Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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martedì 6 luglio 2004

Quando parliamo di Israele e Palestina (quando ne sentiamo parlare), la nostra mente è costantemente sottoposta a un doppio sforzo. Da una parte, deve cercare di ricordare tutto, ogni singola pietra dal 2004 fino al 1948, più ovviamente la Shoah, l'antisemitismo europeo e arabo dal medioevo a oggi, e perché no, una vecchia promessa fatta da Jahvè a un patriarca diversi millenni fa.
D'altra parte, dobbiamo sforzarci di dimenticare tutto, e inquadrare soltanto una singola persona, un singolo momento, un singolo errore. Tutta questa storia è profondamente sbagliata: benissimo, troviamo il colpevole, gliela facciamo pagare, e tutto andrà a posto. E la memoria? Non ci serve più. Del resto lo sappiamo, di chi è la colpa.

Tutta colpa di… Yasser Arafat

L'autobiografia di Clinton, di recente uscita, offre a tutti i coraggiosi semplificatori del conflitto israelo-palestinese una bella sponda. La pagina in cui Clinton prende Barak e Arafat nello Studio Ovale, e li mette di fronte al "prendere o lasciare" finale, è quasi commovente, e non a caso è circolata in versione copia-incollata tra i blog. Ecco qui una storia semplice che ci spiega tutto: Arafat poteva "chiudere" nel dicembre del 2000, e non lo ha fatto.

Clinton vede le cose dal suo punto di vista, e dal suo punto di vista non ha tutti i torti.
Clinton è sicuramente un politico più navigato di quanto non voglia lasciare intendere, ma crediamo alla sua buona fede. È stato Presidente USA, l'uomo più potente della terra, ha avuto la possibilità di risolvere un conflitto, ma non c'è riuscito. Ergo, è un fallimento, "e questo grazie a lei, Signor Presidente": e questo grazie a Yasser Arafat. Ecco il colpevole – e chi avrebbe mai potuto essere?

Ha senso attardarsi qui ad avvertire che le cose sono molto più complesse di così? Chiedere un po' di memoria a chi la coltiva forse un po' troppo selettivamente? Per prima cosa, Clinton qui dichiara che "il 27, l'esecutivo di Barak accettò i parametri con alcune riserve, che apparivano negoziabili". Non troverete da nessuna parte il testo e i termini di quella "approvazione", né, soprattutto, le "riserve", perché non sono mai state messe in nero su bianco. L'incontro di Washington era un momento informale, che avrebbe dovuto portare a un vertice successivo: è probabile che in questo caso Barak si sia mostrato più disponibile che in altre occasioni: ma nulla di concreto. Questo spiega (solo in parte, solo in piccola parte) la "confusione" di Arafat.

Seconda cosa, l'incontro sopra narrato è del dicembre 2003: la Seconda Intifada era già scoppiata da un paio di mesi. Due mesi prima, infatti, Ariel Sharon aveva passeggiato sulla spianata delle Moschee (ma anche a dare troppa importanza a quell'episodio, si pecca di eccessiva semplificazione). Arafat non era a Washington come capo di uno Stato che 'vuole la pace', ma come rappresentante di un popolo insorto che in buona parte gli stava sfuggendo di mano. La guerra era già una realtà, in Palestina, nel dicembre 2000. E la guerra sarebbe continuata, che Arafat accettasse o rifiutasse di negoziare. Ma è vero che a Washington in quei giorni si decideva qualcosa di storico: non la pace in Medio Oriente, bensì il destino politico e umano di Yasser Arafat. Poteva tornare in patria come traditore del suo popolo, o cercare di restare al rimorchio di una Seconda Intifada che non riusciva del tutto a controllare. Può darsi – ma è difficile da dire – che la prima scelta avesse più probabilità di portare, in un qualsiasi futuro, alla pace: ma nell'immediato, significava soltanto la fine politica e umana di Yasser Arafat. Che – meno confuso di quanto si potrebbe pensare, in questo caso – scelse altrimenti. Ma è davvero tutta colpa sua? Mettere un uomo di fronte all'alternativa: o guerra, o tradimento, significa davvero negoziare?

