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giovedì 30 luglio 2020

Le canzoni dei Beatles (#30-21)

Buongiorno a tutti, ormai siamo in dirittura d'arrivo. A proposito, secondo voi qual è il disco migliore dei Beatles? Perché Sgt Pepper, ci avete fatto caso? È ancora in gara con un pezzo soltanto. Mentre Revolver, per dire, ne ha tre. Ma anche Rubber Soul ne ha tre. Anche Abbey Road. Invece Help! ne ha quattro. Buffo, vero?

Ricordo a tutti che la classifica non la faccio io, anzi io mi dissocio formalmente, è la media di tutte le classifiche redatte dai giornalisti musicali, credo che li assumano soltanto se dimostrano di non percepire la differenza tra Il flauto magico e una mietitrebbia.


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30.  Nowhere Man (Lennon-McCartney, Rubber Soul, 1965).

Uomo di Nessun Dove, il mondo aspetta i tuoi ordini. Quando lo andò a trovare qualche mese dopo, nella sua villa di Weybridge, la giornalista Maureen Cleave trovò un John Lennon sospeso tra inquietudine e apatia, isolato dal mondo in un villino ingombro di elettrodomestici e gadget di cui si era stancato a volte prima di scartarli. Lennon non poteva rinunciare a dire spiritosaggini – era il suo personaggio – e a un certo punto gli scappò detto che non vedeva molto futuro per il cristianesimo, forse non sarebbe sopravvissuto neanche ai Beatles. Una battuta a cui in Inghilterra nessuno fece caso, ma che ripresa dalla stampa americana alla vigilia di un tour scatenò una delle prime shitstorm di cui la storia del costume sia a conoscenza: minacce di morte, roghi di dischi, eccetera. L'intervista della Cleave è passata alla storia per quella battuta, ma rimane anche un bell'esercizio su quello che stava per diventare un topos giornalistico: il ritratto della giovane rockstar alienata. La stanza dei giocattoli, le auto di lusso che Lennon compra e rivende perché ha paura di spendere tutti i soldi che guadagna, salvo ricomprarle subito dopo... è tutto già così perfetto e familiare da seminare un dubbio: non è che Lennon stesse recitando, come aveva sempre fatto davanti ai microfoni dei giornalisti? Era davvero così compreso nel suo ruolo di divo con piscina e Rolls Royce, o non stava semplicemente dando al pubblico quello che il pubblico si aspettava da lui, quello che il pubblico si aspetta ancora oggi, un'ostentazione spudorata di status symbol, tratti eccentrici e sintomi di alienazione? Essendo inglese non poteva candidarsi alla Casa Bianca come Kanye West; si limitò a un po' di dissing su Gesù Cristo. Non stava semplicemente fornendo ai fan una specie di tableau vivente del brano che era appena uscito come singolo negli USA, Nowhere Man?

Quando non faceva il matto davanti ai giornalisti e non era in tour da qualche parte, John aveva pur sempre un gruppo da portare avanti. La tabella era sempre quella concordata con Brian Epstein tre anni prima: due album e quattro singoli all'anno. Ormai ci si aspettava che gli album fossero composti tutti di materiale originale, che non si scriveva da solo, per cui no: Lennon non è che non stesse facendo nulla tutto il giorno. Il problema dell'artista (e soprattutto di chi gli vive intorno) è che è quasi impossibile distinguere i momenti in cui sta creando da quelli in cui sta cazzeggiando. Si capisce che gironzolare mezzo fatto per la casa non restituisce una buona impressione di te, ma se sei il tizio che scrive le canzoni di Lennon-McCartney può darsi che sia il modo più proficuo di passare il tempo.Un buon esempio è proprio la leggenda di Nowhere Man: dopo cinque ore passate a cercare una canzone che non gli veniva, Lennon si butta sul letto, comincia a osservare dall'esterno quel sé stesso che si dibatte tra noia e velleità, ed eureka: ecco Nowhere Man. Quando non riesci a trovare niente da dire, puoi sempre mettere in scena te stesso che non riesce a trovare niente. Due anni prima Federico Fellini ci aveva fatto un film: Nowhere Man è l'8 e 1/2 di Lennon.

Né dobbiamo credere per forza che le ore passate prima di buttarsi a letto fossero state infruttuose: magari le aveva passate ad ascoltare qualche disco d'importazione. In febbraio negli USA era uscito Bringing  It All Back Home, il disco in cui Dylan suonava per la prima volta con una band. Ma il brano che probabilmente doveva averlo colpito di più era ancora acustico: si chiamava Mr Tambourine Man. In marzo poi un gruppo californiano aveva pubblicato la sua versione 'elettrica' di Mr Tambourine Man: si facevano chiamare Byrds e le loro chitarre ricordavano smaccatamente la 12 corde usata da George Harrison in Ticket to Ride: insomma se Lennon avesse voluto copiarli, non avrebbe che "riportato tutto a casa".

Alcune caratteristiche formali di Nowhere Man si spiegano proprio se si confrontano con quello che stava succedendo negli USA: per la prima volta un bridge compare tre volte (ciononostante la canzone è ancora breve rispetto ai modelli dylaniani). Le chitarre danno la loro versione del jingle-jangle byrdiano: Paul ricorda con soddisfazione di avere costretto i tecnici del suono a oltrepassare i limiti della strumentazione disponibile, facendo passare le chitarre da un amplificatore intermedio per aumentare le frequenze alte oltre il consentito. Persino la scelta di non correggere la lieve dissonanza tra il coro iniziale e gli strumenti in entrata potrebbe essere un tentativo di aggiornarsi al suono 'sporco' che negli USA era l'ultimissima novità – Dylan in studio a volte non si preoccupava nemmeno di accordare la chitarra, e Dylan era la cosa più hip che ci fosse. Si dice che Nowhere Man sia il primo brano dei Beatles che non parli d'amore: in superficie è proprio così, ma dopotutto è una canzone di John su sé stesso: c'è più amore qui che in Day Tripper. Qualche anno più tardi Dylan avrebbe spiegato in un'altra celebre intervista che molte canzoni che credeva di dedicare agli altri, in realtà erano rivolte a sé stesso. Lennon, mentre fissava il soffitto della sua camera da letto di Weybridge, lo aveva già capito.



29.  Rain (Lennon-McCartney, lato B di Paperback Writer).



Sempre a Weybridge una sera, dopo essersi rollato un joint, Lennon spinge un bottone perché vuole riascoltare il brano a cui sta lavorando. Viene investito da una canzone mai sentita: eppure è lui che canta, anche se è come se chiamasse da un mondo al di là dello specchio. Rimane perplesso per qualche istante (il joint in mano), prima di capire: ha montato la bobina a rovescio, sta ascoltando l'esatto contrario di quello che ha inciso ad Abbey Road. Niente di così strano, tranne che la canzone gli piaceva di più così.

Il giorno dopo cerca di spiegare ai colleghi e a George Martin che Rain suona meglio alla rovescio. Alla fine Martin acconsentirà ad inserire almeno un frammento invertito della traccia vocale di John nel finale (nei video musicali che vengono girati, John dovrà mimare anche questa traccia invertita). È un episodio famoso forse più di quanto meriti – di tante innovazioni tentate con Rain, la voce alla rovescio è la più appariscente ma la meno incisiva. L'episodio fotografa comunque un John Lennon che dopo tre anni di esperienza vive ancora la sala prove come una stanza di giocattoli da smontare alla ricerca di qualche effetto inatteso e divertente. È anche il sintomo di una resa: su Rain si poteva osare di più perché in fondo era chiaro dall'inizio che sarebbe stato solo un Lato B. È come se dopo il passo falso di Day Tripper, Lennon cominci a ritirarsi in un ghetto creativo: se Paul davvero vende di più, John diventerà l'anima sperimentale della band (il ruolo che in precedenza Harrison aveva iniziato a ritagliarsi).

Rain è un brano che dà sempre l'impressione di restare un po' nascosto – per quanto possa restare nascosto un brano dei Beatles. C'è un motivo semplice: era un lato B, appunto, e Allen Klein non volle inserire lati B nell'antologia ufficiale del periodo 1962-66, il cosiddetto Disco Rosso. Lo spazio c'era, ma in effetti Rain, che pure è il brano in cui Ringo Starr ritiene di avere dato il meglio di sé, non è quel tipo di canzone che metteresti in vetrina. Gli è perfettamente congeniale la sua dimensione di lato B, che oggi non possiamo più percepire: se nei primi anni della Beatlemania il lato B era quello dedicato al lento, verso la metà degli anni Sessanta ormai dedicare tempo all'ascolto dei lati B era la forma di snobismo più a buon mercato cui i giovani consumatori di musica potessero accedere. Il lato B era diventato lo spazio per gli intenditori: se il lato A era la vetrina, il B era il retrobottega dove gli esercenti tenevano da parte per la clientela più affezionata le cose veramente buone o comunque un insolite, non per tutti. E cosa c'era di 'buono ma non per tutti', all'inizio dell'anno di grazia 1966, nel menu dei Beatles? Un brano volutamente sfuocato, compresso, saturato che dà l'impressione di rallentare in corsa finché a un certo punto non è più un'impressione: rallenta davvero. Il ritornello, anche se non ha nulla di specificatamente indiano, comincia a suonare come un mantra.

Anche l'idea di accelerare o rallentare le tracce vocali e strumentali non l'hanno inventata i Beatles – è sempre stata un'opzione, sin dall'invenzione del fonografo. Alcuni musicologi sono convinti che le registrazioni degli anni '20 di Robert Johnson siano accelerate del 20%: per un secolo tutti gli apprendisti blues e poi rock avrebbero tentato di imitare uno stile molto più svelto del suo. Ma prima dei Beatles era un trucco tenere i dischi più brevi e farli suonare meglio; ai limiti un gioco per divertire i bambini (i Chipmunks prima ancora di diventare personaggi televisivi erano un gruppo vocale che registrava cover accelerate). Con i Beatles il trucco diventa una tecnica, esplorata in tutte le sue potenzialità e a volte persino esibita. In Rain Lennon chiede a Martin di rallentare gli strumenti e accelerargli la voce; del resto è la canzone che parla di un uomo che non vive alla velocità degli altri, e non capisce più l'affanno di chi ancora subisce il tempo atmosferico ("posso mostrarti che è solo uno stato della mente", ok John, io l'ombrello comunque me lo porterei). È l'equivalente musicale di quei video girati in time-lapse in cui una persona quasi ferma si staglia su uno sfondo di persone o automobili che sciama a velocità rapidissima. Sui forum di fotografia qualcuno lo chiama "effetto Koyaanisqatsi", dal nome del celebre film sperimentale che negli anni '80 rese popolare il time-lapse. La progressione armonica è più semplice del solito – come del resto nel brano in vetrina, Paperback Writer: la sperimentazione della coppia Lennon-McCartney si è spostata dagli accordi ai suoni e ai nastri; ormai i loro veri strumenti sono gli amplificatori, gli equalizzatori, i magnetofoni a bobina. Non c'è più nulla che non si possa fare: la pioggia può suonare come il sole, è tutto uno stato della mente.



28. Here, There and Everywhere (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

"Per vivere una vita migliore ho bisogno che il mio amore sia qui..." è abbastanza significativo che la canzone che parla della necessità di non separarsi mai dall'amata ("ogni giorno dell'anno") provenga dall'unico Beatle che nel 1966 viveva felicemente scapolo. Mentre John deve "nascondere il suo amore" e ricorrere a giri di parole sempre più immaginifici per cantare le sue avventure senza insospettire Cynthia, Paul è libero di uscire e tornare a casa all'ora che vuole, e se non ha sonno mettersi a fantasticare di come sarebbe bello avere lei in ogni giorno dell'anno. Ci può anche scrivere una canzone senza che nessuno venga a disturbarlo. Ma cosa significa scrivere una canzone? Per Paul è spesso una questione strutturale: si tratta di costruire un piccolo mondo, anche solo un appartamento.



Tra le caratteristiche inconfondibili dei giovane compositore McCartney c'è l'abitudine a variare la progressione armonica nel bel mezzo della strofa creando nell'ascoltatore un effetto sorpresa (i compositori suoi coetanei, se riescono ad azzeccare quattro accordi se li tengono, a volte per sicurezza non li cambiano nemmeno per il ritornello). Here There è l'esempio classico: si annuncia come canzoncina dolce dolce in quattro accordi, una scala ascendente lungo un intervallo di quarta (Sol, La-, Si-, Do) che ci fa desiderare di sbucare sul Re che completerebbe la quinta – e proprio quando ce l'aspettiamo Paul cambia tutto con Fa#-. Bisogna fare caso anche al testo: Paul ha appena detto "changing my life" e il Fa#- imprevisto avviene proprio "with a wave of her hand": scrivere canzoni non significa proprio costruire mondi che possono cambiare con un gesto della mano? È come se a un certo punto mentre ci mostrava il suo ménage immaginario, abbia aperto una porta e ci abbia condotto in una stanza diversa, da cui finalmente si accede al Re sospirato ma ormai inatteso.

E il bridge? È un'altra stanza ancora: per arrivarci si passa da uno strano scalino (Re-Fa-Sib) e quando per un attimo siamo convinti di esserci finalmente accomodati in una confortante 50s progression (Sib, Sol-, Do-), il quarto accordo è un Re7 e non sai più bene se sei nel vestibolo o nel salotto buono. Invece di accendere la luce Paul si è messo a intonare una melodia rétro ("and if she's beside me I know I need never care"); non fai in tempo ad ambientarti ("but to love her is to meet her...") che Paul accende la luce davvero e scopri che sei al punto di partenza! ("everywhere"). E non può non lasciarti ammirato il modo in cui il bridge si appoggia naturalmente sulla strofa successiva, persino dal punto di vista sintattico ("knowing that love is to share": non sono molte le canzoni in cui una frase comincia nel bridge e prosegue nel ritornello). Sei tornato da dove avevi cominciato, ma ora vedi tutto con un occhio diverso. Ci sono canzoni di McCartney che suscitano entusiasmo, affetto, malinconia, diffidenza (persino ripugnanza...): Here, There è la canzone che suscita ammirazione. Lennon la considerava una delle sue preferite non solo di McCartney, ma dei Beatles, e in effetti nel modo in cui il bridge trapassa immediatamente nella strofa riconosciamo un suo vecchio trucco di scena; a sua volta Lennon avrebbe fatto tesoro della principale suggestione di Here There, l'idea di una canzone che si rovescia in sé stessa come una scala di Escher. Il tratto distintivo più appariscente della canzone rimangono comunque i languidi coretti, un richiamo senza vergogna ai numeri dei crooner anni Quaranta. È uno dei rari casi in cui abbia ammesso un ripensamento, quando nel 1984 ripubblicò il brano nella colonna sonora di Give My Regards to Broad Street.



27.  You've Got to Hide Your Love Away (Lennon-McCartney, Help!, 1965).

Eccomi qui, con la testa tra le mani. You've Got to Hide, lo dicono tutti, è la canzone in cui Lennon si rifà a Dylan. Diciamo pure che rifà Dylan: il timbro della voce rasenta la caricatura. È l'elemento più dylaniano di una canzone che non somiglia in particolare a nessun brano del Dylan folk – la parentela più probabile è con I Don't Believe You, in Another Side, che comincia con una rima molto simile, "I can't understand / she let go of my hand". In quegli anni la voce di Dylan era una sfida a tutto ciò che si poteva considerare radiofonicamente accettabile (un po' è ancora così: avete sentito per caso qualche brano del suo ultimo disco per radio?) Che i Beatles tentassero di imitarlo non era affatto scontato.

