraverso azioni terroristiche, non tarderebbe a trarre le sue conclusioni e a disseminare Europa e USA di aspiranti kamikaze, tutti assolutamente non coordinati fra di loro, con un unico ordine: ammazzare e distruggere quel che possono, appena possono. Un'infiltrazione di questo tipo, lungo le correnti dell'immigrazione mondiale, non sarebbe così difficile. E magari è quello che sta succedendo; però quel che osserviamo per adesso sembra suggerirci l'esatto contrario. I cosiddetti terroristi del Medio Oriente non stanno infiltrando l'occidente: piuttosto, ci sono migliaia di occidentali (non tutti di origine araba) che se ne stanno andando a combattere nella Siria e nel Levante. Senza che alle frontiere si faccia molto per trattenerli, a quanto pare. Gente che fino a qualche anno fa avrebbe potuto esprimere il suo disagio facendosi esplodere davanti a un macdonald o a una sinagoga (cito due episodi avvenuti in Italia negli anni di Bush), oggi è più facilmente tentata di far la valigia e arruolarsi nell'ISIS. In luogo di rianimare il terrorismo semispento in occidente, l'ISIS per ora sembra quasi che ne stia assorbendo gli ultimi fuochi. Tutto questo sembra quasi dar ragione al condottiero più sottovalutato della Storia, George W. Bush.

4. Bush junior vedeva il terrorismo come "qualcosa che tende a scendere verso il basso, come un liquido; per cui le guerre in Afganistan e in Iraq, lo scavo progressivo e metodico di una profondissima buca in Medio Oriente, si giustificava attraverso la necessità di far convergere nella buca tutti i terroristi jihadisti del mondo. Lo disse decine di volte, col tono texano di chi dice un'ovvietà: meglio combatterli laggiù che qui da noi. È la logica semplice semplice e spietata spietata della guerra moderna, tecnologica ma tutt'altro che chirurgica: armi che fanno decine di vittime civili per ogni obiettivo centrato non possono che utilizzarsi in casa d'altri, a casa nostra sarebbero insostenibili [...] notate che è un buon motivo per continuare la guerra, non per finirla; anzi: c'è quasi da dolersi che in Iraq stia terminando: dove andranno i jihadisti disoccupati? Un po' in Afganistan, va bene, e gli altri? Ehi, aspetta forse è meglio riaprire un buco da qualche parte".

Questa concezione liquida del terrorismo non mi ha mai convinto: io lo trovavo un fenomeno piuttosto volatile, e gli attentati del 2003-2005 (metropolitana di Madrid e di Londra, Sharm el Sheik, e tanti altri ancora) mi sembravano tristi conferme di quanto avesse torto. A dieci anni dall'ultimo attacco terroristico in grande stile, forse è il caso di farsi venire qualche dubbio. Quella che Bush chiamava Guerra Infinita, a dispetto di tutte le pacificazioni, in Iraq non è davvero mai finita: e ora attira da tutto il mondo jihadisti convinti, ma anche occidentali insoddisfatti a caccia di guai. Che possa mai vincere sembra improbabile, ma nel frattempo guardate quanti servizi ci rende: (1) tiene viva in occidente la minaccia islamica, per la gioia dei partiti più o meno nazionalisti o xenofobi; (2) giustifica gli apparati antiterroristici, ben determinati a spiarci per salvarci; (3) catalizza il disagio di tanti giovani cittadini occidentali, non solo tra gli immigrati di seconda o terza generazione; (4) rinsalda la NATO e renderà presto o tardi necessario un intervento delle nostre forze armate, tale da farci ricordare perché le stiamo finanziando. Tanti altri motivi di sicuro non mi sono accessibili, però questi quattro mi sembrano più che sufficienti a rendere ISIS il nemico perfetto. Quello che se ci non ci fosse bisognerebbe inventarselo. Non ce n'è stato bisogno.

martedì 26 agosto 2014

Dieci anni che mi manchi davvero

26 agosto 2004 - Enzo Baldoni viene ucciso in Iraq.

Dieci anni prima io ero uno studente sbarbato senza gusto né cultura. Come tutti i miei coetanei guardavo molti spot, dicevo di preferirli ai programmi ma mentivo. Cercavo di capire come funzionavano, persino di apprezzarli, ma la maggior parte era già copie di copie di copie. A metà '90 ormai di spot che mi facessero alzare dal divano non ne trovavo più, a parte uno.



È stato forse davvero l'ultimo spot che mi è piaciuto. Non avevo naturalmente la minima idea di chi l'avesse inventato; magari un americano o un francese, era difficile imparare certe cose a quei tempi. Non si sapeva davvero a chi chiedere. Valeva per la pubblicità e per tantissime cose che non si trovavano né sui quotidiani né sui libri di scuola.

lunedì 25 agosto 2014

C'è vita sulla luna! E lo sappiamo dal 1835.

25 agosto 1835 - Sul quotidiano "Sun" di New York appare la prima puntata di un lungo resoconto delle ultime scoperte lunari effettuate dal celebre astronomo e chimico John Herschel, con un nuovo potentissimo telescopio di sua invenzione. Herschel (coniatore, tra l'altro, del termine "fotografia") ha trovato sul satellite tracce di vita - anzi, ben più che tracce: fiori, alberi, bestie più o meno mostruose, tra i quali l'interessantissimo animale sociale battezzato vespertilio homo, l'uomo pipistrello (riportiamo dalla più antica traduzione del reportage, pubblicata a Napoli già nel 1836):

