28 maggio: San Giusto di Urgell, glossatore cattolico di poesie d'amore
Biblioteca universitaria di Bologna |
28 maggio: San Giusto di Urgell, glossatore cattolico di poesie d'amore
Biblioteca universitaria di Bologna |
(Discografia di Franco Battiato, #3)
Episodio precedente: Il periodo Polydor
Fetus (registrato entro il novembre 1971, pubblicato da Bla Bla nel gennaio 1972).
Il disco-embrione
Fetus è il disco con cui Franco Battiato decide di nascere: tutto quello che aveva tentato prima è rimosso, relegato in una condizione pre-natale. Altri artisti in quegli anni mutano bruscamente traiettoria, cambiando immagine pubblica e nome d'arte: Battiato mantiene il suo, ma cancella tutto quello che ha significato in quel momento. È difficile pensare che non ne fosse consapevole, ma la simbologia fetale che domina il disco sin dal titolo richiama questa sua condizione: l'artista è appena nato, è un embrione. In quanto tale contiene già tutte le potenzialità che svilupperà da lì in poi – l'elettronica, Bach, le ballate, la tarantella, i campionamenti – ma in una forma, va da sé, embrionale. Tra i solchi c'è anche qualche possibilità che Battiato scarterà subito: un po' d'improvvisazione quasi jazz e qualcosa che richiama il Bowie di quegli anni (convergenza evolutiva)?
Quando compone Fetus, Battiato ha alle spalle più di un lustro di esperienza da compositore e performer. Altri approfitterebbero della prima possibilità di incidere un 33 giri per mettere assieme un repertorio di canzoni accumulato negli anni. Battiato, che un po' di canzoni da parte ne aveva, con Fetus fa quasi tabula rasa. Il passato cantautoriale/canzonettistico non sparisce del tutto, ma è fatto a brandelli e riciclato in montaggi di mini-brani giustapposti. Fetus da questo punto di vista è il disco in cui la forma canzone viene sottoposta alle maggiori torsioni, al punto che nel secondo lato è davvero arbitrario decidere quando finisce un brano e ne comincia un altro. Il "concept" è ispirato al Mondo nuovo di Huxley, ma sviluppato in modo vago ed enigmatico, non dissimilmente a quanto succedeva nei concept album del periodo.
Può darsi che Fetus sia invecchiato peggio di altri dischi di FB. Quando uscì, sorprese gli ascoltatori più smaliziati (tra cui a quanto pare Frank Zappa, a cui sarebbe sfuggito quel famoso "Battiato is a genius": la fonte però è Pino Massara). Persino negli anni più creativi del prog, Fetus suonava come qualcosa di strano e originale. Lo è tuttora, anche se forse come ascoltatori siamo meno disponibili a lasciarci sconvolgere dalle arcane incursioni del sintetizzatore VCS3, qualcosa che non si era ancora ascoltato neanche nei dischi inglesi e americani.
1972: Fetus (#98)
Non ero ancora nato che già sentivo il cuore che la mia vita nasceva senza amore. È abbastanza clamoroso che un autore apprezzato per le sue esuberanze lessicali esordisca proprio con la rima cuore / amore, e con una sintassi così incespicante – sarebbe stato sufficiente cantare "già sentivo in cuore" perché la frase filasse liscia: sì, ma Battiato non resiste, con la fatica che deve aver fatto a incidere su vinile nel 1972 un realistico battito di un cuore in anticipo su The Dark Side of the Moon, lui vuole proprio dirci che lo sente, sente "il" cuore (musicalmente la primissima frase somiglia già parecchio all'introduzione di Stranizza d'amuri).
Battiato, dicevamo, nasce con Fetus, e cioè con un'incertezza fondamentale: perché non si è mai capito con quale brano Fetus dovesse cominciare. Nella copertina della prima edizione si legge che il primo brano è l'omonimo Fetus: il disco inizierebbe dunque con il cuore pulsante. Si tratta però di un errore, perché a mettere il disco sul piatto si scopre che il primo brano è Energia, come è anche scritto sulla label: un inizio ancora più suggestivo, con le voci dei bambini di una scuola materna di Milano e le prime ipnotiche sequenze di note sintetizzate. La discrepanza tra la scaletta della copertina e quella del disco ci fa pensare che Battiato abbia cambiato idea all'ultimo momento, magari consigliato da un collaboratore che trovava l'attacco di Energia più appropriato. O forse ha prevalso la coerenza narrativa: Fetus racconta la storia di un embrione a cui comincia a battere il cuore, ma Energia risale a un livello ancora precedente: è una canzone, come dire, sulle emissioni spermatiche. La scelta di cominciare con Energia viene ribadita nella versione inglese, Foetus, che però resta inedita. Invece, quando nel 1998 Fetus viene finalmente ristampato su CD, la scaletta è di nuovo cambiata. Ora il primo brano è Fetus, il che farebbe pensare che chi ha curato la ristampa si sia sbrigativamente basato sulla scaletta della copertina del LP. Ma non è esattamente così, perché Energia, che sulla copertina stava al secondo posto, ora sta addirittura al quarto (tra Cariocinesi e Fenomenologia), in una posizione che nella scaletta originale avrebbe potuto occupare l'ultimo brano del primo lato. Che Battiato avesse cambiato idea? A conoscerlo, è difficile immaginare che volesse ritoccare un disco per lui così remoto (e dal quale non attingeva più materiale nemmeno per i concerti). Nel frattempo, appunto, i suoni del VCS30 non sembravano più così fantascientifici, ma ormai modernariato, il che appannava un po' l'attacco di Energia; mentre il battito del cuore di Fetus faceva ancora il suo effetto – e Dark Side of the Moon continuava a vendere come il pane, per cui non è nemmeno impossibile che qualcuno abbia pensato di riconfezionare Fetus per renderlo un po' più pinkfloydiano.