Dylan era un fenomeno di nicchia, anche in Inghilterra (dove la sua svolta rock avrebbe destato le reazioni peggiori nei fan): cominciava a essere un nome importante tra i frequentatori abituali dei negozi di dischi; era già il volto più celebre di quella cosa che di lì a poco si sarebbe cominciata a chiamare Controcultura; esibire i suoi dischi su mensole e tavolini conferiva già a studenti e professionisti un certa credibilità intellettuale. I Beatles, ormai onnipresenti sui media, giocavano in un altro campionato. Dylan avrebbe avuto tutti i motivi per disprezzare quei figurini venuti dal vecchio mondo a profanare la vera essenza dello spirito americano, la sua musica; invece li trovava fantastici sin dal primo momento impazziva proprio per le cose più smaccatamente pop, come I Want to Hold Your Hand, e non vedeva l'ora di incontrarli e fumarci assieme. Lennon dal canto suo avrebbe avuto più di un motivo per riservare a Dylan la stessa diffidenza che riservava ai coetanei che fino a quel momento potevano aspirare soltanto a porzioni della sua fama. Dylan in effetti è il più giovane tra gli autori che hanno avuto un peso rilevante nella sua formazione artistica: l'unico coetaneo che abbia preso a modello.

A Lennon non interessa copiare una progressione di accordi o altri trucchi del mestiere. La maggior parte continua a portarseli da casa (persino  nel ritornello di questo 'pezzo folk' si annida la cara vecchia cadenza I-IV-V di Twist and Shout): gli interessava l'atteggiamento, un modo completamente diverso di porsi nei confronti del pubblico, e che rendeva credibili tutta una nuova gamma di sentimenti che fino a quel momento John non aveva mai tentato di mettere tra i solchi. You've Got to Hide ritrae un innamorato frustrato e senza speranza che in effetti somiglia all'eroe di molte ballate acustiche di Dylan. Ma è proprio a questo livello che possiamo misurare la distanza: per Dylan la frustrazione sentimentale è sempre una questione intima, che al limite può essere condivisa con l'oggetto del proprio amore sfortunato (e delle proprie recriminazioni, che Dylan protrae per strofe e strofe).

Per Lennon questa intimità non esiste: ogni sentimento è un fatto sociale che assume un senso solo se c'è un coro che ascolta, osserva, commenta, e in questo caso gli ride in faccia: ehi, bisogna che quell'amore te lo metti via. Esiste un amore se nessuno lo guarda? You've Got to Hide è il lato oscuro di I Feel Fine: se per essere felici del proprio amore è necessario vantarsi con qualcuno, è proprio l'esistenza di tutti questi qualcuno a rendere insostenibile la situazione in cui l'amore non va in porto. Lennon è circondato da un coro di osservatori in maschera da clown che lo spìano, lo giudicano, lo irridono, lo costringono a coprirsi la faccia e voltarsi verso il muro. La ragazza quasi non c'entra, anzi sembra compassionevole. Una volte gli aveva persino detto "l'amore troverà una strada". (Due anni dopo, alla festa per il lancio di Magical Mystery Tour,  Lennon imbarazzerà gli ospiti danzando tutta la sera con Patti Boyd Harrison).



26.  Paperback Writer (Lennon-McCartney, singolo del 1966).

"Gentile signore / gentile signora, leggereste il mio libro?" Nell'anno precedente la Arnoldo Mondadori Editore aveva tentato un esperimento: una collana di libri da vendere non nelle librerie, ma in edicola, in un formato tascabile (o come si dice in inglese, "paperback"). Il romanzo scelto per la prima uscita fu Addio alle armi di Ernest Hemingway, un titolo che le librerie italiane sfoggiavano ormai da vent'anni, ma chissà, forse in questo nuovo formato avrebbe intercettato un pubblico diverso. Sulla fragile copertina in cartoncino campeggiava ben evidente il nome piuttosto pacchiano della nuova collana, "Gli Oscar", nonché l'aspetto più allettante dell'edizione, il prezzo: sole 350 lire! Ne stamparono sessantamila copie, una follia. Finirono in giornata. Scoppiava anche in Italia il boom dei tascabili, "i libri-transistor che fanno biblioteca", si leggeva nel risvolto di copertina. "A casa, in tram, in autobus, in filobus, in metropolitana, in automobile, in taxi... Gli Oscar sono gli Oscar dei libri: si rinnovano ogni settimana, durano tutta la vita". Si sarebbero scollati molto prima, come ognuno di noi ben sa.

Nel Regno Unito la situazione era diversa, per il solito motivo che i britannici leggono di più. I paperback esistevano da inizio secolo e un boom delle vendite, se c'era stato, era avvenuto durante la Seconda Guerra, in un momento in cui i lettori si erano trovati più spesso in viaggio, sfollati o al fronte. I paperback erano il regno della letteratura di genere, e avevano spodestato le riviste pulp: gialli, intrighi di spionaggio, "sword and sorcery" (il termine fantasy doveva ancora prendere piede). Il protagonista di Paperback Writer non aspira alla fama di un Hemingway, non cerca l'Oscar: vuole scrivere robaccia che entri nelle case di tutti. Non lo spinge la sete di gloria, né la prospettiva di un guadagno. Non vuole finire come il padre, non vuole lavorare per sempre al Daily Mail. Quello che vuole fare nella vita è scrivere migliaia di pagine alla settimana – it took me years to write, will you take a look? Se riuscisse a farne un mestiere, sarebbe l'uomo più felice sulla terra, (dopo McCartney, ovviamente).

Pungolato dalla zia Lil, che voleva sentire almeno una canzone che non fosse d'amore, Paul ritorna sul sentimento che tutti nel 1966 hanno il diritto di provare, tranne lui: l'ambizione. Ma l'aspirante scrittore-di-tascabili non è animato come la ragazza di Drive My Car dalla fede nel successo finale, bensì da un desiderio irrefrenabile di creare mondi immaginari in cui forse rinchiudersi – anche se alla fine, non importa in quale galassia ambienti la tua saga, per qualche bizzarro motivo ci trovi dentro tuo padre. Proprio come Paul, che da lì a poco comincerà a intravedere l'ombra di "Father McCartney" sui set delle sue canzoni, l'aspirante scrittore di paperback comincia a inventarsi un personaggio ("è la lurida storia di un lurido uomo, e la sua affezionata moglie non lo capisce") e solo dopo un verso si rende conto che è di lui che la favola sta narrando. "Suo figlio lavora per il Daily Mail, è un bel posto fisso, ma lui vuole fare lo scrittore di paperback".

Sul piano musicale, Paul dichiara di voler proseguire l'esperimento già tentato da John con The Word, la canzone su un accordo solo: alla fine ne adopera due ma scarta l'intervallo più tipico, quello di quinta, come se una canzone senza amore non avesse diritto a sbocciarvi. La canzone rimane costretta in un più angusto intervallo di quarta che non si risolve mai – proprio come le richieste del protagonista non trovano mai un riscontro. È come se Paul stesse tentando di operare una sintesi tra le due anime che si erano espresse nel singolo di quattro mesi prima: Paperback è una canzone veloce (forse la più veloce di tutte) basata su un riff, come Day Tripper: come We Can Work It Out  s'interrompe all'improvviso per lasciare spazio a un elemento vistosamente non-rock, un mini-coro a cappella che è rimasto a tutt'oggi uno degli stilemi più noti dei Beatles, e che però fino al 1966 non si era ancora sentito – e che anche in seguito i Beatles avrebbero adoperato con parsimonia. Il fatto che abbia lasciato un solco tanto profondo è la prova di quanto suonasse già allora caratteristico. Benché non compaia nessuno strumento classico, contiene già un rimando irresistibile alla 'musica seria': sta a Bach come i paperback stanno ai classici della letteratura. Il coro appare come una parrucca incipriata o una corona d'alloro che si cala all'improvviso sull'aspirante scrittore: il testo non lo dice, ma il coro ce lo fa capire, il ragazzo ha la stoffa. Forse non diventerà mai famoso, ma nella sua stanza, mentre batte a macchina centinaia di lettere al minuto, Paperback Writer è felice.


25. Can't Buy Me Love (Lennon-McCartney, singolo, del 1964, poi in A Hard Day's Night)

“Poi siamo andati in America, abbiamo fatto un giorno di vacanza a Miami ed è stato incredibile. C'era un mucchio di ragazze belle, sexy e abbronzate. Abbiamo fatto un servizio fotografico sulla spiaggia con loro e naturalmente abbiamo proposto loro di uscire con noi. La MG stava per mettere in vendita una sua nuova automobile, una decappottabile, e ce ne prestò una a testa proprio per farsi pubblicità. Ricordo di aver portato a cena una di quelle ragazze con questa automobile, ricordo quella notte in Florida, con le palme che ondeggiavano alla brezza. Un ragazzotto di Liverpool con una bella ragazza così in una decappottabile MG... avrei dovuto scrivere Money Can Buy Me Love, altro che can't!”

D'altro canto, cosa c'è di più swag di cominciare una canzone con "ti comprerò un anello di diamanti, amica mia, se questo ti fa stare bene"? Paul si fa venire in mente una frase del genere a Parigi in una camera di hotel che gli costa più o meno tutto quello che gli rende suonare all'Opéra dopo Sylvie Vartan. Non ha idea di quanto sta guadagnando, non ha idea di quanto sta spendendo, l'unica cosa che ha capito del denaro è che non ci può comprare l'amore ma non ne è nemmeno così sicuro. Però "tutti gli dicono così" (Everybody tells me so), e lui si fida. Can't Buy Me Love è l'apogeo della Beatlemania: lo incidono nell'esatto momento in cui I Wanna Hold Your Hand arriva in cima alla top100 americana. Andrà dritto al primo posto subito dopo I Wanna Hold e She Loves You, nel momento in cui nella stessa top100 ci sono 14 singoli dei Beatles. Nel 1963 tutto questo equivale a un sacco di soldi che Paul non è in grado di contare. Quello che può fare è cavalcare l'onda, comprando mobili e immobili prima che i soldi vengano assorbiti da qualche professionista di management o dagli uomini del fisco. Nel momento in cui in America nascono gruppi fotocopia come i "Beetles", nessuno ha bisogno che il prossimo singolo sia un capolavoro, davvero: e in effetti non lo è.

È anzi un brano atipico, in un momento in cui l'immagine dei Beatles dipendeva da una serie di stilemi molto riconoscibili: erano quelli che cantavano "Yeah Yeah", e Paul qui canta "No no no, no". Erano famosi per i coretti armonizzati in modo molto peculiare, e qui i Quattro, dopo averli incisi, decidono di farne a meno: scelta coraggiosa. Erano riconoscibili per le progressioni imprevedibili, e qui Paul opta nella strofa per uno schietta e prevedibile progressione blues. Suonano una miscela di rock e pop, ma qui Paul sembra avere in mente qualcosa di più classico e swingante, e più tardi si sentirà onorato della versione di Ella Fitzgerald. Come se i Beatles fossero già stanchi della formula che li sta coprendo d'oro – o semplicemente non hanno nient'altro per le mani e bisogna battere il ferro finché è caldo. In fondo poteva finire tutto tanto rapidamente quanto era iniziato, e cosa sarebbe rimasto? La consolante idea che con tutti quei soldi piovuti ed evaporati non avrebbero potuto comprarci un grammo d'amore. O no?

Can't Buy esce su singolo insieme a You Can't Do That: su un lato John si atteggia a maschio possessivo, sull'altro lato Paul spergiura che i soldi non danno la felicità. Suonano credibili entrambi, ma è solo l'inizio del 1964.





24. Blackbird (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).

Take these broken wings and learn to fly. A Rikikesh come è noto Lennon e McCartney fecero progressi con la meditazione, ma soprattutto col fingerpicking. È emozionante notare come malgrado il maestro fosse lo stesso, i discepoli abbiano sviluppato immediatamente due stili completamente diversi – del resto il fingerpicking è una delle tecniche più idiosincratiche, ognuno ha una mano diversa e la chitarra se ne accorge più di altri strumenti. Se Lennon è più ossessivo, quasi alla ricerca dell'equivalente chitarristico di un mantra, Paul approfitta subito della possibilità di trattare la chitarra come una piccola orchestra, con una chiara ripartizione dei ruoli tra corde basse e acute. Una cosa di cui probabilmente nessuno si sarebbe accorto se Paul non ce l'avesse raccontato è che Blackbird trae ispirazione nientemeno che da da una breve frase della Bourrée in Mi- di Johann Sebastian Bach che John e Paul suonavano alle feste per dimostrare "che non eravamo stupidi come sembravamo". Ma siccome non erano nemmeno così brillanti, la loro Bourrée abortiva spontaneamente dopo otto battute (qualche anno più tardi una versione più completa sarebbe diventata un cavallo da battaglia dei Jethro Tull in concerto).

Quando a Rikikesh Paul scopre le potenzialità polifoniche della chitarra, l'indice della mano sinistra corre istintivamente sui tasti di quella bourée. Ricordiamo che il fingerpicking, che nel giro di pochi anni diventerà un luogo comune della cultura giovanile, nel 1968 era qualcosa di pionieristico che Donovan raccontava di aver appreso in Europa mentre viaggiava in una carovana di gitani. Comporre un brano in questo stile significa letteralmente brevettare diteggiature e accordi che nessuno ha ancora sentito: per qualche anno il segreto di come si suona Blackbird sarà gelosamente custodito e passerà solo da bocca di hippy a orecchio di hippy. Blackbird può approfittare di quell'estetica del non finito che trionfa nel Disco Bianco: qualche anno prima lo stesso Paul avrebbe sentito l'esigenza di annegarla nei violini, com'era successo a Yesterday. Nel 1968 i tempi sono maturi perché sul disco della band più famosa del mondo compaia un breve brano acustico col rumore del battito del piede in sottofondo. Quasi un invito ai chitarristi di tutto il mondo a cimentarcisi: prendete quelle ali spezzate, anzi quelle dita, e spiccate il volo. A parte il merlo ridondante in sottofondo, la stiamo ascoltando come l'ascoltarono le Apple Scruffs, le ragazze che si appostavano tutta la notte davanti all'appartamento di Paul, a cui una sera la suonò dal balcone, come una serenata al contrario (forse anche un invito a farsi una vita).

(Anche stavolta Paul non si risparmia un paio di incongruenze: come si fa a imparare a volare con "ali spezzate"? Come si fa a volare "nella luce di una notte buia e oscura"?).

