In difesa di Sodoma
La Genesi (capitolo 18) racconta la fine di Sodoma e Gomorra, le città nella valle del Giordano che Dio volle distruggere a causa dei loro peccati, e di come prima di procedere alla distruzione Dio stesso – in via del tutto eccezionale -– fece tappa da Abramo, che offrì per l'occasione focacce di fior di farina. Allora Dio annunciò che Abramo sarebbe stato padre di una grande nazione "in cui saranno benedette tutte le nazioni della terra" (18,18), ma anche la fine delle due città vicine: "il grido contro di loro è molto grande, e il loro peccato è molto grave"(18,20).
Abramo, che è un brav'uomo (e poi a Sodoma ha parenti), fa quel che può per salvare le città. La sua arringa è ben congegnata. Il patriarca parte da un assurdo: mettiamo, dice, che a Sodoma ci siano cinquanta giusti. "E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? Lungi da te il far morire il giusto con l'empio! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?" Dio accusa il colpo, e si fa strappare una concessione non da poco. "Se a Sodoma troverò cinquanta giusti, per riguardo a loro perdonerò tutta la città" (18,24-26).
Stabilita così la legge del perdono, a Abramo non resta che proseguire in discesa: "Mettiamo", prosegue, che ce ne siano solo 45: vuoi distruggere una città intera per cinque giusti in più o in meno?" E Dio abbassa la soglia a 45. "E se fossero solo quaranta, trenta, venti?" Fino alla manfrina finale: "Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là si di giusti se ne troveranno solo dieci". E il Signore: "Non la distruggerò per riguardo a quei dieci" (18,32). Dopodiché si dilegua, prima di concedere ulteriori ribassi. Sodoma, è noto, sarà distrutta ugualmente: ma da allora il popolo di Abramo sa che bastano dieci giusti a salvare una città. Anche noi, teniamocelo per detto.
Prima di accusare Israele (il moderno Israele) di genocidio o quant'altro, sarà opportuno verificare se non ci sia almeno una manciata di giusti, a Gerusalemme ovest o a Tel Aviv, che si siano opposti alla guerra. Non li troveremo tra i laburisti al governo, i cosiddetti 'laici' che non hanno mai veramente ostacolato l'occupazione dei territori. Piuttosto vorremmo cercarli tra gli intellettuali: forse che non ci sono intellettuali pacifisti in Israele? Anzi, abbondano. C'è Yehoshua, per esempio, che sulla Stampa è tradotto un giorno sì e l'altro no: Yehoshua che per esempio ieri bacchettava severamente l'intellettuale portoghese Saramago, reo di aver paragonato Ramallah ad Auschwitz e gli israeliani ai nazisti: in questo modo non si calmano gli animi, anzi, si incitano i terroristi a massacrarci, dice. Per poi chiedersi: perché gli europei continuano a insistere con questo assurdo paragone coi nazisti? Forse per esorcizzare il loro proprio passato, quello sì nazista, o almeno collaborazionista. È un'ipotesi molto interessante, e molto sottile. I rastrellamenti, i prigionieri marchiati con inchiostro indelebile, i campi profughi dove i libri sono vietati e sotterrati (Dheishe), la guerra lampo dei tank (in tedesco si dice Blitzkrieg) la propaganda nazionalista e razziale, la sopraffazione, sono altre possibili spiegazioni (molto meno sottili), che a Yehoshua per ora non vengono in mente.
