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martedì 16 settembre 2025

Lo scherzo telefonico di Valditara

[Questo pezzo è apparso alla vigilia del primo giorno di scuola (15/9//2025) sul Manifesto: il titolo non è mio ma è divertente].

Se ci ricorderemo del ministro Valditara, più che di tanti altri suoi predecessori, sarà forse perché meglio di loro ha capito come le riforme che fanno discutere siano le più superficiali. La scuola è un insieme complesso di fenomeni, difficile da riorganizzare: ad alcuni che pure ne avevano la volontà è mancato il tempo. Valditara, che un po’ di tempo l’avrebbe avuto, preferisce fare grandi annunci, e non si può negare che la cosa abbia un senso, almeno dal punto di vista giornalistico. 

In particolare la stretta sugli smartphone è stata ribadita pubblicamente così spesso, che il pubblico a questo punto la dà per scontata: ogni volta che un giornalista glielo chiede, Valditara è ben felice di ribadire che con gli smartphone a scuola è finita, non se ne parlerà più. Fin qui è mancata evidentemente l’occasione di incalzarlo sull’argomento; di chiedergli con che strumenti verrà applicata questa proibizione così netta nei confronti di un dispositivo che la maggior parte di noi ormai tratta come una protesi del proprio corpo. Gli studenti dovrebbero separarsene all’ingresso della scuola, va bene: e se non lo faranno? Molto spesso, infatti, gli adolescenti non fanno quello che loro si comanda. Siccome le scuole non sono state provviste di costosi device-detector, né non sono previste perquisizioni all’ingresso, come si dovrebbe impedire agli studenti di tenerselo in tasca? La risposta del ministro a questa domanda (che nessuno riesce a porgli pubblicamente) se ne sta nascosta in una circolare, per quanto sia la più prevedibile che insegnanti, genitori e studenti potevano aspettarsi: arrangiatevi. Che in burocratese suona così: “È rimessa all’autonomia scolastica l’individuazione delle misure organizzative atte ad assicurare il rispetto del divieto in questione”. E siccome dirigenti e insegnanti, il problema degli smartphone, se lo ponevano ben prima della nomina di Valditara, e le “misure organizzative” le avevano prese anni fa (recipienti dove conservare gli smartphone, note disciplinari da minacciare a chi lascia la suoneria accesa), ci si potrebbe chiedere cosa è cambiato esattamente rispetto al passato: niente? Non proprio: è cambiata la reputazione di Valditara, ormai assurto alla statura di eroico salvatore della scuola dalla barbarie digitale.

Si potrebbe quanto meno pensare che, negando agli smartphone anche una funzione didattica, Valditara stia togliendo a insegnanti e studenti una scusa per tollerarne l’uso: peccato che anche questo divieto assoluto – più volte ribadito sui titoli di giornali – nella stessa circolare si stemperi di molto. Anzi, nel giro di poche righe “il divieto di utilizzo dello smartphone durante l'orario scolastico anche a fini didattici” viene prima ribadito, poi smentito per tutta una serie di eccezioni: lo smartphone intatti si continuerà a usare “nell’ambito degli specifici indirizzi del settore tecnologico dell’istruzione tecnica dedicati all’informatica e alle telecomunicazioni”. Uno potrebbe anche chiedersi perché nei tecnici sì e nei licei dove si fa informatica e telecomunicazione no: forse il riformatore sospetta che a questo punto almeno i licei siano abbastanza provvisti di dispositivi digitali, al punto che non sia più necessario lavorare con quelli che i ragazzi si portano da casa. La circolare prevede inoltre eccezioni per gli “alunni con disabilità o con disturbi specifici di apprendimento” che in certe classi, e Valditara lo sa bene, possono diventare la maggioranza; e per chi invocherà semplicemente “motivate necessità personali” – traduco: chiunque riesca a convincere i genitori a firmare un’autorizzazione e consegnarla in segreteria. Questa in sostanza è la ‘stretta’ imposta da Valditara sugli smartphone: in estate se ne è parlato molto, il ministro è riuscito ad accreditarsi presso il suo pubblico come un riformatore capace di scelte coraggiose e dolorose; lunedì si riparte un po’ in tutta Italia e i ragazzi continueranno a portarsi il telefono in tasca (spesso ne portano due: uno vecchio e rotto, da consegnare a inizio lezione, l’altro per chattare in bagno). Quando da qui in poi qualche studente combinerà un guaio con uno smartphone, la gente certo non se la prenderà col ministro: lui li aveva proibiti, maledetti dirigenti e insegnanti che non fanno rispettare le circolari. Se uno per caso fosse ancora curioso di capire il senso dell’autonomia scolastica, che in effetti può servire a tante cose, ma soprattutto a scaricare le responsabilità in modo rapido ed efficiente.

domenica 14 settembre 2025

Sette spade nel cuore

15 settembre: Beata Vergine Maria addolorata. 

Palermo

Oh madonnina dei dolori,
quanti dolori avete voi...
Oh madonnina dei dolori,
adesso vi racconto i miei.

Siamo alla fine del Cinquecento, quasi Millesei, in un bosco di lecci in Abruzzo. Un pastore si volta e scopre, su una pietra, una raffigurazione della Madonna trafitta da sette spade. Il fatto che fino a quel momento nessuno ci avesse fatto caso fa già pensare al miracolo: comunque la pietra viene trasportata nella chiesa più vicina. Il mattino dopo, però, i pastori la trovano di nuovo lì. All'inizio pensano a uno scherzo, ma siccome la cosa continua a ripetersi, presto le autorità si arrendono al volere della Madonna, che evidentemente chiede che un santuario sia costruito proprio nel bosco. Questo tipo di miracoli non è affatto infrequente, e di solito viene elaborato per spiegare l'esistenza di un luogo di culto, in questo caso il santuario di Colli. Anche l'iconografia della Madonna trafitta non può più di tanto sorprendere: era già da  tempo una delle patrone di Pescara. Però mi sembra una storia che meglio di altre illustra la devozione per la Madonna dei dolori: una cosa che appare all'improvviso anche se sembra esserci sempre stata, senza che nessuno sappia esattamente da dove viene. Una donna trafitta da sette spade non è un'immagine così usuale: qualcuno deve essersela inventata, in un certo momento e in un certo luogo: ma quando, e chi? Non si capisce. Alcune celebrazioni mariane sono il risultato di lunghi dibattiti dottrinali che coinvolgono scuole di intellettuali, finché la gerarchia non decide di pronunciarsi ufficialmente: è il caso dell'Immacolata, o dell'Assunzione, o della Madre di Dio. In altri casi potremmo dire che succede quasi il contrario: ci sono celebrazioni che restano in sordina per secoli, confinate in ambiti locali, che piano piano prendono piede senza che i teologi sappiano cosa pensare al riguardo: finché non arriviamo ai giorni nostri e nessuno veramente sa chi ha cominciato a venerare la Beata Vergine Maria Addolorata. 

Le sette spade rappresentano sette momenti in cui Maria deve avere sperimentato un forte dolore. Sono tutte ferite morali, oggi diremmo psicologiche: del resto la questione del dolore della Madonna era teologicamente spinosa. Se consideriamo il dolore fisico come una conseguenza del peccato originale (Adamo ed Eva nell'Eden non lo provavano?), restava da stabilire se la Madonne fosse stata concepita col peccato originale o senza – una questione che si sarebbe trascinata fino al 1870. Ma mentre i teologi dibattevano, e le autorità esitavano a prendere una posizione, i pastori adoravano una Madonna trafitta già da secoli. Dei sette dolori si comincia in effetti a parlare a un certo punto del Basso Medioevo; all'inizio la spada è una sola, quella prevista dall'anziano profeta Simeone durante la presentazione di Gesù al Tempio. "Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori", avverte Simeone prendendo in braccio il bambino: e rivolgendosi a Maria soggiunge: "Anche a te una spada trafiggerà l'anima". Dunque almeno di una spada si parla nel Vangelo, dei quattro, più attento alle vicende interiori di Maria. Le spade però diventano presto cinque nell'elaborazione dei misteri del Rosario (contrapposti a cinque "Gaudi", ovvero momenti in cui Maria era stata felice). Non è un caso che a diffondere questa preghiera siano soprattutto i domenicani, da sempre militanti nella fazione 'maculista', ovvero contrari al concetto di Immacolata Concezione, devoti a una Maria un po' più umana e sofferente di quella venerata ad esempio dai francescani. A investire maggiormente sull'icona di Maria sofferente sarà però il terzo grande ordine religioso nato nel XIII secolo, ovvero i Servi di Maria. Questi ultimi sarebbero stati fondati da un gruppo di devoti benestanti fiorentini, ritiratisi sul Monte Senario, che avrebbero ricevuto istruzioni in merito da un'apparizione della Madonna in lacrime (all'inizio si chiamavano  Compagnia di Maria Addolorata). Nel loro stemma compaiono sette gigli che somigliano già a sette else di sette spade. Questa iconografia potrebbe avere ispirato qualcuno ad aumentare i misteri da cinque a sette, ma potrebbe essere stato il contrario: ovvero l'insistenza sui Sette Dolori potrebbe aver portato i cronisti a modellare la storia dell'Ordine affinché i primi fondatori risultassero esattamente sette – di loro non è che si sappia un granché: la diffusione dei Servi deve molto all'attività di un predicatore che proveniva dai domenicani, Pietro da Verona

CC BY-SA 4
Ma insomma, questi sette dolori, in cosa consistono? Il primo, già citato, è il dolore per la profezia di Simeone – immaginatevi la scena, un vecchio vi prende in braccio il bambino, gli fa un sacco di complimenti ma spiega anche che porterà caos e divisioni e che anche voi sarete trafitti da una spada. Poi c'è il dolore sperimentato durante la fuga in Egitto: sì, Maria di Nazareth è una profuga, ogni tanto vale la pena di ricordarlo. Il terzo dolore è quello sperimentato quando a dodici anni Gesù viene smarrito a Gerusalemme, e ritrovato soltanto dopo tre giorni, nel Tempio, in mezzo ai Dottori; se avete perso vostro figlio anche solo per cinque minuti al parco sapete bene che ci sono spade che bruciano meno. Seguono quattro momenti collegati alla Passione di Gesù, ma desunti dalle stesse tradizioni medievali da cui nasce la Via Crucis; poiché i vangeli dicono che Maria era presente alla Crocifissione, si dava per scontato che lo avesse visto sulla via del Calvario (quarto dolore), ai piedi della croce (quinto dolore), durante la deposizione (sesto) e la sepoltura (settimo). Anche qui, è impossibile capire se al numero di sette ci sia arrivati perché, contandoli accuratamente, i momenti in cui Maria sembrava soffrire erano proprio questi e non uno di meno, o se la sua vicenda sia stata stiracchiata perché la raffigurazione delle sette spade esisteva già e andava giustificata. Di solito, quando troviamo un'immagine diffusa e venerata in Paesi diversi, abbiamo la sensazione che sia molto antica, spesso più antica del cristianesimo. L'Addolorata, pure molto popolare, non dà la stessa sensazione. Ovvero: mentre molti altri avatar della Madonna sono evidenti rielaborazioni di miti pagani, da Iside ad Artemide, l'Addolorata è qualcosa di nuovo, secondo me; qualcosa che prima del cristianesimo non risultava (o forse era stato cancellato quasi del tutto, per rispuntare più tardi). 

