Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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venerdì 26 dicembre 2025

Visto qualche bel film di recente (2025)? (Seconda parte)

Una battaglia dopo l'altra (P.T. Anderson, 2025)

[Titoli di coda]

"Beh che bello! due ore e mezza mi sono passate in un attimo".
"Eh, è un film d'azione".
"Ma di solito i film d'azione non mi piacciono".
"No, è che di solito non li guardi".

Credo che se si potessero trasformare tutte le nostre recensioni di One Battle in linee grigie, e si potessero sovrapporre tutte queste linee in un campo semantico, nella regione nerissima di questo campo potremmo estrapolare la frase "mi è piaciuto tantissimo, ma non è un capolavoro", il che è interessante – perché un film che ci piace tantissimo non dovrebbe essere un capolavoro? Cos'è poi un capolavoro? Per gli americani, che tendono a ragionare per generi in quanto compartimenti stagni, è un genere come un altro. Un giorno hai voglia di vedere un horror, un altro giorno una commedia, un giorno un Capolavoro. È un genere praticato da determinati cineasti che devono cospargere i loro film di elementi distintivi, affinché sia chiaro a tutti che è un film del genere artistico, del genere capolavoristico, Woody Allen per farla breve li chiamava "film europei", e mi domando se lo abbiano mai informato del fatto che anche il 90% della cinematografia europea è robaccia senza pretese. I film-capolavori ultimamente li fa Lanthimos, però fino a qualche anno fa li faceva anche P T Anderson. Stavolta però la Warner lo ha coperto di denaro per fare un film d'azione, e Anderson l'ha fatto senza grossi problemi perché lui, a pensarci, è sempre stato uno che crede che l'azione possa sostituire la parola (tutti i cineasti dovrebbero esserlo, ma lui più di altri).

Il film "non è un capolavoro", non ci prova nemmeno, non presenta quegli elementi stilistici che ci dovrebbero pensare Ok è Arte, o almeno Ok è P.T. Anderson, il geniale regista del Petroliere eccetera. No, è una storia, abbastanza semplice, raccontata per immagini in movimento. Il fatto che possa avere alla fine un decente riscontro commerciale è una buona notizia per Hollywood, perché la Warner – che più di altre produzioni è rimasta impastoiata nel filone superomistico, senza quasi mai tirarci fuori i soldi che avrebbe dovuto tirarci fuori – per una volta ha provato a fare qualcosa di diverso: niente omini in costume, niente Proprietà Intellettuali da rispolverare e mungere fino all'esaurimento, bensì ha preso un Autore e invece di chiedergli: fammi le tue cose da Autore, fammi le tue solite robine firmate che magari mettiamo in coda al botteghino il 70% dei nostalgici di Magnolia, gli ha chiesto: hai una storia? Vuoi farci un film con un grosso budget, ovvero attori importanti (ma tutti un po' stagionati, quelli che sono riusciti ad aggirare il medioevo supereroistico), però di cassetta, senza personalismi, con un grande movimento ma anche qualche spiegone qua e là perché la trama sia compresa anche dai deficienti o chi per metà del film ha intenzione di limonare? Benché con le poltroncine di adesso sia veramente complicato?

Se avesse floppato sarebbe stata non la fine ma quasi, altri vent'anni di gente che vola in pigiama di multiverso in multiverso, ma non ha floppato (non è nemmeno stato un grande successo; ma non ha floppato). E può essere un'occasione per rimettere in discussione certi compartimenti stagni, levare Lanthimos ai suoi lantimosismi, magari persino Tarantino potrebbe essere tentato di fare qualcosa di meno personale e più commerciabile. I critici se ne lamenteranno, ma avranno film più interessanti di cui lamentarsi. (Nel comparto "arty" potrebbe anche solo restare l'altro Anderson, quello che ha sempre fatto solo quello che voleva, che per qualche anno ai critici è piaciuto, e poi se ne sono stancati).


A House of Dynamite (Kathryn Bigelow, 2025)

Siamo militari, siamo coscienziosi e preoccupati, se vi stiamo per atomizzare è perché abbiamo vagliato con attenzione ogni altra possibilità e sappiamo quello che facciamo, ringraziateci. 
 
A un certo punto Kathryn Bigelow è diventata la regista ufficiosa del Dipartimento della Difesa (che adesso ha cambiato nome) e non voglio dire che abbia smesso di essere una regista interessante ed efficace, ma proprio questa efficacia, messa al servizio di un organo che ha evidentemente bisogno di giustificare le sue scelte davanti ai propri finanziatori, può rendere un più complicata la ricezione dei suoi film per chi, come me, non è che vada in giro a sventolare stelle e strisce e hamburger al bacon, insomma Zero Dark Thirty era un efficacissimo film che riusciva quasi, ho detto quasi, a farmi stare simpatici i talebani. Siamo d'accordo che non è la Riefenstahl, così come la Casa Bianca non è il Pergamon, ai nazisti piacevano i corpi atletici scolpiti dalla luce solare, mentre ai patiti di film su Washington piace un certo tipo di ritmo sincopato, fatto di tanta gente competente ed esperta di sessi diversi e colori diversi che si coordina, si scontra e si confronta in uffici con molti vetri e schermi illuminati, sempre ricordandosi di avere una vita privata, degli affetti, che deve però sacrificare al Dovere, è la stessa retorica di West Wing (che tanti danni ha fatto all'immaginario di una generazione di filoamericani) che la Bigelow rispolvera senza apparente sforzo, in un film che vola via rapido come un missile (anche se un missile suborbitale fa in tempo a esplodere tre volte).

Il messaggio è sempre la cosa un po' più imbarazzante, perché alla fine è il messaggio di chi ci ha evidentemente messo i soldi, la Bigelow se potesse stamparseli girerebbe probabilmente altre cose e più interessanti (Detroit com'era? non l'ho visto), ma insomma il messaggio di Zero era che Bin Laden l'aveva assolutamente trovato la CIA con una lunga e testarda inchiesta culminata in un blitz militare, e nessuno doveva farsi venire in mente altre e meno improbabili storie. Il messaggio di A House of Dynamite, se l'ho ben compreso, per carità potrei sbagliarmi, ma è: stiamo galleggiando in un mare di merda e chiunque, in un qualsiasi momento, anche solo per uno sbaglio, provocherà una piccola onda. Quindi ci servono soldi! Tantissimi soldi! Moltissimi più missili intercettatori, non importa se hanno il 50% di possibilità di fallire, anzi proprio perché hanno il 50% dobbiamo almeno raddoppiarli, ehi, ci sentite? Soldi, stampate soldi, perché ormai il mondo può esplodere anche solo se a un tizio a Pyongyang scappa uno starnuto. Questo è il messaggio, e cosa gli vuoi dire. Roger. Copy. Amen. Da bambino un pomeriggio vidi A prova di errore e credo di non essermi ancora ripreso, per cui con me sfondi una porta aperta, Kathryn. Però non lo so, mi sembra davvero un lungo smagliantissimo spot, Lumet e Kubrick non mi davano questa sensazione.



Cinque secondi (Paolo Virzì, 2025)

Un altro casolare in Toscana, proprio così. Intorno a uno dei luoghi comuni più slabbrati e sputtanati del cinema italiano, Virzì pianta la sua troupe e gira un film secco, tragico, con pochissime (e necessarie) concessioni alla commedia. Se solo esistesse un mercato per i mediometraggi, o i film a episodi – perché a volte il problema è tutto lì, uno scrittore se vuole può scrivere un racconto, il regista 90 minuti almeno li deve fare e Valeria Bruni Tedeschi sembra scritturata apposta per far salire il minutaggio. Non dà fastidio, non strafà, è solo in una specie di film a parte, ma va bene anche così.



Zootropolis 2 (Jared Bush, Byron Howard, 2025)

C'è qualcosa di inquietante nel modo in cui la Disney gioca col mio cervello, e forse anche con quello di altri. Qualche anno fa, mentre Luca veniva salutato da esponenti della comunità Lgbt come il primo film Pixar a tematica scopertamente Lgbt, io mi guardavo intorno perplesso, perché tutta questa tematica proprio facevo fatica a trovarla: ehi (avrei voluto dire), guardate che è solo un film piacione che vi strizza l'occhio di nascosto ma se poi le cose si mettono male negherà di averlo fatto – ma forse adesso capisco come si sentivano i Lgbt. Lo capisco dopo aver visto Zootropolis 2, un film che ai miei occhi grida Palestina Libera! From the River to the Sea! Eppure mi guardo intorno e niente, nessuno se la prende, nessuno ci fa caso, tutto ok. Se poi sul piatto ci metti Andor, ci metti una stagione di Daredevil Contro Donald Trump, ebbene, c'è qualcosa di inquietante nel modo in cui di fronte a un potere costituito sempre più arcigno e opprimente, la Disney ci titilla mettendo in scena rivolte giuste, sacrosante e coronate dal successo. 



Lawrence d'Arabia
(David Lean, 1962)

Sono un po' deluso, di me stesso e dei miei lettori. Quando mesi fa notai che ultimamente le trame dei blockbuster ricalcavano sempre più spesso quella di Dune (protagonista viene creduto il Prescelto; anche lui si crede il Prescelto; scopre troppo tardi di non essere il Prescelto) non mi avete fatto notare l'ovvio, ovvero che Dune è semplicemente quello che succede se guardi Lawrence d'Arabia dopo aver ingerito qualche funghetto serio. A quel punto mi è tornato in mente un altro filmone in costumi coloniali, L'uomo che volle farsi re di Huston, tratto da un romanzo di Kipling; e dopo Kipling il romanzo che di film ne ha ispirati a dozzine, Cuore di tenebra. Insomma la struttura "alla Dune" è in pratica la riproposizione di un intreccio tipico della migliore letteratura anglosassone coloniale: e il fatto che stia riaffiorando qua e là oggi al cinema (anche Anora alla fine è la storia di una che si crede che i mafiosi russi la renderanno Cenerentola) dimostra quanto il colonialismo segni ancora l'immaginario occidentale. 