Yehoshua non potrebbe essere chiamato in difesa di Sodoma? Yehoshua è tutto meno che un fanatico; ha firmato a suo tempo un appello di intellettuali israeliani per la pace; vorrebbe che i laburisti lasciassero il governo e appoggiassero il ritiro unilaterale dai territori occupati. Yehoshua è senz'altro in buona fede quando si proclama intellettuale pacifista; ma proprio questa buona fede è drammatica. Ecco un brillante scrittore che vive in Israele, e che ha modo di guardarsi attorno e ragionare. I suoi ragionamenti, che a Tel Aviv sanno di buon senso, a Betlemme suonano già deliranti: e altrettanto deliranti suonano in Italia, a me almeno. Ho ancora in mente l'articolo di un mese fa (segnalato da Frederic) in cui criticava il manifesto degli obiettori di coscienza. Quella manciata di militari che rifiutano di intervenire nei Territori: alcuni di loro (una decina) attualmente sono incarcerati. Che cosa può avere il pacifista Yehoshua contro di loro?
Vorrei ora spiegare ai lettori italiani le ragioni di questo mio atteggiamento. Il concetto di governo è estremamente nuovo nella storia ebraica. Durante tutto il periodo della diaspora gli ebrei hanno vissuto in un contesto esistenziale libero da ogni imposizione da parte dei loro connazionali. Gli israeliti potevano discutere fra loro, litigare, ma nessuna autorità o governo ebraico li poteva costringere a determinate azioni o comportamenti. Essi erano sudditi di un potere «gentile» ma affrancati da qualsiasi sovranità ebraica. E' possibile dunque affermare che la vita ebraica nella diaspora fosse sostanzialmente anarchica. Il prezzo pagato per tale anarchia, in termini di sterminio e di assimilazione, è noto a tutti. La creazione dello Stato di Israele ha cambiato radicalmente questa situazione. Gli ebrei si sono liberati dal potere straniero per creare una propria sovranità in un regime democratico. La democrazia israeliana non è perfetta, è vero, come molte al mondo, ma è pur sempre garantita da elezioni libere e dal rispetto della libertà di parola e di stampa. Qualunque lesione del tessuto di questa giovane e fragile democrazia (fragile non tanto per il pericolo dell'imposizione di un regime totalitario ma per il rischio di precipitare nell'anarchia), quale il rifiuto di adempiere all'obbligo militare, è quindi pericolosa e non va incoraggiata.
Per Yehoshua, insomma, gli israeliani sono ancora ragazzini che devono abituarsi al concetto di "sovranità", guai a sgarrare, l'obiezione di coscienza è un lusso di nazioni più mature, come l'Italia. Nessun lettore italiano, immagino, si è preso la briga di spiegargli che la Repubblica italiana e lo Stato d'Israele hanno più o meno la stessa età: del resto anche da noi esistono intellettuali pronti a spiegarci che passiamo col rosso perché ancora non ci fidiamo dell'Autorità costituita. Per Yehoshua Israele è dunque continuamente sul punto di cadere in una non meglio definita anarchia. È un'idea plausibile? Ci sono precedenti storici? Sì. In anarchia vivevano gli israeliti giunti alla Terra Promessa dopo la fuga dell'Egitto. È un lungo periodo oscuro, di guerre, faide e lotte tra tribù, narrato nella Bibbia e precisamente nel Libro dei Giudici: ogni tanto nel testo compare questo versetto a mo' di spiegazione: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re". Il finale (21,25) è ancor più eloquente: "a quel tempo Israele non aveva ancora un re: ognuno faceva quel che gli pareva meglio". E infatti Israele era lacerato da guerre intestine, ed esposto agli attacchi di Filistei, Amorrei, ecc.. È chiaro che Yehoshua non ha più ragione per temere Filistei e compagnia. Teme però "lo sterminio", malgrado Israele sia un membro riconosciuto della comunità internazionale, e "l'assimilazione": assimilazione con chi? Forse con gli otto milioni di profughi palestinesi che chiedono di rientrare nella loro Patria, e che col loro maggiore tasso di natalità minacciano la 'purezza' dei cinque milioni di israeliani. Per questo, oggi come ai tempi di David e Salomone, "Israele deve avere un re". Questo re si chiama democrazia. Imperfetta, "è vero": ma guai a chi la mette in discussione. E infatti:
(la tirata contro Yehoshua continua domani perché è veramente troppo pesante)
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