Per quanto tu ti possa abituare all'idea - e hai una vita intera per abituartici - alla fine la morte sa sempre sorprenderti. Il caso di Trotsky ha dell'incredibile. Nella primavera del 1940 era persuaso di non avere più molto tempo davanti a sé. A impensierirlo, ancor più degli agenti di Stalin, era la pressione alta. In febbraio aveva scritto un bel testamento, insolitamente stringato, a cui a marzo volle aggiungere un poscritto meno famoso ma suggestivo:
La natura della mia malattia (una pressione alta e in costante aumento) è tale - per quel che ho capito - che la fine verrà molto probabilmente (ancora una volta, questa è la mia ipotesi personale) attraverso un'emorragia cerebrale. Questa è la fine migliore che mi possa augurare. È possibile, tuttavia, che io sia in errore (non ho alcun desiderio di leggere libri sull'argomento e, naturalmente, gli specialisti non mi direbbero la verità). Se la sclerosi dovesse assumere un carattere prolungato e fossi minacciato da una lunga invalidità (al momento sento, al contrario, un impulso di energia spirituale, a causa della pressione alta, ma questo non durerà a lungo), mi riservo il diritto di stabilire il tempo della mia morte. Il 'suicidio' (se tale termine è appropriato in questo contesto) non sarà in alcun modo l'espressione di uno sfogo di sconforto o disperazione. Natascia e io ci siamo detti più di una volta che si può arrivare ad una condizione fisica tale che sarebbe meglio tagliare corto con la la propria vita o, più correttamente, con un processo di morte troppo lento... Ma qualunque siano le circostanze della mia morte, morirò con la fede incrollabile nel futuro comunista. Questa fede nell'uomo e nel suo futuro mi dà già ora una forza di resistenza che non può essere data da qualsiasi religione.Quest'ultima frase stonerebbe in bocca a chiunque non fosse resistito a tre confini, decine di detenzioni, al comando supremo dell'Armata Rossa durante la guerra civile, al fallimento della rivoluzione permanente e alle epurazioni di Stalin. E però con tutta la sua forza di resistenza, Trotsky non poteva impedirsi di constatare il proprio decadimento fisico. Determinare in modo razionale il tempo della propria morte sarebbe stato un altro successo organizzativo - ma sul piano della propaganda si rischiava di lasciare un brutto messaggio, quasi come darla vinta a Stalin. L'esitazione di Trotsky assomiglia alla nostra ogni volta che ci poniamo il problema: è un diritto togliersi la vita? Ogni volta che succede a una persona che ammiravamo siamo tentati di scrivere da qualche parte di sì: certo che è un diritto. Inalienabile. E poi ci viene in mente che rischiamo di incitare indirettamente qualcun altro a prenderselo, quel diritto. E non vorremmo proprio. E allora cambiamo argomento.
Al Trotsky sull'orlo del suicidio - ma non della disperazione, come ci teneva a farci presente - la primavera sta apparecchiando sorprese non buone. In una notte di maggio un commando circonda il suo compound messicano sforacchiandolo con centinaia di proiettili. Per puro caso nessuno della famiglia riporta ferite serie. Sparisce però un uomo della sua affezionata guardia del corpo, l'americano Robert Sheldon Harte. Troveranno il suo corpo qualche miglia più in là, sul sentiero del deserto, freddato da un colpo alla testa. Sulla sua targa commemorativa Trotsky farà scrivere "ucciso da Stalin". Ma Harte probabilmente era il doppiogiochista che aveva mostrato all'agente sovietico Iosif Grigulevich e al pittore David Alfaro Siqueiros la strada per il compound di Trotsky. Poi qualcosa era andato storto, Harte forse si era illuso che Siqueiros e il russo non intendessero davvero ammazzare Trotsky; forse aveva dato indicazioni imprecise - grazie alle quali sia Trotsky che il suo prezioso archivio si erano salvati - ma il commando aveva preso la decisione di giustiziare Harte.