Noi li scorgemmo sul lido d’un laghetto o gran fiume, che scorreva verso la valle del gran lago, ed aveva sulle sue sponde orientali un ameno boschetto. Alcuni di quegli esseri avevano attraversato dall’una sponda all’altra, e vi stavano distesi come aquile. Ci venne dato allora d’osservar, che le loro ali avevano una distesa enorme, e parevano per la struttura simili a quelle del pipistrello. Erano desse formate d’una membrana semitrasparente, che si dispiegava in divisioni curve col mezzo di raggi diritti legati al dorso con tegumenti dorsali. Ma ci maravigliò sovratutto il vedere, come quella membrana si stendesse dalle spalle sino alle gambe legata al corpo, e diminuisse gradatamente di larghezza. Quelle ali sembravano pienamente sottoposte al volere di quegli esseri, poichè li vedemmo tuffarsi nell’acqua, e quindi stenderle subito per tutta la loro dimensione, e scuoterle dopo essere usciti dall’onda alla guisa delle anitre, e racchiuderle tantosto in forma compatta. Le osservazioni fatte sulle abitudini di quelle creature, che erano dei due sessi, ci condussero a sì notevoli risultamenti, che amerò a vederli fatti di pubblica ragione coll’opera del dottore Herschel, dove so di positivo, che vi stanno descritti con verità conscienziosa, qualunque sia per essere l’incredulità con cui saranno lette.
Alcuni istanti dopo le tre famiglie stesero le ali loro, quasi ad un tempo, e si perdettero fra gli oscuri confini del canovaccio, prima che ci rilevassimo dalla nostra sorpresa. Quegli esseri furono da noi appellati scientificamente uomini pipistrelli (vespertilio homo). Ei sono certamente esseri innocenti e felici.
Nomammo la valle, in cui vivono, il coliseo di rubini, a motivo de’ magnifici monti da cui è attorniata. La notte essendosi fatta tardissima rimandammo l’esame di Petarius (n. 20) ad altra occasione.
Giova il confessare, che quest’ultima parte del maraviglioso racconto, che abbiamo ora letto, risvegliò appieno l’incredulità nostra; uomini, i quali abbiano аd un tempo e braccia ed ali ci pajono impossibili conciossiache siansi veduti colà dei castori, delle gazzelle, delle cicogne, e dei montoni. Al pipistrello le ali servono di piedi, all’uccello di braccia, ma un apparato locomotore, che parta dalle vertebre, è tal particolarità difficilissima a comprendersi. 

Ci vorrà qualche tempo perché i lettori si rendano conto che è tutta una bufala, organizzata probabilmente da un reporter del giornale, Richard Adams Locke, al solo scopo di aumentare le vendite. Scopo più che raggiunto: la tiratura fu quintuplicata, il numero del 26 agosto sfiorò le ventimila copie vendute, un record. Quando il reportage completo fu raccolto a parte, vendette altre sessantamila copie. Il povero Herschel dovette affannarsi a spiegare per anni che non c'entrava, che il suo autorevole nome era stato utilizzato senza il suo permesso, e soprattutto che sulla Luna non c'erano, a quanto gli risultava, uomini pipistrello: e se anche ci fossero stati, i suoi telescopi non gli consentivano di osservarli.

C'erano stati altri resoconti immaginari prima di quello del Sun: nel giugno precedente ci si era cimentato anche Edgar Allan Poe, narrando il resoconto del viaggio in mongolfiera sulla luna di Hans Pfaall. Ma Poe aveva mantenuto un registro letterario che consentiva ai lettori di riconoscere in Hans un personaggio finzionale. Locke riesce viceversa a ingannarli con alcuni trucchi da giornalista consumato: comincia con una lunga digressione sugli strumenti ottici adoperati da Herschel che rischia di ammazzare il lettore di noia, ma crea una sensazione di autorevolezza e plausibilità. Il primo articolo è un esempio precocissimo di hard science fiction, quella rigorosamente basata su speculazioni di carattere tecnico-scientifico. Il 25 agosto 1835 non è la data di nascita né della fantascienza né del giornalismo pseudoscientifico e cialtrone; forse possiamo considerarla l'ultima occasione in cui sono stati visti assieme.

domenica 24 agosto 2014

Il giorno che Hitler si disse: ho esagerato

L'unico ordine scritto di Hitler
riguardo l'Aktion T4: Al capo della 
Cancelleria del Reich Bouhler e al dottor 
Brandt viene affidata la responsabilità 
di espandere l'autorità dei medici, che 
devono essere designati per nome, perché 
ai pazienti considerati incurabili secondo 
il miglior giudizio umano disponibile 
del loro stato di salute possa essere 
concessa una morte pietosa.
24 agosto 1941 - Adolf Hitler ordina (forse) di interrompere l'Aktion T4, il programma di soppressione delle persone affette da malformazioni e malattie incurabili più o meno genetiche. Si stimano tra le sessanta e le centomila vittime in quattro anni. Ma la cosa più incredibile non è nemmeno questa. 

La cosa incredibile è che si interruppe. Hitler si fermò. Forse. Non ne siamo sicuri. Non esistono ordini scritti, un documento in cui si possa leggere "sospendete l'Aktion fino a nuovo ordine". Peraltro la strage continuò, in cliniche e ambulatori dove la cigolante catena di comando tedesca lasciava evidentemente a medici e funzionari un ampio margini di discrezionalità; alla fine della guerra le vittime erano intorno alle duecentomila unità, e crebbero ancora per un po'. Il fuehrer non amava lasciare tracce troppo evidenti che collegassero il governo a un programma che pure era stato preso per sua diretta iniziativa, e affidato a collaboratori fidati che scavalcarono il ministero della sanità. Non firmò neppure una delle bozze di legge che gli proposero sulla cosiddetta eutanasia di Stato. Eppure era una sua idea; l'aveva messa nera su bianco nel Mein Kampf; non aveva esitato a metterla in pratica appena le circostanze gli erano sembrate favorevoli; ma sapeva di non poterne andare fiero, almeno per una generazione.

La purificazione della razza ariana necessitava di una buona dose di lavoro sporco che si poteva svolgere soltanto durante una guerra: i dettagli più repellenti sarebbero stati occultati dopo la vittoria. Hitler era probabilmente pronto a sterminare milioni di connazionali imperfetti, ma non intendeva passare alla Storia per averlo fatto. Persino la "Soluzione finale della questione ebraica" (stabilita nei dettagli a quanto pare solo a Wannsee, qualche mese dopo l'archiviazione dell'Aktion T4) sarebbe stata, per quanto possibile, occultata agli storici. I tedeschi del futuro di Adolf Hitler avrebbero vissuto in una grande e purificata Germania, e non avrebbero mai saputo quali crimini erano stati necessari per forgiarla. Poi le cose hanno preso una piega diversa, lo stato di guerra totale necessario alla realizzazione di questi e altri progetti si è dimostrato un po' difficile da proseguire nel lungo periodo; Hitler si è sparato e col suo cognome oggi si spacciano le obiezioni più banali nei dibattiti sulla bioetica: ah, tu vorresti che qualcuno avesse il diritto di decidere fino a che punto è ammissibile soffrire; vorresti che nascessero meno persone affette da malattie genetiche? Sai chi la pensava come te? Adolf Hitler. E magari ti piacciono pure le verdure.

C'è naturalmente, in questo tipo di scambi, un equivoco immenso.

sabato 23 agosto 2014

Sacco e Vanzetti: innocenti o...

23 agosto 1927 - A Boston, Massachusetts, Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti sono giustiziati per aver ammazzato un contabile e una guardia giurata. Esattamente 50 anni dopo (23 agosto 1977) il governatore del Massachusetts, li proclama innocenti. Meglio tardi che mai. Ma c'è ancora chi non si rassegna...