L'idea di venerare una donna in quanto sofferente; di venerare la stessa sofferenza in forma di donna; se è esistito un culto del dolore nel mondo precristiano, è qualcosa che ha fatto perdere le sue tracce. Così questa festa un po' sottotraccia, che ai teologi secondo me non piace perché nasce dalla devozione popolare e confligge con dibattiti più importanti, è forse la festa mariana più originale, quella che ci spiega cos'è stato il cristianesimo per centinaia di generazioni di uomini e soprattutto di donne; una religione che metteva in primo piano il dolore, sia quello dell'uomo che quello della donna, su un piano quasi egualitario: a ogni ferita di Cristo ne corrisponde una nel cuore di Maria. È anche la celebrazione meno attuale, in un mondo dove il dolore è visto sempre di più come un errore da correggere – mentre alcune subculture che lo esaltano sono spesso portate avanti da donne


16 settembre: San Ninian (IV-V secolo), apostolo dei Pitti

A Whithorn, nel Galloway, insomma nella Scozia meridionale, c'è un rudere scoperchiato che potrebbe essere il primo edificio in muratura di tutta la Scozia. È quel che resta della Candida casa (in latino: "Bianca capanna"), un monastero sorto intorno alla prima chiesa scozzese, fatta costruire intorno al 397 dal protovescovo Ninian. Di lui ci parla Beda il Venerabile, vissuto quattro secoli dopo ma non era un contafrottole, prova ne è che non riferisce particolari miracoli: già solo avere eretto una chiesa in pietra in mezzo al Paese dei Pitti (chiamati così dai Romani per l'abitudine a dipingersi il volto e il corpo) era cosa encomiabile. Secondo Beda, Ninian era un britanno che aveva evangelizzato i Pitti, intitolando la prima diocesi scozzese al quasi coevo Martino di Tours; da questo asciutto resoconto gli agiografi successivi partiranno per ricamare una storia più elaborata in cui Ninian è figlio di un re cristiano che converte un re pagano, nonché discepolo di Martino che gli manda i suoi muratori di fiducia: si dà per scontato che i Pitti non sapessero mettere pietra su pietra. Gli storici però hanno la sensazione che questa primissima missione cristiana nelle terre oltre i valli romani abbia avuto un successo effimero; pesa sui Pitti la definizione che qualche decennio dopo affibbia loro San Patrizio d'Irlanda, ovvero "apostati". Il termine lascia intendere che qualcuno li avesse a un certo punto battezzati, ma che questa evangelizzazione fosse stata di breve durata. In ogni caso Ninian è riconosciuto e venerato come il primo vescovo scozzese; il monastero sorto intorno alla candida casa restò un importante centro culturale per tutto il medioevo e fu abbandonato soltanto dopo la riforma protestante.


17 settembre: Santa Ildegarda di Bingen (1098-1179), badessa, scrittrice, compositrice, mistica, teologa, botanica, diagnosta, naturopata, crittografa, mi sarò anche dimenticato qualcosa

Questo in realtà più che un pezzo su Santa Ildegarda è un appunto, lasciato qui perché è uno dei pochi posti dove non lo perderò, in pubblico affinché io mi senta più vincolato: prima o poi devo scrivere un pezzo vero su Santa Ildegarda. Devo rimediare a questa cosa piuttosto imbarazzante per cui avevo già un libro sui Santi a mio nome in libreria, quando una lettrice molto gentile mi chiese: ma non hai scritto niente su Santa Ildegarda, e io risposi eh? Santa Chi? Una monaca, del medioevo, molto apprezzata, ah no scusa, mai sentita nominare, sarà la classica visionaria dimenticata in qualche convento sperduto, aspetta che do un'occhiata e... sbraaang, è come se mi fosse piovuto in testa il Riesenkodex. 

Il Riesenkodex è un manoscritto in cui Santa Ildegarda, prima di morire all'augusta età di 81 anni, volle raccogliere tutto quello che aveva scritto: visioni, corali monofoniche, altre visioni, codici segreti, angelologie, senza risparmiare sulle miniature (non incluse però i trattati di erboristeria). Ne risultò un tomo di cm.45x30x15, dal peso di 15 kg, Santa Ildegarda non si risparmiava. In un certo senso è la Leonardo da Vinci del secolo XII: come Leonardo, non aveva fatto studi regolari (era entrata a 8 o 10 anni in un monastero benedettino femminile che non prevedeva l'istruzione accademica); come Leonardo, un po' se ne crucciava ma la cosa non le impediva di incuriosirsi e immischiarsi in ogni branca dello scibile umano. Rispetto a Leonardo non sapeva dipingere (in compenso era una compositrice di musica sacra notevolissima e innovatrice), per cui il rispetto del pubblico dovette guadagnarselo con le visioni mistiche. "Visione" è un termine che forse a lei non sarebbe piaciuto; perlomeno in una lettera molto tarda afferma di non essere mai caduta "in preda all'estasi", ma di aver sperimentato sin da bambina nella sua anima la visione del riflesso divino in tutte le anime del mondo: una specie di sesto senso con cui contemplava lucidamente ogni fenomeno dell'universo. La lucidità era indispensabile perché a mettere per iscritto le visioni si poteva anche rischiare processi per eresia, ma Ildegarda seppe muoversi bene, ottenendo abbastanza presto il favore di un papa al quale mandò il suo primo libro, nel quale non si riuscì a trovare nulla che contraddicesse le scritture: da lì in poi nessuno osò contrastarne gli interventi, e Ildegarda ne approfittò per fare a modo suo. Sin da giovane aveva dimostrato un carattere abbastanza caparbio; quando decise che doveva trasferire le sue monache in un altro monastero, e il vescovo non lo permetteva, si mise a letto e sfidò il vescovo a spostarla da lì. L'episodio è descritto come un miracolo, ma in controluce possiamo vederci un episodio di resistenza passiva: il vescovo poteva senz'altro ordinare a un paio di guardie di pigliarla per le gambe o i capelli, ma che figura ci avrebbe fatto con i fedeli che ormai la veneravano come santa? Un'altra volta riuscì a ottenere che un eretico restasse sepolto in terra consacrata, sostenendo che prima di morire si era riconciliato con Dio, e nessuno osò contraddirla. Ildegarda studiava, insegnava, addirittura predicava in giro per la Renania: non fece tantissimi tour, ma per una donna del XII secolo si trattava comunque di una situazione straordinaria. Dovunque la precedeva anche la fama di guaritrice, che si era guadagnata non invocando lo Spirito Santo a vanvera, ma studiando tutti i trattati di botanica e farmacopea che aveva potuto trovare, aggiungendoci l'esperienza maturata col tempo. Ildegarda, che a qualche femminista dà un po' fastidio perché nei suoi trattati accenna spesso all'inferiorità della sua condizione di donna non letterata (ma lo fa per dimostrare che lo Spirito parla anche attraverso gli umili), è invece diventata un personaggio di culto nell'area della medicina olistica e dell'erboristeria new age – un'area dalla quale cerco di tenermi il più lontano possibile, e questo spiega ma non scusa la mia ignoranza. È una cosa che mi dà un po' fastidio perché certo, senz'altro Ildegarda ragionava in termini di micro e macrocosmo, cercando nella natura i riflessi del corpo umano, praticando salassi e prescrivendo impacchi di pietre preziose che oggi sappiamo essere inutili se non dannosi. Lo faceva perché quella era la medicina più avanzata del tempo, ma se vivesse oggi sarebbe esperta di diagnostica e fisica delle particelle, non perderebbe tempo con i quattro stati delle materie – sì, mi rendo conto, è una proiezione che non ha senso. Ma prima o poi scriverò qualcosa di più sensato su Santa Ildegarda di Bingen, lo prometto. Se nel frattempo volesse pregare per me, ho un dolorino al ventre che non si spiega.

mercoledì 10 settembre 2025

La fine delle competenze


Uno dei problemi coi riformatori – non nel senso di "carceri minorili", ma nel senso di quelle persone che vorrebbero riformare le cose – è che sono convinti che il mondo li giudicherà per la dimensione delle loro riforme. Non che abbiano quasi mai torto, ma questo li spinge inevitabilmente verso la superficie dei problemi, dove si possono fare gli interventi  più appariscenti. Invece di trascorrere anni frustranti a cercare di capire cosa non funziona dietro le quinte, e infine suggerire alcune variazioni efficaci che farebbero funzionare tutto meglio, con grande soddisfazione di chi lavora, col rischio che il pubblico nemmeno se ne accorga – ecco, no, meglio di no. Molto più consigliabile impiegare il tempo scandendo slogan roboanti, cambiando i nomi a questo o quel reparto (cambiare i nomi è il modo più efficace di dare l'impressione che si sta davvero cambiando qualcosa). Così si ricorderanno di te. 

Di Valditara ad esempio ci ricorderemo perché ha ripristinato la "maturità" (non si chiamava più così) e vietato gli smartphone a scuola: quest'ultima è una cosa a cui tiene molto. Nel senso che i ragazzi non li possono più portare? Beh, no, non esistono smartphone detector da piazzare all'ingresso degli istituti (e se esistessero, costerebbero; quindi non li compreremmo). Forse che Valditara ha approfittato di una qualche emergenza-smartphone per emanare una circolare che autorizza il personale scolastico a perquisire gli studenti tutte le mattine? No, vi rassicuro in tal senso, non potevamo prima e non cominceremo a perquisirli adesso, i vostri mostriciattoli, chi ve li tocca. E quindi ok, continueranno a portare il telefono in tasca, auspicabilmente spento o silenziato; ma se a un certo punto una sveglia suonasse, e un insegnante decidesse di sequestrare un dispositivo chiassoso, colpirne uno per educarne ventisei... forse che Valditara ha imposto agli istituti di comprare casseforti dove rinchiudere il corpo del delitto, in attesa che i genitori vengano a prelevarlo, dato che da Valditara in poi lo smartphone è teoricamente vietato? No, niente casseforti. Va bene, ma almeno si è capito che i ragazzi non potranno tirarlo fuori impunemente durante una lezione, neanche con la scusa della didattica, perché non si farà più didattica col telefono, vero? Valditara l'ha proibito recisamente, vero? Beh, no, nelle ultime comunicazioni ha ammesso che lo smarphone si possa usare a scopi didattici. Quindi, insomma, cos'è cambiato esattamente? Nulla, direte voi: sbagliato, è cambiata la reputazione di Valditara, ormai assurto alla statura di eroico salvatore della scuola grazie al quale, la prossima volta che qualche studente combinerà un casino con uno smartphone, la gente penserà che lui non c'entra, lui li aveva vietati, maledetti insegnanti che non fanno rispettare le circolari.

Se dalla facciata ci spostiamo un po' verso l'interno, notiamo come Valditara sia guidato, nella sua opera (contro)riformatrice, da un principio fondamentale: la centralità di Ernesto Galli Della Loggia, non in quanto pedagogo (non lo è), ma in quanto essere umano perfetto. Questa perfezione – che ritroviamo sottesa nell'incessante produzione saggistica dello stesso Ernesto Galli Della Loggia – non lo configura tanto come fine ultimo della Storia e/o della dialettica, alla Hegel insomma, quanto come obiettivo ideale a cui tendere, oserei dire idea platonica di italiano, formatosi a una scuola che non esiste più a causa dei malvagi sessantottini, finalmente sgominati. Se Galli Della Loggia è perfetto, il sistema scolastico che lo ha prodotto non può che essere il migliore di tutti i tempi; mentre le riforme che lo hanno modificato, impedendoci di assistere alla gemmazione di ulteriori Ernesti Galli Della Loggia, nient'altro che perniciose degenerazioni da abolire, nel tentativo forse impossibile ma comunque encomiabile di ritornare all'età dell'oro, dove "oro" – materiale senz'altro prezioso ma per certi versi ancora corruttibile – indica ovviamente e approssimativamente Ernesto Galli Della Loggia, lui sì forma perfetta e incorruttibile. Ora, per quanto tutto questo possa sembrarvi parecchio ridicolo, temo che possa fare breccia nella coscienza di molti miei colleghi. Alcuni sono della generazione di Galli Della Loggia, e quindi praticamente perfetti anche loro; e però a un passo dalla pensione, quindi a questo punto non vale la pena di preoccuparsene. Ma la maggior parte è venuta dopo, e per quanto tutta questa scuola sessantottina non l'abbiano mai vista (forse perché non è mai esistita), hanno più che una ragione di sentirsi delusi dalle riforme berlingueriane e post. Come chi a metà di un lavoro si rendesse conto di avere combinato un pasticcio tale che piuttosto di risolverlo converrebbe buttar tutto e ricominciare da capo, ovvero nel nostro caso da Gentile, o anche più su.