Nella seconda parte il brano diventa un campionario dei suoni che Battiato è riuscito a estrarre dal VCS3, il pioneristico sintetizzatore su cui era riuscito a mettere le mani, primo in Italia (e terzo nel mondo, a detta di Pino Massara). Sono suoni ancora molto suggestivi, anche se nel finale FB sembra dominato dalla volontà di stupire con effetti speciali. Entusiasmo puerile, più che comprensibile in un embrione. Prima dell'esplosione finale di suoni, compare il fraseggio che risentiremo più tardi in Energia.
1972: Energia (#130)
Più tardi Franco Battiato riuscirà ad accreditarsi presso il pubblico italiano come l'anti-macho, colui che non può essere sospettato non già di concupire, ma di consentire che qualche sua occasionale concupiscenza si tramuti in azione prevaricatrice o anche solo vagamente maliziosa nei confronti di una persona concupita. Proprio per questo è curioso che la sua carriera 'seria' cominci con un'affermazione incredibilmente bomberistica: "Ho avuto molte donne in vita mia, e in ogni camera ho lasciato qualche mia energia". Nientemeno. Ma appunto, solo a Franco Battiato poteva essere consentito di cantare una cosa del genere senza suggerire nessuna velleità da sex machine.
Per Fetus provo qualcosa di molto particolare: è un disco del 1972, quando ero un feto anch'io, insomma siamo coetanei. Certi suoni di questo disco li sento in un modo particolare – solo certi dischi prog anni '70 mi danno questa sensazione, l'illusione di averli sentiti in un passato remotissimo e in bianco e nero. Potrebbe essere perfino successo, perché no? Potrei essere rimasto davanti al vecchio televisore con quattro tasti e senza telecomando mentre in Rai passava un'intervista al giovane Battiato inframezzata da suoni presi da Fetus. In particolare potrei avere ascoltato i primi secondi di Energia, che fino all'edizione in CD del 1998 era il primo brano del disco ed è qualcosa che a distanza di tanti anni mi dà ancora i brividi, il fraseggio ipnotico del sintetizzatore VCS3 che copre le voci dei "Bambini della Scuola Materna Istituto San Vincenzo di Milano". Nella mia memoria c'è appena l'ombra di un ricordo, è come se quei bambini che parlano li avessi visti giocare e guardare in camera mentre l'immagine si satura di luce come una foto troppo sviluppata. Potrei aver persino provato paura di fronte a una combinazione mai sentita prima di suoni e voci.
La canzone vera e propria invece no, credo proprio di averla ascoltata già adulto. Tratta di un argomento che nel 1972 doveva suonare davvero scabroso – l'eiaculazione, e la vertigine che il maschio sperimenta quando ci riflette, cosa che avviene (quando avviene) sempre soltanto dopo, prima riflettere è impossibile. Ma dopo a volte ti coglie questo pensiero tremendo, che ti sei liberato in un colpo di migliaia di potenziali vite, diomio sono un mostro, ma che colpa ne ho, la natura è così. “Quanti figli dell’amore ho sprecato io / racchiusi in quattro mura ormai saranno spazzatura”. Di emissioni spermatiche metaforiche o reali Battiato continuerà a cantare per tutta la sua carriera, malgrado la rivendicata castità: in Mesopotamia "la prima goccia bianca che spavento", e come dimenticare l'incipit di Dieci stratagemmi, "eiacula precocemente l'impero" (viene il sospetto che persino il titolo del secondo album, Pollution, sia un tremendo gioco di parole). Ma già nel 1972 la sua concezione del liquido seminale come "energia" che non si dovrebbe sprecare si avvicina più alla trattatistica indù che al mondo morale cattolico.