Due settimane dopo Trotsky pubblicò la sua prolissa versione dei fatti con un titolo che non voleva lasciare il minimo spazio all'interpretazione: STALIN MI VUOLE MORTO. E a Stalin questa soddisfazione Trotsky non intendeva darla. Il guaio è che continuava a fidarsi di troppa gente. Non poteva evitarlo; era sempre stato un solitario, per temperamento e per la tendenza inveterata a farsi espellere o internare, ma non poteva sottrarsi più di tanto a quella rete di contatti che stava nascendo intorno alla sua neonata e fragile Quarta Internazionale. Il ragazzo che 74 anni oggi gli spacca la testa con una picozza gli è stato presentato da un'amica di Parigi, Sylvia Ageloff. Questa lo ha conosciuto alla Sorbona: si chiama Tony Babich, ma anche Frank Jackson, ma anche Jacques Mornard. A Sylvia - con cui ha una storia da due anni - ha spiegato di essere figlio di un diplomatico belga, e che i passaporti contraffatti canadesi gli servono per evitare il servizio militare. Nel 1939 si trasferisce per affari a Città del Messico con la mamma, e invita Sylvia a raggiungerlo là. Poi la convince a farsi presentare il grande Trotsky - dai, tu lo hai conosciuto, no? Per favore, quando mi ricapita, scrivigli che c'è un belga canadese che ha una grande stima di lui e vorrebbe stringergli la mano. Nel giro di poche settimane Tony riesce a entrare nelle grazie di Trotsky - quel che basta per poter penetrare nella sua residenza senza che nessuno gli trovi una picozza da alpinismo nella tasca della giacca. Succede il 20 agosto: la leggenda vivente sta leggendo il giornale nel suo studio. Tony prende l'arma impropria, si avvicina, chiude gli occhi e lo colpisce più forte che può.
Trotsky non muore.
Si avventa sul suo assassino, urla, chiama rinforzi. Fa ancora in tempo a dire che vuole Tony vivo, vuole interrogarlo. Poi si lascia portare in ospedale. Morirà il giorno dopo. Non prima di aver dettato al segretario del Partito Socialista Operaio Americano le ultime parole, accuratamente scelte: "Non sopravviverò a questo attacco. Stalin ha infine ottenuto il risultato già fallito in precedenza".
Trotsky che si aspettava da un momento all'altro un esplosione di sangue nel cervello, e si era preparato, di fronte a una picozza salta e strepita e combatte. La morte in un qualche modo ti sorprende sempre.
Tony-Frank-Jacques passerà molte anni nelle carceri messicane, sostenendo di chiamarsi Jacques Mornard e di aver ucciso Trotsky perché non gli permetteva di sposare la povera Sylvia (quest'ultima sarà completamente scagionata). Ci vorrà un po' di tempo per identificarlo: si chiamava Jaime Ramón Mercader del Río, era un agente spagnolo dell'NKVD sovietico. Sua madre - l'attrice Eustaquia María Caridad - aveva praticato prima di lui un po' di spionaggio durante la guerra civile spagnola. Poco dopo l'assassinio di Trotsky, Stalin l'avrebbe insignita dell'Ordine di Lenin. La sorellastra di Ramón, anch'essa attrice, due anni dopo avrebbe incontrato Vittorio De Sica. Si sarebbero sposati soltanto nel 1959. Ramón uscirà di prigione l'anno successivo, per riparare a Cuba. Nel 1961 gli sarà riconosciuto il titolo di Eroe dell'Unione Sovietica.
"qualche miglia" ???????????????
RispondiEliminaRaf
Scusa se vado OT, ma hai visto il commento di Giannuli a Di Battista? http://www.beppegrillo.it/2014/08/il_terrorista.html
RispondiEliminaHai notato quando cita l'Urss (!!!)? Sembra un pezzo copincollato da qualche vecchio comunicato, non e` che ci faresti un'analisi filologica come solo tu sai fare? (Tanto manca ancora un mese all'inizio della scuola, dai…)