Vedi l'esame di "maturità". Io non ne capisco molto, non è mai stato il mio campo (mentre tra breve lo diventerà), ma quello che ho percepito negli anni è la grande stanchezza dei colleghi, mobilitati per un'esperienza più rituale che didattica. Vengono al pettine in questo caso certe parole d'ordine male introiettate: ad esempio, dopo aver parlato per tanto tempo di competenze, dopo averle introdotte nella didattica, a un certo punto si arriva all'esame e ci si dovrebbe arrendere a un'evidenza fisica: si tratta di un intervallo di tempo in cui uno studente si troverà davanti a insegnanti che gli faranno delle domande, e lui dovrebbe rispondere. Come mille e più anni fa: l'esame orale è tutto qua, potremmo anche decidere di farne a meno ma il pubblico ci tiene, i giornalisti ci tengono, e quindi rieccoci qui a fare delle domande e aspettarci delle risposte – sì, ma le competenze in tutto questo? Come le accerti, come le valuti, insomma dove sono queste sacrosante competenze nel momento in cui un candidato si siede, come mille anni fa, e dei professori gli fanno delle domande?

"Ma vedo che hai fatto un percorso di alternanza scuola/lavoro che prevedeva l'assistenza dei clienti nel..."

"Sì, ho servito a un bar-tabaccheria".

"E cosa hai imparato?"

"Bisogna premere un tasto IVA diverso per le brioches e i giornali".

Competenza! 

Oppure forse no, ma non mi pare che nessuno abbia le idee più chiare. Il grande equivoco, che si trascina da anni, è che "competenza" sia, tra le tante cose, una specie di euforia interdisciplinare che consentirebbe al candidato di collegare gli argomenti di materie diverse. Questa illusione – che conosco meglio, perché ha contagiato subito anche l'esame di licenza media – imparentata con l'idea che studiare sia sostanzialmente ridurre qualsiasi cosa a una "mappa" con cerchi e freccine, con gli anni si è trasformata in un incubo, gli argomenti essendo un numero finito e i collegamenti un numero ancora più limitato. È nato un vero e proprio mercato delle tesine interdisciplinari, su internet ne trovi tantissime e hai un bel da dire allo studente di non cercarle o addirittura comprarle, ben presto te li trovi davanti a collegare cose di cui in classe non hanno mai sentito parlare, oppure tutti con gli stessi quattro argomenti, la Grande Guerra, la Bomba Atomica, salvo che ad esplodere al temine di alcuni pomeriggi sono le mie colleghe e dopo otto ore posso capirle. 

I riformatori sono corsi ai ripari con soluzioni sempre più barocche, ad esempio i "materiali", una serie di oggetti (fotografie o altri manufatti) che fino a quest'anno venivano esibiti al candidato, il quale doveva trarne ispirazione per imbastire un colloquio interdisciplinare. Un'idea teatrale, che proposta a lezione potrebbe anche essere divertente (tu hai studiato Pirandello, io ti metto in mano un sasso, collegami il sasso a Pirandello), che trasformava il colloquio orale in un'improvvisazione in cui il tizio che si è preparato, legittimamente, sulla clorofilla e il colonialismo si trova in mano una foto di piazza Tienammen e deve in tot secondi imbastire un discorso che lo porti da quella foto alla clorofilla passando per il colonialismo – questa sarebbe la competenza, una competenza in chiacchiere che forse se vendi al mercato è davvero importante, e per carità c'è ancora bisogno di validi venditori al mercato (li saluto, so che ci seguono). Tutto pur di non ammettere nemmeno a sé stessi che quello che stai facendo (domande agli studenti) è la stessa cosa che si faceva mille più anni fa – certo ora non li interroghi più sugli scoliasti o le glosse, adesso vanno di moda cerchietti e freccine, ma sono sempre gli stessi cerchietti e le stesse freccine, non è che lo studente possa più di tanto inventarsene di diverse, col rischio che poi a te insegnante-giudice non piacciano. Forse a un certo punto qualcuno ha pensato che la scuola avrebbe dovuto essere più stimolante, più creativa, e in tanti ambiti lo è diventata: ma un esame orale è un esame orale; puoi truccarlo finché ti pare, ma in sostanza si tratta sempre di fare al candidato tot domande e aspettarsi tot risposte. Forse a un certo punto speravamo di avere trovato qualche idea rivoluzionaria, ma nella pratica fin qui si sono rivelate per lo più espedienti buffi. 

A questo punto arriva Galli Della Loggia, convinto di dover emendare a decenni di sessantottismo spinto, sei politici e altri abomini: e suggerisce di ripartire non già da zero – che sarebbe un bel po' in là, ma da Galli Della Loggia: e la cosa in un qualche modo non dispiace neanche a chi lo detesta. Meno insegnanti in giro a giugno e luglio, caccia via – e se andasse male, sapremmo anche a chi dare la colpa, ha un nome e un cognome.

martedì 9 settembre 2025

Lo schiavo degli schiavi

9 settembre: San Pedro Claver, schiavo degli schiavi (1581-1654)

Quando arrivavano a Cartagena, il primo mercato degli schiavi della Colombia, i prigionieri stivati nelle navi credevano spesso che sarebbero stati uccisi e mangiati dagli uomini bianchi. Incontravano invece questo signore vestito di nero che gesticolando cercava di capire da dove venissero, finché non riusciva a metterli in contatto con degli interpreti. Portava con sé un mantello che regalava al primo che ne avesse bisogno, il che se volete è ridicolo: un mantello solo da offrire a migliaia di persone sopravvissute a traversate disumane. Portava cibo e medicine, con cui tentava di medicare le ferite; a volte veniva cacciato dai padroni della nave o degli schiavi, perché aveva il vizio di considerare questi ultimi come esseri umani. Si chiamava Pedro Claver, era nato in una cittadina della Catalogna, e mentre frequentava l'università gesuitica a Maiorca era stato convinto dal portinaio, Alfonso Rodriguez, di essere chiamato ad assistere e convertire gli schiavi – purtroppo non a liberarli, ma se ci avesse provato la sua missione sulla terra si sarebbe conclusa molto più rapidamente. Per quanto svolgesse le mansioni più umili, Alfonso era considerato dai suoi confratelli una specie di profeta, e almeno il destino di Pedro lo azzeccò. 

Pedro Claver non è una figura universalmente amata e non è difficile capire perché: in una società schiavista non c'è spazio per le anime belle. Chiunque accetti di viverci, anche per migliorare le condizioni di vita dei più umili, non può che compromettersi con lo schiavismo. Claver si proclamava "schiavo perpetuo degli africani"(æthiopum semper servus"), ma alcuni suoi collaboratori erano di fatto suoi schiavi e non sarebbe potuto essere diversamente: non doveva essere facile per un africano ottenere la libertà a Cartagena. Non disdegnava nemmeno le punizioni corporali, come un qualsiasi gesuita del XVI secolo. Non fu il pioniere dell'evangelizzazione degli schiavi, anzi deve molto al maestro che lo accolse a Cartagena, Alonso de Sandoval. Non ha lottato contro la schiavitù, ma ha fatto quel che poteva per migliorare le condizioni di migliaia di schiavi; non poteva liberarli, ma battezzandoli poneva le premesse perché fossero riconosciuti come esseri umani, e si calcola che ne abbia battezzati circa trecentomila. Rodriguez morì a Cartagena nel 1864: negli ultimi anni dovette patire gli abusi di uno schiavo che gli era stato affidato dai gesuiti come badante e che a quanto pare lo trattava malissimo, né Pedro se ne lamentava: in fondo il suo dolore non era che una frazione di quello che gli africani subivano per mano dei suoi connazionali. Fu canonizzato da Leone XIII nel 1888, quando la schiavitù era ormai stata abolita in tutte le Americhe, assieme al portinaio che lo aveva ispirato, San Alfonso Rodriguez.


10 settembre: San Nicola da Tolentino (1245-1305)

Per vivacizzare un po' la vita del santo marchigiano, senz'altro santa ma non esattamente avventurosa, (entrò negli eremitani di Sant'Agostino a 14 anni, pregò e donò ai poveri ogni giorno finché non morì, sessantenne a Tolentino) gli vengono attribuiti diversi miracoli per così dire standard, quel tipo di miracoli che ritorna nella vita di tantissimi altri santi, ad esempio quando Nicola regalava pane o farina ai poveri (innervosendo i confratelli, che pure loro dovevano mangiare), questo o pane o questa farina gli ricrescevano nel sacco, oppure se lo beccavano letteralmente col sacco in mano mentre cercava di passarlo a un povero, lui "No, macché son fiori" e nel sacco spuntavano i fiori. Poi una volta era in ritardo e ha fermato il sole, e che altro? Ha fregato un diavolo che aveva costruito un ponte, indovinate, in cambio della prima anima che ci sarebbe passata sopra; ha fatto portare un cane da un lato del ponte e ha fatto rotolare una forma di formaggio dall'altro lato. Il cane è stato il primo essere vivente a passare dal Ponte del diavolo di Tolentino; il diavolo, stizzito, avrebbe lasciato il segno di un suo corno sul fianco del ponte. La sua frustrazione è comprensibile, se si pensa che era già probabilmente la centesima volta che un santo lo fregava, e sempre nello stesso modo, ovvero quella dei "ponti del diavolo" è una vera e propria categoria, sia dal punto di vista architettonico che folkloristico, soltanto in Francia ce n'è una cinquantina e anche in Italia almeno uno per regione. Questo fa sospettare che dietro la leggenda ci sia qualcosa di più antico, anche perché parliamo perlopiù di ponti medievali con arcate molto alte che probabilmente ai tempi della costruzione venivano percepiti dalla popolazione locale come qualcosa di straordinario, che non poteva essere spiegato semplicemente con l'arrivo di maestranze molto esperte, no: doveva averci messo lo zampino almeno un demonio, il che richiedeva anche l'evocazione di un santo per consentire alle persone normali di transitare senza perdere l'anima. Può darsi che questa cosa di far passare prima un animale fosse un rito apotropaico, quel che resta di un sacrificio pagano a eventuali dei dell'ingegneria? magari le maestranze avevano le loro tradizioni, non del tutto cristianizzate. Oppure era un modo per collaudare il ponte, di fronte a un pubblico di pastori un po' impauriti: si prendeva un animale, lo si faceva passare e si diceva: vedete, non sta crollando, funziona.


11 settembre: san Jean-Gabriel Perboyre (1802-1840), martire in Cina

Jean-Gabriel Perboyre, non il primo martire cristiano in Cina, ma il primo a essere canonizzato (nel 1996), ha le carte in regola per diventare il protettore dei malati di covid. La proposta è stata avanzata da un sinologo, Anthony Clark, e si basa su due argomenti: non solo Perboyre è stato torturato e martirizzato a Wuhan, che del Covid è il "ground zero", ma sperimentò, prima della cattura e della morte, mesi di angoscioso isolamento, testimoniati nelle sue lettere; e  per quanto nelle immagini venga raffigurato legato a un palo di tortura a forma di piccola croce, l'effettiva causa della sua morte sarebbe stata lo strangolamento. Anche lui, come i malati di covid, si sarebbe trovato nell'impossibilità di respirare. Missionario vincenziano, nato in Francia, Jean-Gabriel era arrivato in Cina prima che iniziassero le persecuzioni anticristiane, ma sapeva che il rischio era alto: del resto, scriveva, cosa possiamo aspettarci da una religione che adora il crocefisso. E la croce fu il suo destino, durante la guerra dei boxer. I suoi resti, recuperati dai missionari, furono traslati in Francia, ma i cristiani clandestini di Wuhan continuarono a conservare la sua pietra tombale, nascondendola nel periodo della Rivoluzione Culturale. 

sabato 6 settembre 2025

Mazzucconi e Zaccaria

6 settembre: Santo Zaccaria, profeta (VI secolo avanti cristo)

"Ecco, io farò di Gerusalemme come una coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini, e anche Giuda sarà in angoscia nell'assedio contro Gerusalemme. In quel giorno io farò di Gerusalemme come una pietra pesante per tutti i popoli: quanti vorranno sollevarla ne resteranno graffiati; contro di essa si raduneranno tutte le nazioni della terra. In quel giorno – oracolo del Signore – colpirò tutti i cavalli di terrore, e i loro cavalieri di pazzia; mentre sulla casa di Giuda terrò aperti i miei occhi, colpirò di cecità tutti i cavalli dei popoli. Allora i capi di Giuda penseranno: "La forza dei cittadini di Gerusalemme sta nel Signore degli eserciti, loro Dio". (Zaccaria 12,1-5)".