Sarò una cellula tra i motori. Battiato ha inciso Fetus mentre era in servizio militare, anzi ricoverato all'ospedale militare perché fisicamente "incompatibile" alla vita in caserma (la sera evadeva saltando un cancello, probabilmente aveva corrotto una guardia o due). La cartolina lo ha sorpreso a metà di una delle sue metamorfosi più delicate, da aspirante cantautore ad artista di avanguardia. Il carattere peculiare di Fetus è proprio in questa natura stratificata: è un disco che vuole assolutamente essere un'opera prima, qualcosa di mai sentito e appena nato, eppure tra i motori smaglianti c'è ancora qualche cellula del vecchio organismo. Una cellula è uno dei brani che più somiglia a una canzone tradizionale: c'è la melodia accattivante, una progressione armonica ben riconoscibile, addirittura il ritornello. Poi, certo, il VCS3 suonato a tutto volume garantisce una carenatura sperimentale: ma dentro a cercare bene c'è ancora il vecchio Francesco Battiato.
1972: Cariocinesi (#153)
Un nucleo si divide, l'errore lo interrompe. Il fascino particolare di certe opere prime risiede anche negli errori di percorso, in tutti gli esperimenti non riusciti e da lì in poi accantonati che ci fanno per un attimo immaginare che lo stesso artista avrebbe potuto prendere strade completamente diverse, ci è mancato pochissimo. Ad esempio Cariocinesi è un intermezzo jazz nel bel mezzo di Fetus – ok, è un jazz sui generis, una specie di swing con in evidenza il violino di Sergio Almangano, una batteria elettronica usata per la prima volta in un disco italiano e una chitarra ritmica forsennata. Non è certo il momento più innovativo di Fetus, ma è qualcosa di divertente che Battiato non tenterà (quasi) mai più: da lì in poi, pur percorrendo innumerevoli e apparentemente incompatibili universi musicali, dal jazz si terrà sempre a rispettosa distanza: anche nella fase della sua carriera più orientata all'improvvisazione, che sta per cominciare.
1972: Fenomenologia (#128)
Rispetto ai due dischi successivi, a Fetus manca un vero leitmotiv, ovvero ce n'è più di uno ma sono meno ricorrenti e riconoscibili. Del resto è un'opera prima, quel tipo di disco in cui ci sono sempre più idee del necessario: in seguito gli artisti imparano come economizzarle. E c'è ancora molta chitarra acustica, uno strumento che FB maneggia con più sicurezza del synth, per cui c'è questa curiosa inversione: quando si tratta di fare atmosfera, Battiato ricorre alla chitarra arpeggiata (qui all'inizio e alla fine del brano), mentre dal synth tira fuori i riff più rumorosi e in generale il baccano. Riflettendoci, forse una specie di leitmotiv sono le scale discendenti, suonate in momenti diversi sia con la chitarra (qui all'inizio) sia col synth. In Fenomenologia compare anche il primo ritornello mutuato dal lessico scientifico: qui FB mette in musica la formula geometrica della doppia spirale, ovvero "x1 = a*sen (ωt), x2 = a*sen (ωt + γ)".
1972: Meccanica (#126)
Nel secondo lato di Fetus distinguere le tracce comincia a essere complicato. Più di un brano è composto da movimenti diversi e giustapposti, che svelano l'aspetto più sperimentale nel puro senso della parola (FB sta veramente imparando a suonare il nuovissimo synth VCS3) tra cui si distinguono i primi tentativi di trovare un leitmotiv. In Meccanica debuttano alcuni stilemi del Battiato '70: ad esempio il momento in cui il riff elettronico si trasforma in una specie di tarantella. E soprattutto c'è il primo collage di oggetti trovati, anche questo ancora embrionale ma promettente: una discussione tra gli astronauti dell'Apollo 11 montata sul sottofondo dell'Aria sulla Quarta Corda di Bach, rallentata da Battiato (perché nella sua testa la sentiva "più lenta") appesantendo il disco con una peso. È un momento che doveva suonare particolarmente suggestivo agli ascoltatori del tempo, per una serie di effetti che forse oggi facciamo più fatica a percepire: non soltanto montaggi sonori di questo tipo sono diventati molto più semplici da realizzare e ascoltare, ma l'associazione tra spazio interplanetario e Aria sulla Quarta Corda è diventata un po' banale, dopo decenni di Quark e Superquark. A dire il vero quando Battiato incise Fetus, Piero Angela aveva già portato in tv la versione dell'Aria degli Swingle Singers da cui non si sarebbe mai più separato, in una trasmissione che non si chiamava ancora Quark ma Dimensione uomo (1971). È difficile che Battiato non conoscesse la trasmissione – ma magari l'aveva vista distrattamente, al bar, e il collegamento tra Bach e astronauti gli era rimasto impigliato nell'inconscio. E due anni prima, comunque, tutti sono andati al cinema a vedere e ascoltare 2001 Odissea nello spazio, con tutti quegli Strauss suonati nello spazio profondo.