Alle 23,40 (ora americana) i personaggi ufficiali ed i testimoni sono entrati nella parte del carcere riservata ai condannati a morte. Poco dopo, la triplice esecuzione aveva luogo. Alle 0,9 minuti (ora americana) Madeiros, che aveva preso posto per primo sulla sedia elettrica, è stato dichiarato morto. Alle 0,19 Sacco era a sua volta giustiziato; e per ultimo Vanzetti, alle 0,26. La tragedia è compiuta. Dopo sette anni dalla sentenza di condanna a morte, pronunziata senza che la loro colpevolezza, nel delitto a essi ascritto, fosse menomamente provata, Sacco e Vanzetti sono stati elettresecutati. La barbarie della parola s'adegua alla barbarie del tatto. E la nostra coscienza di uomini civili, la nostra coscienza romana e cristiana ed europea, ha avuto un sussulto, ha subito un'offesa non facilmente dimenticabile. ("La Stampa", 23 agosto 1927).


Se fosse un agosto qualsiasi - se non ci fosse una guerra in Europa e un'altra guerra in Medio Oriente che parla fin troppo europeo - e il cambiamento climatico - e la mancata ripresa - se insomma fosse uno di quegli agosti in cui il problema dei redattori è come riempire una dozzina di pagine senza annoiar troppo il lettore sotto l'ombrellone - potremmo facilmente scommettere sulla riapertura del caso Sacco-Vanzetti da parte di qualche testata di centrodestra.

I dettagli sono sempre gli stessi: malgrado lo Stato del Massachusetts abbia formalmente e solennemente scagionato i due italiani (cinquant'anni dopo averli inceneriti), qualche indizio di colpevolezza continua a trascinarsi. La confidenza raccolta da Carlo Tresca, uno dei promotori delle manifestazioni pro-Sacco-e-Vanzetti, che riteneva in cuor suo che il primo fosse colpevole e il secondo complice. E la perizia balistica del 1961, che afferma che fu la colt di Sacco a sparare il colpo che uccise il custode Alessandro Berardelli. Storie arcinote che possono vivacizzare una discussione da spiaggia ma non sarebbero sufficienti a riaprire un processo: la versione di Tresca è solo una delle tante che fornì, quando aveva preso le distanze dalla frazione anarchica in cui avevano militato i due martiri; la stessa "colt di Sacco" potrebbe anche non essere davvero quella di Sacco (la polizia ebbe molto tempo a disposizione per sostituirla).

venerdì 22 agosto 2014

Altre gioconde più gioconde dell'originale

5. Sapeck (Eugène Bataille): La Joconde fumant la pipe (AKA Le rire)

Il montaggio del vignettista Sapeck potrebbe passare per la solita provocazione dada-surrealista - non fosse stata composta addirittura nel 1883! Sapeck la produsse per l'esposizione degli Incoherents, un movimento artistico che anticipa il dadaismo di trent'anni - che a cavallo tra Otto e Novecento sono l'equivalente di un'era geologica. Li capeggiava un tale Jules Lévy che non disdegnava di sfilare con le ballerine del Folié Bergères - decisamente molto avanti. Forse troppo. Il capolavoro di Lévy è un quadro completamente nero intitolato Combattimento di negri in un tunnel. Sapeck si contenta di firmarsi mentre fa quella cosa che tuttora fanno il trenta per cento degli studenti medi sui libri di testo di Storia dell'Arte: riempire compulsivamente la bocca dei soggetti ritratti con oggetti che nel Novecento chiameremo fallici. Ciò è molto liberatorio. I più sofisticati invece disegnano barbe e baffi - ci penserà Duchamp una generazione più tardi.


6. Marcel Duchamp, L. H. O. O. Q.


Tra Sapeck e Duchamp c'è più che una semplice generazione. "Elle hache o o qu" (La signora ha caldo al culo) appare nel 1919, quarto centenario della morte di Leonardo. Peruggia è libero da poco, la sua Gioconda è appena diventata l'immagine pittorica più famosa del mondo. Anche il paesaggio - ignorato nel proto-ready-made di Sapeck - ormai è quello canonico che ci aspettiamo in ogni Gioconda che si rispetti. Nella versione di  Duchamp non c'è soltanto l'irrisione, l'iconoclastia futurista svoltata in burletta, il ready made; c'è anche una proposta: e se fosse un uomo? Non sarebbe poi così male. C'è persino chi sostiene che anche Duchamp coi baffi e il pizzetto stesse in realtà tracciando un suo autoritratto: come Salì, come Dalì, come lo stesso Leonardo... insomma non c'è niente da fare, qualsiasi sgorbio tu faccia prima o poi qualcuno dirà che ti somiglia. Anche due baffi su una cartolina. Ma a questo punto forse bisognerebbe rivedere con più attenzione Fontana, il pisciatoio esposto da Duchamp due anni prima...

(Resta on line se non sei sazio di nuove originalissime gioconde).

Il più grande furto d'arte di tutti i tempi, forse

I ladri fotografati mente si portano
via l'Urlo in pieno sole.
22 agosto 2004 - falsi pompieri rubano una versione dell'Urlo di Munch da un museo di Oslo. Non è neanche la prima volta. Sarà ritrovato due anni più tardi.

Definito da Arthur Lubow "la Gioconda dei nostri tempi", l'Urlo di Munch ha in comune anche la complicata questione dell'originalità: non esiste 'un' Urlo, ma almeno quattro versioni d'autore, tutte considerate originali. Persino il furto dell'Urlo, dieci anni fa, non è originale: nel '94 un'altra copia era sparita dieci anni prima, sostituita da un biglietto in cui si ringraziava la galleria nazionale di Oslo per la scarsa sorveglianza. Due anni fa una versione a pastello è stata battuta da Sotheby's per 119 milioni di dollari; solo un Francis Bacon è stato venduto a un prezzo più alto. Attualmente quell'Urlo è la decima opera d'arte al mondo per quotazione, in una classifica guidata dai giocatori di carte di Cézanne, dove la Gioconda neanche compare (non c'è più nessun maestro del Rinascimento: tutti spodestati a partire dagli anni '80). A proposito, quanto costa la Gioconda?