I primi due profeti di cui ho imparato il nome erano Ezechiele e Zaccaria. La Z impreziosisce ogni parola, la rende più rara e ricordabile, ma in effetti Ezechiele era il Lupo che voleva mangiarsi i Tre Porcellini nelle storie di Topolino (quelle brevi che stavano in mezzo), mentre Zaccaria era un gelato confezionato, un cornetto con una palla di gelato pralinata, insomma la versione Eldorado del Blob Toseroni. O era il Blob Toseroni una copia dello Zaccaria, non si è mai capito e non ha più importanza, perché Unilever (credo) a un certo punto si comprò i due marchi e ora in ogni bar trovi solo Algida, Algida, Algida, vabbe' dai ti compro un Magnum (si chiama ancora così anche se si mangia in tre morsi)? No, se è Algida no, sì vabbe' boicottiamo Israele, ma non di sola Sammontana vive l'uomo, sto tergiversando. La confezione del gelato Zaccaria, ho letto, è "introvabile su internet", quindi in sostanza è smarrita per sempre, qualcuno ritiene di ricordare un motociclista, ma quante cose false ricorda la gente. Pensare ai tabelloni dei gelati che non esistono più mi dà una tristezza che è difficile da razionalizzare, insomma non è che fossero questi gran gelati, eppure non ci sono più. Le canzoni restano, i libri a volte migliorano col tempo, ma io nella mia infanzia mica leggevo tutti questi libri, e non ascoltavo nemmeno tutte queste canzoni. I tabelloni dell'Eldorado invece li sapevo a memoria e questo sapere mi si agita nel cervello a vuoto. Qua fuori c'è fior di gelaterie artigianali, giusto oggi il gusto del giorno prevedeva mascarpone alla zucca e crumble di cioccolato, squisito, ma il Dalek non posso più assaggiarlo, né il Piedone. Oh vabbe'. 

"In quel giorno io mi impegnerò a distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme. Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme, simile al lamento di Adad-Rimmon nella pianura di Meghiddo". (12,9-11) 

A volte mi domando: ma perché "San" Zaccaria? Non sarebbe più sensato "Santo Zaccaria"? E Santo Zeno, Santo Zaccheo, Santo Zefirino? In effetti l'aggettivo "santo" fa parte di un ristrettissimo gruppo di aggettivi qualificativi (con "bello", "buono" e "grande") che richiedono il troncamento dell'ultima sillaba (santo diventa san), ma solo al maschile, e solo davanti a un nome che cominci per consonante (altrimenti si elide solo l'ultima vocale: sant'Antonio); e anche in caso di consonante, vi sono delle eccezioni. Queste eccezioni le conosciamo bene, perché sono le stesse in presenza delle quali l'articolo indeterminativo "uno" non diventa "un": ovvero davanti a gruppi consonantici che i toscani avevano paura a pronunziare assieme, probabilmente questa paura ce l'hanno tuttora: ad esempio, la S+consonante, detta anche maliziosamente S impura: e infatti si dice Santo Stefano (ma il manuale che ho aperto qui davanti ci tiene a far presente che esiste un'eccezione all'eccezione: San Stanislao non si potrebbe assolutamente chiamare Santo Stanislao, non ho idea di chi si offenda ma lo scrive due volte, sembra abbastanza importante). Poi ci sono altri nessi consonantici che almeno ai palati dei toscani risultavano complicati, ovvero X, Gn, Ps e Pn: per cui se Saverio volessimo chiamarlo Xaverio, dovremmo chiamarlo Santo Xaverio, e altrettanto dovremmo fare nel caso un papa santificasse uno Gnomo, o uno Pseusolo, o un Pneumatico, anche se alla fine chi è che dice "uno pneumatico"? Nessuno, però le grammatiche scolastiche non si arrendono. C'è il caso un po' più particolare della i semivocalica, cioè quella che sta davanti a un'altra vocale e quindi non è del tutto una vocale, è già quasi una consonante, al punto che fino a tutto Pirandello veniva quasi sempre scritta con la J: e quindi diciamo Santo Iacopo, o Jacopo. 

E poi c'è il caso della Z. Che essendo una doppia consonante (ʦ e ʣ nell'alfabeto fonetico internazionale) farebbe assolutamente parte dell'insieme dei consonantici complicati, davanti ai quali non diciamo "un", ma "uno" ("uno zaino"), non diciamo "gran", ma "grande" (un grande zaino), non diciamo, "buono" e non "buon", "bello" e non "bel". Però, invece di dire "Santo", diciamo "San". Perché? Non c'è un perché. È un'altra eccezione dell'eccezione, e io francamente non le sopporto. Mi rendo conto che la grammatica fa quel che può, nessuna lingua nasce perfetta. Però che fastidio. È davvero così faticoso dire "Santo" invece che "San" Zaccaria? ma sto ancora tergiversando.

"Se qualcuno oserà ancora fare il profeta, il padre e la madre che l'hanno generato, gli diranno: "Non devi vivere, perché proferisci menzogne nel nome del Signore!", e il padre e la madre che l'hanno generato lo trafiggeranno perché fa il profeta. In quel giorno ogni profeta si vergognerà della visione ricevuta facendo il profeta, e non indosserà più il mantello di pelo per raccontare bugie. Ma ognuno dirà: "Non sono un profeta: sono un lavoratore della terra, ad essa mi sono dedicato fin dalla mia giovinezza". (13,3-5).

Sto tergiversando probabilmente perché di profeti di sventura non ne posso più. Del fardello di Israele, del destino di Gerusalemme, ne ho già piena la vita, mi sembra di non leggere altro. Una volta la Bibbia non assomigliava così tanto né alle pagine degli esteri sui quotidiani, né alle voci fuori campo dei film catastrofici. Adesso sembra tutto coincidere, come un terribile allineamento planetario, se capitasse all'improvviso mi verrebbe una gran paura, ma ci sta mettendo parecchi mesi e anni e quindi ho un po' di nausea. Un sentimento che, sospetto, i profeti conoscevano. Probabilmente nel percorso succederà qualcosa di orribile, ma nel mio cuore non vedo l'ora che si avveri Zaccaria 13,3-5, la vittoria finale del Signore, dopodiché i profeti diventeranno inutili e saranno malmenati dai loro stessi famigliari: e mandati a lavorare la terra. Zaccaria è uno dei maggiori tra i dodici profeti minori, nel senso che il suo libro consta di ben 14 capitoletti, composti dopo il ritorno degli israeliti da Babilonia, ma probabilmente in momenti diversi e anche da autori diversi: il che spiega l'apparente incostanza di un Signore che nel giro di una pagina promette al suo popolo la felicità e poi lo minaccia per le sue incostanze. (Provate a leggere il secondo pezzo che ho citato: c'è Israele contro tutti, e non si capisce se vinca o se perda. Qualcuno potrebbe aver rimaneggiato l'originale fino a invertirne il senso).

Anche lo stile delle profezie cambia sensibilmente lungo il corso del libro. All'inizio sono visioni, il che pone Zaccaria sul percorso che da Ezechiele porta verso la letteratura apocalittica. Anche in Zaccaria a ogni immagine segue una spiegazione, fornita da un angelo, perché il profeta sennò non ce la farebbe a interpretare: in particolare Zaccaria più volte ammette di non potercela fare. 

Dopo sette visioni, dal capitolo 8 si passa agli oracoli, ovvero discorsi che il Signore ispira al profeta, sul solco dei più tradizionali Isaia e Geremia. Ogni tanto spunta un terzo tipo di stile, la profezia mimata, che compare talvolta anche in altri profeti: in questi casi Dio non parla con parole o visioni, ma obbliga il profeta a comportarsi in un modo strano che il pubblico dovrebbe interpretare in senso profetico. A Zaccaria non vengono chieste cose ripugnanti come mangiare escrementi né imbarazzanti come sposare una prostituta, ma se non fossero comportamenti assurdi la gente non li noterebbe, e quindi nel capitolo 11 Zaccaria deve portare al pascolo un gregge di pecore destinate al macello, munito di due bastoni chiamati "benevolenza" e "unione". Poi, dopo avere licenziato tre pastori (tre re? tre sommi sacerdoti?), deve irritarsi con le pecore, perché si sono stancate di lui, spezzare i bastoni e mandare il gregge in malora ("Chi vuol morire, muoia: quelle che rimangono si divorino pure fra di loro"). In un qualche modo i suoi giorni di lavoro gli vengono comunque pagati, ma anche questo fa parte della profezia e comunque Zaccaria non può tenersi i soldi, deve gettarli nel tesoro del tempio. Questo dettaglio è forse il più conosciuto di tutto il libro, almeno tra i cristiani, perché i pezzi d'argento che Zaccaria getta nel tempio dopo aver disperso un gregge sono esattamente trenta, trenta denari.  


7 settembre: beato Giovanni Mazzucconi (1826-1855), sacerdote e martire

Che la storia la scrivano i vincitori è tanto banale quanto vero: quasi tutto quello che sappiamo, l'hanno raccontato dei superstiti. Magari non erano vincitori, ma sono comunque saltati su quel carro. È anche una semplice questione di economia – se dobbiamo ricordare il nome di un esploratore, sarà quello che ha scoperto qualcosa, non quello che si è perso nell'oceano qualche anno prima e magari seguiva la stessa rotta. L'astronauta che è tornato a casa, non quello che è esploso pochi minuti dopo la partenza. Qualche sconfitto ogni tanto riesce a restare nel cono di luce, ma solo perché la sua sconfitta è servita a rendere più avventurosa la successiva impresa del vincitore. È sempre stato così quasi ovunque, ma non nel calendario dei santi. Qui vincere o perdere sembra un dettaglio, un sacco di gente muore inutilmente, ma per i cattolici nessun sacrificio è inutile, neanche il più assurdo: prendi Giovanni Mazzucconi da Lecco. A vent'anni decide di fare il missionario, qualcuno ai piani alti decide di inviarlo in Oceania, un luogo nel 1850 tanto remoto quanto oggi la Luna. Giovanni ci arriva nel 1852, dopo un lungo viaggio in nave e un soggiorno di qualche mese in Australia per studiare gli usi e i costumi degli indigeni. L'obiettivo della missione però è l'isola di Woodlark, al largo della Nuova Guinea, che dall'Australia non dista neanche troppo, ma è già un altro continente, con lingue e culture completamente diverse: per qualche imperscrutabile motivo il Pontificio Istituto Missioni Estere aveva stabilito che l'evangelizzazione dell'Oceania sarebbe potuta partire da un'isola di duemila abitanti. Magari era una politica dei piccoli passi, chi lo sa, in ogni caso è abbastanza chiaro che Mazzucconi e gli altri furono mandati allo sbaraglio, senza nemmeno un tetto sotto il quale accamparsi, alla mercé di indigeni se non ostili certamente diffidenti coi quali comunicare risulta quasi impossibile. Mazzucconi si ammala quasi subito di malaria, il che avrebbe paradossalmente potuto salvargli la vita perché dopo due anni è ridotto così male che deve tornare in Australia, e quando gli indigeni cominciano a manifestare un'oggettiva ostilità, è ancora convalescente a Sidney. Ma è la metà dell'Ottocento, comunicare non è così facile, e uno non accetterebbe di fare il missionario in Oceania se non fosse particolarmente testardo, insomma nell'estate del 1855 Mazzucconi si considera guarito e riparte per Woodlark, proprio mentre i confratelli su un'altra nave stanno scappando. L'oceano è grande, le due navi non si incrociano, il 7 settembre quella di Mazzucconi si ritrova circondata da canoe che sembrano formare un comitato di ricevimento. Un indigeno salta a bordo, si chiama Avicoar: sembra un capo, può darsi che Mazzucconi lo conoscesse: gli si fa avanti per salutarlo, Avicoar gli sfonda la testa con la scure. Una morte assurda in una terra lontana e incomprensibile, un sacrificio senza senso, senonché per i cattolici il senso è proprio il sacrificio. Giovanni Mazzucconi è stato beatificato da Giovanni Paolo II nel 1984. 