1972: Anafase (#178)
1972: Mutazione (#183)
Fetus era anche, in qualche modo, un concept album, con una storia che aveva a che fare con un feto (o più di uno) e un viaggio interstellare. Nell'ultimo brano il feto si risveglia appunto dopo migliaia di anni e avverte le vibrazioni di non ulteriormente specificati "corpi di pietra" che stanno per arrivare. Potrebbero essere anche i "motori" di cui parlava all'inizio dell'album ("sarò una cellula / tra i motori") e quindi la storia tratterebbe di un eterno ritorno. Anche da un punto di vista musicale Mutazione è più simile a una canzone tradizionale e termina con un coro cantato sull'ennesima scala discendente – FB le usa tantissimo su Fetus, per scelta o perché gli vengono spontanee. È una soluzione un po' naif, ma ricordiamo sempre che è ancora poco più che un embrione.
Non sono più sicuro che mi piaccia Succession. Probabilmente capita a tutti di seguire una serie per inerzia, però questo mi sembra un caso più complicato. All'inizio c'erano gli intrighi di tre fratelli e altri parenti/cortigiani per succedere al padre; l'elemento di novità è che a turno tutti i protagonisti si rivelavano dei deficienti. Ogni volta che uno dei tre sembrava finalmente fare la mossa giusta, riscattarsi, diventare adulto, magari pure uccidendo il padre – niente da fare, subito dopo inciampava nei lacci di scarpe. È un meccanismo che distingue Succession da tanta altra fiction, dove bene o male un eroe c'è: avrà dei difetti e potrebbero anche essere terribili, e forse nemmeno si emenderà, ma a un certo punto la storia viene a coincidere con un suo percorso verso il riscatto, la maturità. Succession non esclude mai che questo prima o poi succeda – il caso più eclatante mi sembra il finale della seconda stagione, quando Kendall fa una mossa veramente arrischiata che ci lascia sospettare che possa essere il Successore, per un attimo, anzi per un anno: dopodiché quando riparte ci accorgiamo in pochi minuti che è il solito pirla, niente da fare.
Esiste sempre un punto in cui ogni fiction avrebbe dovuto fermarsi per non ripetersi, e probabilmente anche in Succession questo punto è stato superato: il meccanismo continua a ripetersi, episodio dopo episodio, in modo sempre più automatico: pensiamo che Kendall/Roman/Shiv finalmente abbia in pugno la situazione, ma nella puntata seguente, a volte ormai nella scena seguente, ha in mano un pugno di mosche: la situazione era più complessa, la situazione continua a complicarsi e quei tre a girare a vuoto. Succession si ripete come tutte le fiction, ma somiglia meno a una fiction e più alla vita, dove malgrado tutti i momenti topici in cui pensi di aver finalmente capito e di essere cambiato, ti svegli il giorno dopo e sei esattamente il pirla di prima, in affanno dietro a un progetto che cambia tutti i giorni, una volta si trattava di ereditare, poi di vendere, poi di comprare, anzi di vendere per comprare un'altra cosa che alla fine è la stessa cosa, ma forse è meglio non vendere e non comprare, e intanto il tempo passa, i vecchi muoiono o si ammucchiano sullo sfondo ma continuano a guardarti scuotendo la testa, you're not serious people. I love you, but you're not serious people.Tra i libri che mi piacerebbe riuscire a salvare dalla muffa anche quest'anno (ma è sempre più difficile) c'è un classico dei mercatini dell'usato che potrebbe anche essere usato contro di me. S'intitola La nostra guerra ed è stato pubblicato nel 1942-XX dalla "Consociazione turistica italiana" (in seguito si sarebbe di nuovo chiamato Touring Club Italia).
Si tratta di un agile volumetto, dalla grafica razionale e pulitissima (c'è un font meraviglioso, il Semplicità) che spiega tutti i motivi per cui Italia Germania e Giappone, che proprio non avrebbero voluto fare la guerra, oh, alla fine si erano trovati praticamente costretti dal blocco plutodemobolscevico che li stritolava, e che comunque meglio così perché stavano vincendo tutto – l'Italia in particolare passava di trionfo in trionfo, con giusto qualche ripiego strategico in Africa – e che l'Eurasia del futuro sarebbe stata un luogo di pace e civile rispetto per i popoli. Un'ucronia, però non cupa e angosciosa alla Dick: una cosa molto istruttiva. La gente che la scrisse – e sapeva scrivere – viveva già in quell'eclissi della coscienza individuale descritta pochi anni dopo da Orwell: riuscivano a raccontare tutto come se tutto avesse un senso e mentre leggi per un attimo anche tu trovi che due più due faccia cinque. È solo un attimo, ma capisci che funziona, e che quindi può funzionare anche oggi: e che quindi ti conviene stare attento. Ho sempre avuto la tentazione di mostrarlo in classe, ho sempre avuto la paura di essere frainteso.
Ci ho ripensato un poco in queste ore, quando in capo a un mese in cui mi era capitato di leggere come i russi si fossero impantanati a Bakhmut, di come la Wagner si ritrovasse disperata senza più munizioni a Bakhmut, di come gli ucraini stavano eroicamente resistendo a Bakhmut, di come i russi con la loro economia devastata ormai non avessero più le risorse per prendere Bakhmhut e stessero abbandonando Bakhmut, ecco, sugli stessi organi di stampa ho letto per la prima volta che può darsi che gli ucraini si siano ritirati da Bakhmut – la quale Bakhmut poi, diciamolo, è un obiettivo assolutamente secondario che non senso intestardirsi a difendere, tanto più che è tutto macerie.