Difficile dirlo. L'ultima volta fu assicurata per cento milioni di dollari (durante il tour americano del 1962, in cui incontrò anche Kennedy - i Beatles due anni dopo non fecero in tempo). Tenuto conto dell'inflazione, oggi sarebbero 780 milioni, più del doppio del quadro di Cézanne. Ma è una cifra senza senso: l'assicurazione non è stata rinnovata. Il Louvre ha ritenuto preferibile investire in sicurezza. Peraltro, a questo punto l'oggetto è diventato talmente iconico che persino un mitomane, un terrorista o qualsiasi Etostrato non potrebbe che distruggerne l'involucro esteriore, quella fragile tavola di legno che è destinata a deteriorarsi comunque nel giro di qualche secolo. L'immaginario collettivo non ci perderebbe nulla: l'immagine ormai è fissata in miliardi di terabyte che saranno nella nuvola finché ci sarà un'umanità interessata a questo tipo di cose. Anzi, una fine tragica renderebbe l'icona ancora più indelebile nelle nostre coscienze. Anche il Louvre in realtà non avrebbe che da perdere un quadro molto complicato da gestire e custodire: la fila che oggi si forma davanti al capolavoro si sbrigherebbe a trovare qualche altra opera-feticcio; non è che la gente abbia smesso di andare a NY perché non ci sono le due torri (tutto il contrario, direi). Insomma Monna Lisa a levarsi di mezzo ci farebbe quasi un piacere.

E poi magari a quel punto salterebbe fuori l'originale.

giovedì 21 agosto 2014

10 gioconde più originali dell'originale

Berlusconi, ci scommetto,
mi preferisce.
1. Isleworth Mona Lisa

La prima reazione è uno choc. La Gherardini ringiovanita sembra uscire da una copertina di Visto: come se, esasperata da un secolo di speculazioni sul suo stato di salute (alta glicemia, bruxismo, ecc.) avesse optato per una plastica facciale. Salvo che nessuno riesce a farle così bene. La seconda è un tentativo di esorcizzare un'idea che stravolge tutto quello che sai di un'opera che credi di riconoscere: chi è il folle collezionista che a un certo punto ha deciso di commissionare la versione ringiovanita di un capolavoro? E, viste le premesse di dubbio gusto, com'è possibile che il risultato sia così convincente?

La chiave sta nei dettagli - le colonne, in questo caso. Un falsario non le mette: un allievo di Leonardo sì, perché anche Leonardo in un primo momento ce le aveva messe (Vasari vide colonne e balaustra in una delle versioni più antiche). Le mani sono leggermente più scure del volto, come capita spesso nei suoi ritratti. Anche a non voler dare troppo credito alla perizia di parte che afferma che la tavola è del primo Cinquecento, rimane l'evidenza: la Mona Lisa ritrovata nel primo dopoguerra da un collezionista inglese in una placida villa del Somerset non è un tentativo meccanico di ringiovanire un soggetto adulto. L'ipotesi inversa - che Leonardo abbia cominciato il ritratto molto presto, e lo abbia sottoposto a continue modifiche - combacia viceversa con alcune cose che sappiamo di lui (la sua abitudine a non lasciare mai nulla di finito) e altre che abbiamo cominciato a raccontarci: la Gioconda come ritratto della madre o addirittura autoritratto dell'autore. Forse, più semplicemente, Leonardo sentiva il quadro talmente suo che decise che sarebbero invecchiati assieme. Questo spiegherebbe anche l'evanescenza del velo nella versione del Louvre, dove se non state attenti nemmeno lo notate: nella Gioconda giovane non c'è, ma se decidi di farla crescere devi mettercelo per forza: solo le donne di malaffare posano coi capelli sciolti e scoperti (e senza un anello al dito).

Ce l'ho mica scritto in fronte
2. Gioconda del Prado.

Se ne stava placida da secoli in uno scantinato del museo di Madrid, la classica copia d'autore di fattura pregevole ma di scarso interesse. Finché qualche anno fa qualcuno ha pensato di dare un'occhiata seria sotto lo sfondo nero, che fino ad allora sembrava l'ammissione di inferiorità di un falsario negato coi paesaggi. E' saltato fuori che sotto la mano settecentesca di nero c'era un paesaggio straordinario, non del livello dell'originale, ma meglio conservato: e databile nel primo Cinquecento (le colonne ci sono ancora, benché relegate all'estremità della tela). E' di Leonardo? La pennellata ci dice di no, manca lo sfumato. La riflessografia però ci dice che il pittore, che lavorava su tela, ebbe fino a un certo punto gli stessi ripensamenti che Leonardo nascose nella tavola. La Gioconda del Prado dunque sarebbe stata dipinta in contemporanea con l'originale - qualcuno si è anche ingegnato a calcolare l'angolo tra i due pittori, rispetto al soggetto. Forse l'unico modo di non rinunciare all'originale era lasciare dietro di sé qualche buona copia che testimoniasse una o più tappe del work in progress (e che si poteva anche smerciare facilmente).
Il sorriso della Gioconda del Prado ha una sfumatura ironica che risalta se la accosti all'originale. Sembra dire: io? La Gioconda? Ma figurati.

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E se la Gioconda non fosse 'quella vera'?

21 agosto 1911 - Vincenzo Peruggia, se gli vogliamo credere, esce dal Louvre dove ha passato la nottata. Sotto il cappotto porta una tavola di Leonardo da Vinci che non è ancora il dipinto più famoso del mondo, ma grazie a lui lo diventerà. E se non fosse, davvero, l'originale di Leonardo da Vinci?

Due anni dopo l'affare era ormai archiviato. Poliziotti e gendarmi avevano interrogato chiunque, perquisito dappertutto. Era stato sospettato persino il giovane Pablo Picasso; si era fatto una notte in cella anche il povero Apollinaire per quella sua tirata futurista sui musei da sventrare - ma anche per le accuse di un'ex, mitomane e piuttosto vendicativa. Niente, nessuno ne sapeva davvero niente, e la Gioconda non c'era più. Chissà dove se n'era volata. Che dire: cose che capitano - no, in realtà no, c'è una prima volta di qualsiasi cosa, e il furto della Gioconda fu il primo grande colpo in un museo pubblico. Evidentemente la sicurezza era un po' da ripensare. Fino a quel momento si era probabilmente pensato che certe opere si difendessero da sole: chi mai avrebbe pensato di procurarsi illegalmente un Leonardo originale? Erano ancora begli oggetti che meritavano di essere visti anche a costo di lunghi viaggi e costosi - tanto più che le riproduzioni stampate non potevano assolutamente reggere il confronto con l'originale. Proprio per questo motivo, non c'era ancora la necessità di trasformarli in qualcos'altro: in simboli, cifre, capolavori ineffabili.

Non c'era nemmeno bisogno di esorcizzare il senso di delusione che provi quando arrivi lì e scopri che l'opera è esattamente come l'hai vista su un buon libro - e dunque qual è il senso di tutto il tuo viaggio?

mercoledì 20 agosto 2014

Chi ha ucciso il grande rivoluzionario del Novecento?

20 agosto 1940 - Lo zio di Christian De Sica rompe la testa di Leo Trotsky con una picozza. 