martedì 2 settembre 2025

I settembrizzati

2 settembre: 191 martiri dei massacri del settembre 1792

Nel primo pomeriggio del due settembre 1792, una folla si raduna sul piazzale di un piccolo carcere del Quartiere Latino. Alcune carrozze stanno trasportando dei prigionieri; sono per lo più sacerdoti che non hanno voluto sottoscrivere le costituzioni civili del clero, imposte dal governo rivoluzionario. La folla inveisce, forse un sacerdote urta un coscritto della Guardia Nazionale, un altro si inginocchia chiedendo pietà, ma non ne trova. Chi ha una baionetta comincia a usarla sui prigionieri. Nel parapiglia riesce a farsi strada un capitano della Guardia, Stanislas-Marie Maillard. Ormai in città è una faccia conosciuta: era alla Bastiglia il 14 luglio '89, ha guidato la marcia delle donne a Versailles, è ancora una testa relativamente calda ma ora sta cercando di mettere ordine in un macello. Viene istituito in breve tempo un tribunale rivoluzionario: Maillard si siede a un tavolino, si fa condurre un sacerdote alla volta, e gli dà l'ultima chance di giurare fedeltà alla Rivoluzione. Ventidue su ventiquattro rifiutano; vengono lanciati verso l'ingresso della prigione e martoriati dalle baionette. Esaurita la pratica, la folla si sposta in un altro luogo di detenzione, un ex convento di carmelitani scalzi. Qui la situazione è più difficile da gestire: nel giro di qualche ora vengono uccisi altri 150 sacerdoti. La mattanza si prolunga fino alle prime ore del mattino; altri massacri avverranno a Parigi e in tutta la Francia, fino al 4 settembre. Cosa stava succedendo.

In breve, la Rivoluzione era sotto assedio. Nello stesso 2 settembre l'esercito del Re veniva sconfitto dagli austriaci e dai prussiani a Verdun. Dalla Vandea arrivavano le prime notizie di una sollevazione antirivoluzionaria. Nelle strade di Parigi si leggeva un proclama del principe di Brunswick, che minacciava di sterminare i parigini se alle Altezze Reali fosse stato torto un capello. Il re e la regina erano infatti agli arresti dal 10 d'agosto, accusati di avere tramato per trascinare la Francia in guerra; in Assemblea i girondini – che quella guerra l'avevano votata – proponevano già di smobilitare Parigi e ritirare le forze rivoluzionarie a sud della Loira. I montagnardi non intendevano cedere la capitale, ma temevano che una grande mobilitazione rivoluzionaria l'avrebbe lasciata sguarnita e in preda ai controrivoluzionari. Dai loro giornali, Marat e altri soffiavano sul fuoco, fomentando un'isteria nei confronti dei nemici della rivoluzione. L'idea che i preti "refrattari" (quelli che avevano rifiutato le costituzioni civili) fossero la quinta colonna degli austriaci trovava apparente conferma nelle notizie dalla Vandea, dove la nascente rivolta antirivoluzionaria aveva subito assunto un'identità cattolica. Detto questo, nessuna autorità suggerì alla folla di sterminare i preti; i funzionari coinvolti nella vicenda, come Maillard, non stavano ricevendo ordini da nessuno e più che incitare i cittadini alla violenza sembrano spinti dalla necessità di regolarla, di dare alla situazione una parvenza di legalità. Anche accusare 'la folla' di un linciaggio sembra impreciso: dalle testimonianze sappiamo che la maggior parte della folla era lì per guardare, e in molti casi chiedeva pietà per le vittime. Sulla scena non era presente nessun leader rivoluzionario; qualche membro delle istituzioni (l'Assemblea Legislativa e la Comune Insurrezionale) tentò di dissuadere i massacratori, ma non fu ascoltato. Negli anni successivi, mentre "settembrizzare" diventava un sinonimo di "massacrare", le responsabilità degli eccidi venne più di una volta attribuita alla fazione politica che a turno cadeva in disgrazia; i giacobini la consideravano una conseguenza della retorica allarmista dei girondini, ma una volta al potere non avevano nessun interesse a perseguire i colpevoli, e dopo la caduta di Robespierre vennero considerati i mandanti morali. Un'inchiesta, negli anni del Direttorio, porterà alla sbarra appena una trentina di esecutori materiali, per lo più piccolo-borghesi, artigiani e membri della Guardia Nazionale; nessun sottoproletario, età media 36 anni. Maillard era già morto per tubercolosi in carcere durante il Terrore giacobino (di cui era stato, coi fatti di settembre, uno dei precursori): non era stato condannato per il massacro, ma per estremismo. 

I sacerdoti massacrati nei primi giorni di settembre sono stati beatificati da Pio XI nel 1926. A tutt'oggi non è chiaro chi è che abbia deciso di cominciare a ucciderli. Non è stata la folla, non è stato il potere, nessuna fazione aveva interesse a dare il via alla mattanza. Tutto sembra iniziare per caso, ma appena il primo sangue comincia a sgorgare, la strage appare una conseguenza inevitabile. È come se a volte gli uomini uccidessero per dimostrare che non è così grave – all'inizio era grave, ma se continuiamo, diventa una routine, diventa un fatto storico inevitabile, senza più veri colpevoli, al massimo esecutori. 

domenica 31 agosto 2025

Se solo Delrio potesse parlare


Una volta ho letto un racconto, o forse era un post, o forse appena una vignetta, ma insomma si trattava di una risposta drastica all'eterna fantasiosa domanda: ah, se solo gli animali potessero parlare... ecco, se gli animali ci potessero parlare, probabilmente ci direbbero più che altro: "c'è da mangiare, qui?", "Cibo?", "Ti avanza del salame?", cose del genere. Perché sono creature pratiche. Mi rendo conto che non è il modo più diplomatico di cominciare un pezzo su Graziano Delrio, che non è un animale – cioè, lo è, ma come lo sono io, come lo siete anche voi, fratelli lettori. Siamo quel tipo molto specifico di animale che ha sviluppato in centinaia di migliaia di anni il linguaggio più sofisticato (qualche balena avrebbe probabilmente da obiettare, ma in ultrasuoni incomprensibili), il che a volte ci pone un problema. Non avete anche voi la sensazione che avere troppo linguaggio sia come non averne? Che più parliamo e meno ci capiamo? Che almeno un cane è chiaro perché ci fa la corte al panino, mentre per esempio, Delrio, cosa vuole quando parla col Corriere?

Graziano Delrio fa parte di una frangia cattolica che sta esibendo, ultimamente, una certa insofferenza per la direzione che Elly Schlein sta imprimendo al PD. Ne fa parte direi anche Romano Prodi, mentre non ci trovo Rosy Bindi... ma è difficile capire; bisognerebbe distillare le dichiarazioni, controllare bene se negli spazi tra le frasi non emergano significati nascosti, visibili soltanto controluce nei pomeriggi struggenti di settembre, ora forse una volta avevamo tempo per tutto questo, ma io sto invecchiando (voi magari no), e invecchiando ho sempre meno rispetto per le altrui chiacchiere. Che invece a settembre sono cruciali, a settembre per esempio c'è il Meeting di Rimini che per un fine settimana diventa, delle chiacchiere, le capitale – nostalgia per quegli anni Ottanta in cui c'erano solo tre telegiornali e tutti sembravano disperatamente curiosi di quello che si chiacchierava al Meeting, dopodiché andavi a messa e il sacerdote si sentiva obbligato di commentare anche lui un po' quel che si diceva al Meeting, salvo che in effetti, stringi stringi, se toglievi gli interventi dei politici non è che se ne sapesse molto: cioè era chiaro che un sacco di gente stava parlando, ma di cosa? E con che risultati? Non si è capito, non so nemmeno se esistano gli Atti del Meeting, come di un chiunque convegno (e se esistono, mai nessuno li ha citati). Il prete dunque ripiegava sui titoli, che erano già immaginosi e suggestivi, a volte persino wertmulleriani nel loro evocare lunghi appassionanti dibattiti – ho controllato ed è ancora così, ad esempio il Meeting 2025 si intitola "Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi", una frase icastica anche se un po' lapalissiana, cioè se sono "luoghi deserti" di sicuro mattoni vecchi non ne trovi, chi sarebbe così scemo da portarseli da casa? La Compagnia delle Opere ha tanti difetti ma non sono scemi. Però hanno sempre questa necessità di esibire, sopra i mattoni vecchi e nuovi, questi cappotti di parole, parole, parole. Quasi si vergognassero di essere sostanzialmente una lobby a cui servono soldi, appoggi, altri appoggi, più soldi. Questo vendersi al mondo come una comunità che discute, che dibatte, che sta assieme, sì: ma alla fine cosa state chiedendo esattamente? Ecco la domanda andrebbe allargata a Delrio. Parla, parla, ma cosa vuole dirci? Magari è responsabilità del giornalista, che non lo sa incalzare. Oppure anche lui fa parte di quell'eletta schiera che possiede il codice crittografico e capisce al volo.



Delrio spiega che gli applausi presi daa Meloni al meeting sono inquietanti, perché la Schlein non li avrebbe presi. Da che ho memoria (e si va appunto agli '80), al Meeting hanno sempre invitato e applaudito chi stava al governo: anche gente in seguito processata e condannata (sia tra chi era applaudito, sia tra chi applaudiva), ma questo è sterile giustizialismo, lasciamo perdere. Secondo Delrio aa Meloni ha imparato "a parlare con certi mondi", ovvero (suppongo), con una certa frangia cattolica che Delrio si sente di rappresentare. Aa Meloni "entra in sintonia culturale con mondi lontani da lei, come Cl o la Cisl", mentre la Schlein neanche ci prova, perché ha uno sguardo "fisso a sinistra". "Manca l'approccio interclassista", mica come Togliatti che invece sapeva parlare anche ai "ceti medi". "Il mondo cattolico ha tantissime risorse, non vanno tralasciate". Ovvero? la Schlein sta rinunciando "a rappresentare sensibilità": che tipo di sensibilità, non si potrebbe essere più precisi, fare almeno un esempio? Finalmente – ma siamo alla terza colonnina – Delrio fa un esempio. "La condizione femminile, soprattutto al Sud. Chi lavora per affrancare le donne da condizioni di disparità di ogni genere, deve avere un luogo in cui portare il proprio contributo. I partiti non hanno tutte le risposte. Questo Meloni l’ha capito".

Io purtroppo no, non ho capito niente. Chi è, esattamente, "che lavora per affrancare le donne da condizioni di disparità?" Se mi viene in mente una misura varata a favore, la prima è il reddito di cittadinanza, ma a quel punto Delrio me lo immagino dissentire furiosamente, no, no, non è quello. I consultori in tutti i comuni? Sarebbero davvero utili – no, no, continuo a immaginarmelo mentre dice no. E allora cosa? Quale  organizzazione si prefigge l'obiettivo di affrancare le donne da condizioni di disparità, "soprattutto al Sud"? "I partiti non hanno tutte le risposte" – per "partiti" qui intendi le istituzioni, o in generale la politica? Delrio, anche tu sei in un "partito", prova a rispondere tu: cosa bisogna fare? O permettimi di essere un po' più crudo: chi bisogna finanziare? La Schlein non lo ha capito, aa Meloni sì, al Meeting applaudono, Delrio non ci sta spiegando. Comincio a capire quanto poteva risultare irritante il suo boss coi suoi Chi ha orecchie per intendere.

