Tra i pezzi sui santi che non ho ancora rimesso a posto c'è quello su Carlo Borromeo, che dovrei proprio riscrivere da capo. Per quanto il tizio mi sia antipatico (quanto può esserlo un amministratore milanese assai bigotto) (cioè tantissimo) devo ammettere che sono stato molto più ingiusto con lui che con altri. Nel Borromeo mi sono sforzato di vedere l'anticipatore di quella che
"i teocrati milanesi di oggi chiamano “sussidiarietà”: dove lo Stato non arriva ci pensa la Compagnia, per cui è una fortuna che lo Stato non arrivi quasi mai a combinare nulla di concreto. Nel caso della peste lo Stato si adopra così poco, e Carlo così tanto, che l’epidemia viene onorata del suo nome, e ancora oggi la si chiama “peste di San Carlo”.
Fin qui se ne poteva ancora discutere: in fondo non era colpa di Carlo se gli amministratori spagnoli abbandonarono Milano a sé stessa; il problema è quel che soggiungevo:
Per i suoi detrattori, la peste merita ugualmente di essere chiamata di San Carlo perché senza di lui probabilmente sarebbe durata molto meno: senza la sua mania di convocare oceaniche processioni, formidabili occasioni per la diffusione del morbo, ci sarebbero state assai meno vittime, assai meno occasioni per dimostrare l’abnegazione del cardinale. Va bene, per l’epidemiologia era ancora molto presto, ma l’osservazione che le adunate di popolo facilitavano il contagio era già condivisa da dotti e sapienti, e Borromeo se ne fregava: aveva il suo Sacro Chiodo da far sfilare, tra i mucchietti di vittime del giorno; e se non avesse funzionato, si poteva pure bruciare qualche untorella.
E qui, davvero, stavo giocando sporco. Non risultano untorelle bruciate sul rogo a Milano durante la peste di San Carlo, anche se almeno un poveraccio lo impiccarono con un'accusa del genere. D'altro canto quando c'era una donna da condannare al rogo con l'accusa di stregoneria il cardinale non si tirava certo indietro, anzi: in almeno un'occasione dovettero intervenire il Papa e l'inquisizione per... fermarlo, perché secondo Carlo accuse del genere erano troppo gravi per garantire un giusto processo. Ma nel caso della peste del 1576, il mio vecchio pezzo travisa completamente l'atteggiamento assunto dal Borromeo. È vero, che le adunate di popolo facilitassero il contagio era già un'osservazione condivisa; è vero, Borromeo ritenne giusto organizzare comunque delle processioni, ma nell'occasione prese precauzioni che a distanza di quattro secoli facciamo fatica a prendere noi. La processione che portò il Sacro Chiodo in giro per la città il 5 ottobre era composta di soli uomini: donne e minori di 15 anni, che risultavano maggiormente soggetti al contagio, erano in lockdown domiciliare dal primo ottobre. Tra un partecipante e l'altro, un distanziamento di tre metri, che considerati i modi spicci dei birri del tempo era probabilmente rispettato (noi oggi a più di un metro di distanza non riusciamo a stare, neanche in coda in farmacia).
Il pittore (Fiamminghino) ha l'aria di non aver mai assistito a un lockdown in vita sua. |
Altre direttive del Borromeo ai suoi sottoposti fanno intuire che una rudimentale scienza epidemiologica esistesse già, anche in mancanza di microscopi e del concetto di virus. Dando un'occhiata un po' più da vicino al suo caso, mi sono accorto di quanto somigliasse al terremoto estense di qualche anno prima: anche in quel caso accanto a risposte completamente irrazionali, c'era già chi basandosi sui fatti formulava proposte operative che funzionano ancora oggi. Non erano tutti cretini nel Cinquecento, così come non lo siamo noi del Duemila che in teoria abbiamo ancora meno scuse. Carlo visitava i malati come il suo ruolo imponeva, ma si portava una lunga bacchetta per tenerli a distanza: tra una visita e l'altra faceva bollire i vestiti (quindi l'idea che qualcosa di minuscolo non resistesse alle forti temperature c'era già: al limite le pulci). Altri strumenti, in un mondo senza alcool distillato, erano la spugna d'aceto e le candele su cui passare le mani dopo aver distribuito l'eucarestia. Certo, era pur sempre un uomo di fede e di una fede rigida, arcigna: eppure non si oppose alla decisione del Tribunale di Sanità di prolungare il lockdown oltre il giorno di Natale, malgrado già a metà dicembre la curva dei contagi fosse scesa. Diede anche disposizione perché i sacerdoti benedicessero le abitazioni dalla strada, senza entrarvi. Insomma l'immagine fortissima della basilica di San Pietro vuota durante la pasqua del 2020 non è, come credevo, una completa novità storica. Persino nel periodo più cupo della Controriforma, un cardinale intransigente sapeva quand'era ora di chiudere le chiese, e che oltre a sperare in Dio bisognava anche stare in casa il più possibile. Il lockdown sarebbe durato fino a febbraio. Tutto sommato, un successo, se si confronta per esempio il numero pur ingente di vittime (17000) con quanti ne morirono per lo stesso morbo a Venezia (70000).