Per quanto tu ti possa abituare all'idea - e hai una vita intera per abituartici - alla fine la morte sa sempre sorprenderti. Il caso di Trotsky ha dell'incredibile. Nella primavera del 1940 era persuaso di non avere più molto tempo davanti a sé. A impensierirlo, ancor più degli agenti di Stalin, era la pressione alta. In febbraio aveva scritto un bel testamento, insolitamente stringato, a cui a marzo volle aggiungere un poscritto meno famoso ma suggestivo:
La natura della mia malattia (una pressione alta e in costante aumento) è tale - per quel che ho capito - che la fine verrà molto probabilmente (ancora una volta, questa è la mia ipotesi personale) attraverso un'emorragia cerebrale. Questa è la fine migliore che mi possa augurare. È possibile, tuttavia, che io sia in errore (non ho alcun desiderio di leggere libri sull'argomento e, naturalmente, gli specialisti non mi direbbero la verità). Se la sclerosi dovesse assumere un carattere prolungato e fossi minacciato da una lunga invalidità (al momento sento, al contrario, un impulso di energia spirituale, a causa della pressione alta, ma questo non durerà a lungo), mi riservo il diritto di stabilire il tempo della mia morte. Il 'suicidio' (se tale termine è appropriato in questo contesto) non sarà in alcun modo l'espressione di uno sfogo di sconforto o disperazione. Natascia e io ci siamo detti più di una volta che si può arrivare ad una condizione fisica tale che sarebbe meglio tagliare corto con la la propria vita o, più correttamente, con un processo di morte troppo lento... Ma qualunque siano le circostanze della mia morte, morirò con la fede incrollabile nel futuro comunista. Questa fede nell'uomo e nel suo futuro mi dà già ora una forza di resistenza che non può essere data da qualsiasi religione.
Quest'ultima frase stonerebbe in bocca a chiunque non fosse resistito a tre confini, decine di detenzioni, al comando supremo dell'Armata Rossa durante la guerra civile, al fallimento della rivoluzione permanente e alle epurazioni di Stalin. E però con tutta la sua forza di resistenza, Trotsky non poteva impedirsi di constatare il proprio decadimento fisico. Determinare in modo razionale il tempo della propria morte sarebbe stato un altro successo organizzativo - ma sul piano della propaganda si rischiava di lasciare un brutto messaggio, quasi come darla vinta a Stalin. L'esitazione di Trotsky assomiglia alla nostra ogni volta che ci poniamo il problema: è un diritto togliersi la vita? Ogni volta che succede a una persona che ammiravamo siamo tentati di scrivere da qualche parte di sì: certo che è un diritto. Inalienabile. E poi ci viene in mente che rischiamo di incitare indirettamente qualcun altro a prenderselo, quel diritto. E non vorremmo proprio. E allora cambiamo argomento.

martedì 19 agosto 2014

Il grande poeta dimenticato del '900

19 agosto 1964 - muore Ardengo Soffici, pittore, scrittore, futurista, fascista, e tante altre persone. 

Soffici ci lasciava 50 anni fa, troppo presto sia per far dimenticare il suo fascismo seminale, sia per cogliere i frutti della rivalutazione del futurismo. Come pittore poi si è difeso bene, i suoi papier collés e le sue angurie sono passaggi obbligati in qualsiasi mostra futurista che si rispetti. Molto meno conosciuto resta il Soffici scrittore, ma se in generale abbiamo smesso di leggere non è proprio colpa sua. Lui in effetti ha precorso i tempi anche in questo, scrivendo testi leggerissimi che sembrano pensati per il lettore svagato e distratto del secolo XXI. Figlio di borghesi rovinati, scappato a Parigi a vent'anni, Soffici si ritrova quasi per caso al centro dell'esplosione artistica che inaugura il secolo. Tra i primi italiani a leggere Rimbaud, a scambiare due chiacchiere con Picasso o Apollinaire, Soffici torna nella casa materna di Poggio a Caiano (FI) nel 1907. L'intuizione è buona: in Francia era un illustratore tra tanti, in Italia è in anticipo di una generazione - al punto che nel 1911 si permette di stroncare la prima esposizione futurista: "sciocche e laide smargiassate di poco scrupolosi messeri".

Il seguito è noto: Marinetti, Carrà, Russolo e Boccioni prendono un treno per Firenze apposta per andare a picchiarlo. Lo trovano alle Giubbe Rosse (se lo fanno indicare dal subdolo Palazzeschi), e restano piacevolmente sorpresi dal fatto che Soffici risponda a pugni e schiaffi roteando il suo bastone da passeggio. Il giorno dopo addirittura si prende con sé Slataper e Prezzolini e li va ad aspettare in stazione. Nuova scazzottata, e poi tutti assieme in commissariato a firmare il verbale e discutere d'arte d'avanguardia. Sta per nascere il primo futurismo fiorentino, l'unico a non dipendere economicamente dalle ampie tasche del mecenate Marinetti. Il vero battesimo sarà Lacerba, la rivista che Soffici avvia all'inizio del 1913 in collaborazione con l'amico e provocatore Giovanni Papini - in sostanza è uno spin-off della Voce, l'amichevole scissione dei due vociani meno allineati al serioso verbo idealista. Mettendosi d'impegno a stroncare Croce, e con Croce tutti i filosofi, e gli scrittori, e i pittori - Papini e Soffici ottengono perfino un certo successo editoriale, conquistato a base di titoli roboanti (Contro la scuola! Amiamo la guerra!) e oltraggi al pudore e un insistito snobismo. Lacerba è la nonna di tutti i fogli di satira italiani. Gramsci nota che lo sfogliano persino gli operai torinesi, con un interesse non ricambiato.

lunedì 18 agosto 2014

I due dischi più brutti dei Beatles

(Continua la pubblicazione delle recensioni di Perceval Reginald Deafon, Esq (qui la prima parte), il prestigioso critico che per i tipi della blasonata Montly British Music Magazine ebbe il privilegio di recensire in anteprima tutti i dischi dei Beatles - stroncandoli uno per uno).