"Bisogna dimostrare di avere una strategia concreta". Quale? "Bisogna dimostrare di essere, appunto, un partito di governo". Siccome prima bisogna vincere le elezioni, e nel frattempo a livello nazionale il massimo che si può fare è promettere, Delrio, per favore, non potresti essere più chiaro? Cosa deve promettere Elly Schlein al ceto medio cattolico di cui ti stai autonominando rappresentante? Quali magiche parole deve scandire per sbloccare l'accesso al meeting, gli applausi a settembre, e quel 2 o 3 per cento di voti che l'operazione potrebbe al massimo fruttare (perché se ci fossero più voti al centro, a questo punto, un Renzi o un Veltroni li avrebbero presi, no?)

Faccio delle ipotesi, come quando hai un gatto nuovo e provi crocchette diverse. Certi codici non li ho mai capiti, ma qua e là ogni tanto una chiave l'ho raccolta, ad esempio una volta funzionava molto bene la parola "sussidiarietà". Con tutte quelle -s, era un vero e proprio dog whistle, come amano chiamarli adesso. Al meeting si veniva a parlare di Valori e Cultura e Umanità e ogni tanto, tra questi fiumi di parole, si piazzava il termine "sussidiarietà", e chi voleva capire capiva. In effetti era un termine ben scelto: nessuno dice "sussidiarietà" per caso, persino io mi sbaglio ogni volta che lo scrivo. "Sussidiarietà" significava, se posso semplificare brutalmente: soldi alle scuole private. Anche un po' alle cliniche private. Alle Onlus cattoliche (cioè alla galassia CL): a tutto il welfare parallelo montato dai cattolici in Italia – sempre un po' traballante, sempre bisognoso di aiuti da uno Stato al quale non paga nemmeno tutte le tasse sugli immobili. Ok, così è veramente troppo crudo. Non si tratta soltanto di soldi, anche perché si è visto che in uno Stato con un Welfare solido non basterebbero. Quindi bisogna toglierli al Welfare solido. Ovvero, non basta promettere finanziamenti alle scuole cattoliche, buoni scuola e quant'altro; devi lasciar capire che quei finanziamenti li togli alle scuole pubbliche. A quel punto Rimini applaude e il ceto cattolico medio è contento. Questa cosa la Schlein ancora non la fa, e Delrio cerca diplomaticamente di farlo presente; anche perché aa Meloni invece sì, aa Meloni non ci ha messo mezz'ora a rinnegare tutte ee posizioni daa destra sociale – il doppio che ci ha messo a nascondere i volantini e i meme putiniani che i suoi sgherri distribuivano fino al giorno prima. 

Ripeto, è un'ipotesi. Ma tanto vale provare. Suggerisco insomma a Elly Schlein di cominciare a infilare la parola "sussidiarietà" in mezzo ai discorsi – anche a muzzo di cane, non credo sia così importante, magari stai parlando dell'Ucraina, alla prima fila sta già calando una palpebra, tu butti giù un sorso d'acqua e all'improvviso, senza senso: "Sussidiarietà!" Se si svegliano all'improvviso, se afferrano il telefono e cominciano a vergare messaggi, forse la vecchia parola magica funziona ancora. Cosa abbiamo da perdere? Quando si sta all'opposizione si promette. Le scuse per non mantenere le troveremo. 

Rimane una certa stanchezza per tutta questa manfrina, ovvero: non sarebbe un mondo migliore se invece di coniugare supercazzole per tre colonne, i lobbisti dicessero sempre concretamente cosa chiedono e cosa promettono in cambio? Gli animali, se potessero parlare, direbbero "cibo!", "cibo!": i ciellini, se avessero meno parole, griderebbero: "soldi!", "più soldi!", ora certo Don Giussani non approverebbe. Lui una volta disse una cosa che mi è rimasta impressa: "Mandateci in giro nudi, ma lasciateci liberi di educare". Ecco, fosse per me, l'obiettivo potrebbe essere quello: liberiamo i cattolici dai loro fardelli terreni, lasciamoli davvero nudi – e nudamente liberi di educare. Continuerebbero ad andare in giro con ciotole e sacchetti chiedendo soldi, soldi, più soldi, ma... sarebbero più credibili, più coerenti, ecco. Vabbe', è un sogno, altri che l'hanno sognato sono finiti male. Sussidiarietà!

sabato 30 agosto 2025

La corda di Margaret

Diocese of Shrewsbury. 
30 agosto: Santa Margaret Ward (1550-1588), martire

Per quanto possano esserci state epoche più eroiche, per i martiri cattolici, difficilmente risulteranno più avventurose delle persecuzioni inglesi tra Cinque e Seicento. Amministrare i sacramenti non è mai stato tanto simile al mestiere delle spie – più che le spie vere, spesso funzionari votati a mimetizzarsi nel grigiore burocratico, quelle che immaginiamo oggi nei film: avventurieri appesi ai cavi, dediti a missioni impossibili e fughe rocambolesche. Il loro campione è ovviamente John Gerard (1534-1637), di giorno gaudente viveur, di sera gesuita clandestino. Catturato in un nascondiglio insieme a Nicholas Owen, viene condotto alla Torre di Londra che poi non era quel luogo di torture che tutti credono, anzi fungeva da carcere solo per le personalità di nobili natali; fuggire comunque non era così semplice, ma lui riesce a farsi lanciare una corda e a calarsi giù dalla finestra, benché avesse i polsi slogati per le torture. O almeno così la racconta decenni dopo; perché passando di nascondiglio in nascondiglio, potendo contare su discepoli devoti (e guardiani corrotti), Gerard riuscì ad amministrare sacramenti per quasi vent'anni, prima di riparare nel Continente e scrivere la sua biografia. 

Altri non condivisero le sue astuzie e la sua fortuna. In più di un caso a pagare con la vita non fu il prete, ma i complici che li nascondevano, o recapitano gli strumenti necessari alla fuga: vedi il caso di Margaret Ward, signora di buona famiglia, insospettabile dama di compagnia di Lady Whitall. Quando viene a sapere che il presbitero William Watson, dopo un temporaneo pentimento, ha rinunciato allo sconto di pena e ha confermato di essere un sacerdote cattolico, riesce a farsi ammettere come visitatrice nel carcere di Bridewell dove Watson è rinchiuso. La prima volta la perquisiscono con attenzione; la seconda pure; ma Ms Ward continua a visitare il prete e a mantenere un comportamento impeccabile, sicché a un certo punto probabilmente i secondini abbassano la guardia, e un bel giorno del 1588 Watson scompare: si è calato dalla finestra grazie a una corda. L'allarme è tempestivo: un uomo viene arrestato lungo il fiume, vestito negli abiti del prete; ma è il barcaiolo John Roche, che li ha scambiati con Watson, ormai scomparso con la sua barca dall'altra parte del Tamigi. La Ward viene arrestata con Roche. Appesa ai ferri per i polsi e flagellata per otto giorni, non rivela il nascondiglio del prete (forse non lo sapeva), ma ammette di avergli portato la corda, "per salvare un agnello innocente dalle grinfie dei lupi". A una giuria piuttosto clemente che le offre il perdono in cambio della conversione, reagisce con più fermezza di quella mostrata da Watson, rifiutandosi di partecipare al rito anglicano, che in coscienza ritiene eretico. Lei e Roche vengono impiccati a Tyburn il 30 agosto del 1558, assieme ad altri cattolici. Watson continuerà a fare la spola tra l'Inghilterra e il continente, organizzando congiure fallimentari che lo porteranno sul patibolo nel 1603.

Per quanto possa essere difficile, oggi, mettersi nei panni di Margaret Ward – che scelse di morire per non arrendersi a un cristianesimo un po' diverso da quello in cui credeva – in quei panni, ricordatevi, a volte si nascondeva una corda. Come nei vestiti di ognuno di noi si nasconde un eroe; certo, il più dei giorni conviene lasciarlo a casa; potrebbero perquisirci, o potremmo essere noi stessi a tradirlo nel momento in cui non serve. Non è necessariamente complicato dare un senso alla propria vita: magari si tratta soltanto di scegliere in che giorno indossare quella corda, e a chi passarla. Puoi liberare gli innocenti, puoi impiccare gli infedeli, puoi fare tante cose con la tua corda, il giorno che scegli di portarla con te. E quel giorno mica passa per tutti. Oppure forse sì, passa per tutti, ma in molti lo lasciamo passare perché abbiamo paura, o siamo distratti in altre faccende. E con lo stesso sguardo distratto poi lasciamo passare la vita a rimpiangerlo. Invidiando santa Margaret Ward

venerdì 22 agosto 2025

XI. Non desiderare la fotografia degli altri


– Io la famosa pagina FB sulle mogli non l'ho vista (e quindi non dovrei parlarne). Non per un sussulto di moralismo; è proprio che non mi andava di vederla. Ci sono posti su internet dove vado molto volentieri: una pagina del genere non è tra i primi mille. Non ho il fetish per le foto rubate, non ho il fetish per i mariti arrapati, o per i cuck (che mi intristiscono), non ho il fetish per le pagine trash, ho abbastanza autostima da non avere bisogno di titillarla con lo spettacolo di chi sta peggio; non ho il fetish per il moralismo che potrei esprimere per l'occasione, insomma è tutto un insieme di cose che non mi attira quanto la Bibliotheca Sanctorum o i video dei cani che saltano nei corridoi. Ma vi garantisco che sono comunque una persona orribile, adesso per esempio scriverò un pippone ispirato a una pagina fb che non ho nemmeno visto, perché? Evidentemente ho questo specifico fetish.

– Senza averla vista, sono disposto a scommettere che il 95% dei contenuti non fossero immagini di mogli rubate alla loro insaputa, bensì foto saccheggiate qua e là, un po' di AI per i grulli che ci cascano, meme idioti ecc. Perché ne sono abbastanza sicuro? Perché è un gruppo di Facebook, e su Facebook tutto è così – se apri una pagina di barzellette, il 95% le copierà, ora, è più facile fregare un video alla congiunta o inventarsi una barzelletta? Io gestisco una pagina di santi del calendario, e il 95% vi garantisco è copiato ma mica da adesso, gli agiografi hanno iniziato a copiarsi nel III secolo.

– In particolare fatico a credere che un algoritmo addestrato a riconoscere i capezzoli femminili (non maschili!) anche sul vassoio di Sant'Agata abbia lasciato filtrare immagini particolarmente compromettenti, ma consentiamo che ci fossero. Il revenge porn in Italia è un reato, se incappate in roba del genere dovreste segnalarla all'istante sia ai gestori del network, sia alla polizia postale. Se invece decidete di diffondere indiscriminatamente la notizia che esiste questo tipo di pagina, non state realmente aiutando le vittime di revenge porn. State diffondendo un allarme sociale, che è un'altra cosa. Forse avete un po' il fetish dell'indignazione, e chi sono io per giudicarvi; ma se davvero pensate che lì dentro stiano avvenendo delle 'violenze a distanza' (ho letto questa espressione), chiamare altra gente ad assistere a questo tipo di violenze non è esattamente la cosa più rispettosa delle vittime. 