Ora, proviamo ad allargare un po' la visuale intorno agli errori fatali di Arafat. Sei mesi prima dell'incontro informale di Washington – due mesi prima della passeggiata di Sharon – c'erano stati gli incontri di Camp David. In quel momento i buoi non erano ancora scappati dal recinto: ma anche in quell'occasione Arafat disse di no a una soluzione che sembrava "soddisfacente". Dunque è davvero "tutta colpa sua"? Lascio la parola a Giorgia Garofalo, di Nexus (A Zone n. 3, agosto 2002):

"Il rifiuto di Arafat di accettare al tavolo dei negoziati le proposte israeliane di Camp David ha suscitato lo scalpore nell'opinione pubblica internazionale; Arafat è stato considerato l'artefice della sconfitta del processo di pace per il suo secco rifiuto alle offerte di Barak, ritenute invece ampie concessioni da parte israeliana. Le offerte del governo israeliano non furono mai scritte ma vennero solo proposte attraverso la voce degli americani prima e durante il summit stesso; concessione della sovranità ai palestinesi sul 91% della Cisgiordania con l'annessione da parte d'Israele del restante 9%; in cambio di quest'ultima, concessione della sovranità palestinese sull'1% del territorio d'Israele (anche se non specificato dove); una "soluzione soddisfacente" – ma non specificata anche questa – avrebbe chiuso il capitolo mai toccato dei profughi palestinesi; sovranità palestinese sui quartieri musulmano e cristiano della Città vecchia di Gerusalemme con "custodia permanente" palestinese sulla Spianata delle Moschee; possibile sovranità che avrebbe potuto anche essere autonomia funzionale dell'ANP per il resto della Gerusalemme est palestinese. Queste idee, che avrebbero dovuto portare ad un accordo finale secondo le aspettative di Barak, erano invece considerate dai palestinesi come idee preliminari per un accordo permanente futuro ancora tutto da negoziare. La restituzione del 91% del territorio palestinese avrebbe infatti diviso la Cisgiordania in tre zone dettate dalle annessioni israeliane e dalla presenza di insediamenti ebraici con l'aggiunta, inoltre, di una zona cuscinetto lungo la valle del Giordano, tra i territori Occupati e la Giordania".

Qui è bene ribadire qualcosa a chi gioca con le percentuali: Israele e Palestina sono luoghi inospitali, in gran parte deserti sassosi, ed è una triste, colossale ironia che siano tra le terre più disputate del mondo. Barak offriva di tenersi il 9%: vi potrà sembrare ragionevole un carceriere che offre al prigioniero la proprietà del 91% della sua cella; ma per la psicologia dei profughi palestinesi si trattava già di un affronto. Inoltre, Barak non ha mai messo per iscritto dove voleva il suo 9%: nei fatti, ha dimostrato varie volte di preferire un 9% di oasi a un 9% di pietre (gli insediamenti dei coloni occupano posizioni strategiche): inoltre il suo 9% avrebbe diviso la Cisgiordania in tre parti. Il risultante Stato Palestinese sarebbe stato formato da quattro parti (tre cisgiordanie più la Striscia di Gaza), con tanti auguri a chi disegna le cartine geografiche. Non solo, ma questi bantustan (il modello sudafricano è palese) avrebbero confinato con un solo Stato: Israele. Sarebbero dunque stati dipendenti da Israele per acqua, cibo, energia ed offerta di lavoro.

Questa non è una proposta campata in aria, dopotutto: anzi, è esattamente la situazione della Palestina più o meno dalla metà degli anni 90 in poi, com'è descritta e denunciata da ONG e persino da quell'internazionale dell'antisemitismo che è l'ONU. I palestinesi hanno avuto la possibilità di sperimentarla sulla loro pelle da dieci anni, e, chissà perché, non ne sono sembrati molto contenti. In ogni caso nel 2000 a Camp David Arafat disse no a queste offerte, perché è un nemico della pace.

"Arafat, costretto dallo scontento del suo popolo, ormai stremato dagli anni di pace [sic!], e dalla mancanza di coesione all'interno del suo stesso team di negoziatori, sentì di essere stato preso in trappola…"

[e continua...]

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