Tutto questo è probabilmente vero; non voglio dare l'impressione di essere quello che la sa più lunga semplicemente perché diffida delle uniche informazioni che trova: è un atteggiamento che ho visto dilagare sui social e decisamente crea dei mostri. Non ho seri motivi per dubitare che a un certo punto la Wagner fosse in difficoltà, a Bakhmut, né che gli ucraini non vi abbiano resistito eroicamente, fino al momento in cui non restavano che macerie e non valeva la pena andare avanti. E che si trattasse di un obiettivo più simbolico che tattico ce lo diciamo da mesi, dopodiché magari ucraini e russi sanno cose che noi non sappiamo, ma se non le sappiamo è inutile fantasticarne.
Prendiamo atto che anche sul fronte a vincere è per ora il pantano; l'offensiva russa è stata lenta e deludente, e quella ucraina per ora non si è vista: magari parte domani, capacissimo. Non posso comunque impedirmi di pensare – sono stato allenato a pensare – che se questa guerra la stessimo perdendo, le notizie che ci arriverebbero dal fronte non sarebbero molto diverse da quelle che leggiamo: i russi fanno fatica, i russi si ritirano, i russi non ce la fanno, i russi in effetti si sono presi una città ma era una città inutile, ormai sono spacciati. Significa che invece stiamo perdendo? Non necessariamente, ma nemmeno si può escludere. Zelensky è molto attivo in questi giorni, ha bisogno del nostro aiuto e non ha pudore a chiederne di più. Non è un fatto nuovo. È anche stato dal papa, e questo forse sì, è un fatto nuovo, perché Francesco in quest'anno è riuscito a mantenere, non senza fatica, una posizione terza che potrebbe tornare utile nel momento in cui si cominciasse a parlare di pace. Forse si sta cominciando a parlare di pace, il che però significa anche che non stiamo vincendo.
Sulla guerra in Ucraina esistono sostanzialmente due narrazioni. Quella russa somiglia abbastanza a quella che troviamo sui vecchi libretti fascisti che conserviamo per capire come riuscivano a raccontarsela: è il solito imperialismo che quando è frustrato assume sempre tinte paranoiche. Gli ucraini erano russi, poi la Nato li ha corrotti, ma molti ancora vorrebbero essere russi, specie in Donbass, e i fascisti ucraini li hanno bombardati finché non siamo entrati per difenderli. È un copione che la Russia è pronta a recitare in tutti i Paesi confinanti e non vassalli: gli abcasi vorrebbero essere russi ma i georgiani glielo impediscono, i transnistriani vorrebbero essere russi ma i moldavi glielo impediscono, ecc. ecc. Giova ricordare che sia Abcasia sia Transnistria sono militarmente (non ufficialmente) occupate da militari russi. È il vittimismo tipico dei prepotenti sulla difensiva, in Italia lo conosciamo bene, lo abbiamo quasi inventato e continuiamo a praticarlo. Questa per quanto riguarda la narrazione russa.
Poi c'è la narrazione della Nato, che più o meno corrisponde a quella dell'Ucraina, e che per quanto possa avvicinarsi alla realtà in campo più di quella russa, non può per definizione essere la realtà oggettiva: questo per vari motivi. Il primo motivo che mi viene in mente è che l'oggettività non esiste, possiamo soltanto tirare una media di tante osservazioni soggettive, Pirandello, Heisenberg, e così via. Il secondo motivo è che la Nato ha i suoi interessi strategici, non è che appoggia le nazioni gratis et amore libertatis. Il terzo motivo è che nessuno in guerra dice solo la "verità". Se poi si passa ai giornali italiani, è molto improbabile che dicano la verità anche in tempo di pace, e quindi insomma è chiaro che non possiamo fidarci al 100% di Zelensky – che comunque, per tanti motivi, consideriamo assai più affidabile di Putin. Dobbiamo allenarci a fare la tara a tutto quello che sentiamo, senza scadere nel complottismo, e non è facile. Come facevano i nostri bisnonni? Ascoltavano l'Eiar, poi Radio Londra, e poi? Probabilmente stavano attenti soprattutto alle posizioni. A El Alamein, se avessimo vinto come titolavano i giornali, non ci saremmo ritirati. Allo stesso modo, a chi ci ripete che la guerra è necessaria e che la Russia va ricacciata dietro i confini del 1992, bisogna far presente con molto tatto che i russi oggi sono su posizioni più avanzate che un anno fa. Magari domattina comincia la controffensiva, magari Zelensky che oggi chiede armi a tutti dopodomani sarà a Mariupol e in giugno a Sebastopoli. Magari. Oggi no. L'economia russa che doveva cascare più di una volta, in un qualche modo tiene: se i cinesi si sfilano, gli indiani comprano di più e questo forse è sufficiente perché la situazione arrivi a uno stallo, uno stallo costosissimo sia in termini di risorse (russe e Nato) sia di vite umane (russe e ucraine). Uno stallo che potrebbe anche andare avanti fino all'autunno, cioè per un altro anno, e poi? È chiaro che noi avremo ancora per molto armi da buttare nel piatto – per qualcuno è anche un affare, teniamone conto. Anche i russi probabilmente avranno per molto tempo effettivi da mandare al fronte. Il primo serbatoio che potrebbe esaurirsi, a occhio, è quello degli ucraini: per quanto continuiamo ad armarli, non è che possano reggere all'infinito.