Diana Ross e Brian Jones nel 1968.
Un'altra cosa che non potremmo immaginare se Paul non si fosse preoccupato di raccontarcela, è il contenuto politico del brano, che secondo Paul era indirizzato alle lotte degli afroamericani per i diritti civili. Un classico esempio di attribuzione post-rem: anche se Paul fosse in buona fede, esiste davvero una dedica se nessuno si accorge che l'hai fatta? Sarebbe stato il gesto di engagement politico più coraggioso di tutta la traiettoria dei Beatles, salvo che nessuno ci fece caso. In una registrazione del 1969 sentiamo Paul affermare confusamente qualcosa del genere a Donovan; Paul sostiene tra l'altro di averla cantata a Diana Ross, e che lei se ne sia offesa ("she took offense"). Piccoli grandi choc culturali: agli afroamericani non piace essere accostati ad animali in virtù del loro colore, ma nel 1969 Paul non ne conosceva abbastanza per saperlo.
Non sembra una coincidenza il fatto che Blackbird appartenga a quel gruppetto di canzoni che cronologicamente Paul non poteva aver dichiarato a Jane Asher, ma che nemmeno poteva attribuire alla sua storia d'amore con Linda Eastmann. In quel periodo aveva una relazione un po' meno impegnativa con l'aspirante scrittrice Francie Schwartz. Francie era presente in Abbey Road durante le sessioni di alcuni brani del Disco Bianco, tra cui Blackbird, ma non sarebbe rimasta a lungo sullo stesso ramo di Paul. Ufficialmente non ci sono canzoni che parlano di lei. Blackbird dopotutto non deve parlare di nessuno in particolare: è una canzone che cattura semplicemente l'emozione di chi sta facendo qualcosa di fantastico per la prima volta. Cioè parla di sé stessa, e di quanto è fantastico riuscire a suonare per la prima volta Blackbird. Vola uccello nero, vola.


23. Come Together (Lennon-McCartney, Abbey Road, 1969).

Timothy Leary ma nel 1983, con la moglie
e Susan Sarandon
One thing I can tell you is you've got to be free. I Beatles nell'estate del 1969 erano finiti, John Lennon lo sapeva meglio di tutti e non ci vedeva niente di male. Quello che per noi beatlemani è la Caduta ineluttabile, per lui era un normale fatto della vita. Se in seguito avrebbe sviluppato un certo rancore per Paul, in quel momento l'idea del divorzio era una delle più lucide che gli attraversassero la mente. Ormai erano anni che lui e il socio non condividevano più la visione artistica: perché continuare a fingere che i Beatles esistessero ancora, che i loro dischi non fossero raccolte eterogenee di due solisti che per comodità si facevano accompagnare dalla stessa band? Per i soldi? Ma il più dei soldi finivano comunque in tasse o in disavventure commerciali che portavano soltanto a ulteriori frustrazioni. Non era nemmeno escluso che i quattro musicisti più famosi del mondo, separati, non avrebbero venduto ancora più dischi: quindi, davvero, che senso aveva continuare a stare assieme? Ognuno per sé e magari Allen Klein per tutti. Per essere il ragionamento di una rockstar bipolare ed eroinomane, era sorprendentemente sensato. Senonché Klein aveva appena firmato un contratto con la Capitol per altri due album. E... li stava fregando. Paul aveva capito che Klein li stava fregando, ma non aveva niente di meglio da proporre che la consulenza del neo-suocero. La sola vaga ipotesi di trasformare la Apple Corps in una ditta a trazione famigliare Eastman-McCartney ottenne il risultato di riavvicinare Lennon a Harrison e Starkey, portando Paul a una posizione isolata che non sarebbe stato emotivamente in grado di gestire.



One and one and one is three. Uno dei tipici problemi della band che si stanno sciogliendo, è che i membri che scrivono le canzoni cominciano a mettere da parte le migliori. Dando un'occhiata ad Abbey Road e ai dischi solisti che uscirono pochissimi mesi dopo, appare abbastanza chiaro chi dei due soci stava già pensando a organizzarsi una carriera da solista e chi invece non si rassegnava. Lennon di lì a poco avrebbe buttato fuori Instant Kharma, Mother, Imagine, Working Class Hero, ma quando in estate i Quattro si ritrovarono in Abbey Road per assolvere i doveri contrattuali, sembrava aver meno musica da offrire di George Harrison. Giusto quel blues composto nei giorni di Twickenham, a cui avrebbe imposto una coda sinfonica che nelle sue intenzioni sarebbe diventata la marcia funebre del gruppo; un altro strano ghiribizzo beethoveniano, e qualche scarto del Disco Bianco. Tra gli altri c'era anche un brano alla Chuck Berry che aveva iniziato a comporre per Timothy Leary quando si era candidato alla carica di governatore della California contro un ex attore di serie B, Ronald Reagan; Leary si era fatto arrestare per possesso di marijuana prima che Lennon finisse il pezzo e così lo propose a Paul, con la preghiera di farlo suonare meno chuckberriano possibile: il tizio aveva la denuncia facile. Il brano prendeva il nome dallo slogan elettorale di Leary, “Come Together”: forse per un attimo l'idea di usarlo come tappabuchi nell'album del divorzio gli sembrò ironica: per completare il testo gli sarebbe stato sufficiente rispolverare un po' di quel surrealismo un tanto al chilo che non lo appassionava più come ai tempi di Lucy, ma di cui restava il maestro: et voilà, una canzone in un qualche modo ci sarebbe saltata fuori ed era tutto quello che serviva a Klein, un'altra manciata di canzoni per tranquillizzare azionisti e avvocati.

Invece saltò fuori un capolavoro.

I Beatles nel 1969 erano diventati Cinque. Già durante la lavorazione del Disco Bianco Harrison aveva capito che le sessioni diventavano più proficue se si invitava un quinto musicista. In certi casi era l'unico modo per smettere di trattarsi da vecchi amici scazzati e cominciare a trattarsi da professionisti. Purché fosse un musicista valido – qualcuno davanti al quale avrebbero avuto pudore di sbagliare – e anche una vecchia conoscenza, come Eric Clapton, o Billy Preston. Get Back, il primo singolo del 1969 era attribuito a "The Beatles With Billy Preston": un modo di valorizzare un musicista della scuderia Apple, ma anche l'ammissione che Preston non era il solito turnista di lusso invitato a dare un sapore particolare a una sola canzone: al di là di alcuni assoli effettivamente strepitosi, il suo organo Vox cambia davvero il suono dei Beatles. Ha un timbro inconfondibile che ci rimanda immediatamente a quegli anni a cavallo tra '60 e '70; uno tocco che trasuda professionalità americana e quindi crea uno scarto percepibile con lo stile più emotivo degli altri Quattro. Ciononostante, a un certo punto Lennon buttò lì l'ipotesi di far entrare Preston nel gruppo. Chi lo diceva, in fondo, che i Beatles dovessero restare sempre gli stessi quattro inglesi fino alla fine? Magari avrebbero potuto diventare qualcosa di diverso, un collettivo organico che si modifica, adattandosi ai tempi, alle sfide. Lennon diceva tutto quello che pensava e a volte anche cose che non pensava davvero (una volta che Harrison aveva sbattuto la porta aveva buttato lì di sostituirlo con Clapton). Ma se per un un attimo l'idea di un gruppo da Cinque lo poté solleticare, probabilmente fu davanti al risultato di Come Together. Una canzone che aveva scritto quasi per sbaglio, chiedendo esplicitamente ai colleghi di stravolgerla: un blues virato in minore, che all'improvviso prende vita. Secondo George Martin la molla che fece scattare il meccanismo fu il riverbero di un battito di mani di John vicino al microfono, che combinato con una nota insistita del basso di Paul creava un senso di mistero, accresciuto da quella sibilata palatale un po' inquietante, "shoot me!"



Dopodiché entra Ringo, con una delle sue più folli idee batteristiche: quattro tocchi al charleston e dieci ai tom. In qualsiasi altro gruppo, un qualsiasi altro batterista non avrebbe avuto nemmeno il coraggio di proporre qualcosa che anche a cinquant'anni di distanza suona così grottesco: ma erano i Beatles, potevano fare tutto. Durante le sessioni di Abbey Road, Come Together diventa quel blues drammatico e sospeso che avrebbe potuto essere Helter Skelter, prima che Paul decidesse di trasformarlo in un monumento al frastuono. Quel titolo che era rimasto attaccato per caso fu di ottimo auspicio: Come Together è il risultato più alto dei Beatles nella formazione a Cinque. Fanno tutti qualcosa di indispensabile: Lennon canta i suoi nonsense come fossero profezie della fine, Paul lo appoggia alla voce ma il suo basso è il collante di tutto il brano; Ringo ci mette la fantasia; George capisce al volo che il brano ha bisogno di un assolo lento, ipnotico; l'organo di Preston aggiunge un'arcana profondità. Come Together era la risposta del Dio della musica alla domanda di Lennon: che senso ha restare assieme? ecco che senso ha, imbecille. In questo studio persino la tua spazzatura diventa oro: potrebbe essere l'unico luogo dell'universo dove 1+1+1+1+1= infinito, e tu vuoi rinunciare a tutto questo? Questi stivali da tricheco, sai dove dovrei piazzarteli?
Sparami.


22. All You Need Is Love (singolo del 1967 per la trasmissione in mondovisione Our World; poi nell'edizione Capitol di Magical Mystery Tour).



Non c'è nulla che puoi fare che non possa essere fatto. Non si vive di soli Beatles, per esempio gli inglesi nel 1967 andavano anche pazzi per un personaggio tv, una spia impersonata dall'attore Patrick McGoohan. Dopo un inizio abbastanza convenzionale, verso il 1967 il personaggio sembrava andato fuori di testa (un po' come i Beatles) e la sua serie era diventata l'esperienza più psichedelica che i telespettatori potessero fare da sobri (oltre ad ascoltare i Beatles). Ora la serie si chiamava The Prisoner e mescolava in libertà Orwell, Huxley, James Bond e la Nouvelle Vague, in un calderone paranoico non sempre comprensibile ma che lasciava il segno. L'ultima puntata era attesa nel febbraio 1968. È la puntata in cui McGoohan, detto Numero 6, dopo avere sconfitto tutti i Numero 2 che lo tenevano recluso in una strana isola-campo-di-rieducazione, chiede e ottiene di incontrare il Numero 1, il personaggio misterioso che manovra tutti i fili della trama e che nessuno ha mai visto in volto. Tutto questo lo sto raccontando perché The Prisoner continuò a essere programmato a lungo in Italia, persino sui canali locali, e l'ultimo episodio è il primo ricordo che ho di All You Need Is Love. Per me, prima di essere un inno alla pace e all'amore, era il brano sparato all'unisono da cinque jukebox nella galleria che conduceva Numero 6 al rifugio di Numero 1. Probabilmente non capivo le parole, e comunque le avrei trovate molto ironiche, perché l'unico vero tema di tutte le 17 puntate di The Prisoner è il Lavaggio del Cervello, e All You Need Is Love è in effetti la classica cosa che un pool di psico-spie potrebbe cantarti mentre ti lobotomizzano. Più tardi si risente durante una sparatoria.

Una canzone originale dei Beatles in una fiction è un caso molto raro: anche nei pochi casi in cui succedeva, le canzoni venivano poi eliminate dalla versione home video. L'ultima puntata di The Prisoner è l'eccezione, probabilmente perché (secondo la testimonianza del figlio di George Harrison) il programma piaceva tantissimo a uno o più Beatles: al punto che tra i progetti cinematografici ipotizzati dopo Help! era stata sul tavolo anche l'ipotesi di fare una cosa in stile Prisoner. Difficilmente sarebbe venuta peggio di quel che poi fu realizzato davvero, ovvero The Magical Mystery Tour. Ma diciamo la verità: difficilmente sarebbe venuta peggio dell'ultima puntata di The Prisoner, una pagliacciata così avvilente, un tentativo così fallito di nascondere la mancanza di idee sotto un tappeto di ambiguità metafisiche, che al confronto l'ultima puntata di Lost è un capolavoro. Perché vi sto parlando di questo?



Perché l'imprinting è importante e nella canzone che per tutti più rappresenta la filosofia dell'amore universale, io ho sempre voluto cercare un fondo di ironia e paranoia. E retrospettivamente, devo ammettere, ho maturato su All You Need Is Love gli stessi dubbi che mi sono venuti rivedendo l'ultima puntata del Prigioniero: punto supremo di una coraggiosa visione artistica e filosofica, o canzone realizzata in fretta e furia nascondendo sotto un tappeto di aforismi enigmatici una certa mancanza di idee? Bisogna dire che All You Need Is Love è invecchiata molto meglio di The Prisoner, ma questo è il minimo: tutta la musica del 1967 è ancora ascoltabile, quasi tutta la tv di allora non è più guardabile. Sia McGoohan che i Beatles avevano oggettivamente poco tempo a disposizione: McGoohan per risolvere i misteri che avevano incollato milioni di spettatori al tubo catodico, Lennon e McCartney per produrre qualcosa all'altezza del loro nome per il primo programma in mondovisione, che sarebbe andato in onda in diretta il 25 giugno 1967. Ogni nazione portava in vetrina qualcosa di nuovo, e di potenzialmente interessante anche per gli stranieri: l'Italia portò le telecamere sul set di Romeo e Giulietta di Zeffirelli; il Regno Unito propose i Beatles.

Costoro potevano contare (a differenza di McGoohan) di un collaboratore che non li tradiva mai e che dimostrò nell'occasione una versatilità straordinaria. Lennon aveva per l'occasione una canzone dal testo più che appropriato: semplice, universale, un po' enigmatico ma è meglio un buon enigma di una pessima spiegazione. Il guaio è che lo aveva scritto su un tempo sghembo impossibile, una specie di sette quarti, una battuta rock e una valzer: e pretendeva che un'orchestra lo seguisse, su un tempo zoppo del genere, in Mondovisione. Qualcun altro lo avrebbe mandato a quel paese; George Martin ci rifletté sopra: il tema iniziale gli ricordava la Marsigliese. Perché non mettere proprio la Marsigliese? Non bisognava pagare i diritti a nessuno, dopotutto, e ai telespettatori francesi magari avrebbe fatto piacere. E già che ci siamo, perché non infilarci un concerto brandeburghese? E In The Mood?

Nel 1967 George Martin coglie subito il punto: i Beatles stavano diventando un feticcio culturale. La mondovisione sarebbe stata la consacrazione: i Beatles come Zeffirelli, come l'opera, la selezione del Reader's Digest. All You Need Is Love si candidava a diventare un inno generazionale ma la tv l'avrebbe portata ancora più in là nell'empireo della cultura middlebrow. Una simile occasione meritava pompa e circostanza. Le citazioni di All You Need non sono ironiche, sono necessarie come i volumi in pelle che si sfoggiano sulla libreria di un salotto rispettabile, altro che paperback da mezza sterlina. Una rivendicazione in diretta tv: siamo i Beatles, la Marsigliese del Novecento la stiamo componendo noi, qui, in diretta, con i nostri amici. Al centro di tutto questo monumento che si stanno scolpendo addosso, i Quattro cercano se possibile di restare seri. Non ce la fanno del tutto. Paul si mette a incitare il pubblico come l'artista circense che forse preferirebbe essere. Alla fine qualcuno (non si è mai capito chi) si mette a cantare “Yeah Yeah Yeah She Loves You” sulle auguste rovine di In the Mood: ha perfettamente senso (e anche In the Mood era diventato un feticcio da pochissimo: la generazione precedente lo considerava un semplice brano ballabile). Eppure, quello “Yeah Yeah Yeah” sembra la scritta lasciata da un teppistello su un monumento.


21. I Am the Walrus (Lennon-McCartney, lato B di Hello Goodbye e Magical Mystery Tour, 1967).

LENNON: Io sono l'uomo uovo.
GLOUCESTER: Dite, mio buon signore, chi siete?
LENNON: Essi sono l'uomo uovo
EDGAR: Un pover’uomo domato dai colpi della Fortuna,
LENNON: Io sono il Tricheco...