Sono deluso di me stesso perché, malgrado il mio feticismo per il Dottor Zivago, con Lawrence ho un rapporto difficile: l'ho sempre trovato molto bello (persino una volta su un televisorino in bianco e nero) ma ricamato intorno a un protagonista che m'infastidiva a pelle. Riguardarlo sulla piattaforma, in 16:9 e in lingua originale, è stato una vera illuminazione. Lawrence come biopic so che lascia molto a desiderare, ma è davvero il film del colonialismo, e in quanto tale è invecchiato benissimo. La prossima volta che vi trovate davanti a un video con un Mentana o un Mieli che tentano di spiegarvi Netanyahu, andate sulla piattaforma e guardatevi un pezzo di Lawrence, magari la rappresaglia prima dell'ingresso a Damasco. Non ci sono personaggi positivi (non ci sono donne), nessuno impara niente, la classica storia del freak che si trova a disagio nella società occidentale e dovrebbe trovare sé stesso in un mondo selvaggio si ribalta nella sua parodia, perché il sé stesso che trova è la parodia di un beduino assetato di sangue. O'Toole è di un'antipatia sublime, come se Bolt o Lean gli avessero detto: facci un Charlton Heston gay, e lui non una piega, che idea! Un Ben Hur gay.

martedì 23 dicembre 2025

I dischi di Natale dei Beatles?


Qualche anno fa, qualcuno lo ricorderà, mi misi per il Post a stilare la più verbosa classifica dei brani dei Beatles mai pubblicata – un pretesto per glossarnee ogni canzone. Il risultato fu pubblicato anche in un volume che potrebbe essere un'idea se non sapete più che regalo comprare al nonno. Ma benché nell'occasione sia riuscito a scrivere qualcosa a proposito di più di 250 brani, alcuni ne rimasero fuori. Si tratta per lo più di cosiddette rarità ("rarità" nel caso dei Beatles significa che le conosce solo qualche decina di milioni di appassionati). Un discorso a parte poi lo meriterebbero i dischi di Natale – ecco, qualcosa nell'aria mi dice che oggi è il momento di quel discorso a parte. E Buon Natale, come si dice da noi.


The Beatles Christmas Record (1963)
Per quanto suoni festoso e natalizio, il Christmas Record del 1963 dovrebbe essere stato inciso già il 17 ottobre, durante la sessione per il singolo I Want to Hold Your Hand / This Boy che nell'anno successivo avrebbe permesso ai Quattro di sfondare negli USA. Ora, siccome l'obiettivo originario era scrivere qualcosa a proposito di ogni brano dei Beatles, qui si tratta di stabilire se il Christmas Record vada incluso nel canone – a occhio, no. Non era stato concepito come tale; i Quattro non suonano e per la maggior parte dei cinque minuti non cantano nemmeno. I dischi di Natale per i fansclub britannici erano considerati dei semplici messaggi di auguri (e di scuse per non aver risposto a tutta la posta dei fans, "non ho abbastanza penne", spiega John). Venivano allegati al giornalino del club e avevano la stessa funzione che oggi potrebbe avere una clip su instagram o tictoc. Non erano nemmeno concepiti per durare: venivano incisi su un supporto (il flexidisc) economico e particolarmente fragile. Nel 1971 furono finalmente raccolti su un LP che nessuno sentì la necessità di ristampare fino al 2017.
D'altro canto, è pur vero che i Beatles stanno cantando delle canzoni, su un disco che è stato pubblicato ufficialmente, e quindi perché non dovremmo contare tra i loro brani ufficiali anche la loro versione del canto tradizionale Good King Wenceslas e della canzone della Renna Volante (con il gioco di parole Ringo/Renna)? Il flexi se non altro conferma che ormai i Quattro si trovavano a loro agio nei personaggi mediatici che si erano costruiti. L'unico che tra lazzi e frizzi prova a fare un discorso serio è Paul, che spiega come il miglior posto del mondo sia proprio quello dov'è in quel momento: la sala d'incisione. Ogni desiderio stava diventando realtà, Natale era già arrivato a ottobre, e sarebbe durato tutto l'anno.


Another Beatles Christmas Record (1964).



Inciso il 26 ottobre, al termine della sessione conclusiva di Beatles For Sale, è probabilmente il meno musicale dei flexidisc natalizi, anche se è interessante proprio per alcune trovate rumoriste che anticipano sperimentazioni molto successive: all'inizio c'è un tentativo di suonare Jingle Bells che degenera subito, con pianoforte, armonica in chiave sbagliata e quello che sembra un kazoo (probabilmente è carta velina su un pettine, la riascolteremo solo in Lovely Rita e sembrerà una straordinaria innovazione). I Quattro leggono un copione scherzandoci sopra, i ruoli ormai sono chiari: Paul è il ragazzo fortunato che continua a meravigliarsi e ringraziare per tutti i dischi che vende, e soprattutto per l'enorme privilegio di lavorare in uno studio ("qui abbiamo inciso le prime nostre canzoni... sembrano tanti anni fa"). Lennon è il ragazzaccio che lo prende in giro. (Paul: "se non fosse per voi fans, chissà dove sarei..." John: "A militare"). George è il beatle concreto che ha dei prodotti da promuovere: "Grazie per aver visto il film, mi aspetto che qualcuno lo veda anche più volte... il prossimo sarà diverso, col colore" (John: "il verde!"); Ringo è lo svagato: "Vi domanderete dove siamo stati quando non eravamo qui, ebbene in... Australia... Nuova Zelanda... Stati Uniti... Australia... no aspetta l'ho già detta"). In coda una canzone popolare irlandese, Can You Wash Your Father’s Shirt, si spegne quasi subito: ma l'urlo "Christmas!" che continua a riverberare nel silenzio è una gran trovata, anzi penso che la riciclerò nel prossimo nastrone natalizio.




The Beatles Third Christmas Record (1965)



"Uno dei nostri anni migliori, da quando li contiamo. E noi sappiamo contare un sacco di grandi anni". Il 1965 è veramente l'anno cruciale della storia dei Quattro. Le canzoni incise sono 36, più o meno come l'anno precedente, ma a parte un paio sono tutte originali: la rivalità cordiale ma sempre meno sotterranea tra Lennon e McCartney (con il secondo per la prima volta in lieve vantaggio) è il motore che li consente di consegnare alla Storia della musica almeno una dozzina di brani che cambieranno le carte in tavola per tutti. È più che appropriato, così, che il disco di Natale cominci con una versione ubriaca di Yesterday, che poi nel corso del messaggio diventerà Christmas Day. Stavolta a quanto pare c'era stato un tentativo di produrre un disco di Natale più professionale (una finta trasmissione da una radio pirata, quelle che stavano stravolgendo i gusti dei teenager inglesi promuovendo i dischi che la BBC non aveva il coraggio di suonare). Il progetto fu accantonato e i Quattro rimasero fedeli al format dei due anni precedenti: canzoni balorde e qualche messaggio di ringraziamento per le lettere del fanclub, sempre meno sincero ("grazie soprattutto per le lettere con la gomma da masticare"). Lennon è il probabile autore di due frammenti originali: una canzonaccia natalizia da pub, Happy Christmas to Ya List’nas, e una filastrocca, Christmas Comes, But Once in a Year. Nel mezzo i Quattro tentano di intonare qualcosa di sensato, dal tradizionale Auld Lang Syne che Lennon dirotta verso Eve of Destruction, e It's the Same Old Song dei Four Tops, immediatamente stoppata da George Harrison che anche stavolta sembra il più sobrio del gruppo e ricorda agli altri che non si può, c'è il copyright. Così alla fine tornano su Yesterday, il pezzo che per poco non era uscito come un singolo solista di Paul, e che tra tante pietre miliari posate nel 1965 forse è stata la decisiva. All'inizio del 1965 i Beatles erano ancora una rock band, più eclettica di altre, ma dal sound sempre riconoscibile; alla fine del 1965 erano un progetto musicale aperto a qualsiasi possibilità. Nel mezzo c'era stata Yesterday, un brano che Paul non sapeva da dove gli era venuto, e che vincendo una lunga titubanza aveva inciso con un quartetto d'archi – e senza il contributo degli altri tre, che qui sembrano volerla massacrare senza pietà. O forse era un tentativo di farla propria, visto che ai concerti non sapevano ancora come arrangiarla. Dopo Yesterday i Beatles non sarebbero stati più gli stessi e per quanto questo fosse già un presagio della fine, nessuno in quel momento aveva la minima intenzione di tornare indietro.


Pantomime (1966)
Everywhere It's Christmas (non attribuita)

Nel 1966, per la prima volta, i Beatles non riescono a incidere l'album invernale; e questo malgrado l'altra attività fondamentale del gruppo – i concerti – si sia interrotta del tutto a fine agosto. Lennon poi si è assentato per recitare in How I Won the War e quando si ricongiunge coi tre è troppo tardi per lavorare a un intero 33 giri: quello inciso prima dell'estate ha richiesto quasi tre mesi di lavoro. Del resto l'asticella è sempre più alta, nessuno si aspetta più dai Beatles una collana di canzoncine incise in fretta e furia: anzi ora il loro nome è legato a produzioni innovative e di qualità. Persino quella buffonata del flexidisc di Natale per il fan club: persino quella va realizzata con cura e professionalità. Pur rimanendo nell'ambito della buffonata: Everythere It's Christmas, il primo brano, rimane nel solco delle strofe goliardiche improvvisate soprattutto da Lennon nei dischi precedenti, anche se qui McCartney lo accompagna al piano. Il brano apre e chiude il disco come una parentesi, proprio come nel 1967 capiterà a un altra canzone un po' buffonesca, Sgt Pepper's Lonely Hearts Club Band; e in generale tutti i sette minuti del flex sembrano una parodia di quei primi acerbi concept album coi recitativi parlati, che arriveranno nei negozi di dischi inglesi solo verso il 1967.


Orowayna (non attribuita).

"Our story opens in Corsica". La copertina di Pantomime, per la prima volta, indica una scaletta di canzoni e recitativi. "Orowayna" è il secondo brano, che comincia immediatamente dopo il primo, non dissimilmente da quanto sarebbe successo in Sgt Pepper's: l'album che in quei giorni stavano cominciando a mettere assieme, anche se non se ne rendevano ancora conto. Paul sta raccontando una bislacca leggenda natalizia ambientata in Corsica, e il coretto che lo accompagna svela per la prima volta nella produzione dei Quattro una sensibilità per un tipo di musica 'etnica', nonché la pratica di scandire sillabe a caso, scelte per il suono evocativo.


Please don't bring your banjo back 

"Ti prego, non portarti dietro il banjo, non so dov'è finito. Me ne ero appena andato quando divenne la cosa nuova. Banjo, banjo dappertutto, non riesco a scordarmi le loro canzoni... e se ne vedo in giro un altro, andrò a comprarmi un grosso pallone". 