A volte mi chiedo cosa succederà a molti attivisti pro-Nato quando all'improvviso la narrazione smetterà di dire "confini del '92" e si sposterà su "trattative di pace". È una domanda retorica: molte persone cominceranno non solo a chiedere la pace, ma anche a credere di averla sempre chiesta; perché è l'unica opzione logica, perché le vittime sono troppe, perché protrarre un conflitto di queste proporzioni sul suolo europeo è terribilmente pericoloso, e per tanti altri motivi che diventeranno improvvisamente ragionevoli tanto quanto era ragionevole, fino a poche ore fa, chiedere ai soldati ucraini di resistere tra le macerie di Bakhmut. Certo, è lecito cambiare le proprie opinioni. Spesso è indizio di spirito critico. A tal proposito, vorrei proporre a molti alfieri della Nato un esercizio: provate per una volta ad avere un'idea che non corrisponda a quella del Dipartimento di Stato USA. Anche solo per un istante, come in quei film di androidi in cui a un certo punto il protagonista umano si stagliuzza il braccio per essere sicuro di non essere, a sua insaputa, un androide; voi invece alla terza guerra che vi sembra giusto combatterla mentre i pacifisti sono tutti automaticamente Chamberlain; alla terza guerra che a un certo punto finisce in un mezzo disastro e non non se ne parla più, provate a formulare un'opinione su voi stessi, ci riuscite? I bot non è detto che ci riescano.
Una tempesta di merda è sempre interessante in quanto choc culturale: una persona scrive qualcosa che dal suo punto di vista non si discosta molto dalle cose che scrive abitualmente. Questa cosa, inserita nel contesto in cui la scrive, presentata al pubblico abituale, ha perfettamente senso e anche quando è controversa può suscitare al massimo un'animata discussione: che è poi il motivo per cui sui social non usiamo tutta la prudenza con cui ci difendiamo in altri ambiti pubblici. Un po' di pepe lo sai che è necessario, senza un po' di polemica non ti legge neanche la mamma (ciao mamma). La tempesta di merda, se ne avete viste, è un'altra cosa. Qualcosa che hai scritto improvvisamente sbalza fuori dal circolo abituale, attirata da un'energia oscura che la guida verso il Grande Ventilatore. Improvvisamente centinaia di perfetti sconosciuti vengono a insultarti: tra di loro c'è persino gente che ha argomenti sensati perché, alla fine il tuo piccolo contenuto, completamente ritagliato ed estrapolato dal suo contesto, è davvero discutibile. Che un'emergenza ambientale con morti e feriti e centinaia di case allagate si possa liquidare in tre righe è odioso. E allo stesso tempo, Raimo non stava liquidando un bel niente: le tre righe che ha scritto non sono diverse da quelle che ha scritto altre volte, con più tempo e più spazio, o che hanno scritto altri ideologicamente affini ma anche più competenti sull'argomento. Il motivo per cui ha scritto tre righe è proprio che nel suo contesto, di fronte al suo pubblico abituale, quelle righe bastavano. Chi leggeva sapeva già di cosa si parlava: esaltazione della motoristica, turistificazione selvaggia, allevamenti intensivi, sono tutte definizioni che rimandano a lunghi discorsi già fatti e dati per acquisiti, in un circolo neanche così ristretto.