– Anche stavolta mi capita di notare questa cosa, che c'è gente convinta di poter essere violentata in effigie. A me sembra assurdo, insomma per quanto possa essere fastidioso scoprire che qualcuno concupisce le nostre immagini, una violenza sessuale mi sembra infinitamente più invasiva e dolorosa – ma non ho più la pretesa di convincere chi ci crede. Tutto sommato è una reazione istintiva che ci accomuna ai famosi indigeni che non volevano essere fotografati (in certe situazioni si è poi scoperto che non volevano essere fotografati gratis, cioè se vuoi la mia anima almeno fammi un prezzo). Non posso non notare che questo tipo di ragionamento (o di istinto), una volta elevato a sistema non potrebbe che condurci al divieto assoluto di riprodurre forme umane, e magari a un tipo di abbigliamento molto prudente che in effetti dall'Afganistan sta tornando di moda. Questa cosa che si potrebbe arrivare a un regime proibizionista e oscurantista per via matriarcale e non patriarcale un po' mi attizza, ma solo perché ho un fetish per i paradossi (e chissà se in passato non ci siano state civiltà completamente fasciate e sessualmente segregate, che abbiamo prese per patriarcati mentre invece...)

– Una tentazione proibizionista è sempre serpeggiata tra i movimenti femministi. Negli USA, appena le donne riuscirono a votare e a mandare qualcuno in parlamento, inaugurarono il proibizionismo (non funzionò molto); in Italia chiusero le case chiuse (a qualcosa è servito, se ne potrebbe parlare a lungo, comunque la prostituzione esiste ancora). Gira che ti gira, il desiderio maschile è un problema, a qualcuna risulterà IL problema, che può ispirare opzioni repressive. Il meme ormai frusto del "Not all men", alla fine allude a questo: un uomo fa presente (di solito in modo scomposto) che almeno lui può convivere con le proprie pulsioni senza essere un criminale, qualcuna le risponde che non è vero, sarà comunque un criminale in potenza e questo è già un rischio intollerabile.

 – Non credendo nel prossimo avvento di una dittatura matriarcale oscurantista, non mi sento tuttavia di escludere che prima o poi un'ondata femminista non si ritrovi a suo agio nel golfo di qualche comunità reazionaria, irresistibilmente attratta da una comune ostilità verso le pulsioni – almeno quelle maschili. Quella che chiamiamo cultura occidentale, una crosta molto sottile su un'irrazionalità in perenne tumulto, da qualche decennio sta sperimentando una proposta freudiana: proviamo a gestire i nostri desideri senza reprimerli troppo. Dove c'è tutto questo Id, proviamo a metterci più Ego: chissà che discutendone tutti assieme, sin dalla scuola dell'obbligo, e moltiplicando l'attenzione dei presidi medici e delle forze dell'ordine, chissà che non si possa vivere la sessualità in un modo più libero dei nostri bisnonni... No, ci dicono i talebani: non possiamo farcela. I desideri sono troppo distruttivi, serve più disciplina, servono steccati, proibizioni. No, ribadiscono le femministe: non sta funzionando, i femminicidi non calano – in realtà un po' calano – sì, ma non è abbastanza, e là fuori c'è ancora gente che si masturba guardando foto di persone che non hanno dato il loro consenso – oddio, se è tutto quello che fanno non mi sembra poi così grave – non ti sembra così grave? Sei un mostro.  

– Nel 5% di immagini realmente 'rubate' ci sarà pure una lieve percentuale di immagini che una donna si è lasciata scattare perché si fidava del partner. Immagino che molti, quando si scandalizzano della pagina, si scandalizzano di questa cosa, che effettivamente è la versione social dell'adulterio. Ora, il senso di certi comportamenti (non solo erotici) sta nei rischi che comportano: così come nessuno si allenerebbe a fare capriole in bicicletta se non ci fosse il serio rischio di paralizzarsi o morire, così il senso di lasciarsi fotografare in pose discinte da un partner sta proprio nel rischio che quest'ultimo si riveli uno stronzo. In una società in cui metà dei matrimoni si interrompono abbastanza presto, i video discinti sono prove di fedeltà molto più impegnative degli anelli di platino: 'fotografami pure' significa "puoi gestire la mia immagine, farne quello che vorrai, anche se so che non ne farai nulla di male perché mi fido di te, così come tu puoi fidarti di me perché ora possiedi la cosa più socialmente preziosa, e nel caso impossibile, assurdo in cui io ti tradissi, tu potresti disonorarla in pubblico, rendendomi per sempre reietta ai miei simili". Contro questa cosa, noi sul piano legislativo abbiamo varato misure precise anti-revenge-porn; sul piano educativo stiamo spiegando a tutti gli adolescenti che concedere immagini è sbagliatissimo, così come in generale fidarsi dei propri coetanei e (ahinoi) dei propri sentimenti nei loro confronti. Possiamo fare di più, senza sciogliere bromuro negli acquedotti, senza imporre burqa alle passanti, senza vietare l'internet? Probabilmente sì: possiamo sempre fare qualcosa di più, ma non credo che questo "di più" abbia a che vedere con gli allarmi sociali estivi. 

mercoledì 20 agosto 2025

Vittoria, non esattamente principessa del Madagascar

21 agosto: Beata Vittoria Rasoamanarivo (1848-1894), principessa del Madagascar?

Ho cercato un po' ovunque, tra biografie che si assomigliano tutte tra loro e che probabilmente derivano dalla stessa fonte, ma a quanto pare l'unica che assegna a Vittoria Rasoamanarivo il titolo di "principessa" è la wiki italiana, e a questo punto forte sarebbe la curiosità di capire il perché – ma non così forte, dopotutto è agosto, fa caldo, probabilmente qualcuno avrà copiato da una pagina che nel frattempo ha rettificato. Noi italiani in particolare di araldica capiamo poco: i titoli nobiliari li abbiamo aboliti, e persino chi li rimpiange non ha fatto i compiti, non sa come funzionano; altrove c'è più rigore, anche per queste sciocchezze. Si può notare come sul calendario questi siano giorni generosi di regalità; l'altro giorno era Sant'Elena Imperatrice, mentre il 22 si celebra la Beata Vergine Regina, e così qualcuno avrà pensato che in mezzo a tante teste coronate la povera Vittoria, senza un titolo, rischiava di sembrare, come certe signore ai ricevimenti, una serva che si sia appena liberata del vassoio. Vittoria era senza dubbio di nobile lignaggio, nipotina di un primo ministro e in seguito sposa del Capo di Stato maggiore, ma principessa? Bisognerebbe vedere il titolo in malgascio. 

Quel che è interessante è che in effetti la biografia della beata Rasoamanarivo si attiene al millimetro ai modelli delle sante principesse e regine altomedievali: conoscono la fede cristiana grazie a dei missionari (nel suo caso gli insegnanti gesuiti francesi), la diffondono a corte e nel popolo con opere di beneficenza e vincendo la diffidenza di mariti rudi, pagani e violenti (il marito era rude, ubriacone e protestante) che dai e dai si convertono alla buona novella; nel caso di Vittoria, probabilmente il marito non aveva più scelta, era caduto dal balcone di una giovane amante e ne aveva riportato ferite fatali; invece di lasciarlo in un pozzo di sangue Vittoria accettò di accudirlo fino alla fine ma in cambio il poveretto dovette lasciarsi battezzare, era il minimo. Questo tipo di principesse o regine non esercita mai il potere politico – e questo malgrado il Regno del Madagascar avesse una certa connotazione matriarcale, nell'Ottocento sul trono sedettero perlopiù regine – la loro sfera rimane quella religiosa; vegliano sul Regno e intercedono per i sudditi, un po' come è previsto faccia la Madonna alla corte di Cristo Re. Le biografie spiegano che la Rasoamanarivo giocò un ruolo importante a corte, difendendo la minoranza cattolica anche in quel paio d'anni in cui il cattolicesimo fu messo fuori legge; a riportare i gesuiti sull'isola, più che le sue preghiere, fu il congresso di Berlino del 1878 che aveva destinato la grande isola all'impero coloniale francese. 

Fino a quel momento la dialettica tra cattolici e protestanti aveva avuto un significato anche nazionalista: Ranavalona I la Crudele (1828-1861), dopo aver probabilmente avvelenato il re suo marito, aveva espulso i missionari e proibito il cristianesimo. Durante il suo regno ventennale i francesi si erano fatti avanti sventolando delle concessioni che Radama II, figlio di Ranavalona, aveva firmato nella speranza di ottenere un aiuto europeo per spodestare la madre. A dire il vero Napoleone III non fece un granché, nemmeno quando alla morte di Ranavalona, il figlio era salito al trono, attuando una politica di tolleranza religiosa e avvicinamento alle potenze europee così poco apprezzato dalla gerarchia al potere, che nel giro di due anni era già stato fatto strangolare dal primo ministro Rainilaiarivony. Quest'ultimo avrebbe prontamente sposato la vedova di Radama, che saliva al trono col nome di Rahoserina, nonché le due regine che le succedettero, le quali perseguirono generalmente una politica filobritannica che probabilmente era vista come l'unica in grado di tenere l'isola al riparo dagli interessi francesi. Questa politica si traduceva in un'adesione alla religione protestante e, nei periodi di maggior tensione, all'espulsione di gesuiti e altri cattolici. Non servì a nulla: a Berlino si era deciso altrimenti, anche se i francesi ci misero comunque molti anni ad arrivare. L'invasione vera e propria, con la rivolta sanguinosissima che ne seguì, sarebbe cominciata soltanto nel 1895; a quel punto Vittoria era già morta, di malattia, ad appena 46 anni. Nel 1989 è stata proclamata beata da Giovanni Paolo II, che non lasciava mai una tappa di un suo viaggio senza avervi riconosciuto un attestato di santità, o almeno di beatitudine. Credo sia la prima Beata del Madagascar, e in quanto tale che bisogno ha di essere chiamata principessa? I titoli, che valgono così poco già in terra, in cielo non hanno più senso.

martedì 19 agosto 2025

Il giorno dei Magni

19 agosto: San Magno di Trani, di Anagni, di Cesarea di Cappadocia, di Cuneo...

Cripta della Cattedrale di Anagni

Dei Santi Magni è sempre lecito diffidare; non solo della loro santità, ma della loro stessa esistenza. Perché dovrebbero chiamarsi così? Se ci riflettete, Magno non era nell'antichità un nome individuale, ma un aggettivo ("Grande"): né sembra aver particolarmente attecchito negli archivi battesimali del Medioevo. Non solo, ma sappiamo che già i Romani ne avevano fatto una specie di titolo onorifico, sul calco del "Mega" greco. A esserne insigniti, molto prima dell'imperatore Carlo Magno, erano stati patriarchi e pontefici come Leone I. A differenza di altri aggettivi onorifici (tra cui ad esempio "Santo"), il termine "Magno" non è mai passato attraverso un processo di istituzionalizzazione: semplicemente a un certo punto qualche cronista decide che tu sei un Grande, comincia a scrivere "Grande" dietro il tuo nome, e a volte la cosa prende piede. Ma tante altre volte la proposta potrebbe aver fallito, e non lo sapremmo proprio perché nessuno l'ha ripresa. Non è affatto impossibile, ad esempio, che in un elenco di vescovi di Trani poi andato perduto, al nome di Redento, sulla prima riga, il compilatore avesse deciso di far seguire l'aggettivo "Magno": in fondo era il primo vescovo, quindi il fondatore della Diocesi, e per quanto se ne sapesse poco, chi altri avrebbe meritato di essere definito Grande? Dopodiché passano gli anni, a volte i secoli, la pergamena si rovina e il copista che si preoccupa di trasferirne le informazioni non si accorge lì per lì della grandezza di Redento (un tizio di cui, in effetti, non si sa quasi nulla). Ha fondato la diocesi di Anagni, ah beh, capirai... Per cui scrive "Redento", e magari mette un trattino o un altro sbaffo, o addirittura, se la pergamena non gli manca (ma mancava quasi sempre), va a capo, scrivendo "Magno": ed ecco gemmare un secondo vescovo di cui si sa ancor meno del primo, il che a volte può dare a un agiografo lo spunto per agganciarlo a una leggenda. Sappiamo del resto che a Trani queste leggende scarseggiavano al punto che qualche secolo più tardi un vescovo decise di intitolare la nuova Cattedrale a uno sconosciuto appena arrivato dalla Grecia che nemmeno sapeva parlare la lingua locale: letteralmente un Beota – ma si chiamava Nicola, e un San Nicola in Puglia è sempre garanzia di lustro e turismo religioso. 