Vale ancor più per I Am the Walrus lo stesso dubbio confessato per All You Need Is Love: geniale capolavoro o sublime presa in giro? E come nel caso di All You Need, non è che si debba per forza scegliere. I Am the Walrus potrebbe anche essere entrambe le cose. Ogni brano ha la sua leggenda, ma all'altezza di Walrus Lennon ne era consapevole e si divertiva manifestamente a confondere le acque. Ogni glossatore di Walrus si sente il dovere di elencare tutti i riferimenti già acquisiti: il tricheco è un famoso personaggio della solita Alice, un libro da John più citato che letto visto che si sarebbe accorto solo in seguito che si trattava di un bieco sfruttatore; "crema di materia gialla che cola dal cane morto" è il residuo di una filastrocca da cortile rammentata a John dall'ex compagno di giochi Pete Shotton; "Semolina Pilchard" sarebbe un riferimento al sergente di Scotland Yard Norman Pilcher, che lottava contro la droga indagando i VIP e aveva appena tentato di incastrare i Rolling Stones; i pinguini elementari che cantano Hare Krishna sarebbero un riferimento ad Allen Ginsberg o a i poser che credono che basti inneggiare a Krisha per salvare il mondo: nessuno però ha mai fornito un movente per il loro prendere a calci Edgar A. Poe. Tutto chiaro adesso? Rimane il dubbio: ha senso davvero occuparsi di tutto questo, ha senso discutere delle esperienze sessuali di Eric "egg-man" Burton con una ragazza caraibica e un uovo crudo, o chiarire l'identità della pornosacerdotessa che fa cascare le mutande a un ragazzo che sta facendo la birichina ("naughty girl")? Non stiamo semplicemente cascando a piedi pari nella trappola che Lennon ha allestito nel 1967, dopo avere scoperto che nelle scuole di Liverpool agli studenti venivano richieste interpretazioni dei suoi brani? Non è sufficiente derubricare il tutto a sberleffo nei confronti di chi insiste a farne un feticcio? Quattro anni prima era stato un critico musicale che si era ingegnato a trovare una "cadenza eolia" in una sua canzoncina per teenager; ora c'è già qualcuno che vuole mettere Strawberry Fields e Lucy in the Sky nelle antologie scolastiche, Lennon non ci sta.

Alla fine del 1967 I Am the Walrus richiama sin dalle prime note di mellotron il singolo uscito appena in febbraio, Strawberry Fields. In mezzo c'è stato uno degli anni più importanti della storia del costume e del rock; i Beatles hanno partecipato con un disco "en travesti" sospeso tra avanguardia e nostalgia che è andato bene ogni oltre più rosea aspettativa. È un anno che Lennon ha trascorso consumando LSD con una certa continuità, ma il brano che sembra voler riprendere Strawberry da dove si era fermata ci fa anche apprezzare la differenza. La sintassi franta e caotica di Strawberry, che sembrava davvero scritta in trance, lascia il passo a un nonsense compiaciuto che si ricollega al surrealismo giocoso degli scritti giovanili. È un Lennon che sta già cominciando a farsi il verso, e lo sa, e se ne diverte; i due brani di quel singolo di Natale sono forse l'espressione più pura di quella concezione di musica come gioco. L'orchestra di Martin, la radio che trasmette Shakespeare, il surrealismo, Alice: è tutto un giocattolo. Lennon si fa un punto di onore di usare tutti gli accordi della scala, che in inglese hanno le sette lettere dell'alfabeto: ABCDEFG, come un bambino che voglia usare tutti i tasti del suo strumento in miniatura. In particolare la cadenza del ritornello è bizzarra ma puerile: I-II-III.

Credo che chi ama I Am the Walrus ne colga soprattutto questa dimensione giocosa. Malgrado John continui a insistere che "sta piangendo": ma per una volta ci riesce più facile fidarci del video (una sequenza del Magical Mystery Tour) in cui ghigna per tutto il tempo. È anche merito di due compari che reggono il gioco in modo impareggiabile. Uno è Ringo Starr, che si prende cura della canzone offrendole un groove imprevedibile; di tutti i capolavori psichedelici Walrus è l'unico che si potrebbe ballare. Ringo ci crede particolarmente e allo stesso tempo non ruba mai la scena, anche perché questo spetta all'altro compare, George Martin.

I Am the Walrus è una di quelle canzoni che nascono più da uno stimolo cerebrale che da un'intuizione emotiva: Lennon vuole mettere alla prova le nostre derive interpretative e nel farlo non si preoccupa più di tanto di annoiarci. Il fatto che non succeda lo abbiamo sempre preso come una dimostrazione delle sue trascendentali capacità compositive... ma provate ad ascoltare su Anthology la stessa canzone senza l'orchestra diretta da Martin. Non diventa subito molto meno interessante? Martin considerava I Am the Walrus il suo score migliore, e parliamo del signore che aveva composto gli spartiti per Yesterday e Eleanor Rigby. Martin è solitamente considerato soprattutto l'anima sinfonica dei Quattro, sempre tentato dall'aggiungere violini e clavicembali là dove a volte non ce ne sarebbe bisogno. Lui stesso dopo l'avventura coi Beatles ha preferito presentarsi al pubblico come un rispettabile maestro d'orchestra: ma prima di incontrare gli stessi Beatles il suo mestiere era anche reperire suoni buffi per gli album di varietà che erano il core business della Parlophone,o per i programmi radiofonici di Peter Sellers. C'è in Martin una dimensione farsesca e giocosa che gli permise di individuare la stessa componente nei Beatles, e farla risplendere al momento giusto: più spesso quando lavorava con John. Dopo l'happening di A Day in the Life, con gli orchestrali invitati a mettersi in maschera e a suonare la fine del mondo; dopo il pandemonio postmoderno di All You Need Is Love; stavolta Martin convoca un coro di professionisti e li costringe a fare le boccacce ("hoo hoo haa haa"); obbliga nel finale gli archi a scendere mentre i bassi salgono: sta giocando, anche lui.



L'orchestrazione di I Am the Walrus la solleva letteralmente da terra, lasciandola sospesa in una nuvola surreale in cui tutto diventa possibile – al punto che Lennon può accendere una radio nel bel mezzo del brano e captare una scena di Re Lear che miracolosamente si introduce tra i versi del ritornello creando un senso sinistro là dove un senso non c'era. La vostra poesia che comporrete pescando frasi ritagliate a caso da un cappello vi assomiglierà, scriveva Tszara. Ripensandoci, è quasi una maledizione.

Walrus è l'ultimo trionfo della collaborazione tra Lennon e Martin. La lavorazione del brano comincia appena nove giorni dopo la morte di Epstein; uscirà nel momento forse più alto della traiettoria artistica dei Beatles, il momento in cui dopo Sgt Pepper hanno convinto quasi tutti e sanno di potersi permettere quasi tutto: che è proprio quello che fanno in Hello Goodbye e Walrus. A scegliere la prima come lato A del singolo sarebbero stati McCartney e Martin, gettando in Lennon i semi di una frustrazione che l'avrebbe portato, più di un anno dopo, a chiedere il divorzio. È una ricostruzione che lascia perplessi: se Lennon avesse davvero voluto quel lato A, non avrebbe evocato quella "pornographic priestress" più che sufficiente a bandire il brano dalla programmazione radiofonica sia nel Regno Unito che negli USA. Certo col senno del poi Walrus è rimasta molto più che Hello Goodbye, ma nemmeno Lennon credo che potesse immaginarlo a fine '67. In quel momento aveva soprattutto voglia di giocare – il che comunque era un buon segno – e forse non pensava nemmeno che il gioco gli sarebbe riuscito così bene.

mercoledì 29 luglio 2020

Lazzaro che morì due volte

29 luglio - San Lazzaro, amico di Gesù

(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
(Juan De Flandes) Ce n'hai messo di tempo, eh, amico.
[2014] Tutti dobbiamo morire, e secondo la dottrina cristiana Gesù a tempo debito ci resusciterà. Tranne Lazzaro: lui è stato risorto prima. Così presto che è probabilmente già rimorto. Ma perché con lui Gesù si è comportato così? A prima vista sembrerebbe una debolezza: Lazzaro ha un trattamento di favore perché... è suo amico.

Gesù ha un solo amico: gli altri li chiama fratelli, o discepoli. Quando muore, ci rimane male. È il messia, è il Cristo, giudicherà i vivi e i morti, ma ci rimane male lo stesso. Davanti alla tomba scoppia a piangere. Non era successo per tre vangeli sinottici, ed ecco che succede nell'ultimo, quello di Giovanni. Anzi, un argomento per considerare il vangelo di Giovanni il più tardo è proprio questa virata nel patetico: all'estremo opposto sta il Gesù di Marco, probabilmente il più antico, un tizio sempre corrucciato e sdegnato perché i comuni mortali non hanno orecchie per intendere le sue parabole. Il Gesù di Giovanni invece sembra ridisegnato per un ceto medio che vuole bei discorsi ma anche una certa dose di sentimento.

Insomma, frigna come un pupo. Tanto che la gente comincia a darsi di gomito; però! Gli voleva bene davvero, al suo amico. Boh, ma se è davvero Chi dice di essere, non poteva arrivare un po' prima? Gesù non fa segno di ascoltare, ma chiede che sia aperta la tomba, malgrado le obiezioni della sorella più pratica, Marta ("Sono passati tre giorni, puzzerà"). E invece Lazzaro ne esce fuori fresco come appena deposto, e soprattutto esce vivo. Gesù l'ha risorto. Non è un miracolo come gli altri.

Gesù non aveva mai risorto nessuno prima. Certo, ci sarebbe l'episodio della figlia di Giairo, "capo di una sinagoga", riportato dai tre vangeli sinottici: ma non è chiaro se la bambina sia davvero morta. Lo stesso Gesù minimizza; afferma che la bambina sta solo dormendo, e la risveglia. Il caso di Lazzaro è molto diverso. Addirittura Gesù prende tempo; anche se le sorelle Maria e Marta gli avevano fatto sapere della malattia dell'amico, Gesù decide di aspettare che muoia. E agli apostoli prima di partire dice proprio così: Lazzaro è morto.
...e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate. Orsù, andiamo da lui!
(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
(Giotto) E gli amici li tratti così, figurati gli altri.
La decisione di risorgere Lazzaro non è una semplice debolezza, ma parte di un piano. I tre giorni di attesa sono fondamentali, non solo perché preannunciano la morte di Gesù, ma perché legalmente sono necessari affinché la resurrezione non possa essere derubricata a risveglio da un coma (quel che era successo nel caso della figlia di Giairo). Anche il dettaglio della puzza non è un semplice tocco di realismo: il testo vuole eliminare qualsiasi dubbio sul fatto che quella di Lazzaro sia stata una resurrezione, non una guarigione. Gesù ha scelto il suo amico per farne il cardine di tutto il Vangelo.

Non a caso nel testo di Giovanni occupa proprio il capitolo centrale: tra la prima parte, il cosiddetto "vangelo dei segni", e la seconda parte, il lungo racconto della passione. Nella prima parte Gesù ha esibito agli scettici tutti i "segni" necessari affinché credano che lui è il Messia - e che riprendono una profezia di Isaia: gli storpi camminano, i sordi odono, i ciechi vedono... i morti devono resuscitare. Lazzaro è appunto l'ultimo segno, la prova definitiva che Gesù è Colui che afferma di essere. Ma proprio la sua resurrezione è l'inizio della passione di Gesù: appena farisei e sommi sacerdoti si accorgono di che è successo, decidono di ammazzare sia Gesù che Lazzaro, il colpevole e la prova. L'idea di uccidere un tizio in grado di resuscitare dai morti può lasciare perplessi, ma il ragionamento dei sacerdoti non è poi così peregrino:
"Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione".
Col suo nuovo culto, potenzialmente rivoluzionario, Gesù rischia di attirare l'attenzione della potenza occupante. Chi scrive il Vangelo probabilmente sa già di cosa sono capaci i Romani – che raderanno davvero al suolo Gerusalemme nel 70. "Meglio che muoia lui, piuttosto che un popolo intero", dice il sommo sacerdote. Una frase troppo bella e pregna di significato per essere stata pronunciata davvero. Tutto l'episodio sembra, in effetti, una costruzione a posteriori, di un autore che conosce per sommi capi il racconto evangelico, ma vuole dargli un senso nuovo, un respiro diverso (oltre a spruzzare un po' di sentimenti qua e là).

Wake up dead man ((Caravaggio)
Wake up dead man (Caravaggio)
Giovanni è l'evangelista più filosofico, lo sanno tutti; mastica un po' di gnosi, e scrive molto bene; ma da un punto di vista meramente narrativo, sembra un autore di fanfiction - un lettore dei vangeli precedenti che si mette a ricamarci sopra perché molti episodi lo hanno lasciato insoddisfatto - inoltre crede di aver trovato dei buchi di sceneggiatura e non li sopporta. Perché Gesù non scoppia mai in lacrime? Non sarebbe bello se avesse un amico? Tra le domande che il fan-Giovanni si pone ce n'è una fondamentale: perché Gesù non ha mai resuscitato un morto? Ok, ha resuscitato sé stesso, ma solo alla fine. E però, molto prima della fine, ai discepoli di Giovanni Battista che gli chiedevano se fosse veramente il Messia aveva detto:
Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano.
Questo è Matteo 11, ma i morti che risuscitano chi sono? In Matteo non ci sono! Ok, la figlia di Giairo, ma possiamo veramente contarla? Con lo stesso Gesù che afferma "non è morta ma dorme"? Insomma qui c'è un buco, bisogna riempirlo. Ma con cosa?

Un altro tratto tipico degli autori di fanfiction è il riutilizzo di nomi e personaggi minori. È un modo per sentirsi più 'canonici', vicini all'originale che stanno rielaborando. Giovanni evangelista riprende così le due sorelle Marta e Maria, già protagoniste di un breve e famoso diverbio nel vangelo di Luca; e le provvede di un fratello di cui nessuno fin qui ha sentito parlare, ma a cui Gesù voleva un bene dell'anima. Se il personaggio-Lazzaro è un'assoluta novità, il suo nome non è tuttavia nuovo: Eleazar ("Dio è il mio aiuto") era già il nome di un lebbroso in una parabola dei sinottici, costretto a mendicare davanti alla casa del ricco Epulone: da lui viene il termine "lazzaro" come sinonimo di "lebbroso" (da cui "lazzaretto"), nonché l'accrescitivo "lazzarone" . Poi Epulone finisce all'inferno e non può nemmeno supplicare che Lazzaro dal paradiso gli allunghi un po' d'acqua, tra i due oltremondi non vi è nessuna convenzione. Battezzando "Lazzaro" l'amico di Gesù, il Fan-Giovanni può anche alludere al luogo dove Lazzaro sarebbe stato nei tre giorni tra la morte e la prima resurrezione: il paradiso. Una questione che lasciava perplessi alcuni teologi, secondo i quali l'amico di Gesù non poteva che essere stato all'inferno: il paradiso era ancora chiuso. D'altro canto, il Lazzaro del vangelo di Giovanni non è un lebbroso, non è un mendicante; forse il fan-Giovanni stava soltanto cercando un nome di origine ebraica, per evitare di inventarsene uno che rischiasse di suonare falso a un orecchio più allenato del suo.