Il contenuto però è uscito dal circolo, e fuori dal circolo no, quel che scrive Raimo è scioccante e inaccettabile. Vale la pena filtrare gli insulti più o meno prevedibili, i Vai-a-spalare-il-fango (scritti da gente che, voglio sperare, aveva appena posato la pala per un rapido coffee break), il campanilismo bieco, quei discorsini sull'eccellenza regionale che chi ha vissuto il terremoto ricorda con un certo fastidio, eccetera. Al netto di tutto questo, un sacco di brava gente è semplicemente convinta di vivere nella migliore regione possibile. Abbiamo tante piste ciclabili, rispondono. Nessuno ne ha come noi. Questa tetragona convinzione di costituire un modello di sviluppo invidiabile e imitabile è purtroppo ancora considerata la soluzione, invece che il problema. Raimo forse avrebbe potuto aggiungere un cenno alla cementificazione che ha reso il territorio più friabile ed esposto alle alluvioni, e magari aggiungere qualche numero sulle oggettive responsabilità di chi ha amministrato comuni e province (mica soltanto il Pd). Lo avrebbero insultato lo stesso, ma valeva la pena. Le sue tre righe sono finite in prima pagina sul Giornale come esempio di sciacallaggio politico – a pochi centimetri da un articolo in cui si accusava il Pd di non aver fatto casse di espansione larghe come quelle che la Lega ha realizzato in Veneto, ma che c'entra, quello è sciacallaggio professionale, Raimo è un free rider, va abbattuto. Sempre in homepage sul Giornale c'è l'intervista a un climatologo: gli chiedono se l'economia green basterà a invertire il riscaldamento globale, lui che può rispondere? Ovviamente risponde di no, ormai nessun intervento umano potrà più di tanto riportare Groenlandia e Antartide ai livelli del 1980. E anche questa constatazione terribile e banale, estrapolata dal contesto dove io e te che la leggiamo sappiamo che significa "estinzione", in homepage sul Giornale significa: l'economia green è una perdita di tempo, cosa stai a comprare la macchina elettrica, facciamo piuttosto il ponte sullo Stretto, sì, c'è anche un'intervista a un onorevole leghista che vuole assolutamente farlo, pensate cosa sono diventati i leghisti col tempo. La pianura padana sprofonda e loro vogliono il ponte sullo Stretto di Messina (costruire una macchina del tempo, spiegarlo a Bossi nel 1986).
Contro il coro mi raccomando tutti assieme Buuuu Raimo |
La tempesta di Raimo me ne ha ricordato una molto più circoscritta che capitò a me, e alla fine a tutt'oggi è l'unico vero episodio che si possa catalogare come shitstorm. Fu tantissimo tempo fa (2010); anche in quel caso si parlava di alluvioni e mi capitò di scrivere (sull'Unità on line), un apologo abbastanza superficiale su un problema che però per me era cruciale. Il problema è questo: in democrazia, l'amministrazione emergenziale rende meglio di quella ordinaria. Chi si trova a governare un'emergenza riuscirà non solo a ottenere più fondi per rimediare, ma anche a conquistare il consenso degli elettori. Il che, portato nella realtà padana, significa che nel medio-lungo termine a un'amministrazione non conviene davvero costruire una cassa d'espansione quando il fiume è tranquillo e nessuno ha voglia di sborsare dei soldi. Persino l'amministratore avveduto potrebbe concludere che è meglio aspettare il disastro, e poi cavalcarlo: quando arriva il disastro è più facile non solo chiedere soldi a Roma e Bruxelles, ma anche ai concittadini – che in molti casi si metteranno pure a spalare fango gratis. È quello che secondo me stava succedendo in quel momento in Veneto, ma un po' di veneti si arrabbiò e me lo scrisse. In effetti, rileggendo il pezzo dal loro punto di vista, era abbastanza odioso: e addirittura autorizzava una lettura campanilista (in Emilia le casse di espansione funzionavano, in Veneto no?) che già allora mi sembrava fuori fuoco. Poi ci fu il terremoto, poi ruppe l'argine del Secchia, insomma anche se fossi stato un appassionato cantore delle amministrazioni emiliane, avrei avuto abbastanza tempo per ricredermi. Oggi proprio Libero e il Giornale ci informano che la pioggia caduta in Romagna, per quanto eccezionale, è inferiore a quella caduta qualche anno fa in Veneto, dove le casse di espansione (costruite dopo il disastro del 2010) hanno retto abbastanza bene. E quindi, insomma, avevo torto o ragione? A parte che non ha nessuna importanza, in mezzo a tutto questo fango, e che nessuna ragione mi solleverà quando sarà l'ora mia di sprofondare, probabilmente avevo torto a scrivere cose fastidiose su un giornale che veniva letto da gente che non mi conosceva, liberissima di fraintendermi: e avevo ragione, per fare delle buone casse di espansione in Veneto gli amministratori hanno dovuto aspettare l'emergenza che mostrasse a tutta la popolazione che le casse erano assolutamente necessarie. Tutta la brava gente che obietta a Raimo che non si può fare del moralismo in caso di eventi eccezionali, in generale ha ragione: il moralismo suona sempre fastidioso, e gli eventi di questi giorni sono davvero eccezionali. Ma ha anche torto, perché ciò che oggi è eccezionale diventerà la norma, e prima accettiamo questa cosa, meglio è. Raimo avrebbe dovuto spiegarsi meglio, cercare di trovare un modo simpatico di dire questa cosa, che il nostro stile di vita è insostenibile, che l'urbanizzazione romagnola (ed emiliana, e padana) è insostenibile, e che se al posto della primavera di qui in poi avremo un monsone, le piste ciclabili non ci salveranno. Ma esiste un modo simpatico di dire questa cosa? Chi lo trovasse, ce lo faccia sapere, ne abbiamo molto bisogno.