Revolver (Parlophone, 1966)
Ed è giunto il momento di parlare di Beatles. Fosse per me avrei aspettato - avevo anche una scusa perfetta: per un disguido l'etichetta discografica mi ha consegnato una copia del loro nuovo album evidentemente non definitiva, con colpi di tosse, nastri montati al contrario e altri disturbi. Ma il direttore insiste, e d'altro canto è difficile immaginare che la versione definitiva sia molto migliore: magari bastasse togliere due colpi di tosse o un paio di nastri fuori posto per migliorare la situazione. So che qualche lettore non condivide il mio punto di vista, ma è un fatto che i Beatles non siano più rilevanti almeno da un paio d'anni. Ora che finalmente si interrompe il tour infinito che li ha trasformati in un prodotto di esportazione - a spese della genuinità - e si dirada la nebbia caotica della beatlemania, è facile accorgersi che quello che hanno iniziato nel '62, oggi qualcun altro lo sta portando avanti con più coerenza e più ispirazione. Nell'anno in cui i Rolling Stones ci hanno regalato Aftermath, e oltreoceano i Beach Boys di Brian Wilson ci hanno sbalordito con Pet Sounds, che cosa ci offrono i quattro nuovi Membri dell'Eccellentissimo Ordine dell'Impero Britannico? Altre quattordici canzonette in cerca di interpreti più convincenti. La crisi d'ispirazione della premiata ditta Lennon/McCartney è tale che il pezzo d'esordio è del loro sodale, il giovane George Harrison: il quale purtroppo ha difficoltà a inserire più di un accordo nelle sue composizioni, e non sempre gli riesce di trovarne uno non dissonante. Il suo assolo di chitarra - se davvero è quello che ho sentito sulla mia copia del disco - sembra l'esercizio di un bambino con un elastico. A sua discolpa, Harrison sta raccontando l'episodio più traumatico della sua vita: la scoperta che anche i milionari pagano le tasse. Il resto del disco è meno inquietante; ci troviamo un po' tutte le cose che ormai siamo abituati a trovare in un disco dei Beatles: il numero di McCartney coi violini (Eleanor Rigby), il numero di Harrison con il sitar (Love You To), quello di Lennon contro le donne che non lo apprezzano (And Your Bird Can Sing), la canzoncina su due note per il povero Ringo (Yellow Submarine) - sia detto fra noi, un onesto musicista che non meritava questo destino da clown (ma neanche i milioni di sterline che gli auguriamo di mettere da parte). È difficile stabilire se risulti più irritante la svogliatezza di John Lennon, incapace in certi casi persino di mantenere i quattro quarti in un brano di tre minuti, o la pretesa di McCartney di essere un autore poliedrico: ovvero di saper copiare nello stesso disco un po' di Brian Wilson (Here, There and Everywhere), un po' di Vivaldi, un po' la Motown (Got to Get You Into My Life), un po' l'ultimo successo che ha sentito in radio (l'avvocato dei Lovin' Spoonful dovrebbe ascoltare con attenzione almeno Good Day Sunshine). Sospendo il giudizio sull'ultimo brano, che non ho potuto ascoltare: nella versione che mi è stata consegnata c'è solo una sequenza di rumori, alcuni dei quali registrati al contrario, e la voce drogata di John Lennon che mi propone di espandere la mia coscienza. Per quanto ne so la versione definitiva di Tomorrow Never Knows potrebbe anche essere un capolavoro, ma sarebbe l'unico dell'album. L'unico da due anni a questa parte. Non me ne vogliano i lettori se resto scettico.

The Sgt. Pepper's Lonely Heart Club Band (Parlophone, 1967)
Come avrà intuito facilmente il lettore dalla siepe fiorita, i membri del gruppo del club dei cuori solitari del Sergente Pepper altri non sono che i quattro Beatles, reduci dalla loro prima debacle discografica (il singolo Penny Lane - Strawberry Fields Forever non è neanche arrivato primo in classifica), che con questo espediente pubblicano un disco minore, nel quale probabilmente sono i primi a creder poco - certo, l'idea di mascherarsi sarebbe venuta persino al sottoscritto, se avessi dei fans e se li avessi trattati male come hanno fatto i Beatles con le loro ultime uscite. I quattro ne approfittano per improvvisarsi orchestrina di vaudeville, con esiti che oscillano tra il fastidioso (il valzer di Lucy in the Sky), l'irrilevante (With a Little Help of my Friends) e lo stucchevole (When I'm 64). E poi che altro dobbiamo aspettarci? C'è il pezzo coi violini? C'è, più noioso del solito. C'è il numero col sitar? C'è, e non finisce mai. Prosegue nel frattempo la guerra tra John Lennon e i Quattro Quarti - questi ultimi ormai soccombenti in Good Morning. Il pezzo con cui termina l'album è uno strano patchwork di canzoni, cantato per lo più da un Lennon mai così lagnoso, costretto forse per mancanza di tempo a improvvisarsi un testo nonsense su una melodia insolitamente lugubre. Con questo piccolo disco di trovate che qualcuno definirà sperimentali, o come si dice adesso, 'psichedeliche', i Beatles si propongono a un pubblico che quest'anno ha già potuto ascoltare il capolavoro degli Stones (Between the Buttons), l'ottimo lavoro dei Kinks, (Face to Face); un pubblico che se avesse un po' di curiosità potrebbe tuffarsi nell'incredibile Freak Out! dei Mothers of Invention. Un pubblico che invece ha deciso di accontentarsi di qualsiasi cosa gli preparino i Beatles, e che confidiamo riuscirà a mandare giù anche questo polpettone di avanzi. Tanto può il ricordo di quello che sapevano fare fino a qualche anno fa, prima di lasciare le scene e nascondersi dietro a maschere di cartone, o alle proprie statue di cera che Madame Tussaud ha graziosamente concesso per le foto di copertina (continua...)

SCONVOLGENTE: ecco perché Joni Mitchell non andò a Woodstock

18 agosto 1969 - Joni Mitchell partecipa a un programma televisivo, il Dick Cavett Show. Per andare in tv aveva rinunciato a partecipare nei tre giorni precedenti a un certo festival di Woodstock che poi, si scoprì, sarebbe diventato il concerto più famoso del secolo. Se ne pentì. Poi si pentì di essersene pentita.


(La sublime ironia di accettare un cachet per cantare For Free)

(Segue vecchio pezzo)
Se c'è un motivo (non è detto debba esserci per forza) per cui la Woodstock di Iain Matthews mi sembra superiore alle altre versioni, credo che abbia a che vedere col sentimento del tempo. La storia racconta che Joni Mitchell scrisse la canzone nei giorni immediatamente successivi al festival, mettendo a frutto il rimpianto per non esserci andata, per aver capito troppo tardi quello che stava succedendo in quel pratone fuori New York; per aver dato retta al suo agente e barattato l'evento più importante della sua generazione con una comparsata in tv. D'altro canto solo la lontananza da Woodstock poteva permetterle di scriverci sopra un inno cosmico, pieno di fede nel futuro e vibrante del respiro dell'universo eccetera eccetera, al riparo dagli schizzi di fango e dal caos organizzativo. Quando poi le capitò di andarci davvero, ai concertoni, la Mitchell non ne trasse vibrazioni così positive. Un mese dopo portò la canzone inedita a Big Sur, dove cercò persino di insegnare agli hippie il ritornello: su, cantate con me, siamo polvere di stelle, siamo d'oro... no, niente, quelli sorridono, scuotono le chiome, e chissà su che pianeta sono in quel momento. Ma d'altro canto, come si fa a cantare dietro a Joni Mitchell? Cioè, davvero credevi che fossero tutti bruchi pronti a mettere le ali? tutti in grado di cantare quello che canti tu? Tutti pronti a fondare rock'n roll band e inseminare la pace del mondo? Ci credeva.