Stavo a fare il muschio, ormai (Spagnoletto).
Stavo a fare il muschio, ormai (Spagnoletto).
Lazzaro dunque dovrebbe morire e resuscitare una prima volta per risolvere un'incongruenza narrativa dei vangeli sinottici, e dimostrare incontrovertibilmente che Gesù è il messia. Giovanni dà particolare importanza dei "segni", i miracoli rivelatori; laddove gli altri evangelisti li snobbano un po', ammettendo in alcuni casi che Gesù li facesse controvoglia e li considerasse con sufficienza. La gente lo avrebbe dovuto seguire per quel che diceva, e non per i pani o i pesci, o un lebbroso guarito o un paralitico rialzatosi dalla sedia. Per Giovanni invece i "segni" sono fondamentali, e Lazzaro è il più importante.

Un altro indizio del carattere fittizio dell'amico di Gesù è la sua improvvisa scomparsa: così com'era apparso, fa sparire subito le sue tracce. Che fece durante la passione dell'amico? E dopo la resurrezione? Non si sa. Di sicuro non era coi Dodici, ma gli Atti degli Apostoli di lui non dicono niente (per forza, li aveva scritti Luca prima che Giovanni partorisse il personaggio). È lo stesso Fan-Giovanni a suggerirci una spiegazione: i sacerdoti del sommo sinedrio volevano far accoppare anche lui, magari ci sono riusciti. Un'altra teoria, ma molto più tarda, è che Lazzaro sia stato occultato dai proto-cristiani proprio perché il sinedrio gli dava la caccia. Paolo di Tarso lo avrebbe portato a Larnaca, nell'isola di Cipro, di cui Lazzaro sarebbe diventato il vescovo fino alla sua seconda morte, trent'anni dopo. La leggenda orientale dice che non sorrise mai, per tutto il tempo, a causa di quello che aveva visto nei suoi tre giorni da morto. Dunque era stato all'inferno. Solo una volta gli sarebbe scappato un sorriso - davanti a un ladro di vasellame - dopo aver sentenziato: "L'argilla ruba l'argilla".

L'ipotesi occidentale, che i lettori di Dan Brown magari conoscono, è che Lazzaro sia miracolosamente approdato con le due sorelle nel Midi della Francia, diventando il primo vescovo di Marsiglia. La devozione dei marsigliesi fu tale che nel 1204, durante la Quarta Crociata, (detta anche saccheggio di Bisanzio) si portarono a casa le reliquie. Poi le persero, forse anche in seguito a una riflessione: se davvero le sue ossa erano custodite a Bisanzio, Lazzaro non avrebbe mai potuto evangelizzare Marsiglia. In ogni caso i suoi resti si possono venerare ad Autun e a Vézelay in Borgogna - oltre che naturalmente a Larnaca. A Vendome invece c'è un'ampolla con le lacrime che Gesù avrebbe pianto davanti al suo amico. Forse perché sapeva di averlo lasciato scendere all'inferno, anche solo per tre giorni. Oppure perché davvero gli voleva bene.

giovedì 23 luglio 2020

Le canzoni dei Beatles (#40-31)

Puntate precedenti: (#254-235)(#234-225)(#224-215)(#200-181)(#180-166), (#165-156)(#155-146)(#145-136)(#135-121), (#120-111), (#110-96), (#95-86), (#85-76), (#75-66), (#65-56), (#55-46), (#45-36)

Spero che stiate bene, io sto solo dormendo, che abbiamo in lista questa settimana? La canzone che qualcuno pensava parlasse di sparare alla gente e invece parlava di una giostra; quella che tutti pensavano che parlasse di droga e invece parlava di sparare alla gente; quella che sembrava parlasse di sesso e invece parlava di droga, e qualche altra ancora. Ricordo che la classifica non la faccio io: è una media di tutte le classifiche messe on line da critici specializzati. Certo che Happiness Is A Warm Gun andava messa più avanti. Sono d'accordissimo. Non sparate. Non su di me, almeno.


40. I'm Only Sleeping (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

La foto è di Annie Leibovitz.
La scattò proprio l'8 dicembre del 1980.
Lying there and staring at the ceiling, waiting for a sleepy feeling... Tutti rimpiangono il vinile, pensano che la musica si sentisse meglio prima. Io penso siano pazzi, ma d'altro canto ho un rimpianto per i nastri magnetici... Ok, erano un disastro. Anche quelli che non si erano ancora rovinati avevano un fruscio tremendo – e comunque stavano per rovinarsi. Però nella mia testa la musica è rimasta un nastro magnetico. Se fermi il nastro, fermi la musica. Se inverti il lato, la musica scorre a rovescio. Ogni canzone era un percorso da un punto A a un punto B; se volevi riascoltarla, dovevi fare il percorso a ritroso. La stessa cosa non succede con le vostre giornate? Diciamo che A sia il momento in cui vi svegliate; B quello in cui vi addormentate: che cos'è il sonno? Il segmento BA, il momento in cui chiudete gli occhi e riavvolgete il nastro. E chi è John Lennon nel 1966-1966, quando i Beatles si ritirano dalle scene e non c'è più bisogno di tenersi svegli ingollando anfetamine? Un nastro rovesciato che non riesce più a raddrizzarsi e nemmeno ne sente l'esigenza. Dal suo giaciglio di Kenwood vede il mondo girare all'incontrario. Suona il telefono, è Paul, vorrebbe scrivere una canzone. Please don't wake me, no don't shake me, leave me where I am...

I'm Only Sleeping è il seguito di Nowhere Man, per come riprende l'attitudine diaristica di dedicare almeno una canzone dell'album al proprio stato d'animo dominante. Come si sentiva John Lennon nella primavera del 1966, all'apice della Swinging London? Ancora parecchio sonnacchioso. Poca voglia di uscire, scarsa disponibilità a recitare la parte dell'uomo di casa. Il brano che porta in studio sotto forma di demo è un lontano parente di Girl: attinge allo stesso serbatoio inconscio di melodie rétro, vecchie ballate in minore e frasi jazz ascoltate alla radio chissà quando . Il blend è già inconfondibilmente lennoniano: vedi il bridge ("keeping an eye on the world going by my window"), tagliato così corto ("taking my time") che non fai in tempo a notarlo ed è già ripartita la strofa ("When I wake up early in the morning"), quasi il ripensamento di un dormiglione che stava per alzarsi, e soprattutto quel magico accordo in maggiore settima, parente non lontano di quello che attutiva l'angoscia in No Reply: qui è soffice come il guanciale su cui casca il ritornello, quando Lennon canta "sleeping".

In studio John raffina il timbro della voce, incisiva ma fragile, e la correda di quei coretti vagamente swing che sembrano davvero usciti da una pigra radiosveglia mattutina. Nel bridge invece interviene Paul con un contrappunto più virile, come se tentasse di scrollare John e svegliarlo; ma niente da fare. Siccome George è occupato a sperimentare con la chitarra invertita, i fraseggi di connessione tra il ritornello e la strofa vengono delegati al basso di Paul e raggiungono il nostro orecchio attutiti, compressi, come i colpetti amorevoli di qualcuno che cercasse di svegliarci. Ma il punctum del brano ovviamente è la chitarra rovesciata di George.

I Quattro avevano iniziato a rovesciare i nastri con Rain; l'esperimento prosegue con I'm Only Sleeping ed è una trovata geniale non solo perché le sonorità rovesciate si adattano all'andamento languido e jazzeggiante. In I'm Only Sleeping quello che fino a quel momento era ancora un trucco di laboratorio diventa il correlato sonoro di un fenomeno tanto vicino all'esperienza di tutti quanto misterioso: il sonno, per la prima volta immaginato come il lato B della veglia. Suonare un assolo a rovescio è come mandare un messaggio a sé stessi in sogno: George compone l'assolo, ne incide una prova, lo rovescia per sentire come deve suonarlo, lo incide a rovescio e poi lo rivolta di nuovo. Se potessimo ricevere messaggi dal piccolo aldilà dei sogni, probabilmente avrebbero la consistenza sfuocata eppure familiare dei fraseggi di chitarra rovesciati di George. E non è una coincidenza che la chitarra invertita torni alla fine del pezzo: dopo averci pensato un po' su, John si è riaddormentato.



39.  Happiness Is a Warm Gun (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)

"American Rifleman", maggio 1968.
Non è una ragazza cui manchi qualcosa. Derek Taylor in un albergo aveva conosciuto un tale che usava i guanti di velluto con le ragazze, diceva che gli piaceva la "sensazione insolita". Come una di quelle lucertole che in California restano schiacciate tra i vetri scorrevoli delle finestre. In uno stadio di Manchester avevano beccato un tizio che nascondeva degli specchietti nella punta dei suoi stivali chiodati e li usava per guardare le mutandine delle ragazze della fila superiore (a quei tempi negli stadi inglesi si stava in piedi). C'è gente che finge di avere un braccio in gesso per rubare nei negozi ("while his hands are busy working overtime"). Nel Merseyside l'eufemismo per "defecare all'aperto" è "donare al Fondo Nazionale" ("donate to the National Trust"). Ho bisogno di una risistemata perché mi sto abbattendo, mi sto riducendo ai pezzi che ho lasciato in città. Madre Superiora, salta la pistola. La felicità è una pistola calda.

 Just what is it that makes today's homes so different,
so appealing?
(Richard Hamilton, 1956).
Lo disse Cechov, no? Se c'è una pistola in scena, prima o poi qualcuno sparerà. Se si eccettua il titolo un po' enigmatico dell'album del 1966, le armi da fuoco non entrano nel catalogo beatle fino al Disco Bianco, dove compaiono in almeno tre numeri: il siparietto western Rocky Raccoon, la satira animalista Bungalow Bill (dove "gun" fa rima con "mum") e ovviamente Happiness Is a Warm Gun. Anche qui c'è una Madre nei dintorni. Lennon per l'occasione ritorna al metodo che tante soddisfazioni aveva dato a lui e agli ascoltatori con A Day in the Life: distillare surrealismo dai titoli di giornale. "La felicità è una pistola calda" lo aveva scovato sulla rivista della National Rifle Association. "Una pistola calda significa che hai appena sparato a qualcuno. Pensavo che fosse una cosa favolosamente malata da dire". Forse aveva anche intenzione di scrivere una canzone d'amore sui generis a Yoko (nel demo di Anthology 3 si sente chiaramente il suo nome dopo il riferimento alla Madre Superiora), ma alla fine tutte le suggestioni si mescolano in un unico calderone surreale che forse è l'ultimo contributo del LSD alla creatività beatle. Ovviamente "I need a fix" e "jump the gun" furono subito interpretati come riferimenti all'eroina (anche McCartney nutriva sospetti in tal senso). Lennon lo ha sempre negato: non aveva ancora iniziato ad assumerne, e non avrebbe mai usato la siringa. Non importa: le immagini che gli vorticano incontro finiscono per confondersi. Sesso, droga, statuine di sapone, armi da fuoco, tutto preme per entrare, in un corpo che dovrebbe rilassarsi e accettare la pace – madre superiora, salta la pistola (su BeatleBible un tizio scrive di essersi svegliato nel cuore di una notte con un'intuizione: Lennon recita "Mother Superior jump the gun" sei volte, come i sei colpi nel tamburo di un revolver).

Il finale doo-wop in cui in un qualche modo Ringo riesce a tenere il 4/4 mentre tutto il resto frana in terzine, è un'esplicita "satira del R'n'R anni 50", lo stesso Lennon lo definiva così, ed è un esempio felice di come certe idee possano incubarci dentro per anni: uno dei più antichi documenti sonori che ci sono rimasti di John e Paul è proprio una registrazione domestica di un pezzo doo-wop parodistico. Nel 1960 Paul stava già mimando i coretti alti mentre John improvvisava fesserie al microfono con un vocione impostato. Una simile 'strofa parlata' compariva nel demo di I'm So Tired, finché Lennon non ha l'idea risolutiva di staccarla e rimontarla alla fine di Happiness... Il risultato è un collage d'immagini sospese tra iper-realismo, mistero e parodia, che ricorda irresistibilmente la pop art e in particolare i collage di Richard Hamilton che dieci anni fa lo avevano anticipato. È lo stesso Hamilton che Paul aveva appena presentato ai colleghi e che avrebbe 'disegnato' la copertina del Disco Bianco.

Si dice spesso che i Quattro durante la lavorazione del Bianco non riuscissero più a suonare assieme. Eppure la canzone in assoluto più provata in studio da tutti e quattro è Happiness Is a Warm Gun, più di settanta take. È un pezzo che solo John Lennon avrebbe potuto proporre agli altri tre, ed è un pezzo che solo gli altri tre non avrebbero respinto al mittente, ma che roba è, ci prendi in giro? Una decina di cambi di tempo? Paul McCartney non ha mai smesso di dire che Happiness è una delle sue preferite. Per Ringo (a cui il brano chiedeva un vero tour de force) fu una specie di nuovo inizio. Quanto a George, basta sentire quel che combina durante il pezzo: la credibilità blues che riesce a offrire con la sua chitarra in I need a fix, nel bel mezzo di un brano che sembrerebbe mandare tutto in burla. Happiness segue in scaletta a While My Guitar Gently Weeps. Quando chiedevano a George il suo brano preferito, rispondeva Happiness. Senza Happiness probabilmente nessuno avrebbe proposto il successivo progetto Get Back, l'idea di abolire le sovraincisioni e rimettersi a suonare in presa diretta. Una missione troppo impegnativa, col senno del poi. D'altro canto, erano appena riusciti a incidere Happiness: che altra sfida potevano darsi? 
Una riproduzione dell'opera più famosa
di Richard Hamilton (ma non rende l'idea,
dovete vederla dal vero).

Musicalmente è il passo avanti più importante del Disco Bianco: non è la prima canzone a nascere come un patchwork di brani musicali distinti (anche in questo è A Day In the Life l'antecedente illustre), ma in Happiness per la prima volta viene a mancare l'elemento ricorrente che dia al patchwork una sensazione di unità. Happiness è un medley di tre-quattro brevi canzoni che non hanno altro collegamento fuori che la libera associazione di immagini che ruotano nella testa di John. Il procedimento sarà ripreso poi nel secondo lato di Abbey Road e diventerà un topos ricorrente nella carriera post-Beatles non di Lennon, ma di McCartney (Uncle Robert / Admiral HalseyBand on the Run). Happiness resta un esempio folgorante di cosa potevano fare i Quattro ancora nel 1968 quando erano disposti a seguire John alla ricerca del metodo nella sua follia. Rimane uno dei loro brani più interessanti e memorabili: e lo sarebbe anche se qualcuno non avesse tirato fuori una pistola non metaforica, davanti in Central Park West, dodici anni dopo.


38.  Helter Skelter (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968)

Sharon Tate e Roman Polanski nel 1969.
Nell'ultimo film di Tarantino, [SPOILER!!!] i killer della Manson Family sbagliano campanello, incontrano Brad Pitt, e Sharon Tate si salva. Tarantino sembra soffrire della stessa forma di follia che opprime alcuni beatlemani, come un'incapacità di elaborare il lutto. Se solo la data persona non avesse fatto la data cosa, oggi le cose sarebbero diverse, ad esempio i Beatles non si sarebbero sciolti. O Lennon sarebbe vivo. Si chiama 'razionalizzare', ma in realtà è un sistema per impazzire. Continui a ripensare e ripensare allo stesso giorno, alle cose che avresti potuto fare e che avrebbero potuto cambiare il destino. Ti fai domande oscene, ad esempio: se Helter Skelter non fosse diventata quell'orgia rumoristica che è, Sharon Tate e i suoi ospiti sarebbero ancora vivi? (No).