Tutto questo quando mi misi a scrivere il pezzo su San Carlo non lo sapevo, il che non mi scusa: avrei potuto almeno arrivarci via Manzoni. La peste che lui descrive arriva cinquant'anni dopo – il mezzo secolo che noi italiani siamo abituati a considerare come il trionfo dell'oscurantismo, quello in cui si processano Bruno e Galilei. Tutto giusto, eppure in capo a questo mezzo secolo, quando i milanesi chiedono al nuovo cardinale Borromeo di portare in processione le spoglie del vecchio, Federigo si mostra tutt'altro che entusiasta. "Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l'effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c'era di questi untori, la processione fosse un'occasion troppo comoda al delitto: se non ce n'era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale".
Le autorità però insistono e alla fine Federigo cede. Dopo tre giorni di preparativi, una parata in grande stile percorre Milano. Il "venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio" viene scorrazzato per la città con molte meno precauzioni di quante aveva voluto prendere da vivo: la processione si ferma a tutti i crocicchi in cui il vecchio cardinale aveva fatto erigere delle croci per le celebrazioni religiose all'aperto. Questa cosa per me rappresenta un'ironia micidiale: Carlo che da vivo aveva lottato contro il contagio, da morto diventa un feticcio che guida i milanesi nell'opposta direzione: i simboli del distanziamento sociale che da vivo aveva disseminato per la città diventano dopo cinquant'anni i luoghi di assembramento intorno al suo cadavere. "Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto, regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l'occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d'un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all'infinita moltiplicazione de' contatti fortuiti, attribuivano i più quell'effetto; l'attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d'eseguire in grande il loro empio disegno".
Insomma San Carlo poteva essere un oscurantista misogino: ma non un cretino. Nemmeno suo nipote Federigo. Il che non significa che cretini non ce ne fossero anche a quei tempi; e ancor più dei cretini tanta gente in buona fede ma un po' troppo disposta a credere a quel che vuole, e quel che vuole è sempre una versione dei fatti semplificata, rassicurante, e qualche volta foriera di disastri. A Milano, nel 1576, per partecipare a un corteo serviva un distanziamento di tre metri; cinquecento anni dopo, ci capita ancora di doverne spiegare il perché, a gente che non se ne convince. San Carlo non era un cretino: noi ci arrangiamo.
continuo a pensare - e probabilmente l'ho scritto anche cinque anni fa - che san Carlo era una lenza. Sei lì, partecipi alla controriforma dove sai che il papa ti toglierà tutta l'autonomia che avevi (e l'arcivescovo di Milano ne aveva a iosa da un millennio o giù di lì) a partire da come dire la messa, e tiri fuori l'asso dalla manica: "va bene, ma concediamo l'uso del proprio rito a chi può dimostrare di usarlo da un numero sufficiente di secoli". Casualmente restò solo il rito ambrosiano.
RispondiEliminaComplimenti per il recupero del dato storico. Manca ancora l'approccio scientifico alla lettura della storia. Un consiglio, quindi. Si liberi del suo pregiudizio anticristiano e della supponente arroganza, caratteristicamente laicista, che appesantiscono, "gratuitamente", le sue esposizioni. Comunque complimenti per questo incipit di libertà interiore.
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