Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

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giovedì 15 luglio 2004

Invito a uscire di casa (Continua da ieri)

Ma ora smettiamo di pensare ai francesi, pensiamo un poco a noi. C'è qualcosa che possiamo imparare, dai loro errori? Forse sì, anche se la situazione è molto diversa.
Una cosa sola, almeno: niente ghetti. Mettere tutti gli stranieri insieme, nello stesso quartiere, è come seppellire in periferia una bomba radioattiva innescata. Se non esplode, comunque contaminerà per miglia e miglia, e per generazioni e generazioni. Peraltro, lo stiamo già facendo: ci sono proprietari di condomini che si sono specializzati nell'ospitare solo stranieri (che si lamentano meno e a volte pagano di più). Di qui alla classe separata per studenti islamici il passo è breve – ma lo stiamo già facendo. E non dobbiamo farlo. Gli immigrati devono capire che, se vengono accettati qui, devono accettare alcune regole, tra cui la scuola dell'obbligo. Aconfessionale.

Il problema è che se le vogliamo far rispettare a loro, le dobbiamo accettare anche noi. E rinunciare a qualcosa: ai simboli confessionali nelle aule, sicuramente. I cattolici che pretendono finanziamenti dallo Stato per le loro scuole confessionali, devono farci una croce sopra: altrimenti tra una generazione Lo Stato dovrà assistere qualsiasi minoranza con l'uzzo di avere la propria scuola religiosa: islamica, confuciana, buddista, indù… Gli arabi di Milano che volevano la classe segregata, in fondo, hanno le stesse pretese di una setta molto diffusa nella loro zona, i ciellini. Dobbiamo saper dire no agli uni e agli altri.
E mettere certe cose in chiaro: a chi lavora in Italia, dopo tot mensilità, sia riconosciuta la cittadinanza, il diritto di voto e il dovere di mandare i figli alla scuola dell'obbligo. Se invece continuiamo ad aver paura di riconoscere diritti agli stranieri, è inutile che pretendiamo da loro dei doveri. Se non gli diamo i diritti, il minimo che possono fare è rifugiarsi nel quartiere, nel ghetto, dietro la tonaca del mullah di turno.

Niente ghetti: ma ne abbiamo il coraggio? E siamo sicuri che i ghetti non ci facciano comodo? Di sicuro ci forniscono cose di cui abbiamo bisogno: manodopera sottopagata e allarme sociale. Il Nordest è un modello, in questo: ha riempito fabbriche e cantieri di stranieri, e ha votato la Lega, ha chiesto lo sceriffo di quartiere, la telecamera di circoscrizione. E che affari per i venditori di porte blindate. Siamo entrati tutti in un ghetto, non solo gli stranieri. Ognuno è entrato nel suo.
Il ghetto, del resto, non è un cerchio su una carta topografica. Il ghetto è un mondo mentale. È l'invenzione di un'identità in cui ci possiamo rifugiarci, quando ci fa comodo. E sentirci accerchiati dai nemici. Nemici immaginari, come gli ebrei per i magrebini francesi. O come gli antisemiti per i filoisraeliani, francesi e italiani. Il problema di un ragazzino che ti dà dello "sporco ebreo" senza sapere cosa sia un ebreo, è lo stesso problema di una ragazza francese che si fa incidere delle svastiche sul corpo per mimare un'aggressione inesistente. È lo stesso problema della Fallaci che si sente accerchiata dal terribile Califfo. È lo stesso problema dei blog neoconi, sempre accerchiati da una sequela di nemici immaginari, comunisti poscomunisti fascisti nazisti ulivisti terroristi pacifisti antisemiti. Questa gente ha bisogno di un nemico da cui nascondersi e contro cui inveire, e lo fabbrica come può: mette insieme nozioni di storia, stralci di cronaca, luoghi comuni, bugie, tutto fa brodo.