Le mode vanno e vengono, i Beatles devono anticiparle – e allontanarsene rapidamente. È un lavoraccio, qualcosa che oggi sarebbe affidato a un algoritmo, vent'anni fa a un ufficio marketing: nel 1966 a quattro ragazzi di Liverpool con un po' di esperienza, molto fiuto, e qualche collaboratore che per fortuna continua a fidarsi ciecamente di loro. Il 1966 è apparentemente l'anno meno produttivo dei sette che hanno trascorso incidendo assieme: a metà dicembre, invece del solito LP, avranno da offrire al pubblico soltanto un 45 giri, che tra l'altro non riuscirà nemmeno ad arrivare al primo posto nella classifica inglese (non ci riuscirà perché è un singolo "con due lati A", Strawberry Fields Forever e Penny Lane, e i negozi comunicano le vendite soltanto di uno dei due titoli). In tutto, contando il singolo natalizio, quello primaverile (Paperback Writer) e l'album (Revolver) risultano "appena" 19 incisioni. Se la quantità è un po' calata, la qualità è sempre in crescita: Revolver oggi è considerato quasi unanimemente l'album più importante. È anche uno di quelli che ha richiesto più tempo, e segna l'inizio di una fase in cui i tempi in sala di registrazione si dilateranno. Una situazione in generale più congeniale a McCartney che ai colleghi: tra i quali Lennon sta già dando la sensazione di perdersi, di non riuscire a spiegare quello che vuole a George Martin, e a volte anche a sé stesso.



Christmas Time Is Here Again (1967)



Col titolo Christmas Time Is Here Again indichiamo ormai due oggetti molto diversi. Il primo è il flexidisc natalizio del 1967, che riprende il formato a 'siparietti' dell'anno precedente, ma con un'ambizione più organica – si tratterebbe di una serie di provini di artisti esordienti per una trasmissione radiofonica natalizia. Il secondo è il tema ricorrente del flexidisc, cantato insieme dai Quattro: una sorta di ritornello che quasi trent'anni dopo sarebbe stato ritagliato e rimontato come un brano a se stante per il lato B del singolo Free As A Bird. Benché ottenute con lo stesso materiale, le due Christmas Time sono profondamente diverse.

Il flexi natalizio è l'ultima occasione per i Quattro di incidere qualcosa in quell'anno (il 1967) che più di tutti identifica una fase precisa della loro produzione: tant'è che anni dopo, pubblicando Fab, George Harrison spiegò che voleva scrivere una canzone "alla '67". È l'anno più sperimentale: dopo la cesura del 1966, in cui i Beatles avevano inciso relativamente poco (un LP e due singoli) e pubblicato tutto, nel 1967 le sessioni ad Abbey Road (e non solo) diventano più frammentarie ed episodiche e presentano un bilancio di almeno 25 brani, alcuni dei quali resteranno nel cassetto per un anno o persino di più (Carnival of Light aspetta ancora la pubblicazione). Il disco primaverile, Sgt Pepper's, in un certo senso è l'ultimo a rispettare la formula del long playing con 13-14 canzoni, che i Beatles avevano pazientemente rispettato dal 1963, ma che evidentemente stava stretta; l'uscita invernale, Magical Mystery Tour, arriverà nei negozi inglesi con un formato bizzarro (un doppio EP). È anche l'anno della tragica morte del manager, Brian Epstein, che sembra non lasciare un segno superficiale nella produzione dei Quattro – anche se nel medio termine sarà uno dei fattori del loro scioglimento.


 
The Christmas Record 1968 



Per la prima volta i Quattro non incidono assieme il disco con gli auguri di Natale (il che retrospettivamente fu interpretato come un segno della disgregazione), ma inviano i loro contributi al dj Kenny Everett. Non sappiamo in che misura quest'ultimo sia responsabile del collage sonoro – tra l'altro di qualità sorprendente, considerato che allora si lavorava ancora a quattro piste. Il risultato è meno pretenzioso di Revolution 9, ma forse più interessante. E tuttavia si avverte la sensazione che una certa spinta propulsiva si sia esaurita: a ogni Natale i Quattro dimostravano di poter fare qualcosa di più, stavolta si sente la presenza in sala di un regista la cui preoccupazione principale è dimostrare che questo disco non è troppo diverso dai precedenti: i Beatles sono ancora i Beatles, continuano a strimpellare inni bislacchi composti per l'occasione (l'unico vero contributo musicale originale è una schitarrata di Paul, Happy Christmas, Happy New Year, Happy Easter) e a maltrattare il loro repertorio (Obladì Obladà stonata apposta, Helter Skelter accelerata a 45 giri, Nowhere Man devastata da "Tiny Tim" e il suo ukulele). Non è chiaro se i virtuosismi ritmici dei battiti di mano siano stati realizzati da Ringo, qui in grande rilievo ma sempre più come attore che musicista. John aggiunge una poesia per lui e Yoko, George sembra come sempre il più tranquillo, l'acqua cheta che sta per mettere in crisi i ponti.




The Beatles Seventh Christmas Record (1969) 


Non era mai capitato che il disco di Natale cadesse in un periodo tanto 'silenzioso': i Beatles non pubblicavano materiale inedito da settembre, un'enormità per loro. Il vuoto era stato parzialmente riempito da Cold Turkey, un singolo della Plastic Ono Band; e anche il settimo disco di Natale dà la sensazione che John e Yoko stiano prendendo il controllo della barca. George sparisce quasi immediatamente, dopo aver salmodiato i suoi auguri come un hare krishna; Ringo fa una cosa simile ma ne approfitta per reclamizzare svergognatamente il suo ultimo film, The Magic Christian: quasi una strizzata d'occhio subliminale. Paul è l'unico ad aver fatto i compiti: forse è già rinchiuso nel suo cottage e tra le varie canzoni che sta provando alla chitarra ne ha senz'altro una adatta ad augurare un buon Natale e un felice Anno Nuovo. Ma dura appena mezzo minuto: negli altri sei, sostanzialmente, ascoltiamo John e Yoko fare i buffoni; il che oggi forse ci commuove, ma al tempo doveva sembrare abbastanza spiazzante, perché fino a pochi anni prima, in questi dischi John faceva il buffone con Paul, e invece ora è Yoko a prestarsi agli scherzi, con una disponibilità sorprendente. Mentre lo ascoltavano, i fans non avevano del tutto rinunciato alla speranza che il silenzio fosse solo temporaneo, e che i Quattro si sarebbero presto rimessi assieme. Era una speranza che il disco di Natale non nutriva affatto, anzi.

sabato 13 dicembre 2025

Visto qualche bel film di recente (2025)? (prima parte)

Infatti l'ho visto su una piattaforma
Io sono la fine del mondo (Gennaro Nunziante, che quando dirige Checco Zalone è efficacissimo e qui invece proprio non ce la fa).

Dio mio. Dio mio che imbarazzo, che sofferenza. Duro non è che non sappia semplicemente recitare; dà l'impressione di non saper vivere, di vestire a disagio un costume da essere umano senza avere ricevuto un training adeguato. Gli occhiali scuri servono a mascherare l'incapacità di manovrare le pupille o aggrottare le sopracciglia; la cadenza palermitana occulta l'incapacità di esprimere sentimenti attraverso la modulazione della voce. Tutti noi quando parliamo possiamo usufruire di vari registri: possiamo urlare, sogghignare, sibilare, ecc. Duro non lo sa fare, ha solo il suo tono metallico standard e, se proprio il copione lo richiede, un'altra vocina fastidiosissima che dovrebbe ripetere i rimbrotti che gli facevano da piccolo i genitori ("non bere la coca cola"), ma è talmente acuta fa farci ipotizzare che sia la voce interiore del bambino che quei rimbrotti li subiva, ed evidentemente non li ha mai superati.

Così un film che dovrebbe agitare lo strale del politically uncorrect, alla fine lo rivolge per lo più contro sé stesso, fornendoci l'immagine più impietosa possibile dell'autocoscienza di una personalità nello spettro autistico. Il motivo per cui allo spettatore è richiesta una sospensione della credulità fortissima (nel mondo reale Duro sarebbe stato menato a sangue al minuto 3, titoli di coda) è che tutto avviene in una realtà immaginata da lui, in cui tutti dovrebbero per qualche motivo lasciarsi manipolare da questo tizio che non sa nemmeno dire le bugie. Tutti gli credono, tutti lo perdonano, tutti recitano in modo esageratamente teatrale (o forse è il contrasto con la sua fissità terribile), perché probabilmente è così che lui vede il mondo: un posto dove tutti recitano e fanno un sacco di smorfie, che lui non sa fare, e nemmeno capisce a cosa servano.


Sly Lives! (aka The Burden of Black Genius) (Questlove)

È morto D'Angelo, proprio pochi giorni dopo che lo avevo rivisto mentre cercavo tutt'altro, in un docufilm dedicato a Sly Stone che è sottotitolato Il fardello del genio nero. D'Angelo veniva intervistato non tanto per parlare di Sly (ovvio che ne parlerebbe benissimo), ma per rinforzare la tesi contenuta nel sottotitolo, ovvero una peculiare difficoltà che avrebbero gli artisti afroamericani a gestire la propria genialità. Un senso di colpa ancestrale, la necessità di affrancarsi da un contesto sociale misero e problematico, senonché appena ti affranchi appena un po' ti senti un traditore, ecc. Una tesi abbastanza convincente, e però io stavo guardando il docu su Sly Stone per un altro motivo: cioè pur dando per scontato che aveva avuto tanti problemi a gestire la sua genialità, io dopo tanti anni faccio ancora fatica (è imbarazzante ammetterlo) a capire in cosa questa genialità consista.

Sly & the Family fa parte di quell'esiguo insieme di artisti che mi devo far piacere con la forza, perché se dovessi essere davvero sincero con me stesso, ecco, no, mi sembra sempre che nelle sue canzoni manchi qualcosa. Non so mai cos'è – di sicuro non il groove – però a volte mi sembrano sorrette soltanto dal groove, come se fosse un male. Ma non è vero, ci sono anche le melodie, eppure oh, non so spiegarmelo, non c'è niente da fare, a me Sly Stone sembra un autore incompleto. E per quanto milioni di dischi venduti stiano lì a dirmi che mi sbaglio, niente riesce a togliermi dalla testa l'idea assurda che anche Sly condividesse questa sensazione, e che il suo fardello personale si sia ingrossato man mano che il pubblico riconosceva in lui un genio, una pressione crescente a esprimere una genialità che nessuno sa esattamente in cosa consista ma a un certo punto c'è un popolo intero che la pretende, e tu che fai, non ti droghi? Magari drogarsi aiuta, ma poi invece si scopre che è l'esatto contrario, ah, troppo tardi. La sua prima canzone di successo (Sing a Simple Song) partiva proprio dall'ammissione della propria impostura, cioè insomma come faccio a scrivere una canzone facile, una canzone che funzioni, dunque ci mettiamo il ritmo, poi la melodia, poi i battimani, e piacerà? E dopo questa, cosa mi dovrò inventare? Qualche sostanza mi potrà aiutare? Vasodilatatori, autoreclusione, farsi odiare dal pubblico e dai collaboratori arrivando puntualmente in ritardo ai concerti, autosabotaggio, autotrasformazione in macchietta televisiva, e tutto sommato non gli è andata nemmeno così male, è sopravvissuto a Michael Jackson e a Prince.