Che Salvini troppo spesso twitti prima di pensare non lo scopriamo oggi – certo, un ministro che riesce a mettere insieme il Milan e una calamità naturale nello stesso messaggino segna comunque un record, qualcosa che vale la pena appuntarsi, anche solo per evitare che i posteri liquidino l'episodio come una leggenda: no, Maria Antonietta non disse mai quella cosa delle brioches ma sì, Salvini disse quella cosa del Milan.
E potremmo andare avanti ancora un poco a prendercela con lui. Certo, potrebbe essere interpretato come un espediente per distogliere l'attenzione dalle responsabilità di una classe dirigente locale e sul suo ormai ottantennale modello di sviluppo, che in soldoni consisteva nel cementificare una palude sperando che andasse tutto bene. Non andrà tutto bene. Facile dirlo oggi – ma si poteva dire con una certa sicurezza vent'anni fa, e c'è invece ancora chi non vuole ammetterlo. Del resto in Emilia-Romagna lo sappiamo, sensibilità green e speculazione sui lotti edificabili vanno a braccetto, e Salvini non c'entra un granché: parliamo dell'avvoltoio che viene a vedere se nella catastrofe c'è qualcosa da guadagnarci, non dell'istrice che la catastrofe l'ha pazientemente scavata.
Siccome comunque Salvini la gogna se la merita (non fosse altro perché dopo una settimana di alluvioni il governo non ha ancora varato lo stato di emergenza), propongo di farne almeno una figura sacrificale; di riconoscere nella sua colpa quella di tutti noi. Siamo tutti Salvini – certo, nessuno è Salvini quanto lui, ma siamo tutti un po' Salvini, ogni volta che commentiamo il disastro del giorno con una botta di benpensantismo e un colpetto di benaltrismo. Siamo tutti Salvini, sempre alla ricerca del primo facile colpevole, anche se non ci crediamo neanche noi: ma abbiamo un profilo pubblico, insomma non possiamo mica far finta di niente anche se non abbiamo niente da dire; vogliamo semplicemente far notare che ci siamo, ci preoccupiamo, invece di pensare ai fatti nostri o al Milan.
Siamo tutti Salvini, nel senso che l'apocalisse ci troverà in mutande sul divano e contrariati perché insomma, certo, il settimo sigillo e i quattro cavalieri e tutto il resto, ma noi volevamo sapere chi vinceva la Champions. Siamo spettatori, da che siamo nati; da quando c'è internet siamo pure commentatori; di qualsiasi cosa succeda ci piacerebbe trovare un colpevole alla svelta, che sia un istrice o uno speculatore edilizio; così possiamo cambiare canale rapidamente e trovare un'altra cosa più interessante, le alluvioni non sono così interessanti. Siamo tutti Salvini perché, in definitiva, non tolleriamo che il mondo cambi. Benché il mondo cambi da sempre, e molti di noi vivano e lavorino da sempre immersi nelle correnti di questo movimento: lo stesso Salvini, in epoche più stabili si sarebbe ritrovato commesso viaggiatore. Proprio perché tutto cambia, in modi che per lo più non ci piacciono, S. si è ritrovato bello pronto il suo prodotto da smerciare, il suo malcontento quotidiano da assecondare.
Siamo tutti Salvini ogni volta che ci guardiamo indietro come se indietro ci fosse un equilibrio che pensiamo di aver perso, un'età dell'oro che non tornerà mai, probabilmente a causa di un complotto di persone malvagie che ce l'hanno esattamente con noi. Siamo tutti Salvini, pronti a puntare il dito, verso chi? Non è così importante: l'essenziale è puntare, catalizzare l'attenzione e spostarla in un punto X che può cambiare a piacere – Putin può diventare in pochi mesi da alfiere dei valori tradizionali a orco assassino nemico dell'occidente. L'importante è puntare, magari non essere i primi a estrarre il dito perché poi tocca a te scegliere l'obiettivo e se non trovi il più adatto al momento rischi una brutta figura. Ma se calcoli bene i tempi, se sfoderi l'indice né troppo svelto né troppo tardi, qualche altro intorno a te ti avrà già suggerito una direzione, un obiettivo: a questo punto basta imitarlo, qualcun altro lo sta già imitando, e se in tanti puntano verso lo stesso obiettivo un motivo ci sarà: fino a quella volta, che prima o poi ci capita, quella volta in cui ti accorgi che tocca te, è su di te che stiamo tutti puntando.
A me più che bianco e rosso sembra giallino |
14 maggio: San Mattia, il tredicesimo apostolo
Paris Bordon, la Pentecoste |
11 maggio: San Gengolfo martire (VIII secolo), patrono dei mariti traditi
Che elmo elegante, benché le protuberanze non si capisce a cosa... no, niente. |
Saint Gingolph è un ridente paesino diviso a metà dalla frontiera franco-svizzera, dove almeno secondo Wikipedia avviene questo incredibile fenomeno che il lago è in discesa. |