Ma non ci ha creduto a lungo.

domenica 17 agosto 2014

Un Cossiga per tutte le stagioni

17 agosto 2010 - ci lascia Francesco Cossiga, il ragazzo terribile della politica italiana.

Guardando un po' più da vicino la traiettoria di Cossiga, si ha l'impressione che il secondo dopoguerra italiano sia un frattale. Cossiga lo contiene tutto in piccolo: la DC di sinistra, la strategia della tensione, il pentapartito, la crisi degli anni '90 e la nascita di un nuovo linguaggio politico che è poi lo stesso che oggi trovi in bocca a qualsiasi coglione si ritrovi a scrivere su beppegrillo.it. Cossiga è passato per tutte le svolte della storia d'Italia: in alcune occasioni le ha anticipate, di modo che ai suoi contemporanei sembrava che facesse strani slalom a vuoto come un mezzo scemo. 

La storia di come ha preso a picconate non soltanto la politica, ma soprattutto il linguaggio politico, è affascinante ma oggi è domenica 17 agosto e non ho voglia di scriverla: incollo un vecchissimo pezzo di Alberto Sobrero e buonanotte. 

Da quasi due anni il 'fenomeno Cossiga' è osservato sotto diverse angolazioni: politica, partitica, etnologica, dietrologica, psichiatrica... Poco si è detto del suo modo di parlare, o meglio di comunicare. Strano, visto che si tratta di un Grande Comunicatore. E tuttavia, un'occhiata al suo comportamento linguistico offre chiavi di lettura interessanti.

Tanto per cominciare, consente una sistemazione "storica" del personaggio. Com'erano i primi messaggi del Presidente Cossiga? Una noia mortale. Scorro qualche appunto preso al messaggio del Capodanno 1987 e trovo: massima austerità formale, immobilità solenne, dizione ben scandita e controllata, attenuazione delle caratteristiche sarde del parlato. Il discorso è costituito da una lunga esortazione seguita da un frammento di lezione universitaria, con i suoi bravi distinguo, i termini tecnici al posto giusto, e un gioco fine di argomentazioni e contro-argomentazioni. Argomento: la responsabilità. Taglio: tipico dell'uomo di potere. Il discorso non tratta della responsabilità di amministratori e politici (già allora la carne al fuoco non sarebbe mancata), ma del cittadino qualunque, perché "alla gestione della cosa pubblica nessun cittadino è estraneo". Il tono generale è predicatorio: i verbi dovere, occorrere, impegnarsi ricorrono ben 29 volte in 15 minuti, senza contare i verbi al futuro con valore imperativo. La lingua, infine, offre tutti i suoi strumenti per innalzare una cortina di fumo davanti al messaggio. Cossiga si rivela abilissimo nell'esprimere i concetti semplici in modo difficile: ad esempio, per dire che bisogna dare fiducia allo Stato come garante della sicurezza dei cittadini dice che bisogna avere "consapevolezza che soltanto lo Stato, nelle sue articolazioni democratiche, e non l'assenza dello Stato, la carenza dello Stato, può garantire il quadro di riferimento, di sicurezza nel quale la società e i singoli soggetti possono esprimere ogni giorno la loro peculiare vitalità e la loro personale responsabilità".

Il messaggio del Capodanno 1987 è un po' il simbolo di quello che possiamo chiamare il Cossiga I, il cui regno dura circa 5 anni. Anni iniziati con Capodanni tutti uguali: prosa paludata e surreale, discrezione e ufficialità. Noia. Quei discorsi allusivi destinati al Palazzo e dintorni Poi svolta. Il I gennaio 1991 il Presidente, nel bel mezzo del solito discorso auspicante e rassicurante, lascia il discorso ufficiale e apre una parentesi di veemente, appassionata, quasi rabbiosa difesa di Gladio, un'invettiva un po' cifrata destinata al Palazzo ma esibita davanti a milioni di telespettatori. È nato il Cossiga II, quello dei messaggi mandati a nuora perché suocera intenda, delle minacce a uomini e partiti, quello che sostituisce l'imparzialità con lo schieramento aperto, che esalta gli amici e offende i nemici.

sabato 16 agosto 2014

Ciao Satana, credo sia ora di andare

16 agosto 1938 - a Greenwood, Mississippi, un musicista di strada muore in circostanze non chiare. Diventerà una leggenda molti anni dopo, per una serie di equivoci.

Di lui non si sa praticamente nulla. I testimoni orali, i tizi che si sono intascati qualche soldo per raccontare qualcosa ai documentaristi, sono gente che per cento dollari ti suona quel che vuoi ascoltare - vuoi il patto col diavolo? Ti racconto il patto col diavolo. Vuoi il drama? Gli morì la moglie di parto. Anzi era una fidanzata. Minorenne ovviamente. Anzi erano due. Due minorenni entrambe morte di parto. Vuoi il mistero? con la chitarra era una schiappa, ti giuro, l'ho sentito. Poi gli muore la fidanzata incinta e lui scompare per un anno, e quando si rifa vivo suona come un dio. No. Dio decisamente non suona così. Dio non vuole sentire i lamenti d'amore uscirti dallo stomaco come i crampi, Dio non vuole sentire che hai un limone da spremere nel bassovita, Dio in questa storia non c'entra nulla. Decisamente.

La storia che si impone sulle altre, in queste situazioni, è quella più romanzesca. È un musicista girovago, quando arriva in città mette il cappello sul marciapiede e suona quel che vuoi sentire. È abbastanza eclettico, ma ha una sua personalità. In breve riesce sempre a farsi invitare a suonare in un locale. Bisogna avere una voce squillante e un gran repertorio - lui peraltro sembra in grado di riprodurre qualsiasi canzone a comando. Se non sa il testo se lo inventa, e in breve ha inventato una nuova canzone. Alle donne piace. Di solito ne sceglie una - o si lascia scegliere - e quando il locale chiude, lui dorme da lei. Una diversa per ogni città. A Greenwood sta dalla moglie del gestore. Non è una grande idea. Con lui c'è un suonatore di armonica che diventerà famoso come Sonny Boy Williamson. A un certo punto Sonny Boy si accorge che all'amico hanno passato una bottiglia di whisky aperta. Gliela sfila di mano, la bottiglia si rompe, che cazzo fai? "Amico, non farlo mai più. Non bere mai più da una bottiglia che non hai visto aprire". "Amico, non levarmi mai più una bottiglia dalla mano, hai capito?" "Ho capito".