Qualche mese dopo l'ha seguito D'Angelo, e io non ho molto da aggiungere. Avrete già indovinato che fa parte dello stesso esiguo insieme di artisti che, per quanto mi ci sia sforzato, non riesco a capire. Anche lui così raffinato, eppure così incompleto, perlomeno alle mie stupide orecchie. Non mi sembra che sia molto chiaro il perché abbia fatto due dischi in vent'anni, e forse è giusto così, non è che il vissuto degli artisti deve per forza far parte del pacchetto. Ma se davvero era, come a volte sembrava, perennemente insoddisfatto del suo lavoro, se tutti questo vociare di genialità intorno a lui gli ha creato più problemi che vantaggi, ecco, posso capirlo, e forse questo mi può aiutare un poco a decifrarlo.


L'Eternauta (Bruno Stagnaro, 2025)

Mi sento praticamente in dovere di guardare l'Eternauta, però se devo essere sincero tutta questa voglia di vedere gente per strada che muore all'improvviso senza un motivo, ecco, no: è angoscia, è disagio, non ne traggo nessun piacere emotivo, già la vignetta del padre che si accascia al suolo rantolando "i bambini", ripresa in qualche libro scolastico come esempio di narrazione a fumetti, non dico che mi traumatizzò la preadolescenza, ma insomma è proprio una cosa che mi rende triste senza motivo e di motivi ne avrei pure.

Poi penso che ok, nessuno mi costringe a vedere l'Eternauta, anche da un punto di vista culturale mi sono già abbondantemente coperto col fumetto, la storia più o meno so già dove andrà a sbattere e se ci sono variazioni importanti le recupererò in venti minuti su wikipedia, tra l'altro l'Eternauta è uno di quei capolavori in un certo senso seminali, ovvero che quando escono lasciano sgomenti perché mostrano qualcosa a cui nessuno aveva ancora pensato (un'apocalisse urbana! Superstiti che lottano contro mostri di casa in casa!) dopodiché vengono ripresi da centomila epigoni, alcuni dei quali, è statistica, finiscono per produrre contenuti più aggiornati, più interessanti, per cui alla fine uno può anche dire sì vabbe' ma prima di tutte queste apocalissi zombie c'è stato l'Eternauta, ma se poi va a rileggerselo, l'Eternauta, non lo trova necessariamente migliore di tutto quello che è successo dopo. È semplicemente il primo, anche se dal suo punto di vista non lo era affatto perché in fondo riproponeva la wellsiana Guerra dei mondi; a dargli quello scatto in più fu appunto l'ambientazione contemporanea urbana, il survivalismo, l'angoscia senza requie, la disillusione latina per l'apparato statale. Un altro scatto importante lo fece nel decennio seguente un regista, anche lui d'origine latina, sostituendo agli alieni i cadaveri: trovata geniale non solo perché i cadaveri spaventano di più, ma perché da un punto di vista dei trucchi e degli effetti speciali sono davvero più convenienti, e questo credo sia il vero motivo per cui da Romero in poi gli zombie hanno fatto il botto e le invasioni aliene sono relativamente passate di moda (anche lo scenario tipicamente sf "i robot prendono il potere" cinematograficamente non aveva molte speranze, rispetto alla possibilità di conciare un centinaio di comparse da cadaveri).

Alla fine non credo che al mondo freghi un granché se ho voglia o non ho voglia di guardare l'Eternauta, ma forse il problema è un altro: che invece un sacco di gente sì – magari si sentono anche loro un po' obbligati – ma evidentemente c'è mercato per le apocalissi urbane, per alieni assassini o cadaveri antropofagi, per gente innocente che muore all'improvviso e pochi superstiti angosciati che si arrabattano come possono. A me questa roba, lo dico sinceramente, dà una grande angoscia, ma a milioni di persone no, o comunque è un'angoscia che trovano piacevole, rassicurante. Probabilmente Lopez e Oesterheld con quell'idea della neve assassina scoprirono una miniera d'oro che ancora oggi macina dollari, euro, pesos, alla gente piace vedere gli innocenti morire e immedesimarsi, suppongo, nei sopravvissuti. È una considerazione che mi mette sempre un po' a disagio, esco di casa la mattina e intorno a me c'è gente che magari si diverte con The Last of Us, come impedire loro di immaginare di farmi fuori con un fucile a pompa. Vivono tra noi, magari sono la maggioranza, un giorno forse prenderanno l'iniziativa, forse è meglio se faccio provviste, mi procuro armi di difesa, mi studio la situazione, magari alla fine me lo guardo anche, questo Eternauta.

domenica 7 dicembre 2025

Tutti uguali davanti alla legge – ma davanti a Delrio?


Egregio onorevole Delrio,

credo che lei meriti almeno un po' di franchezza: chi le scrive questa lettera non la stima come politico, e soprattutto come legislatore. Anzi credo veramente che da questo punto di vista lei sia un disastro. A distanza ormai di dieci anni, se ogni tanto mi capita di pensare a un decreto approvato da un parlamento (e ahimè, sottoscritto dal Presidente della Repubblica) che contenga non soltanto caratteri di palese anticostituzionalità, ma un vero e proprio affronto al senso comune, a quella minima definizione di democrazia che impariamo tutti sui banchi di scuola quando sono ancora banchi molto piccoli, questa idea che i cittadini siano tutti uguali davanti alle legge, ecco: quando penso a una legge che nega questi minimi principi... mi viene sempre in mente il cosiddetto decreto Delrio, la legge 56 del 7/4/2014, e in particolare quell'asciuttissimo comma 19: "Il sindaco metropolitano è di diritto il sindaco del comune capoluogo". Così, con uno sbrigativo colpo di penna, lei aveva tolto a milioni di italiani il diritto di essere rappresentati dal loro sindaco "di aria vasta", per il semplice e allucinante motivo che non sono cittadini del comune capoluogo, ma di altri comuni che a lei evidentemente non interessavano: a lei e ai suoi colleghi che la appoggiarono in quella iniziativa riformatrice clamorosamente anticostituzionale, che la maggioranza dei cittadini bocciò sonoramente appena ebbe la possibilità di farlo: così che di tutto quel grande disegno restano soltanto, qua e là, certi decreti orribili, purtroppo ancora in vigore, quasi a ricordarci di quanto sia fragile la democrazia se lasciamo responsabilità legislative alle persone non adatte. 

Ecco: a dieci anni di distanza, onorevole, io devo confermare quell'impressione; magari è soltanto una coincidenza, ma nel momento in cui si è trattato di nuovo scrivere una proposta di legge orribile, che che sfida il buon senso e la Costituzione – una proposta di legge che immagino nessuno dei suoi colleghi avesse troppa voglia di associare al proprio cognome e alla propria immagine pubblica – eccola di nuovo sul luogo del delitto, eccola di nuovo pronto a sobbarcarsi l'ennesima sfida a quell'articolo 3 della Costituzione che a questo punto forse davvero a lei non piace; sì, a volte è anche una questione di gusti. Glielo recito: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali". E a questo punto glielo chiedo – e chiedo a lei la medesima franchezza, per favore: cosa c'è davvero che non sopporta in questo articolo? Perché non perde l'occasione per ignorarlo, per sfidarlo, per offenderlo?

Ho letto in giro che la sua bozza anti-antisemitismo va inquadrata soprattutto in un più generale conflitto di correnti all'interno del partito in cui non ha rinunciato a militare, il PD: e in effetti la ricordo, pochi mesi fa, piuttosto insoddisfatto della direzione imposta dalla segretaria Elly Schlein: segretaria eletta in regolari primarie, i cui risultati promettenti da un punto di vista elettorale sono davanti agli occhi di tutti. Ma lasciamo stare per un attimo la guerra di bande, la tendenza quasi automatica dei centristi di quel partito a sabotarlo quando non riescono a controllarlo. Ci sono tanti modi per opporsi a un progetto politico che non si condivide: tanti modi che non prevedano di legare il proprio nome a un'altra legge orribile e incostituzionale, che assume come punto di partenza un documento ridicolo (la definizione IHRA sull'antisemitismo), da anni irriso da chiunque affronti seriamente la questione in ambito accademico e legislativo. Ma le voglio chiedere, onorevole: avrebbe davvero bisogno di consulenze accademiche, e del parere di persone che l'antisemitismo lo conoscono davvero non per interposta persona, per comprendere le gravi contraddizioni logiche di quella paginetta, un documento che magari all'inizio era stato stilato in buona fede, ma poi è stato visibilmente distorto, e le tracce di quella distorsione appaiono evidenti (si comincia parlando di ebrei, e si finisce proibendo tout court le critiche allo Stato di Israele)? Non si diventa legislatori per diritto di nascita o divino; lei qualche studio deve averlo pur fatto, un minimo di analisi del testo dovrebbe rientrare nelle sue competenze: come può aver letto quella definizione e averla presa per buona? E se davvero l'ha fatto, come può in coscienza ritenersi in grado di promuovere iniziative legislative? Davvero dobbiamo presumere che lei sia troppo ingenuo per rendersi conto della trappola in cui è caduto?

Egregio onorevole, tenterò di spiegarle perché la definizione IHRA è un testo sciocco che nessun adulto dovrebbe prendere come punto di riferimento per iniziative legislative. Farò appello, per l'occasione, persino alla sua fede cattolica, perché anche da questo punto di vista c'è qualcosa che non va; insomma, lei è d'accordo con l'antica idea che le persone debbano essere giudicate – se proprio le vogliamo giudicare –  per le loro azioni? Non per la loro religione, non per la loro "razza", non per condizioni sociali o idee le quali, se restassero semplicemente "idee", non farebbero male a nessuno? Ci crede a questa cosa che è uno dei punti di partenza della nostra cultura millenaria? 