Questi moderati paranoidi, che di solito viaggiano in gruppo per farsi coraggio, hanno bisogno della paura, hanno bisogno dell'odio, esattamente come noi abbiamo bisogno della speranza: per andare avanti. Odiare e sentirsi odiati è pure un modo di esistere. E se in tanti mi odiano, mi guardano scuro, vogliono svaligiarmi, aggredirmi, è perché io sono prezioso. Evidentemente, ho una grande Cultura, una grande Identità da difendere.

***

Rimane da rispondere alla prima domanda: cosa ci facevo là, a mille km da casa, in un quartiere dove non si parlava la mia lingua e la mia pelle sembrava mandare luce a distanza? Con scarpe mai viste in giro, e un ridicolo cesto di biancheria che istintivamente stavo difendendo col gomito alzato, a mo' di palla ovale?

Si trattava, con ogni probabilità, di una prova di coraggio: un tentativo, tra tanti, di diventare adulto. Tentativo sfortunato, perché chi ha bisogno di mostrare a sé stesso il proprio coraggio, evidentemente è un fifone. Però non mi sento di buttare tutto via. Nell'occasione, ad esempio, ho gestito la situazione abbastanza bene. Intanto, era chiaro che non mi avrebbero fatto niente. Non mi avrebbero rovesciato il cesto, non mi avrebbero tenuto fermo e aggredito, il loro unico obiettivo era dare aria ai denti per impressionare due ragazzine.

Allora ho alzato gli occhi a quello dei due che aveva parlato, e ho fatto un passo, forse due, verso di lui. I passi erano importanti. Significavano: non ho paura. Tu, però, hai detto una cosa, e adesso te ne prendi la responsabilità. Non puoi pretendere che io scappi via, per soddisfare il tuo stereotipo di uomo bianco senza palle. Io non sono uno stereotipo, sono un uomo, mi vedi? Non sono una categoria astratta, non sono un ebreo immaginario, sono qui davanti a te. E gli ho chiesto cosa avesse detto. Siccome ero uno straniero, avevo il diritto di farmelo ripetere.

Ma parlando, il tizio si è accorto di una cosa a cui io stesso non avevo pensato, e cioè: che ero davvero uno straniero. Il mio francese non era esattamente francese. E se io non ero un vero francese, ma perbacco, ero uno del quartiere, tante scuse, non volevamo offendere. Italiano? Forti gli italiani! Baggiò, Vierì. Sul serio ti chiami Leonardo? Come l'attore?

***

Molti quartieri sono davvero pericolosi, e forse irrecuperabili. Ma in principio c'è stato il momento fatale in cui ci si è sigillati in casa e si è rimasti a guardarli dalla finestra. Una delle spiegazioni più banali del caso Fallaci, è che vive in alto, con troppa aria condizionata.
Io non consiglio a nessuno di cercare di fraternizzare con squadre di teppisti, ma non andare in panico per un paio di ragazzini dalla faccia scura mi sembra il minimo. Consiglio di tenere alta la testa e rivolgere la parola, semplicemente. E mettere il naso fuori di casa più spesso, viaggiare, valutare la possibilità di cambiare nazione, paese, cultura, identità: se dall'Italia fuggono i cervelli, perché noi dobbiamo restare indietro?
Sulle basi di una premessa: la nostra identità non è un granché. La nostra cultura non è un granché. Nulla che valga la pena veramente 'difendere'. È un insieme di nozioni imparaticcie, ricette di cucina e jingles pubblicitari. Nessuno ne è invidioso. Nessuno vuole cancellarla. Chi viene qui, è perché spera di trovare lavoro, vitto, alloggio. E molto spesso ne trova.
Poi, appena sistemato, succede che anche lui reclami il diritto alla propria sacrosanta cultura: le sue nozioni imparaticcie dal suo libro sacro, la sua cucina, la sua tv. E i suoi nemici immaginari, come i perfidi ebrei. A questo punto noi dovremmo avere il diritto di chiedergli di rinunciare a qualcosa: il couscous sì, l'antisemitismo no.

Ma – questo è il punto – anche noi dobbiamo rinunciare a qualcosa. E non ci va.

(Basta, finito, continuate voi).

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