Pochi minuti dopo, il tizio ha di nuovo una bottiglia aperta in mano. Pochi minuti dopo, quand'è ora di rimettersi a cantare, il tizio non riesce più a spiaccicare una parola. Farfuglia. Sta male. Lo portano via. Non lo curano come si deve - è un vagabondo, chi lo conosce dopotutto. Muore dopo un paio di giorni d'agonia, settantasei anni fa oggi. La data probabilmente è l'unica cosa sicura di tutta la storia.

Non sappiamo nemmeno dove sia sepolto - tre cimiteri si contendono il privilegio, ma le tre tombe sono state rimesse a posto molti anni dopo, quando Robert Johnson - si chiamava così - diventa improvvisamente famoso, di una fama che mai si sarebbe sognato. I nastri che aveva inciso in una camera d'albergo a San Antonio, e più tardi in un piccolo studio di registrazione a Dallas, vengono ristampati su album e diventano l'opera omnia del più grande bluesman di tutti i tempi. 29 canzoni, alcune registrate persino un paio di volte, in fretta, da un tizio che non aveva mai inciso nulla e avrebbe potuto suonare centinaia di pezzi in stili molto diversi, ma gli avevano chiesto un certo tipo di blues e, perdio, pagavano.

Robert Johnson nella sua vita ha probabilmente ascoltato solo un paio delle sue canzoni incise a 78 giri. Non sappiamo nemmeno se si sia piaciuto, ma è facile immaginare che si sia sentito a disagio, di fronte a una voce più stridula, e una chitarra più svelta. L'etichetta per cui incideva era solita accelerare i nastri anche del 20%. Così l'indiscussa bravura di Johnson alla chitarra diventa qualcosa di disumano. Quando Keith Richards l'ascolta per la prima volta a casa di Brian Johnson, si domanda chi sia l'altro chitarrista. "Robert Johnson". "Sì, ma chi è l'altro che suona con lui?"

Il vero Robert Johnson probabilmente suonava più piano, e aveva una voce più bassa, simile agli altri bluesmen del tempo. Non suonava soltanto blues - l'unico ragtime che ha inciso è assolutamente brillante, non l'esercizio di un dilettante - e non era necessariamente malinconico o dannato come ci piace sentir raccontare. Ma il vero Robert non esiste più. Quello che abbiamo è stridulo e dannato, e non c'è filologia musicale che ci possa convincere a farne a meno.

La leggenda del patto col diavolo a un incrocio è probabilmente soltanto una bella storia. Chi ha studiato un po' più la vicenda sostiene che l'apprendistato musicale di Johnson sia durato almeno due anni. Sappiamo persino il nome all'anagrafe del suo maestro, non il diavolo, ma un tal Ike Zimmerman. Pare che sia vero che suonasse nei cimiteri - sono posti tranquilli dopo l'ora di chiusura, nessuno ti disturba e puoi esercitarti. Ike Zimmerman non ha mai inciso niente. Volendo possiamo tranquillamente immaginarcelo come il più grande genio musicale del Novecento.

venerdì 15 agosto 2014

Altre cinque straordinarie Madonne che ti lasceranno senza fiato

15 agosto - si celebra l'assunzione in cielo di Maria, ratificata da Pio XII nel 1950, dopo diciannove secoli di precariato. Quale occasione migliore per proseguire la carrellata delle Dieci madonne più incredibili della Cristianità?

Clicca qui per le altre incredibili Madonne (dal sesto al decimo posto).

La Madonna ti dà una mano
5. Madonna con tre mani (o Tricherusa).
Se vi capita di vederla in un'icona, non scappate terrorizzati. È una tipologia mediamente diffusa in ambito ortodosso. Non è che le sia spuntata una mano in più - la terza mano in origine era staccata. È la mano che ha fatto spuntare al teologo San Giovanni Damasceno, al secolo Mansour Ibn Sarjun, dopo che il califfo gliel'aveva fatta tagliare. Il califfo in realtà aveva avuto un'alta considerazione di Mansour, ma era stato manipolato dall'imperatore bizantino Leone III, che stava mettendo in giro idee false e tendenziose su quel teologo siriano che difendeva apertamente l'iconodulia (la venerazione delle icone). Leone era invece fieramente iconoclasta. La Madonna che apparì da un'icona dopo la mutilazione esortò Mansour a non mollare la sua lotta per la libertà delle icone, e gli promise una mano nuova entro il mattino. Così fu, e Mansour per ringraziarla appese una mano d'oro all'icona stessa. Nasce così la simpatica abitudine di ritrarla con tre mani, una delle quali è sempre pronta per te se ne hai bisogno.

4. Madonna di Zaro
Alcune madonne moderne sono particolarmente assidue. Quella di Zaro, nell'isola di Ischia, appare ogni 8 e 26 del mese dal 1994 - vent'anni! E siccome i messaggi vengono pubblicati con regolarità sul suo sito, direi che abbiamo trovato la Madonna dei blogger. Che ne avevano bisogno.
Tante cose ha detto la Madonna di Zaro ai suoi ragazzi (ormai ne sono rimasti soltanto due in contatto con la vergine), che gli stessi veggenti ormai hanno difficoltà a ricordarsi le profezie e a verificare se per caso si siano esaudite. Furono ad esempio i giornalisti nel 2001 a ricordare a Simona di aver raccontato in un'intervista di sette anni prima una visione in cui le crollavano le Twin Towers (ma anche la Statua della Libertà). Particolarmente suggestiva è la visione che qualche anno dopo è stata interpretata come una profezia delle dimissioni di Benedetto XVI (ma quelle le avevo previste persino io, senza aiutini dall'alto):

Ho visto il Vaticano, il grande piazzale, l'obelisco, l'intero colonnato. Tutto era come in una grande cartolina che lo rappresentava nella sua immensa bellezza. Poi mi sono trovata all'interno della chiesa, ero come sospesa e guardavo tutto dall'alto. Il Santo Padre Benedetto sedicesimo presiedeva la celebrazione, era circondato da vescovi e cardinali, non c'erano altre persone. Il Papa ad un certo punto ha lavato le sue mani in una bacinella d'oro. All'improvviso gli si è sfilato l'anello dal dito ed è caduto nell'acqua, quindi ha rimesso le mani nella bacinella e quando le ha rialzate erano piene di sangue, ma l'anello non lo ha ritrovato. Poi ha alzato le braccia al cielo come per mostrarle a tutti; lui non sembrava stupito di tutto questo.
Clicca qui per conoscere finalmente le tre Madonne più incredibili di tutta la cristianità,

Altri pezzi