Perché chi ha pervertito la definizione dell'IHRA non ci crede, e l'ha scritto nero su bianco in frasi molto semplici. Qualcuno in quella stanza era convinto dell'esistenza di singole persone e di uno Stato che non possono essere giudicati per le proprie azioni – gli altri sì, quelle persone e quello Stato, no. Si è ben guardato di definire meglio questo carattere di eccezionalità (perché quello Stato sì e gli altri no?), ma è chiarissimo che questa eccezionalità esiste nella Definizione, ed è quello che vuole ottenere chi promuove la Definizione. Pensi solo a questo comma, davvero molto semplice: per la definizione è antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Lei lo legge e approva, ma certo, cosa c'è di più antisemitico di chiamare nazisti gli israeliani. Forse che io ho intenzione di paragonare Netanyahu a un nazista? No, onorevole, io non paragono Netanyahu a un nazista. Non ne ho bisogno, il nazismo è la risorsa dei polemisti senza fantasia. Ho così tante parole e argomenti per definire Netanyahu, che se le usassi qui ora tutte probabilmente sarebbe lei a implorarmi di dargli del nazista e farla finita. 


Ma sa che le dico? Lasciamo perdere Netanyahu. Lasciamo perdere qualsiasi riferimento alla "politica israeliana contemporanea". Fingiamo che non esista. Fingiamo che Israele sia il Paese più liberale del mondo, un Paese dove sia tutelata ogni scelta religiosa, politica ed esistenziale. Molti lo fanno già; fingiamo anche noi per amore di ipotesi. E immaginiamo che in questa nazione perfetta, faro delle nazioni, a un certo punto qualcuno voglia fondare un partito nazista. Perché no? Se tuteliamo ogni opinione, perché non potrebbe nascere un partito nazista anche tra Tel Aviv e Gerusalemme? Voglio specificare: un partito nazista vero, con le svastiche, le aquile, le SS, tutto il pacchetto. Un partito che se nascesse qui da noi, e le combinasse una sfilata sotto casa, lei stesso non potrebbe che esclamare: ma questi sono nazisti. Si tagliano anche i baffi quadrati, tutto. Ecco. Se succedesse a Reggio nell'Emilia (o a Chicago, Illinois) lei potrebbe esclamare pubblicamente: questi sono nazisti! Se poi andassero al governo, lei potrebbe denunciare: ma al governo ci sono i nazisti! Se poi perseguissero politiche coerenti col proprio programma elettorale (conquiste per acquisire "spazio vitale", minoranze in campi di sterminio), lei, finché riuscirebbe a parlare, confido che continuerebbe a protestare, insomma, ma questo è il nazismo! Ne sono sicuro. 

Se invece lo stesso partito vincesse le elezioni tra Tel Aviv e Gerusalemme, lei dovrebbe mordersi le labbra, perché la definizione IHRA lo considera antisemitismo. Se poi ottenessero una maggioranza alla Knesset, se le morderebbe ancora più forte, ma la definizione IHRA è pur sempre la definizione IHRA. Se infine cominciassero, non so, sempre per amore di ipotesi, ad allargare il proprio spazio vitale con offensive militari, a recintare le minoranze, ad affamarle e a bombardarle, lei dovrebbe continuare a stare zitto, perché chiamarli nazisti secondo la definizione IHRA è Holocaust inversion!, e l'Holocaust inversion è un peccato mortale di pensiero. Ora, lo capisce che qualcosa non va? La Definizione non dice semplicemente che paragonare un tale israeliano a un nazista è antisemita. Dice che sarà da qui in poi antisemitico "fare paragoni tra la politica israeliana contemporanea e quella dei Nazisti". Si rende conto a quanto era goffo chi ha lasciato nel testo finale quell'aggettivo, "contemporanea"? Perché davvero leggendo quella frase dobbiamo presumere che Israele non possa essere paragonato al nazismo qualsiasi cosa faccia, in qualsiasi momento storico. Chi ha scritto questa cosa stava semplicemente chiedendo una deroga a quel principio di buon senso per cui qualsiasi persona, e qualsiasi Stato, sarà giudicato per le proprie azioni. No, chi ha scritto questa riga della Definizione ci teneva a sancire che lo Stato di Israele non potrà essere paragonato al nazismo, mai. Gli altri sì, Israele no. Lasciamo perdere i motivi storici per cui questo paragone è più fastidioso di altri: qui non si tratta di un semplice fastidio, qui si tratta di stabilire un carattere di eccezionalità. C'è uno Stato che non può essere giudicato con i metri degli altri, uno Stato che non può essere mai paragonato agli altri. Non importa che azioni nel frattempo stia commettendo, e pensa un po' la coincidenza: ultimamente sta commettendo crimini di guerra conclamati. 

Egregio senatore, credo che basterebbe questo esempio a spiegare a una persona in buona fede perché la definizione è irricevibile, e perché nei fatti provochi molto più antisemitismo di quanto ne riesca a combattere. Purtroppo io a questo punto non la do affatto per scontata, la sua buona fede. Cordiali saluti, buon Natale e buon Anno, eccetera.

venerdì 5 dicembre 2025

La stagione del consenso viene e va

Buongiorno, questo pezzo è un segnaposto per avvisarvi che ieri è uscito un mio pezzo per il Manifesto, che più tardi qui pubblicherò, ed è stato a quanto pare ripreso anche da Morning, e che sempre sullo stesso argomento dovrei balbettare due cose a Fahrenheit (Radio 3) oggi verso le 16:30. A presto. 

[L'intervento a Fahrenheit, a 1:30]

C'è stato un momento – all'inizio di questi anni '20 – in cui noi insegnanti all'improvviso ci siamo sentiti di nuovo importanti. Vi ricordate? A causa di un virus molto pericoloso, le scuole di ogni ordine e grado erano state chiuse da qualche settimana, quando intellettuali e politici di ogni schieramento cominciarono a invocare il ritorno della scuola in presenza, fondamentale baluardo di civiltà. Qualcuno arrivò persino a distorcere le statistiche per dimostrare che le scuole aperte non avrebbero aumentato il contagio: o forse un po', ma non così tanto; e comunque ne valeva la pena. I ragazzi avevano bisogno della scuola, molto più di quanto tutti avessimo bisogno della salute. E doveva essere una scuola reale, di cemento, con lavagne in ardesia e gessetti: un simulacro virtuale non avrebbe funzionato. Per quanto ogni cosa ormai si possa fare on line, la scuola no: la scuola doveva prendersi i vostri figli verso le otto e restituirli dopo mezzogiorno. Fu un periodo complicato, ma esaltante, in cui forse molti colleghi si illusero di avere recuperato un minimo di dignità: inoltre, se la scuola era davvero così importante, forse i governi si sarebbero decisi a rifinanziarla. 

Cinque anni dopo, è chiaro che le cose non sono andate così. Ce ne accorgiamo ogni giorno, mentre aderiamo alla spicciolata agli scioperi che i sindacati non riescono a organizzare nella stessa data. Ci hanno calato lo stipendio, anche se non si può dire perché la cifra in busta è un po' aumentata: però il bonus docenti è bloccato da settembre, un trucco contabile che ci fa sospettare che il governo non sappia più dove raccattare risorse. Sui giornali più di tanto non se ne parla; per un mese la notizia più chiacchierata è stata quella di una famiglia che piuttosto di mandarci i figli li lasciava nel bosco, in balia di animali selvaggi e funghi velenosi. Molti liberi pensatori ne hanno apprezzato la scelta; sembrano gli stessi che quattro anni ci intimavano di riaprire subito le scuole, ne andava della salute mentale dei ragazzi. Nel frattempo la Camera ha approvato il decreto che ci proibisce di attivare progetti di educazione sessuale/affettiva senza il consenso dei genitori. C'è una battaglia culturale in atto, e noi siamo un obiettivo, semplicemente perché facciamo il nostro lavoro, o almeno ci proviamo. Scopriamo di essere i nemici dell'istituzione famigliare, che sulla sessualità dei propri figli ha l'ultima parola. Come succede in battaglia, c'è una differenza sostanziale tra la propaganda – aneddoti piccanti di lezioni tenute da drag queen e pornoattori  – e la situazione sul campo: un campo dove i ragazzi l'educazione sessuale se la fanno da soli,  vivendo negli stessi ambienti per cinque ore al giorno; con risultati insoddisfacenti, se gli esperti ci dicono che le malattie sessualmente infettive sono in aumento nella fascia dei più giovani. 

Così se mi domando cosa vuole da me la società, la risposta è la stessa: prendermi i loro figli alle otto e restituirglieli dopo mezzogiorno. Il fatto che per queste quattro o cinque ore si ritrovino assieme, in aule non troppo spaziose, a contatto con coetanei di sessi e culture diversi, è un nodo che devo sbrigliarmi da solo, sapendo che in qualsiasi momento potrei dover fare rapporto ai genitori. Potrò portare i miei studenti al consultorio? Solo se sono d'accordo: e dovrò organizzare un'attività a costo zero per gli studenti che restano a scuola: il decreto mi obbliga a farlo, ma per ora non stanzia un soldo. Se ne staranno su un divanetto a trescare, magari qualcuno qualche cosa la imparerà. Molto spesso i genitori che non firmano l'autorizzazione sono quelli che provengono dai contesti in cui la sessualità degli adolescenti è un tabù. Valditara ha un bel da insistere che il suo decreto non nega a nessuno l'educazione sessuale: nei fatti la sta togliendo proprio alle famiglie che non osano parlarne, ai figli che vivono in famiglie abusanti che quell'autorizzazione non la firmeranno mai; alle ragazze a cui i genitori hanno già combinato un matrimonio (sì, succede, molto più spesso di quanto ne parlino i giornali), ai ragazzi che vivono in un contesto violento e non hanno strumenti per gestire la propria rabbia. Che sia questo che la società mi chiede, senza avere il coraggio di metterlo per iscritto? 

mercoledì 3 dicembre 2025

De reuelatione in hoc ipso tempore, IV



[Questo pezzo è da considerare il seguito del Gesuita nella giungla, che apparve per la prima volta sul Post proprio dieci anni fa. In mezzo in realtà ci sono altre puntate che sono andate perse, anche loro, come pagine di un dossier lasciate alla deriva sul Fiume delle Perle].