Per quanto possano avervi detto il contrario, la prima impressione è fondamentale, e questo separa gli ascoltatori di Helter Skelter in tre insiemi che praticamente ascoltano tre canzoni diverse. Vediamoli a ritroso, dal terzo insieme al primo.

3. Nel primo insieme ci sono quelli che l'hanno ascoltata dopo aver sentito parlare della strage a casa Polanski: Helter Skelter era per Charles Manson il nome in codice della guerra tra le razze che sarebbe scoppiata di lì a poco negli USA, e ai suoi adepti era stato dato il compito di fomentarla uccidendo giovani ricchi bianchi e famosi (Manson conosceva la casa perché per un po' era appartenuta a Terry Melcher, il produttore discografico che aveva stroncato senza appello i suoi demo e le sue velleità di aspirante rockstar). Questo insieme di persone non credo possa ascoltare Helter Skelter senza pensare a tutta la storia, che è oggettivamente pazzesca. Per loro Helter Skelter non può che essere la colonna sonora di quella storia, un segno rosso indelebile che pregiudica credo irrimediabilmente l'ascolto del Disco Bianco.

Patricia Krenwinkel, Susan Atkins e Leslie Van Houten della "famiglia" di Charles Manson prima di un'udienza per il processo sull'omicidio Tate, nel 1971 a Los Angeles
2. Nel secondo insieme ci sono quelli che hanno conosciuto i Beatles dopo lo scioglimento, in un periodo in cui i delitti della Family erano passati in secondo piano, e la musica dei Beatles no. Per loro Helter Skelter è un pezzo allegro, che si associa alla scoperta che ciascuno di loro un giorno ha fatto di questa buffa circostanza: il primo brano heavy metal della Storia è di Paul McCartney, l'autore di Obladì Obladà. È persino nello stesso disco! Helter Skelter in realtà non ha molto in comune con l'heavy metal, ma a un primo ascolto l'impressione è abbastanza forte (quella chitarra sferragliante in primo piano, quelle urla sguaiate, perfino i coretti prefigurano un certo glam rock) e questo mette di buonumore, perché un brano heavy dei Beatles non può essere che una parodia. Addirittura una parodia di un genere musicale che ancora non esisteva! Che geniacci questi Beatles. Gli appartenenti a questo gruppo hanno più possibilità di riconciliarsi con l'approccio sperimentale di Sir Paul McCartney, che parte quasi sempre dalle caratteristiche formali, laddove Lennon muove più spesso da una necessità espressiva: John fa cose nuove per cercare di spiegarsi in modo nuovo, Paul le fa per curiosità, a volte per rispondere a una sfida. In questo caso il guanto l'aveva gettato Pete Townshend degli Who, dichiarando da qualche parte: "Abbiamo appena registrato la canzone più sporca, rumorosa, lurida ever".  A tutt'oggi Paul non sa di che canzone si trattasse – non l'ha mai voluto sapere. L'idea che un collega possa superarlo in qualsivoglia categoria lo fa sentire "geloso". E così, magari davanti a una tazza di tè, Paul delibera che i Beatles faranno qualcosa di ancora più sporco, rumoroso, lurido. Tanto di spazio sul disco ce n'è.

"The dirtiest, loudiest, filthiest ever". (Chi?)
È un aneddoto che decostruisce completamente l'aggressività della canzone, e forse è questo il motivo per cui dopo la strage McCartney ha sentito la necessità di raccontarlo più e più volte. Non c'è nessuna violenza interiore a emergere nel fracasso di Helter Skelter: è solo un gioco. Prima che Paul decidesse di farlo esplodere, Helter Skelter era già un ottimo pezzo blues rock (lo si sente in Anthology 3), anzi forse era più promettente. Paul alternava momenti di calma apparente a improvvisi scoppi di impazienza, creando un effetto suspense che nella versione finale manca del tutto. Tra i vari effetti che Paul decide di "alzare a 11" c'è il riverbero, il che finisce per richiamare alla sua memoria i vecchi dischi rockabilly – a un certo punto durante le prove si mette a imitare Elvis intonando You're So Square. C'è in effetti una caricatura di Elvis sepolta tra i rottami di Helter Skelter. Il Disco Bianco è pur sempre una festa, e Charles Manson un imbucato psicotico che non riesce ad ambientarsi, non conosce i riferimenti, per esempio non sa che l'"helter skelter" britannico è una tipica attrazione da fiera, uno scivolo che ruota intorno a una torre smontabile. E decide, da psicotico, che un'espressione incomprensibile non può che essere un riferimento alla fine del mondo. Se non avesse ascoltato Helter Skelter, avrebbe trovato profezie di guerre fratricide in qualche altra canzone dei Beatles o di qualche altro gruppo.

Charles Manson, 3 dicembre 1969
1. Nel primo insieme (che con gli anni andrà riducendosi) rimane chi Helter Skelter l'ha sentita quando uscì e negli anni immediatamente successivi: quelli che non potevano liquidarla come una parodia del metal perché il metal, appunto, non era ancora nato. Per alcuni di loro Helter Skelter è stato uno choc al quale niente li aveva preparati – davvero, niente suonava così distorto, così rumoroso, così sporco. Quello che per Paul era uno scherzo, un esperimento di laboratorio, per qualche giovane ascoltatore poteva risultare un incubo. Come svegliarsi a un'ora imprevista sul divano e trovarsi davanti a una tv accesa nelle ore in cui trasmette le cose che capiscono solo i tuoi genitori, intercettando immagini incomprensibili che saltano dritte nella sala 101 del tuo materiale onirico. Forse semplicemente Helter Skelter era più di quello che molti giovani ascoltatori del tempo potevano sopportare – Charlie Manson incluso. È l'unica canzone beatle su duecento e più che ispira al musicologo Alan W. Pollack un genuino turbamento: "mettetela su di notte quando le luci sono spente ed è garantito che vi farà rizzare i peli sulla schiena: vi spaventerà e vi metterà a disagio". A me non succede (ci ho appena provato) ma è vero che sono di una generazione diversa, a cui è stata fatta ascoltare roba ancora più distorta, metallica, sporca, ecc.

A mettermi a disagio è Ringo, quando alla fine del secondo finale esclama: "ho le vesciche sulle dita". Se fino a quel momento poteva sembrare tutto un gioco ora è chiaro che qualcuno ha smesso di divertirsi da un pezzo. Quel che è peggio è che Paul non dà impressione di curarsene, lasciando lo sfogo di Ringo nel mix finale. Ancora Pollack confessa che Paul almeno in questo caso gli ricorda un suo compagno di liceo che amava imitare e impersonare personaggi veri o inventati. "Era quasi troppo bravo a fare questo genere di cose: spesso molto divertente, ma a volte un po' fastidioso e irritante. Qualche volta in effetti se ne arrivava nei panni di qualcuno o qualcosa che era semplicemente troppo strano o di cattivo gusto, e per un momento temevi che fosse impazzito e che non sarebbe più stato capace di uscirne. Anche voi siete andati a scuola con lo stesso compagno?"



37.  Across the Universe (pubblicata per la prima volta nel 1969 in Our World, disco di Autori Vari per la WWF; poi in Let It Be, 1970).


(No One's Gonna Change) Our World, 
l'album pubblicato dal WWF nel 1969.
Le parole stanno volando via come pioggia senza fine dentro una tazza di carta. Quando ti senti triste, pensa come poteva sentirsi Lennon. Tu almeno puoi ascoltare le canzoni dei Beatles, lui le detestava. In parte era una posa: ma solo in parte. Come molti della sua generazione, Lennon aveva un rapporto molto difficile con la sua voce registrata (così come con la sua immagine filmata). Lo imbarazzavano. A quel tempo si poteva arrivare fino a vent'anni senza riascoltarsi in cuffia e scoprire che la propria voce agli altri non suona come la senti tu, ovvero che le tue orecchie ti hanno mentito per tutto il tempo: uno choc. Il trasformismo di John, sia fisico che vocale, non ha nulla della giocosità con cui Paul cambiava costumi e pose: è l'inquietudine di una persona che non si trova a suo agio nell'unico corpo che ha. Per otto anni John le prova tutte: contorce la voce, la raddoppia, la schiarisce, la inverte, scopre un timbro femminile, lo alterna con uno più virile (durante una sessione di Let It Be lo dice esplicitamente: "questa è la mia voce da donna, questa è la mia voce da uomo"). Contemporaneamente gli capita di ingrassare e dimagrire, respingere gli occhiali e poi inforcarli: baffi, capelli, barba, un buon lennonologo è in grado di scoprire il mese in cui è scattata una foto semplicemente dall'acconciatura.

Per ogni canzone che noi possiamo scegliere di abbinare a ricordi felici, Lennon poteva ricordarne di frustranti. Paul che voleva aggiungere qualcosa o togliere qualcos'altro, George Martin che gli chiedeva di accelerarla, Harrison che pretendeva spazio, e soprattutto le bizze del suo nemico n.1, John Lennon: musicista volenteroso ma sempre un passo indietro rispetto alla musica che aveva in testa. Ogni canzone una battaglia: quasi sempre vinta, ma a che prezzo. Nelle interviste dopo lo scioglimento Lennon in sostanza ripartiva le sue canzoni del periodo beatle in due grandi insiemi: quelle che gli facevano schifo ("piece of garbage", "junk", "throwaway"), e quelle che lo facevano incazzare perché sarebbero state buone canzoni, ma per un motivo o per un altro non era mai riuscito a registrarle bene.

Across the Universe fa parte di questo secondo insieme: per John era il migliore testo che avesse scritto, o meglio gli si era scritto in testa da solo. Una sera Cynthia lo aveva svegliato per discutere di un qualche argomento, poi si era addormentata mentre lui continuava a sentire le sue parole "come un flusso senza fine. Andai al piano di sotto e si trasformò in una specie di canzone cosmica, invece che in una canzone arrabbiata [...] Una metrica così straordinaria, non potrei mai ripeterla! Non è una questione di abilità tecnica: si è scritta da sola. Mi ha fatto alzare dal letto". Il dio notturno che aveva regalato a Paul Yesterday, per John teneva in serbo un brano che non sarebbe riuscito a mettere in musica. "È come essere posseduti, come un medium. La cosa deve saltare fuori. Non ti lascerà dormire, così devi svegliarti, trasformarla in qualcosa, e a quel punto avrai il permesso di dormire. Succede sempre nel nel mezzo della notte del cazzo, quando sei mezzo addormentato o esausto e i tuoi dispositivi di controllo sono spenti" (1980).

Cynthia Powell Lennon
Cynthia Powell Lennon
Nonostante ne esistano ormai quattro versioni ufficiali, nessuna è l'Across the Universe che gli suonava in testa quella notte. L'insoddisfazione era tale che alla vigilia della partenza dall'India John si ritirò dalla competizione per il lato A del singolo, così che Across non uscì neanche come lato B di Lady Madonna, (fu sostituito da The Inner Light) e per la prima volta un singolo 'fuori album' dei Beatles uscì senza una composizione lennoniana. Non solo non riteneva il brano all'altezza, ma decise anche di abbandonarlo al suo destino, regalandola al WWF che la inserì in un disco celebrativo – da cui quei rumori di animali che avete presente se l'ascoltavate nella versione sul Disco Blu.

Un estremo tentativo di riprendere in mano il brano avviene durante le sessioni di Get Back: non approda a niente, ma offre a Phil Spector la scusa per inserire il brano nella scaletta del disco postumo che i Beatles gli hanno offerto di confezionare, Let It Be. Spector però non ci prova nemmeno a recuperare i tentativi del 1969: si limita a riprendere la versione mandata al WWF e a spalmarci sopra un po' di glassa spectoriana, cori e archi riverberati per dare all'ascoltatore l'impressione che il brano arrivi dalle stesse sessioni di The Long and Winding Road. Questo spiega la bizzarria di quell'invocazione indu, "Jai Guru Deva Om" ("Grazie e salute, divino Maestro"), che alla vigilia del viaggio in India testimoniava il fresco interesse di Lennon per la meditazione trascendentale mentre nel 1970 sembra un anacronismo, se non una presa in giro (nella cronologia dei Beatles i mesi sembrano anni, e gli anni secoli).

Un'altra caratteristica della versione WWF erano i coretti realizzati da Lennon con una voce accelerata, che scompaiono nella versione scelta da McCartney su Let It Be Naked (dove i violini di Spector sembra di sentirli ancora, o forse se ne avverte la mancanza: l'effetto che fa la nudità, in fondo). Su Anthology nel frattempo ne era uscita una altrettanto nuda ma un po' diversa. Nessuna può essere considerata quella definitiva, nessuna piaceva all'autore. È curioso perché alla fine ciò che cambia da una versione e l'altra è l'arrangiamento, mentre Lennon la canta allo stesso modo, commettendo sempre la stessa infrazione metrica alla fine della seconda strofa, che non finisce con un accordo minore come le altre due (come in quei tappeti persiani in cui una sola cucitura è sbagliata per dimostrare che sono fatti a mano). Il ritornello somiglia in qualche modo a un altro suo brano del 1969, Don't Let Me Down; dei due versi uguali ("Nothing's gonna change my world"), il primo crea tensione, il secondo la risolve, riportando la melodia al punto di partenza. L'ennesimo paradosso: della canzone che ci dice che ogni cambiamento è un'illusione non abbiamo nessuna versione definitiva. Solo tentativi, aggiustamenti, avvicinamenti: cambiamenti, appunto.




36. Lucy in the Sky With Diamonds (Lennon-McCartney, Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band, 1967).



Waiting to take you away. Prima di convertirsi e venerarla come Santa Lucia, i popoli nordici raccontavano ai loro bambini che nelle lunghissime notti intorno all'equinozio d'inverno il cielo fosse solcato da una demone, una donna malvagia, forse una strega: Lussi, con tutti i suoi seguaci: i lussiferda. I bambini che proprio insistevano a non volersi mettere a letto se la sarebbero vista brutta, giacché Lussi poteva entrare dal camino e portarli via. (Wikipedia dice proprio "take them away"). Lennon ha sempre negato che Lucy in the Sky parlasse di allucinogeni, il che è abbastanza implausibile. A Dick Cavett racconta di essersi ispirato al titolo di un disegno del piccolo Julian (acquistato qualche anno fa da David Gilmour), e di avere scoperto soltanto dai giornali che il titolo contenesse la sigla LSD – a qual punto si sarebbe subito messo a controllare se le sigle delle altre canzoni significassero qualcosa. Ma è lui stesso a raccontarci che in quel periodo assumeva LSD quotidianamente (una volta ne prese per sbaglio durante una session di Sgt. Pepper e rischiò parecchio perché George Martin, vedendolo confuso, pensò che avesse bisogno di un po' d'aria fresca e lo portò sul tetto) (se avete mai visto qualche vecchio film o telefilm con giovani americani in pantaloni a zampa di elefante, lo sapete già: mai portare sul tetto un ragazzo che ha appena assunto dell'LSD. Ci mettono un attimo a spiccare il volo).



