La spia - A Most Wanted Man (Anton Corbijn, 2014).
Lo spionaggio non è più quello di una volta. Ora si chiama antiterrorismo, si combatte con strumenti simili ma il nemico si è fatto più sfuggente, impalpabile. Günther è un artigiano dell'intelligence tedesca, con qualche errore alle spalle e una battaglia quotidiana con l'alcool ormai persa. Esiliato ad Amburgo, riesce a fiutare con la sua piccola squadra una pista di denaro che da onesti filantropi islamici arriva ad Al-Qaeda: gli serve soltanto un amo per far abboccare il pesce grosso, e forse la fortuna per una volta ha deciso di stare dalla sua parte, servendogli Yssa, un profugo ceceno con un padre importante. La storia funziona, anche se diciamo la verità: mi accontenterei anche di molto meno, perché Günther è interpretato da Philip Seymour Hoffman, e io un film con Philip Seymour Hoffman me lo guarderei anche se fosse l'autobiografia di un impiegato del catasto celibe. Il film ha in realtà un cast notevolissimo (Willem Dafoe, banchiere allupato; Rachel McAdams, attivista radical di buona famiglia; Robin Wright, gelida emissaria della Cia), ma PSH finisce per reclamare tutta l'attenzione per sé.
A questo punto non è solo l'apprezzamento per un attore straordinario - meglio arrendersi: io non saprei proprio dire se Hoffman fosse davvero bravo come tutti dicono. Probabilmente sì, ma se tra tante ottime interpretazioni ne avesse infilato qualcuna scadente, se in un film ogni tanto si fosse letteralmente dimenticato di recitare, non me ne accorgerei nemmeno. Per fare un esempio, in A Most Wanted Man PSH recita con un forte accento tedesco. È una scelta incomprensibile: il suo personaggio è un tedesco che vive in Germania, e la maggior parte del tempo discute altri tedeschi che parlano, come lui, in inglese, ma senza accento tedesco. Persino Daniel Brühl - qui degradato a caratterista - non ha l'accento. PSH ce l'ha, e non se ne capisce il motivo. Si vede che gli andava di recitare così. Qualsiasi altro attore sarebbe riuscito fastidioso, lui no.
La naturalezza con cui riempie di vita il suo personaggio ha come sempre del miracoloso, ma potrebbe essere tutta autosuggestione. O la pancia (continua su +eventi!) Nel suo ultimo anno di vita PSH ne portava una ormai assolutamente antihollywoodiana, che ogni tanto spunta da una camicia o una maglietta della salute, e da sola conferisce al film una profondità realistica che forse Anton Corbijn non aveva nemmeno calcolato. Prima ancora di essere un asso dell'antiterrorismo Günther è un corpo che suda, che sbadiglia, che ha sete o sonno o voglia di fumare. Quando abbraccia paterno il suo confidente, dà veramente la sensazione di un padre con la barba ruvida e il fiato nicotinico. Quando a metà film gli capita di stendere un tizio al bar, riesce a essere al contempo efficace e patetico. Il copione gli serve un'abbondante quantità di sequenze in cui deve semplicemente guardare il vuoto mentre fuma o beve o anche niente - probabilmente nei capitoli corrispondenti il personaggio di Le Carré rifletteva sulla situazione o sulla sua missione.
Queste scene silenziose, che con altri attori sarebbero probabilmente risultate pretenziose e irritanti, PSH riesce a farle funzionare. Soprattutto quella sequenza finale che non dovrei raccontare, in cui poi non è che faccia molto: caccia un urlo, si ficca in macchina, comincia a guidare, spegne la macchina - ma nel frattempo noi spettatori siamo nella macchina con lui, fissiamo come lui il parabrezza senza guardarlo veramente, e riflettiamo su come vanno le cose e su quanto siamo stati stupidi a provare a ingannarle coi nostri piccoli piani; quanto siamo stati sciocchi a fidarci ancora, a dispetto di tutto, di qualcuno o di qualcosa. Il sapore plumbeo della sconfitta, ce lo fa sentire in bocca. A most wanted man è al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo alle 14:45, alle 17:20, alle 20:00 e alle 22:45.
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