Facemmo scalo in altri luoghi dai nomi farseschi in cui la gaia danza della morte e del commercio procede in una atmosfera stantia che sa di terra, come quella di una catacomba surriscaldata; proseguimmo lungo la costa informe delimitata da una risacca pericolosa, quasi che la natura stessa avesse voluto respingere gli intrusi; entrando e uscendo dai fiumi, vive correnti di morte, le cui rive imputridivano nella melma, le cui acque, ispessite dal fango, invadevano le intricate mangrovie che sembravano torcersi verso di noi in un eccesso di disperazione impotente. Da nessuna parte ci fermammo abbastanza perché potessi ricavarne un’impressione particolare, ma sentivo crescere in me un sentimento diffuso di vago e opprimente stupore. Era come un pellegrinaggio estenuante attraverso immagini da incubo...

Il profilo di una giunca contro il sole del tramonto, che tinge d'arancio un'ansa del Fiume delle Perle. La giunca è ormeggiata; da riva si sente qualcuno che grida in lontananza, con l'affanno di chi fugge per salvarsi la vita. Sottocoperta, nella penombra, fra Marcelo riceve un'ambasciata.

Davanti a me stava un ragazzino spaventosamente magro, dai lineamenti selvaggi. Non avesse portato il saio francescano della Piantagione, lo avrei creduto un figlio della giungla, allevato dalle scimmie. Per questo ammetto che mi spaventai a morte quando lo sentii parlare in uno spagnolo quasi credibile, lui che fino a un attimo prima si era spiegato soltanto a gesti.

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

Lo schiavetto era spuntato all'improvviso dalla boscaglia. Come avesse potuto raggiungerci da solo, senza un'imbarcazione, era un mistero che si sarebbe portato con sé. Don Guillermo aveva uomini lungo tutto il fiume? Mi faceva seguire? Cosa voleva da me?

"Come ti chiami?"

"Frate Marcelo, voglio il mio flagello. So che tu l'hai preso.
Non voglio farti del male o darti dispiaceri.
Ma..."

"Ho capito, ho capito".

"... rivoglio indietro il mio flagello.
Tu sai quanto è difficile trovarne uno buono".

"Ho capito".

Non mi avrebbe detto altro. Aveva imparato a memoria soltanto quella frase, da recitare nel caso mi avesse trovato, prima di essere mandato a morire nella giungla. Probabilmente Fra Guillermo non si aspettava che tornasse indietro. Chissà quanti ne aveva mandati in tutti i bracci del delta. Ci teneva, a quel flagello maledetto. Io nemmeno sapevo perché lo avevo raccolto. Lo avevo visto pendere da un paravento del santuario della Madonna della Guadalupe – quindici capanne al centro di una piantagione di papaveri, su un'isola del delta. Trecento schiavi, anche se se a fra Guillermo la parola non piaceva.

La Guadalupe era l'avamposto domenicano sul Fiume delle Perle, l'ultima località sulle mappe dei portoghesi, che da lì in poi si sospendevano nel vuoto. Lo gestiva fra Guillermo della Guadalupe medesima, un francescano che sembrava precipitato lì durante un monsone, il suo scopo dichiarato era conquistare quante più anime a Dio. 

Anche Felipe, il mio attendente, era sbiancato.
"Il ragazzo resta con noi. Dagli qualcosa da mangiare, Felipe".
"Non abbiamo più molto, padre".
"Il cuoco è a caccia, no? Troverà qualcosa".
"È da un po' che non torna".
"Va bene adesso scendo un po' sottocoperta Felipe, non disturbarmi".
"È già l'ora delle preghiere?"
"È già l'ora dei fatti tuoi, Felipe".

Forse il flagello l'avevo raccolto per lui. O per me? Molto presto avrei finito la scorta di oppio che avevo con me, e poi sarei stato male, nel bel mezzo del Fiume delle Perle, nella giungla. Avrei avuto nausea e diarrea e se la diarrea non si fosse fermata, sarei morto, disidratato e febbricitante. Sarei morto forse a mille passi dalla dimora di Francesco Xavier, senza sentire la sua voce, la voce che aveva convertito milioni di uomini. 

Il suo dossier era sconcertante. 

3 dicembre: San Francesco Saverio, missionario ed esploratore, evangelizzatore di massa

Figlio di nobili navarresi caduti in disgrazia dopo la conquista spagnola, entra alla Sorbona e si laurea nel giro di tre anni. A salvarlo da una carriera di precettore presso qualche signorotto castigliano è quel fottuto veterano basco, Ignazio di Loyola. Più ne sentivo parlare, più lo ammiravo. La maggior parte dei sant'uomini che conoscevo non avrebbero saputo fare nient'altro nella vita, ma Ignazio prima di scegliere la santità era stato un mascalzone. Avrebbe potuto diventare un generale in qualche esercito, ma cercava qualcos'altro. Sé stesso? Va in Terrasanta, ma i francescani lo cacciano perché fiutano l'eretico. L'Inquisizione spagnola in effetti lo tiene in carcere per un mese e mezzo, dopodiché tutte le imputazioni cadono come per miracolo, e in un qualche modo riesce a entrare alla Sorbona. A trentotto anni, madre di Dio. Il più giovane compagno di classe aveva la metà dei suoi anni. Io mi ci iscrissi a diciannove e a momenti ci restavo. Lui completò il corso. Sette anni. E nel frattempo aveva convertito i suoi migliori compagni di collegio, tra cui appunto il nostro amico Francesco X. Il dossier riportava la celebre frase celebre che il vecchio compagno avrebbe detto al giovane: "Che senso ha conquistare il mondo, se si perde la propria anima?" Suona molto bene [e infatti probabilmente è apocrifa] ma a rifletterci non ha molto senso. Francesco era uno studente di legge, o filosofia, più o meno spiantato; senz'altro non un aspirante conquistatore del mondo. O lo era? O Ignazio aveva fiutato la sua preda, o aveva riconosciuto in quel ragazzo la stessa ansia di conquista che lo aveva spinto tanti anni prima, da ragazzino, a farsi soldato?

"Sangue di Cristo, non ne posso più!"

Mentre ci riflettevo dovevo essermi appisolato. Mi svegliarono le bestemmie e i passi nervosi sulla tolda, proprio sopra il mio alloggiamento.
"Io taglio la corda, madre di Dio, non ero entrato nell'Ordine per queste porcherie. Una tigre! Una maledettissima tigre! Io volevo fare il cuoco in un convento, non andare a caccia in una giungla dimenticata di Dio e piena di tigri! 

Portas vultus eius quis aperiet?

Per gyrum dentium eius formido...

Il cuoco era tornato a mani vuote e in stato di choc. Avremmo pranzato a manghi e preghiere, anche oggi. 

Sternutatio eius favillae ignis,

et oculi eius ut palpebrae diluculi...

"Io non scendo più dalla nave, ve lo dico. Mai più. Il diluvio ci vorrebbe qui intorno, è l'inferno questo, Signore Dio! Il diluvio! Che anneghi tutto quanto!"

[Continua, magari nel 2035].

domenica 30 novembre 2025

Il santo sulla X

30 novembre – Sant'Andrea, apostolo e martire (I secolo). 

In effetti è molto più stabile così, cioè non si capisce perché crocefiggerli in altri modi.
Un ingegnere non avrebbe dubbi

La Costantinopoli del IV secolo è una città appena nata e già smisurata, una capitale in cerca di identità. Rifondata nel 330 da Costantino il Grande che l'aveva chiamata "Nuova Roma", non poteva vantare come le altre metropoli il passaggio di apostoli e martiri, tanto che le chiese più importanti finiscono per essere dedicate a concetti personificati e di sesso femminile: la "Santa Pace" (Sant'Irene) e soprattutto la Sapienza di Dio: Santa Sofia. Il sospetto che presso il popolo alligni ancora la devozione per la dea lunare Artemide/Cibele è accreditato dall'importanza che assume subito in città il culto per "la Madre di Dio", che è sì Maria di Nazareth, ma soprattutto la donna dell'Apocalisse che compare su una falce di luna: quella falce di luna che passerà negli stemmi della città e poi sulla bandiera dei turchi, quando Costantinopoli diventerà Istanbul. 

Forse per contrastare tutte queste presenze femminili Costanzo II, figlio e successore di Costantino, decide di portare nella città fondata dal padre i resti di Sant'Andrea, fino a quel momento custoditi a Patrasso, dove si raccontava che il martire fosse stato crocefisso. Perché, di tutti gli apostoli, Costanzo sceglie proprio Andrea? Forse per il nome, che in greco significa "virile", ma più probabilmente perché gli apostoli più importanti sono già stati presi da altre città. Non si può escludere che Costanzo abbia potuto conoscere gli Acta Andreae, un testo che risale al secondo secolo (se non al primo), ma che pochi anni prima Eusebio di Cesarea aveva definitivamente bollato come eretico, assurdo ed empio. L'Andrea degli Acta in effetti è un supereroe che risolve tutti i problemi con miracoli a raffica, alcuni dei quali un po' scabrosi: una matrona rimane incinta illegittimamente? Andrea miracolosamente... la fa abortire: possiamo capire che Eusebio disapprovasse. Negli Acta però Andrea viene fatto passare, nelle sue peregrinazioni tra la Grecia e l'Asia, anche da Bisanzio: l'antico porto sul Bosforo sul quale era stata edificata Costantinopoli. Da qui nascerebbe la tradizione che ritiene l'apostolo il fondatore della diocesi, che fino al 330 era una sede vescovile come tante, ma col trasferimento della corte imperiale sarebbe diventata uno dei cinque patriarcati più importanti. Gli Acta non lo dicevano espressamente, e anche se lo avessero detto, non erano considerati una fonte credibile nemmeno a quei tempi (c'era un'appendice divertentissima il cui titolo dice un po' tutto, Avventure di Andrea e Mattia nel paese dei cannibali). Comunque, in mancanza di meglio, Costanzo portò in città Sant'Andrea. 

C'è da aggiungere che per quanto nei Vangeli sia una figura di secondo piano, Andrea è pur sempre il fratello di Simon Pietro; rivendicare il suo patronato significava quindi rimarcare il rapporto di fratellanza tra la Roma antica, sede della cattedra di Pietro, e la Nuova. Il fatto che Simone (nome ebraico) figlio di Giona (nome ebraico) avesse un fratello chiamato Andrea (nome greco) può lasciare perplessi ma non è del tutto impossibile; greco e aramaico si stavano lentamente amalgamando, dando luogo a composti come Bar-tolomeo.  