The girl with kaleidoscope eyes. Per realizzare un caleidoscopio è sufficiente montare almeno due superfici specchianti all'interno di un cilindro di cartone, meglio se inclinate a formare un angolo di 60°. Accostando l'occhio a un'estremità sarà possibile vedere figure geometriche simmetriche disposte a triangolo equilatero: l'immagine diretta su un lato, le due immagini riflesse sugli altri due lati. Una ragazza dagli occhi caleidoscopici non sarebbe in grado di distinguerci dallo sfondo su cui ci stagliamo. E forse è meglio così: dopotutto noi chi siamo, per stagliarci? Quando poi si avvicinasse a noi, ci vedrebbe scomposti in cento triangoli, il nostro ego trasformato in tappezzeria Op-Art. In un modo analogo secondo Timothy Leary l'LSD conduceva la coscienza personale alla "morte dell'Ego". Leary era convinto di avere letto qualcosa del genere nel Libro Tibetano dei Morti (anche Lennon se ne procurò una copia), ma l'idea proveniva meno indirettamente dalla psicologia junghiana. Era stato Carl G. Jung a formulare l'ipotesi che in ciascuno di noi si annidasse un inconscio collettivo, un'eredità ancestrale  che in passato si era espressa in miti e in leggende. Forse Julian aveva sentito parlare a scuola della donna-demone Lussi. Forse John la vede, con occhi di caleidoscopio, pronta a ghermirlo. In quel momento si riscuote: Ringo batte 1-2-3, John canta: "Lucia nel cielo coi diamanti!" È un'invocazione o un grido d'allarme?

Ovviamente c'è chi a Jung non crede: macché inconscio collettivo, tutto quello che puoi trovare sotto il tuo ego non rimanda ad altri che a te. La morte dell'Ego è un'illusione, come uno specchio caleidoscopico che ti mostra diamanti presi da chissà dove, nient'altro che frammenti della tua stessa immagine. Arthur Janov, che ebbe in cura Lennon nel 1970, aveva un'opinione pessima di Leary e dell'LSD ("la cosa più devastante mai esistita per la salute mentale"). Lennon a quel punto aveva già smesso per i fatti suoi (troppi bad trip), ma l'opinione così netta di Janov avrebbe potuto indurlo a respingere ufficialmente ogni riferimento con la canzone. Era un padre di famiglia, dopotutto.

La copertina di Aoxomoxoa, dei Grateful Dead (1969)
 disegnata da Rick Griffin, uno dei Big Five di San Francisco.
Picture yourself in a boat on a river. Abbiamo già notato come il valzer porti una nota lugubre alle canzoni dei Quattro. L'ultima canzone registrata dai Beatles nel 1970 è un valzer, con un breve inserto r'n'r. La prima canzone in tre quarti di Lennon è anche la prima in cui si parla di morte. Un ritmo ternario compariva anche a sorpresa al termine del bridge di She Said She Said, la prima canzone a descrivere un viaggio di LSD ("Lei disse: so come ci si sente da morti"). È un curioso paradosso che una droga che avrebbe dovuto portare alla scoperta di una nuova dimensione della coscienza ripeschi dall'inconscio di Lennon una melodia in tre quarti che i suoi nonni avrebbero potuto ascoltare alle feste danzanti; nel frattempo dall'altra parte del mondo, a San Francisco, cinque illustratori cominciavano a disegnare i poster del Fillmore West in una specie di Art Nouveau delirante e strafatto che corrisponde visivamente alle suggestioni rétro di cui i Beatles cominciano ad abusare insieme con gli allucinogeni. Come se l'LSD schiudesse alcune botole sospese sulle soffitte del subconscio infantile.

Un triangolo di Penrose. By Tomruen - Own work, CC BY-SA 4.0
Lucy in the Sky è una canzone che insiste sul ritmo ternario con l'ossessività di un caleidoscopio. Sin dal titolo, tutto compare in gruppi di tre. La metrica stessa del testo non ammetterebbe una cadenza diversa: Lennon compone dattili come se non avesse mai fatto altro nella vita ("Pict/ure/ your // self / in/ a // boat / on / a // ri/ver/ with...). Eppure, malgrado tutto, c'è ancora un ritmo quaternario nascosto da qualche parte, un principio di realtà che impedisce a John di spiccare il volo e perdersi per sempre. Lucy in the Sky malgrado tutto è ancora una canzone, e il buon senso quadrato prescrive che le canzoni vadano avanti a coppie di due versi. Dopo quattro versi infatti la strofa cambia tonalità – dal La al Si bemolle, ed è come se ci trovassimo sulla seconda rampa di una scala escheriana triangolare, un triangolo di Penrose. Persino i gradini di questa rampa compaiono in gruppi di tre (Si bemolle, Do e Fa: la progressione del ritornello Strawberry Fields). "Cellophane flowers of yellow and green / towering over your head". Ma proprio quando pensavamo di avere capito, il caleidoscopio ci tradisce, il senso quadrato della realtà comincia a perturbare l'ordine triangolare del sogno: su "your head" siamo tornati al Si bemolle di partenza: quando il verso successivo comincia ("Look for the girl") siamo già al Do: la simmetria sta per spezzarsi, nel caleidoscopio compare all'improvviso un accordo nuovo, un Sol. La tonalità sta già cambiando, siamo pronti per la terza rampa, sennonché tutto si ferma all'improvviso. Il terzo lato del caleidoscopio è quello senza specchi. Ringo batte 1-2-3 e la canzone riparte... in quattro quarti. Come osserva questo youtuber (che è bravissimo), Ringo sembra accelerare il battito, ma in realtà azzecca senza metronomo un rapporto quasi esatto tra il ritmo ternario della seconda rampa e quello quaternario della terza –  proprio come se quel 4/4 esistesse già, sepolto sotto gli strumenti e le immagini lisergiche, e a Ringo spettasse soltanto riportarlo alla luce. Gli accordi ora sono Sol, Do e Re, nella più classica delle disposizioni: I-IV-V. Ovvero (ci avevate fatto caso?) il ritornello di Lucy in the Sky è  Twist and Shout. O se preferite: Lucy in the Sky è quel che succede a Twist and Shout se la infili in un caleidoscopio. Non hai fatto in tempo ad accorgertene, che alla terza invocazione ricompare il La iniziale, e siamo di nuovo sulla prima rampa. Il ciclo si ripeterà, indovinate, altre due volte (la terza, per evitare la noia, si salta la rampa intermedia).

Climb in the back with your hands in the clouds and you're gone. Oltre a Twist and Shout – la cui cadenza ritorna ovviamente tre volte nella canzone, Lucy ricorda un altro brano di metà anni Sessanta che aveva incastonato la stessa progressione I-IV-V nel ritornello: Like a Rolling Stone (potete benissimo cantare i ritornelli uno sull'altro, se non c'è nessuno in casa a sentirvi: "Lucy" parte nel momento in cui Bob canta "Stone"). Lucy è un valzer: anche Rolling Stone all'inizio era un 3/4, almeno nella testa di Dylan. Nella traiettoria lisergica di Lennon, Lucy è il punto più alto: quello in cui rischia seriamente di perdersi in volo. Non è così chiaro se Lucy sia l'emissaria di una divinità che vorrebbe portarselo via o una donna che lo salva riportandolo a terra: sia come sia, nel momento in cui la realtà bussa alla porta, è fantastico che bussi con le bacchette di Ringo e che faccia partire un rock'n'roll.



35.  For No One (Lennon-McCartney, Revolver, 1966)

You want her, you need her, and yet you don't believe her. Dei tre verbi che di solito arrivano assieme (want, need, love) manca il più importante, al suo posto c'è il più amaro. Tra i titoli possibili per il disco del 1966, una volta scoperto che Abracadabra era già stato preso, accanto a Four Sides to the CircleAfter Geography e Rock'n'Roll Hits of 1966, Bob Spitz include anche Pendulum. Non c'è dubbio che Revolver suoni meglio, e che la rotazione sia una metafora più dinamica e coinvolgente rispetto all'oscillazione. E tuttavia c'è qualcosa di manifestamente pendolare in Revolver, un movimento abbastanza meccanico tra due identità sempre più definite e in contrasto fra loro: Lennon e McCartney ormai sono due polarità. Oppure in certi casi è lo stesso McCartney a oscillare tra due opposti: allo spettro della solitudine di Eleanor Rigby fa specchio l'utopia infantile di Yellow Submarine. Quanto a For No One, è difficile non immaginarla come la risposta gelida al sentimentalismo di Here, There and Everywhere. L'arrangiamento barocco è meno vistoso di quello di Eleanor e ha una funzione opposta: invece di accrescere il pathos, mantiene una sensazione di estraniamento. Lo senti già dal ritmo della strofa, una specie di valzer quadrato (un colpo in battere e tre in levare) spigoloso e artefatto – l'opposto di quel senso di liquida intimità che i cori conferivano alla strofa di Here, There. Quest'ultima cominciava con un languido verso introduttivo: For No One parte immediatamente col cantato, come se Paul non avesse tempo da perdere e in effetti uno dei suoi argomenti è che le relazioni fallite sono una gran perdita di tempo.

For No One è la più classica delle canzoni di disamore di McCartney, a questo punto ormai diventate un sottogenere codificato. È la più amara: la prima in cui la partner assume la terza persona, segno che ormai la separazione si è consumata. È anche l'ultima: fa un certo effetto pensare che Paul e Jane Asher avrebbero continuato a vedersi per altri due anni. Per trovare di nuovo un'amarezza del genere in un brano di Paul bisognerà attendere Abbey Road, e a quel punto non sarà la fine di una coppia, ma la fine del gruppo. Come ogni altra canzone di disamore, è disarmante: quando al colmo dell'amarezza Paul canta "A love that should have lasted years!" non puoi fare a meno di pensare che di solito nelle canzoni l'amore è eterno, anche solo per convenzione. Non per Paul: Paul aveva previsto un tot di anni insieme a questa persona e adesso è un problema, bisognerà trovare un rimpiazzo, una supplente, allestire dei provini in corsa, che fatica.

C'è un assolo smagliante di corno inglese accelerato (George Martin e Paul McCartney stavano inventando in laboratorio strumenti che non esistevano) che ti lascia lucido e impassibile. Ci sono versi di una freddezza definitiva, costruiti con un lessico di base ma con l'abilità necessaria per metterti nella posizione di disagio in cui si trova l'io narrante: "tu stai a casa, lei esce, dice che tanto tempo fa conosceva qualcuno ma adesso se n'è andato, non ha più bisogno di lui". Non riesci nemmeno a capire se sta parlando di te, non è il caso di chiedere, l'unica cosa è far finta di niente e ci provi, stai osservando più te stesso che lei, è quel tipo di emozione che sperimenti quando stai pilotando una relazione verso la fine riducendo i danni. Non proprio l'emozione che vorresti provare ascoltando un disco pop o rock, ma è un'emozione pure questa e Paul l'ha messa in una breve canzone per il grande pubblico. È stato probabilmente il primo della sua generazione a riuscirci (in America c'era Dylan che però poteva girare intorno al concetto per otto strofe). Tutt'intorno c'erano ancora innamorati o semplici ingrifati che ululavano alla luna. Lei piange, ma per chi? Come aveva già scoperto John in I'm a Loser, siamo tutti soli quando piangiamo. Le lacrime servono solo a noi stessi: o a nessuno.




34.  Dear Prudence (Lennon-McCartney, The Beatles, 1968).

"...Nessuno poteva sapere che presto o tardi sarebbe andata completamente fuori di testa sotto la cura di Maharishi Mahesh Yogi. Tutta la gente intorno era molto preoccupata per la ragazza, perché stava diventando matta, così noi le abbiamo cantato..." (recitativo di Lennon, dal demo di Dear Prudence registrato ad Esher).

La prima cosa che sentiamo emergere dal frastuono aeroportuale di Back in the USSR è un arpeggio di chitarra acustica. Non è il primo, ma suona come se lo fosse. I Beatles hanno scoperto il fingerpicking: per impararlo hanno dovuto davvero prendere l'aereo e viaggiare nell'altro capo del mondo, anche se alla fine il loro maestro era un chitarrista di Glasgow, Donovan Phillips Leitch. È uno degli aspetti che dividono il Disco Bianco dai precedenti: a partire dal 1966 e fino a tutto il Magical Mystery Tour, i tre compositori dei Beatles avevano preferito cercare nuove melodie su strumenti a tastiera. Il soggiorno in India cambia tutto: i Beatles passano più tempo all'aria aperta e si ritrovano più facilmente una chitarra tra le mani. C'è un bel sole, il cielo è azzurro, solo la sorellina di Mia Farrow non vuole uscire a giocare. Che in inglese si dice "play", e indica anche i giochi che si fanno con gli strumenti: la musica, insomma. "Scelsero me e George per cercare di tirarla fuori perché di noi si sarebbe fidata. Se fosse stata in Occidente, l'avrebbero ricoverata... Era rimasta rinchiusa per tre settimane, cercando di arrivare a Dio più rapidamente di chiunque altro. Questa era la competizione al campo di Maharishi: chi sarebbe diventato cosmico per primo".



I due ingredienti di molte canzoni del Bianco sono tipicamente chitarristici: riff insistiti e arpeggi. In Dear Prudence, oltre all'arpeggio così tipicamente lennoniano, verso la coda si aggiunge anche un riff a mò di contrappunto in classico stile George Harrison. Salvo che né Lennon né Harrison avevano mai suonato le chitarre così: è un nuovo inizio per entrambi. In sostanza la miscela di suoni hard rock e folk che costituirà la formula del rock milionario della prima metà degli anni Settanta era già a disposizione dei Beatles dalla primavera del 1968. Nel giro di due brani, il Disco Bianco è già oscillato da Chuck Berry ai Led Zeppelin.

Dear Prudence è una canzone che ha mantenuto una sua 'credibilità rock' per molto più tempo di altre composizioni di Lennon-McCartney: tornerà in classifica addirittura nel 1983 nella versione postpunk ma non troppo infedele di Siouxsie and the Banshees (con Robert Smith alla chitarra). Nel frattempo il fingerpicking era diventato un fenomeno di massa. Le nozioni che Donovan generosamente aveva condiviso con John venivano scambiate da milioni di chitarristi da falò ai loro discepoli ansiosi di far bella figura con ragazze. Tutte queste cose però Lennon non poteva ancora saperle, quando escogitava un arpeggio per snidare Prudence Farrow dal suo bungalow. Il canovaccio che milioni di ragazzi avrebbero recitato sulle spiagge del mondo libero per almeno vent'anni, comincia nel resort del Maharishi. Lennon si trova a essere un pioniere anche stavolta, e anche stavolta ci regala qualcosa di meno banale di tante cose venute dopo. Il suo arpeggio è una ruota di note gentili, delicate, ma anche insistenti, ossessive. Cara Prudence, bisogna proprio che vieni fuori. Gli accordi scorrono con grazia, ma il mi cantino continua a suonare quella nota assillante che dà tregua né a chi ascolta né a chi suona. C'è un limite oltre il quale l'insistenza diventa stalking, e non è escluso che Lennon in Dear Prudence lo oltrepassi. D'altro canto, perché dobbiamo sempre fissarci sul lato negativo? Il sole è alto, il cielo e blu, Dear Prudence è una bella canzone e John Lennon quel pomeriggio un tipo simpatico che si preoccupava per una ragazza che meditava troppo.