Di San Magno invece nessuno sapeva niente; benché fosse conosciuto come "Magno di Trani", la base del suo culto era sull'altro versante della penisola, ad Anagni. Difficile capire il perché – una leggenda, molto tarda attesta semplicemente che Magno, dopo aver contribuito ad evangelizzare le sue terre, si era spostato verso la Campania e il Lazio, sempre evangelizzando e convertendo: dunque più un missionario che un vescovo stabile, ma dopotutto era solo il terzo secolo, la differenza tra i ruoli poteva essere sottile. Annotiamo che mentre Trani è un centro portuale (e quindi più sensibile al nome di San Nicola, che nel Medioevo era il più invocato tra i navigatori), Anagni, e in genere il frusinate, è terra di pastori. Il Magno che è arrivato fino a noi non sembra avere molto a che fare con la pastorizia: il suo ruolo sembra essere quello di ingrandire la cattedrale di Anagni, apparendo periodicamente ai vescovi per suggerire restauri e ampliamenti. A parte questo, si sapeva che era originario di Trani e che era morto durante le persecuzioni dell'imperatore Decio in una grotta a Fondi, proprio mentre diceva un'ultima preghiera davanti ai legionari che stavano per arrestarlo. Dopodiché i legionari avevano deciso di decapitarne ugualmente il cadavere – episodio singolare, che forse serviva a rassicurare i fedeli sul fatto che Magno fosse da considerare un martire. Tutto questo sarebbe avvenuto il 19 agosto del 251, da cui la consuetudine di ricordare il martirio di San Magno ogni 19 agosto. Curiosamente, lo stesso giorno si festeggiava un altro Magno originario di Cesarea di Cappadocia: oggi è una regione della Turchia, ai tempi faceva parte del settore grecofono dell'impero, per cui il nome Magno appare ancora più incongruo: e del resto di lui non parla nessun martirologio o sinassario bizantino, bensì un agiografo veneziano (Pietro de' Natali) del XIV secolo. 

Questo Magno, martirizzato sotto Aureliano imperatore, viene prima condannato al rogo (ma ne rimane illeso), e poi a essere sbranato dalle belve, che lo risparmiano: uno spettacolo che ottiene la conversione immediata di 2597 spettatori. A questo punto pare sia lo stesso Magno a implorare Dio di accelerare la pratica del martirio, così che un successivo tentativo mediante lapidazione ottiene finalmente il risultato sperato. Anche i 2597 neoconvertiti vengono rapidamente martirizzati, non ho capito con che sistema. De' Natali forse stava cercando di ricostruire un'agiografia a partire da brandelli che provenivano da leggende diverse: ad esempio il 19 agosto si festeggiava anche un Sant'Andrea-Magno, ufficiale romano che aveva guidato una legione in una vittoria contro i Persiani; li aveva però anche convertiti al cristianesimo, il che ne avrebbe causato il martirio a opera del governatore Seleuco. La leggenda somiglia sospettosamente a quella di San Maurizio e della Legione Tebea, il che ci offre un'ipotesi per spiegare la labile esistenza di un altro San Magno, quello di Cuneo. Nel santuario di Castelmagno, che prende il nome da lui (o è lui che prende il nome dal Castello?) è raffigurato come un soldato – del resto il sito del santuario era in epoca pagana sacro a Marte – ed è tradizionalmente presentato come un sopravvissuto dello sterminio della Legione Tebea. La leggenda della Legione è particolarmente diffusa nel Piemonte occidentale: molte colline e monti reclamano il passaggio di uno o più superstiti che avrebbe contribuito a evangelizzare la zona. È probabile che si tratti di una strategia per nobilitare personaggi anticamente venerati di cui si era perso tutto tranne il nome, e nel caso di Magno forse anche quello: magari molto prima dell'erezione del santuario, sulla collina esisteva un Castello abbastanza grande (Castellum Magnum).

Santuario di San Magno a Castelmagno
Di Zairon - Opera propria, CC BY-SA 4.0

A questo punto immagino i tre lettori superstiti completamente perduti e avviliti. Vi capisco, mi sto perdendo anch'io. Ricapitoliamo: di Santi Magno ce ne sono parecchi, e in particolare parecchi si festeggiano oggi, 19 agosto. Non è così strano – nel Basso Medioevo si assiste spesso al fenomeno per cui i santi omonimi vengono celebrati nello stesso giorno – ma ci induce a dubitare un po' di più dell'esistenza di santi dal nome, peraltro, già molto sospetto. Ad Anagni (FR), il 19 agosto è venerato un San Magno che risulta secondo vescovo di Trani (BAT), anche se laggiù ne hanno sempre saputo pochissimo; nello stesso giorno, a Cuneo si festeggia un San Magno che forse prende il nome dal Castello che sorgeva dove ora sorge il suo santuario (Castelmagno); un Andrea che qualcuno chiama "Magno" che avrebbe convertito una legione intera, sul modello (molto apprezzato nell'arco alpino) di San Maurizio; sempre nello stesso giorno, un agiografo veneziano del Trecento decide di sistemare un fantomatico Magno di Cesarea di Cappadocia, che avrebbe convertito in un colpo solo 2597 fedeli, anche se a Cappadocia e in tutto l'Impero d'Oriente nessuno ne ha mai sentito parlare. Ora, secondo la Bibliotheca Sanctorum, quest'ultimo misterioso Magno potrebbe essere un riadattamento occidentale di un altro santo di Cesarea, questo sì molto conosciuto in patria e non solo: San Mame, o Mamete. Malgrado il nome esotico, è un santo discretamente popolare anche in Italia, per via delle leggende che lo riguardano, molto fantasiose ma imperniate su un dettaglio cruciale: Mamete è un favoloso pastore, in grado di mungere qualsiasi animale della foresta e persino della giungla. Grazie a lui ai martiri in prigione non mancava mai latte e formaggio; lo invocano le puerpere esauste e gli allevatori affamati; si festeggia anche lui in questo periodo dell'anno (17 agosto), ed è proprio il tipo di santo che sarebbe piaciuto ai frusinati (proprio come il Magno soldato sarebbe andato a genio agli abitanti di Cuneo, zona di roccaforti militari). Dunque il Magno di Anagni, prima di diventare il misterioso Magno di Trani, avrebbe potuto essere il Magno di Cesarea, ovvero Mamete di Cesarea... è ovviamente un'ipotesi, ma a questo punto credo che il lettore superstite potrebbe essere interessato a scoprire come arrivino ad Anagni i resti di questo santo molto elusivo. Li ricopio da Wikipedia, perché davvero non potrei essere più chiaro:

I suoi resti furono traslati da un certo Platone a Veroli[1], dove fu sepolto nella cripta della Basilica di Santa Sàlome. Nel corso del IX secolo, durante le invasioni dei Saraceni, un gruppo di Arabi capitanati dallo sceriffo Muca, occuparono Veroli e usarono senza riguardi la cripta dove era custodito il corpo di san Magno come stalla per i loro cavalli. Il mattino successivo, tornando alla cripta, trovarono tutti i cavalli morti ed attribuirono l'avvenimento ad un artifizio operato dal santo per far rispettare la sua tomba. Profanarono allora il sarcofago e buttarono i resti del santo fuori dalla chiesa. Muca però, sapendo della devozione degli abitanti di Anagni per la figura di san Magno, fissò la vendita delle reliquie ad un prezzo altissimo, in oro.[1] Gli Anagnini accettarono ed il corpo di san Magno venne accolto nella città e sepolto nella cripta[4], che costituisce il fulcro originario della Cattedrale.

Prevengo la tua domanda, mio buon lettore: come faceva questo sceriffo Muca, pirata e profanatore, a conoscere la "devozione degli abitanti di Anagni per la figura di san Magno"?  Come saranno andate davvero le cose? Proviamo a immaginare: un commando saraceno mette le mani su un sarcofago. Ovviamente lo profanano – se non altro per verificare se al dito del santo non ci sia ancora qualche prezioso anello, o sulla testa un copricapo in seta, insomma qualcosa di rivendibile. Molto probabilmente non trovano nulla, solo ossa e polvere. Non rinunciano però all'affare. Si fanno vivi sotto le mura di Anagni e propongono un affare: qualcosa in cambio di quelle ossa e quella polvere che, per il solo fatto di essere state contenute in un sarcofago prezioso, un minimo di importanza lo devono avere. Magari, prima di Anagni, Muca ha tentato l'affare altrove, ma è ad Anagni che trova qualche notabile interessato: forse perché ad Anagni di santi abbastanza interessanti non ce n'erano ancora, e nel frattempo c'era una cattedrale da rimettere a posto. Dunque, insomma (dice Muca), io avrei queste ossa che sono senz'altro appartenute a un sant'uomo. 

A quale sant'uomo, gli avrà chiesto il vescovo di Anagni. 

Perché, fa differenza? domanda un po' sorpreso lo sceriffo.

Ne fa moltissima, ribatte il vescovo. Per noi è importante dare un nome alle ossa che conserviamo.

Pensavo che foste tutti uguali davanti a Dio.

Certo che siamo tutti uguali davanti a Dio, testone di un Saraceno, ma scommetto che il giorno che ti farai seppellire lo vorrai scritto il tuo nome accanto alla fossa...

In effetti, concede lo sceriffo.

...in quei caratteri di merda di gallina di voi infedeli...

Ehi ehi ehi, non cominciamo con l'odio interreligioso. A parte che la nostra calligrafia è straordinariamente elegante e superiore alla vostra, ma siamo qui per concludere una transizione. Le volete queste ossa di un uomo importante? Perché se non le volete, siamo già in parola col vescovo di Frosinone, che...

Ma che vescovo di Frosinone, stai bluffando. Senti, mi serve un nome. Ci sarà pur stato un nome sul sarcofago che hai rubato.

E certo che c'era, ma era scritto nei vostri brutti geroglifici, cosa volete che ne sappiamo noi? Di sicuro era una grande persona, c'era scritto in effetti qualcosa come Magus, Magnu...

Magnus. 

Infatti, una grande persona.

Nient'altro? Solo "Magnus"?

Nient'altro che io possa ricordare. Ma sono sicuro che vi potete inventare il resto. E quindi?

Non so, è solo un mucchietto di ossa, sai quanti ne potrei trovare scavando un poco qui intorno?

Eminenza, mi prendi in giro? Certo che puoi trovare mucchi di ossa dappertutto, ma questi te li sto offrendo io, e a quest'ora lo sa già tutta Anagni e un pezzo di Gavignano. Se lo stanno già tutti raccontando, che c'è uno sceriffo saraceno che vuole rendere i resti di un Santo al vescovo. Sono queste le ossa che la gente vorrà venire a vedere; quelle che io ho profanato.

Le hai profanate?

Non lo so, probabilmente sì, devo averle buttate per terra a un certo punto.

Le hai profanate. Dio ti punirà per questo.

Bravo, ecco, gli racconterai che Dio mi ha punito, mi ha fulminato secco, anzi no perché sono ancora qui a rendertele, ma non so, potresti dire che mi ha fulminato i cavalli.

È successo?

Sono un pirata saraceno del secolo IX, non è che mi porto tutti questi cavalli sulle navi, ma insomma devo inventarmi tutto io? Sei tu che conosci i tuoi polli, io sono solo qui con una fornitura di becchime. 

Becchime? Pensavo che volessi vendermi i resti di un santo.

Era una metaf... lascia perdere. In questo sacco ci sono i resti, ok? Diciamo dieci pezzi d'oro.

Cinque.

Ah, vabbè, i miei ossequi, a Frosinone me li comprano per dodici.

Sette.

Otto, e mi procuri un cavallo.

Altri pezzi