Non è nemmeno chiaro se Andrea fosse il minore dei due fratelli; d'altro canto lo stesso Gesù dimostrava di non dare molta importanza ai rapporti di parentela. Andrea poteva inoltre essere definito Protocleto, ovvero "chiamato per primo": sia nel vangelo di Marco sia in quello di Matteo, Andrea è sulla barca con Pietro quando Gesù, passando dal molo, propone a entrambi di seguirlo e diventare "pescatori di uomini". I fratelli obbediscono senza chiedere oltre; sono i primi apostoli a essere nominati. Luca invece non lo chiama per nome, forse per concentrarsi sulla figura di Pietro; quanto a Giovanni, in lui leggiamo una storia molto diversa. Il suo Andrea, prima ancora di diventare apostolo di Gesù, sarebbe già stato discepolo di Giovanni Battista; quando quest'ultimo vede passare Gesù e lo saluta come "Agnello di Dio", Andrea e un altro seguace, che Giovanni non nomina, decidono di seguire l'Agnello. Il compagno di Andrea non può essere il fratello Pietro, che viene informato dal primo solo due versetti più tardi ("Abbiamo trovato il Messia"). Tradizionalmente, quando Giovanni evangelista non nomina un apostolo, si assume che si tratti di lui stesso; è uno dei passi non infrequenti del suo vangelo in cui si fa notare che esiste un apostolo più intimo a Gesù dello stesso Pietro, talvolta chiamato "il discepolo che Gesù amava". È lui a conoscere Gesù per primo, è lui ad essere adottato da Maria ai piedi della croce; è lui, dopo l'annuncio della Resurrezione, ad arrivare per primo alla tomba vuota (anche se lascia entrare Pietro per primo). 

Ma insomma tre vangeli su quattro danno Andrea come protocleto, anche se sempre pari merito con qualcun altro. A ben vedere anche tre vangeli danno Pietro (i sinottici), ma il quarto lo nega espressamente, per cui Andrea sembra il protocleto più credibile. A parte questo, non è che i vangeli ne parlino molto. I tre apostoli più menzionati dai sinottici sono Pietro e i due figli di Zebedeo, Giovanni e Giacomo Maggiore; solo in un'occasione Marco aggiunge ai tre anche il fratello di Pietro, quando in quattro domandano a Gesù delucidazioni sulla profezia della distruzione del Tempio. Giovanni gli fornisce una riga di dialogo nell'episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci ("C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?"); Luca continua a snobbarlo anche negli Atti degli Apostoli, nominandolo soltanto per necessità nel primo capitolo e poi perdendolo di vista completamente. La tradizione orale, dopo la depurazione degli aspetti più fantastici operata da Eusebio, lo voleva missionario in Grecia, Asia Minore e Scizia (Scythia), quel territorio a nord del mar Nero costellato da città di lingua greca, ma che si estendeva fino Novogorod; il che ha consentito sia ai russi sia ai rumeni di reclamarlo come santo patrono delle loro nazioni. Anche se per noi lì oggi c'è soprattutto l'Ucraina, dove i cattolici gli preferiscono San Giosafat Kuncewycz.

Andrea è anche il patrono della Scozia, per motivi non così chiari. La leggenda del monaco San Regolo, che avrebbe trafugato le reliquie da Patrasso prima che esse fossero traslate a Costantinopoli, non sembra molto antica, e tradisce un punto di vista già bassomedievale (per quale motivo una traslazione a Costantinopoli avrebbe dovuto essere evitata in quanto blasfema? Solo dopo il 1054 i cristiani costantinopolitani cominciano a essere considerati scismatici). È insomma quel tipo di leggenda che serve a spiegare un fenomeno che esiste già, a qualcuno che non riesce più a spiegarselo. È pur vero che il vescovo Acca di Hexham aveva portato nel 733 qualche reliquia nella cittadina che proprio da lì in poi avrebbe preso il nome di Saint Andrews, ma c'è un altra ipotesi che non mi sento di escludere: l'errore ortografico. Scythia è così simile a Scotia... La venerazione per il santo avrebbe poi portato gli scozzesi a fregiarsi in suo onore della bandiera con la croce decussata – forse la più antica a essere adottata, tra quelle che sventolano ancora. C'è anche in questo caso una leggenda che la giustifica, purtroppo non molto originale: nell'832 il re dei Pitti, Angus II, muovendo guerra agli Anglosassoni insieme coi suoi alleati Scoti, si sarebbe ritrovato accerchiato. Dopo avere molto pregato per i Pitti e per gli Scoti, sarebbe stato consolato in sogno da Sant'Andrea e avrebbe visto, nel terso cielo del mattino, le nuvole comporre una croce decussata, ovvero a forma di X! Tutto chiaro, in hoc signo vinces, salvo che prima del Mille nessun testo, nessuna icona, associa ad Andrea l'immagine di una croce decussata: un simbolo in seguito così legato al suo nome che ancora quando facevo scuola guida le croci dei passaggi a livello venivano chiamate "di Sant'Andrea". Anzi gli Acta specificavano che Andrea era morto su una croce simile a quella di Gesù; anche in ambito orientale, Andrea non viene associato alla X. Insomma può darsi che sia stato lo stemma scozzese a modificare l'iconografia occidentale del martirio di Andrea, e non viceversa.

lunedì 24 novembre 2025

Ermogene, martire o no

Una gita a... Agrigento (la porta araba).
24 novembre: Sant'Ermogene di Agrigento (martire? IX secolo?)

"È commemorato il 24 novembre nel Sinassario Costantinopolitano e nei menei greci, ma di lui non si sa niente". Così la Bibliotheca Sanctorum, e chi siamo noi per saperne di più? I menei sono martirologi in lingua greca, da cui alcuni agiografi traggono un distico dedicato a Ermogene, però trascritto in latino: 

Caedens, Hermogenes, ex genere mortalium
pudore fastum generis imples daemonum.

Una cosa interessante di questo distico è che nessuno riesce a capire cosa voglia dire: l'ho infatti ricopiato per questo, confidando nel fatto di vivere nel Paese coi licei classici che il mondo ci invidia. Tra tanti diplomati troverò senz'altro qualcuno in grado di sciogliere il secolare mistero. 

Un'altra informazione galleggiante sull'oblio è che Ermogene dovrebbe essere vissuto a cavallo tra VIII e IX secolo, insomma contemporaneo di Carlo Magno: ma se questi nel frattempo invadeva i Longobardi nell'Italia del nord, giungendo fino a Roma e facendosi incoronare a sorpresa (seh, sorpresa), Ermogene, se è davvero vissuto nello stesso periodo, dovrebbe avere assistito all'evento più traumatico del Medioevo siciliano, ovvero l'invasione araba. È in effetti considerato l'ultimo vescovo di Agrigento dell'epoca bizantina; il suo successore sarebbe arrivato soltanto dopo la conquista normanna, più di cent'anni dopo. Forse per questo motivo Ermogene è definito, da taluni, martire; in effetti, figurati se i Saraceni non perdevano l'occasione di tagliar la testa a un vescovo; e se un vescovo perdeva l'occasione di salire al cielo martire. Tutto molto logico e verosimile, salvo che no, sui menei si legge proprio "egli finì in pace i suoi giorni..." L'affermazione è così insolita che ha portato l'autore della scheda su Santiebeati, Raimondo Lentini, a retrodatare il santo di cinque secoli: "Ermogene fu uno di quei santi martiri dell'ultima persecuzione che, sopravvissuti ai patimenti, finirono la vita in pace ai tempi di Costantino". Martiri mancati, insomma, a cui mancò l'occasione, non il coraggio; magari erano già in cella pronti a essere schedulati durante un mezzogiorno al Colosseo coi leoni, senonché Costantino firma l'Editto e niente, tana libera tutti. Questo pur di giustificare la strana ambiguità, per cui un "Ermogene martire" sarebbe però morto nel suo letto. Aggirando con un certo imbarazzo la soluzione più ovvia; forse Ermogene non morì martire perché... gli arabi di Sicilia non perseguitavano i cristiani. 

Cioè, aspetta. Un po' lo facevano. Non è che fossero questi campioni di tolleranza. In particolare negli anni dell'invasione, che fu lunga e tormentata, con frequenti rovesciamenti di fronte, lunghi assedi ed epidemie a peggiorare la situazione. In quel periodo i cristiani, sì, rischiavano la pelle, in quanto nemici o potenziali alleati dei nemici. Ma una volta cacciati i Bizantini, e installato un potere centrale a Palermo, gli arabi non si comportarono con cristiani ed ebrei in modo molto diverso che negli altri territori già conquistati a partire dal secolo VII: chi voleva restare cristiano ed ebreo, poteva assolutamente farlo. 

Certo, avrebbe pagato più tasse.

Fu un metodo straordinariamente efficace, che spiega in parte la diffusione a macchia d'olio dell'Islam, un po' meno rapida di quello di solito immaginiamo perché i popoli conquistati non diventavano immediatamente musulmani. La classe dirigente veniva da fuori o si convertiva subito, se voleva continuare a dirigere; i sottoposti ci mettevano più tempo. Presto o tardi, in ogni caso, il richiamo dello sgravio fiscale si rivela irresistibile, e la maggioranza si converte; dopodiché, alla pressione fiscale si aggiunge la pressione sociale, i cristiani patiscono sempre più la condizione minoritaria che impedisce loro di migliorare le proprie condizioni, ottenendo incarichi più importanti o attraverso matrimoni con famiglie più ricche e benestanti; e il risultato è che nel giro di qualche generazione, la società si islamizza: ma quasi mai completamente. È un processo efficace (anche per una clausola diabolica: quando ti converti all'Islam, non puoi più tornare indietro, l'apostasia è punibile con la morte), ma che richiede qualche generazione, e spiega come mai in Sicilia e persino nella Spagna meridionale, che fu controllata dagli arabi per un periodo molto più lungo, il cristianesimo rimase largamente praticato. Tutto questo è abbastanza noto (come sono note le diverse eccezioni), per quanto confligga con l'opinione comune che invece descrive la società islamica come quella dei Borg di Stat Trek, un unico organismo determinato ad assimilare ogni individuo. Che l'Islam abbia una tendenza assimilatrice non è che si possa negare: dovunque è arrivato ha senza dubbio dato un grande contributo a uniformare molte usanze non solo religiose, e spesso anche la cultura, l'arte e la stessa lingua, in ottemperanza a un testo sacro che diceva, in certe regioni della terra per la prima volta, che tutti sono uguali davanti a Dio. Ma questa idea che appena un esercito arabo arrivava in una città, ogni chiesa si trasformava immediatamente in moschea e ogni cristiano in un circonciso, ecco, ha più a che vedere con una millenaria propaganda che con le nostre conoscenze storiche. 