33. Please Please Me (Lennon-McCartney, lato A del primo singolo del 1963; poi nell'album omonimo).

Last night I said these words. E se decidessimo che è tutto cominciato con i Beatles? Come il Big Bang. Potremmo stabilire che tutta la cultura pop prima di loro non esistesse, e un attimo dopo fosse completamente compresa in loro, già in fase di espansione. Il rock, il pop, le boyband, la psichedelia, la musica elettronica... tutto ciò che ora popola galassie lontane, già in embrione nei Beatles. In questo caso Please Please Me sarebbe una delle prime rapidissime ere dell'universo, magari l'era della nucleosintesi (in cui la maggior parte dei neutroni decadde in protoni). Durò più o meno 100 secondi; Please Please Me non molti di più. Ma in quei secondi possiamo ingegnarci a trovare le tracce di qualsiasi cosa. C'è il rock, ovviamente ("Come on! Come on!), c'è la sfida al pentagramma di Paul che cantando tiene la stessa nota anche quando John è appena un semitono più sotto; c'è un riff di armonica ma anche due rapidi riff di chitarra a metà strofa, i giochi di parole ammiccanti (quei due "please" che suonano uguali e dicono l'esatto opposto: "ti prego, soddisfami"), un certo tasso di possessività maschile ancora confusa con un sentimentalismo sfacciato e persino qualche timida incursione nel surreale ("c'è sempre pioggia nel mio cuore"). Ci sono i ritornelli e c'è un bridge, c'è un finale con Ringo in gran spolvero perché deve dimostrare che merita di suonare in studio con gli altri tre. Potremmo decidere che è tutto cominciato così, con l'armonica di John Lennon che separa la luce dalle tenebre. Ma dobbiamo proprio?

È come se avessimo bisogno di leggende ed eroi, ci spiegava Stephen Jay Gould in Bravo Brontosauro. Ogni volta che ci viene proposto di scegliere tra un mito della creazione e una teoria dell'evoluzione, il primo ci sembra più praticabile. Gould faceva l'esempio del baseball: se gli americani avessero accettato che era nato dall'evoluzione continua di altri giochi con la mazza e con la palla provenienti dalle isole britanniche, non avrebbero avuto eroi da onorare e musei da visitare. Niente simboli, niente storie epiche: una storia che ti priva di queste cose, è ancora una storia che vale la pena raccontare?

"Sono nato nel 1963, quello che, per ragioni varie e non solo narcisistiche, considero il Primo Anno del Rock. (Il rock'n'roll anni cinquanta era più grezzo e spettacolare; è nel 1963 – l'anno di Beatles, Dylan e degli Stones – che l'idea del rock come Arte, del rock come Rivoluzione, del rock come Stile di Vita e del rock come Forma Consapevolmente Innovativa cominciò davvero a esistere)". In questo brano di Retromania (2011) Simon Reynolds afferma la sua fede in un mito della creazione: non è che non si suonasse qualcosa di simile al rock anche prima del 1963, ma... in un qualche modo non conta; l'Arte, la Rivoluzione, lo Stile di Vita, la Consapevolezza cominciano con l'armonica di Lennon. Eppure.


Eppure basta avvicinarci al supposto Big Bang per scoprire che tante cose esistevano già. Persino quell'armonica, sappiamo che Lennon l'aveva ripresa in mano perché ne aveva sentita una nel brano che aveva appena scalato le classifiche inglesi. La stessa Please Please Me, che all'inizio era più lenta e confidenziale, per sua ammissione era un tentativo di imitare, "tra tutti, proprio Roy Orbison". E se il risultato finale dopo l'accelerazione impressa da George Martin, non assomiglia a nessuna canzone di Orbison in particolare, sembra però adattarsi alla descrizione che ne dà Dylan nella sua autobiografia: "Orbison andava al di là di tutti i generi, folk, country, rock and roll o qualunque altra cosa. Mescolava tutti gli stili, compresi quelli che non erano ancora stati inventati. In un verso cantava veramente da cattivo, in quello dopo se ne usciva con un falsetto alla Frankie Valli. Con Roy non si sapeva mai se stavi ascoltando del mariachi o un'opera lirica". L'Orbison idealizzato da Dylan è già un autore postmoderno, un'enciclopedia di stili che sfoglia e ricombina a suo piacimento, sempre con l'obiettivo di stupire l'ascoltatore. Please Please Me è un brano che conserva questa imprevedibilità: anche dal cantante non sappiamo cosa aspettarci, è una canzone d'amore o di frustrazione?

"I don't want to sound complaining", mente John, che nel brano si lamenta eccome: ma il prodotto finito è così scoppiettante che anche le sue recriminazioni sembrano uno scherzo. I più smaliziati in effetti leggono in Please Please Me l'auspicio di una più generosa disponibilità della partner al sesso orale ("as I please you"), e se la cosa può sembrare un po' osée per il 1963, bisogna ricordare che anche in questo i Beatles non facevano che rispondere alle sollecitazioni dell'ambiente: se non avessero inciso Please l'alternativa sarebbe stata l'altrettanto ammiccante How Do You Do It di Mitch Murray ("Come fai a fare le cose che mi fai? Se sapessi come fai te le farei"). Dopotutto la Parlophone era famosa per i dischi di varietà. I Beatles non avevano ancora messo a fuoco il loro target: nel giro di pochi mesi, man mano che si chiariva l'età piuttosto bassa e la preponderanza femminile del loro pubblico, i riferimenti al sesso si sarebbero stemperati..

C'è veramente tanta roba in Please Please Me, come se i Beatles ritenessero di avere a disposizione solo un altro singolo per sparare tutte le cartucce che avevano: e forse era così. Ma se Reynolds avesse voluto guardare più da vicino, avrebbe constatato che è tutta roba che esisteva già: i Beatles muovono i primi passi in un mondo già saturo di stili musicali. Quello che dal nostro remoto punto di vista sembra il Big Bang, non era che una collisione di elementi già disponibili in natura. Certo, accettarlo implica una concessione pesante: ammettere che l'universo esisteva, e suonava musica interessante, anche prima che nascessimo noi.




32.  Day Tripper (Lennon-McCartney, singolo, dicembre 1965)



Ci ho messo così tanto ad accorgermene. Dando un'occhiata alle classifiche appare abbastanza chiaro che Day Tripper fu un mezzo passo falso, soprattutto negli USA. Dopo tre anni, John Lennon aveva anche il diritto di farne. Eppure in un certo senso non se ne riprese più: su Day Tripper aveva scommesso, si era impuntato contro il parere dei colleghi; aveva preteso che non fosse considerato un Lato B, ma una canzone a pari dignità con quella della facciata opposta. Col senno del poi, la posta in gioco era la direzione artistica del quartetto, che dal 1966 passa inesorabilmente al collega che nell'anno precedente aveva associato la sua voce e la sua immagine a Yesterday e Michelle. Paul si assumerà la responsabilità del lato A del singolo successivo (Paperback Writer), di entrambi i lati del seguente (Eleanor Rigby Yellow Submarinee di quasi tutti i singoli da lì in poi, pur con eccezioni importanti (Strawberry Fields almeno ottenne pari dignità rispetto a Penny Lane). È interessante notare che il 1965 che termina con passo falso di Day Tripper, era iniziato con un singolo completamente lennoniano: Ticket to Ride / Yes It Is.

Ma anche nei confronti di un brano innovativo come Ticket, questa Day Tripper risultava un po' deludente, al punto che gli stessi autori sentirono abbastanza presto la necessità di giustificarsi: era un brano scritto in fretta per rispettare una scadenza. Il che in realtà si potrebbe dire quasi di tutti i brani dei Beatles – soprattutto dei primi quattro anni – ma non particolarmente di Day Tripper, che cronologicamente appartiene al blocco delle canzoni di Rubber Soul: per dire, tre giorni prima di inciderla avevano già completato Drive My Car; nello stesso giorno finirono If I Needed Someone, due giorni dopo In My Life, quattro giorni dopo la canzone "rivale", We Can Work It Out. Non è che fossero a corto di buone canzoni, insomma. Ma in un qualche modo Lennon pensava che Day Tripper avrebbe funzionato come singolo meglio di tutte le altre: e si sbagliava. Un anno prima aveva scommesso su I Feel Fine e aveva portato a casa la quinta Numero Uno in due anni. Il riff di Day Tripper nasce proprio come un'evoluzione di quello di I Feel Fine: è più incisivo ma ancora piuttosto ingombrante. Per Lennon la direzione era segnata: i Beatles dovevano indurirsi, lasciare perdere i coretti sdolcinati che ancora incrostavano il bridge di I Feel Fine, assumere un atteggiamento più disincantato nei confronti delle relazioni con l'altro sesso.

Day Tripper è una risposta alla sfida dei gruppi che stavano avendo successo con pubblici più maschili: gli Who di My Generation, i Rolling Stones di Satisfaction. Prima ancora che con le parole, Lennon risponde con la chitarra: suonate questo riff se ne siete capaci (il riff dal vivo però lo suonava George). Proprio quando la solita alternanza di Mi, La e ancora Mi ti ha convinto che Day Tripper è il solito blues, e che stavolta insomma i Beatles non si sono sprecati a inventare qualcosa di nuovo, proprio quando stai per aspettarti il solito Si, la progressione tradisce le tue aspettative con un Fa#: per una coincidenza che forse non lo è, è anche il momento in cui John e Paul scoprono che la tizia è un'impostora, una poser, una che che vuole essere a casa in giornata ("She was a day tripper!") Da lì in poi non c'è più nessun sentiero tracciato: per una battuta si torna al La ("It took me so"...), ma solo per scivolare un semitono più sotto ("...long"), dal La bemolle si rimbalza di una quinta al Do# ("to find out"), e a quel punto per una strada completamente nuova ritroviamo il caro vecchio Si: e per una coincidenza che forse non lo è, il testo ripete "And I found out". Un bel viaggio, anche se breve. Ma purtroppo quando fai uscire un singolo la prima impressione è molto importante: e la prima impressione che lasciava Day Tripper veniva impressa dalle prime battute: un riff pentatonico su un blues, niente che gli stessi Beatles non ci avessero già fatto ascoltare con I Feel Fine, appunto. Quanto al bridge, tutto su un accordo solo con le voci armonizzate che salgono di tono e di volume, sembra quasi ritagliato da Twist and Shout, uno dei primi esempi di autocitazione.

Per quanto riguarda le parole, si fa fatica a non interpretare Day Tripper come un'evoluzione cinica di Ticket to Ride: la presa di distanza da una ragazza che simulava una disponibilità che non aveva intenzione di concedere davvero. Per l'ennesimo buffo paradosso, questa canzone che evidentemente parla di sesso e di quanto sia frustrante a volte cercarlo, è una delle poche che sia per John sia per Paul parlerebbe invece di stupefacenti. Lucy no, Cold Turkey neanche, ma questa sì. Dovremmo dunque credere che "tripper" alluda già alle prime esperienze di LSD; che i Beatles a fine 1965 avessero spalancato le porte della coscienza al punto da dedicare mezzo singolo di Natale a irridere i "viaggiatori della domenica", quei poveri mortali che facevano della droga ancora un banale uso ricreativo. Uno sfoggio di snobismo mai svelato fino a quel momento, e nemmeno in seguito. Dovremmo credere a tutto questo quando sappiamo benissimo che durante le prove Paul e John cantavano "she's a prick teaser". Ma forse negli anni successivi ammettere di avere fatto uso di droghe era più socialmente accettabile di essersi comportati da stronzi con una o più groupie. Forse uno dei motivi per cui Day Tripper non aveva funzionato era proprio questo tipo di stronzaggine, perfetta nella bocca larga di un Mick Jagger, ma che non si adattava né all'immagine pulitina dei Beatles pre-Day Tripper  né a quella peace and love che si sarebbe messa a fuoco nei mesi successivi. I Beatles potevano assumere tante forme, ma non potevano fare gli stronzi. Lennon ogni tanto ci provava, ma pensare di poterlo fare sul singolo di Natale fu imperdonabile.



31. She Said She Said (Lennon-McCartney, Revolver, 1966).

"Peter Fonda continuava a sedermi di fianco e a mormorare: "so come ci si sente a essere morti". Gli dicevamo "Per l'amore del cielo, taci, non ci interessa! Non vogliamo saperlo!"

She said: you don't understand what I said. I said no no no, you're wrong. Ecco, questa è la prima volta che m'incazzo io. Cosa ci fa fuori dalle prime trenta un brano da podio? Delle due tracce di Revolver che suonavano ancora attuali ancora negli anni '90, She Said She Said è apparentemente meno innovativa di Tomorrow Never Knows. Eppure quando penso a tutti i tentativi di stravolgere la forma "canzone rock" nell'ultimo mezzo secolo, continua a non venirmi in mente niente di più estremo del passaggio a 3/4 di She Said She Said. Una soluzione che in altri casi viene dispensata con compiacimento e qui invece è tanto inattesa quanto necessaria – come rompere la tela di un quadro, e poi riaggiustarla appiccicandoci il disegno di un bambino ("when I was a boy...")

Peter Fonda uscito da un tribunale a Los Angeles,
dov'era stato interrogato per possesso di marijuana, nel 1966
(AP Photo/Ellis R. Bosworth)
Lennon mi stava fissando e disse: "Sai cosa significa essere morti? Chi è che ti ha messo tutta quella merda in testa? Lo sai, mi stai facendo sentire come se non fossi mai nato".

In She Said She Said manca Paul McCartney – un fatto rarissimo in tutta la discografia beatle: succede soltanto in qualche altro brano fortemente idiosincratico, come Julia o Revolution 9Lo stesso Paul ha ricordi confusi, ma potrebbe essere l'unica volta che se n'è andato dopo una discussione. Il sospetto che non riuscisse a mandar giù quel bridge in 3/4 è irresistibile. Magari era convinto che avrebbe rovinato la canzone e oggettivamente non avrebbe tutti i torti – ma cosa significa "oggettivamente". Paul era anche l'unico dei quattro a non avere assunto LSD durante la festa nella residenza californiana di Zsa Zsa Gabor, il 24 agosto 1965. Per Ringo fu la prima volta: per John e George la seconda dopo un primo test involontario in primavera, quando un dentista gliene aveva somministrato senza avvertirli.

Forse è solo una coincidenza: fatto sta che gli altri tre ci danno dentro come se non ci fosse un domani (Ringo è nella modalità Rain) e il risultato è un rock trasudante un'angoscia esistenziale che diventerà moneta corrente solo due generazioni più tardi. Nessun altro gruppo nel 1966 sarebbe riuscito a suonare o anche solo a concepire She Said She Said: ci voleva una fantasia e un coraggio che solo i Beatles potevano permettersi. Come molte canzoni di Revolver, She Said parla di droga, ma senza condividere i toni euforici di Got to Get You né quelli estatici di Tomorrow Never Knows: qui si comincia a intuire che la droga è un altro punto di vista sul disagio di vivere. She Said è la prima canzone sugli acidi ed è anche la canzone che ti avverte che gli acidi sono un casino, meglio evitarli se hai cattivi pensieri, e chi non ne ha? No no no chi vi ha messo tutte queste sciocchezze nel cervello, sarebbe meglio non essere mai nati.

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