Questa concezione poi nella storiografia popolare contribuisce a formare l'idea dell'"invasione araba", ovvero un improvviso straripamento dalla penisola arabica – per lo più desertica, e fino a pochi anni prima scarsamente popolata – di una fiumana inarrestabile di invasori musulmani, in grado di invadere e islamizzare nel giro di qualche decennio mezzo mondo conosciuto, dalla Persia fino alla Spagna, come un'epidemia. Tutte le innovazioni umane, in effetti, si possono descrivere come epidemie, che hanno come vettore l'uomo: salvo che in molti casi a viaggiare non è tanto l'uomo, quanto le informazioni. L'Islam, come tante altre religioni e idee prima di esso, non si installò attraverso massacri e sostituzioni di popoli, ma con la pressione fiscale e sociale. Le chiamiamo "invasioni arabe", ed effettivamente possiamo dimostrare che decine di migliaia di arabi si spostarono dall'Arabia ad altri Paesi, mescolandosi soprattutto con la classe dirigente: ma la maggior parte degli abitanti sono rimasti, in questa e in altre occasioni, gli stessi. 

Possiamo paragonare l'invasione araba, mutatis mutandis, a quella napoleonica, che indubbiamente portò migliaia di effettivi francesi in giro per l'Europa (e alcuni di questi fecero in loco brillanti carriere); però non è che i francesi si sostituirono ai tedeschi del Reno, o agli italiani della Repubblica Cisalpina, o agli spagnoli. Furono soprattutto le idee dei francesi a imporsi immediatamente a nuove classi dirigenti che erano tutto sommato abbastanza propense a riceverle e metterle in pratica. Forse, se Napoleone fosse durato un po' di più, anche gli italiani e i dalmati compresi nell'Impero avrebbero iniziato davvero a parlare francese e a considerarsi francesi, così come i siciliani a un certo punto cominciarono a considerarsi arabi; ma ci volle tempo, ed evidentemente non si convinsero mai del tutto. Anche ad Agrigento, che faceva parte del vallo occidentale della Sicilia, la parte più arabizzata, dove si stima che comunque metà della popolazione era ancora cristiana al momento in cui arrivarono i Normanni. 

Questa è la cosa forse più difficile da accettare, per chi la Storia non la studia ma la impugna: che gli arabi di Sicilia fossero per lo più siciliani, e che "arabo", "musulmano", ma anche "cristiano" non siano costellazioni del sangue, ma idee che possono passare da una persona all'altra, non sempre in punta di spada; a volte basta anche un balzello, o anche, perché no, una conversione interiore: sì, esistono anche quelle. Nel frattempo qualcuno di voi avrà già decifrato il distico qui sopra, che sempre secondo Raimondo Lentini significherebbe qualcosa come: "Allontanandoti, o Ermogene, dal genere umano, colmi di vergogna l'arroganza della razza dei demoni". Non è chiaro in che senso Ermogene dovrebbe allontanarsi dal genere umano: forse è un'allusione al misterioso martirio, un sacrificio che avrebbe fatto impazzire di vergogna i demoni. Difficile non pensare che in questi ultimi siano rappresentati i saraceni, a cui Ermogene insegna come muore un cristiano: come un eroe, anche quando morire non è affatto una scelta obbligata. 

domenica 23 novembre 2025

Papa Clemente (e i fili de le pute)


23 novembre: San Clemente I, papa e martire (I-II secolo)

Il primo Papa dovrebbe essere stato Pietro apostolo – senza il quale Roma non sarebbe la sede apostolica più importante, quindi è fondamentale che il primo sia Pietro; e pazienza se gli indizi del suo apostolato in città sono molto labili. Dopo di lui (crocefisso, secondo la tradizione, nel 64), è il caos; i cronisti ecclesiastici nominano tre successori di cui non si sa praticamente nulla: Lino, Cleto e Anacleto. Potrebbe trattarsi anche della stessa persona. E questa persona potrebbe anche essere Clemente, che nel canone di solito viene dopo Anacleto, ma è il primo vescovo di Roma di cui abbiamo informazioni abbastanza consistenti. Forse per questo Tertulliano, tra gli altri, lo considerava il primo successore di Pietro; del resto Ireneo di Lione sosteneva che nelle sue orecchie "riecheggiava ancora la predicazione degli Apostoli", insomma Clemente doveva aver conosciuto Pietro (e forse Paolo) di persona. Il che non esclude che tra il pontificato di Pietro e quello di Clemente non possa essercene stato un altro (o due, o tre, magari molto brevi). Epifanio da Salamina suggerisce che Clemente, dopo essere stato nominato successore proprio da Pietro, avrebbe rinunciato alla carica in favore di un pastore più anziano; il che non è assolutamente dimostrabile, come tante cose che scrive Epifanio; ma è molto più verosimile di quando lo stesso Epifanio si mette a raccontare di eretici che si nutrono di feti umani. Pensiamo anche solo a Bergoglio, che secondo alcuni avrebbe implorato i cardinali di non eleggerlo nel 2005, così che alla fine a Wojtyla subentrò Ratzinger... E a proposito di quest'ultimo, Clemente è anche il primo papa che avrebbe rinunciato alla cattedra prima della sua morte naturale – per ragioni di forza maggiore, quanto nel 97 sarebbe stato deportato in Crimea per ordine dell'imperatore Traiano. Al suo posto avrebbe nominato un certo Evaristo, ed è proprio scrivendo un pezzo su Evaristo papa, che nell'ottobre del 2011 io misi per iscritto sul Post che nulla impediva a un pontefice di dimettersi. A scriverlo oggi sembra niente di che, ma era una cosa che non succedeva da cinque secoli, e invece sarebbe avvenuta poco più di un anno più tardi, nel febbraio 2013.

Clemente sarebbe morto martire in Crimea, secondo la tradizione annegato con un'ancora al collo affinché la smettesse di convertire i locali. Il che permise più volte a qualcuno di ritrovarne i resti in loco e donarli a un suo successore in cambio di qualche favore; il caso più eclatante fu quello di San Cirillo, che nel nono secolo doveva convincere papa Niccolò I a lasciarlo evangelizzare gli slavi nella loro lingua. Insomma se oggi si usa ancora l'alfabeto cirillico, in qualche modo è anche grazie a San Clemente. Di lui si conserva una lettera ai cristiani di Corinto che dimostra una buona conoscenza delle Scritture anche veterotestamentarie; da cui l'ipotesi che come Pietro non fosse un cittadino romano, ma un liberto di origine ebraica o greca (mentre per lo stesso motivo è abbastanza implausibile che si tratti del senatore Flavio Clemente, il marito di Santa Domitilla: entrambi furono vittime della piccola persecuzione promossa da Domiziano nel 95). La lettera è importante anche perché dimostra, nei confronti dei cristiani di una chiesa orientale, un atteggiamento già pontificale: Clemente non afferma esplicitamente di essere, in quanto successore di Pietro, in cima a una gerarchia; non lo dice ma si comporta già come tale, sembra che lo dia per scontato. 

Clemente, infine gioca un ruolo imprevisto e... imbarazzante nella storia della lingua italiana, anche se per molto tempo nei libri di scuola abbiamo preferito non parlarne. Nella basilica romana a lui dedicata (eretta prima del 1100) si trova un affresco piuttosto malandato che riprende un episodio di una Passio del VI secolo. Clemente è perseguitato da un patrizio romano, Sisinnio, che ha ordinato ai suoi servi (Gosmario, Albertello, Carboncello) di legare il santo e trascinarlo in prigione. Ma i servi, accecati dallo Spirito, hanno confuso il corpo del Papa con una colonna di marmo, e per quanto l'abbiano ben legata, non riescono a spostarla. Si tratta di una scena complessa, che forse l'anonimo pittore riteneva di non riuscire a illustrare adeguatamente, dal momento che decise di corredare l'immagine con i discorsi diretti che aleggiano intorno ai personaggi, come fumetti. In particolare, accanto a Carvoncello qualcuno dice "Falite dereto co lo palo Carvoncelle!" (Carvoncello, spingi da dietro con il palo!); accanto ad Albertello si legge: "Albertel traite!", e accanto a Sisinnio: "Fili de le pute traite". Tutte e tre le frasi probabilmente sono da intendere come ordini pronunciati da Sisinnio. Sopra la colonna, invece, si legge una scritta che dobbiamo attribuire al santo: "Duritiam cordis vestris saxa traere meruistis". Questo ovviamente è latino, e significa: a causa della vostra durezza (di cuore) avete meritato di trascinare le pietre. Tutto abbastanza chiaro, salvo che tra il santo e i pagani c'è un divario linguistico molto forte. In effetti, se Clemente parla in latino, Sisinnio e i suoi schiavi in che lingua parlano? Hanno già le proposizioni articolate ("co lo palo", "de le pute"), quindi latino non lo è più. Deve trattarsi di un'iscrizione in lingua volgare, salvo che è... la prima in assoluto che troviamo in una chiesa. La prima in assoluto che troviamo in un contesto narrativo. Una storia in cui il volgare è la lingua dei pagani, rozzi e incolti anche quando sono patrizi; mentre il latino è la lingua della giustizia e della fede. L'unica attestazione più antica di una lingua volgare italiana in uno scritto si trova, lo sapete, nel placito di Capua ("Sao ke kelle terre..."), ma in quel caso si tratta di una testimonianza giurata raccolta da un notaio. Certo, ci sarebbe anche l'indovinello veronese, che potrebbe essere più antico addirittura di due secoli, ma in quel caso più che volgare potrebbe trattarsi di un latino maccheronico. 

Con l'iscrizione di San Clemente per la prima volta (per quanto ne sappiamo) qualcuno ha usato il volgare italiano per raccontare una storia. Ed è... un po' imbarazzante, insomma fino a qualche tempo fa nei manuali di Storia della letteratura si tendeva a omettere la circostanza per cui la prima frase letteraria in volgare dovrebbe essere "Fili de le pute, traite". Anche se in fondo, perché no? Significa che l'italiano letterario ha esordito senza pudore, dimostrando subito l'espressività trucida di cui è capace, e prestandola allo scopo di mostrare la rozzezza del potere, anche quando è esercitato da un nobile antico. Comandare ci svilisce, ci abbassa al rango degli schiavi che pretendiamo di possedere; ci rende sboccati e ridicoli; e non sposta nessun santo, non sposta nemmeno una colonna. Se la letteratura italiana comincia così, tutto sommato la rivendico.  

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