Ritratto del precario come Eroe Romantico, vale a dire
Maestri di vita (9): Lev Myskin, Raphaël de Valentin, Chip Lambert
Avvertenza: questo pezzo è discretamente incomprensibile. Tuttavia, se riuscite a tirarne impressioni negative sulla mia vita professionale, e se la cosa vi fa sentire superiori, fate pure, servo vostro.
Potrei dare la colpa all’Ottocento, per esempio.
Fa molto Ottocento quel tipo di eroe giovane, spiantato, che a un certo punto del romanzo si ritrova in tasca una fortuna, di solito una lontana eredità. A diciannove anni avevo già qualche pelo rosso sul mento, per cui, è chiaro, ero il principe Myskin, (l’Idiota, cioè): “Nastasja, lei ha sofferto tanto, venga a vivere con me, se necessario lavorerò (risate dei presenti)…ma adesso che ci penso, cos’ho qui nel taschino? Ops, eredito da una zia svizzera un milione e mezzo di rubli”. Gli scherzi del destino, eh? Che poi non si riesce mai a capire quanto valgano, questi rubli (ma Nastasja era appena stata valutata intorno ai centomila). Cifre di fiaba, che si materializzano e scompaiono in un istante: Rogozin porta i centomila in un pacchetto, la bella capricciosa li getta nel camino.
In seguito mi trovavo bene anche nei panni del tipico giovinastro balzacchiano, che in ventiquattrore passa dall’ascesi alla deboscia. Ogni volta che finivo a una premiazione o a una presentazione, insomma, a un buffet, mi sentivo come Raphaël de Valentin (la Pelle di Zigrino), che va per salotti senza un soldo, e si nutre a the e pasticcini. Con la differenza che nei salotti-Ottocento i pasticcini erano “si parcimonieusement offerts”, mentre io m’ingozzavo come un cappone. A un premio di poesia, stavo dedicandomi ai crodini avanzati, quando mi si avvicina un tale: “ecco da cosa si distinguono i poeti veri: sono quelli che mangiano di più”. Annuii ruttando: avevo vinto io, dopotutto.
Era il periodo in cui gonfiavo il curriculum, mi infilavo in treni notturni alla caccia di esotiche borse di dottorato; c’era senz’altro del romanticismo in tutto questo, e io lo sentivo (sentivo anche le risate in sottofondo, se è per questo, e tuttora). A un certo punto però Raphaël si sveglia nei postumi di un festino, e scopre di aver ereditato dal parente di Calcutta sei milioni di franchi. Da quel momento il romanzo prende una piega filosofica, ma io quella piega lì non la presi mai.
Semplicemente diventai impiegato (la qualifica in inglese era assai più fantasiosa, ma insomma, ero un impiegato). Gli impiegati non sognano l’Ottocento, si considerano tutti dei piccoli Kafka. Tranne quelli proprio colti, che leggono i libri Adelphi: loro si sentono molto Bartleby lo scrivano (quello che a qualsiasi richiesta risponde “Preferirei di no”). Per me l’enigma di Bartleby è molto semplice: è un imbecille. O un impiegato ministeriale (le due cariche sono cumulabili).
Ci sono state molte traversie, in seguito, e non mi dilungo, ma nulla forse è stato più kafkiano della Graduatoria alle Supplenze, una lista dalla quale a un certo punto ero stato perfino cancellato, reo di aver consegnato in tempo tutti i documenti con le crocette giuste al posto giusto. In quella occasione ho scoperto che poche sono le differenze tra il mondo di Kafka e quello reale, e una di queste è il Sindacato, l’intermediario metà umano metà burocratico tra noi e il Castello (non si chiama più provveditorato). Mi dissero che si sarebbe tutto risolto con una lettera di scuse, da parte mia. Io non avevo fatto nessun errore, quindi l’errore dovevano averlo fatto al Castello, ma comunque implorai perdono per le mie orribili sviste, e fui perdonato. Temporaneamente.
Sì, perché i giudici del Processo, riuniti in conciliabolo, decisero che ero colpevole di varie cose. In ultima analisi, ero colpevole di essermi laureato troppo presto. Se avessi partecipato a qualche bisboccia in più, se mi fossi goduto la vita dello studente, avrei perso l’occasione di partecipare all’Ultimo Concorso di abilitazione all’insegnamento prima della fine dei tempi. Così avrei dovuto sborsare molti soldi in più, e impiegare altri due anni di vita in una Scuola per l’Insegnamento, detta SISS. Ma ahimè, avevo avuto fretta, avevo avuto paura di invecchiare, di pesare sulla mia povera madre. Colpevole! Diciotto punti in meno! Verrai calpestato sulla graduatoria da cento giovani Sissine, tutte indubbiamente più preparate di te! Fannullone, parassita, precario! La gente come te, non capiamo dove trovi il coraggio di rispondere al telefono.
Beh, io quest’estate ho fatto di peggio: sono andato al mare con la mia ragazza, neanche fossi una persona normale. E mi sono tenuto lontano dai romanzi Ottocento: non m’ingannano più. Non c’è nessuna eredità da Calcutta, per me. Io sono l’artefice del mio destino, ma d’altronde il destino non esiste, dal che si deduce che sono l’artefice di niente, un buono a nulla. Come volevasi.
A un certo punto sono dovuto tornare a Modena, perché c’era la Chiamata. La Chiamata è una cerimonia complessa, in cui, sostanzialmente, offrono supplenze a destra e a manca ma a te no, e dura in media sei-sette ore. Io non ho i nervi per reggere la cosa (o sarà che mi manca la vocazione), per cui di solito mi porto da leggere. Ma niente Ottocento, stavolta.
Bene, ero lì seduto da tre-quattro ore, ormai, in posizione panoramica: sotto di me il popolo dei supplenti, un po’ più avvenenti del solito (le sissine hanno abbassato di molto l’età media). Ogni tanto scendevo ad aggiornarmi da una mia collega sicula.
“A che punto siamo?”
“Quaranta”.
Noi siamo sprofondati dopo il 170.
“Potevamo farcela. Se non ci toglievano i punti ce l'avremmo fatta”.
“È andata così”.
Siccome non ho preso un volo da Palermo, io, mi ostento tetragono ai colpi di sventura.
“Cosa leggi di bello?”
“Uh, Le correzioni”.
“Jonathan Franzen. Com’è?”
“Non so. Me l’ha prestato la mia ragazza [perché sto cercando di smettere con l’Ottocento, sai]”.
“Lei è rimasta al mare?”
“Già”.
Insomma, me ne stavo appollaiato sulla scala, e leggevo le avventure di Chip Lambert, docente universitario caduto in disgrazia, che spende gli ultimi spiccioli in mance ai tassisti, sotto la pioggia. Pensando a quando ero una giovane promessa dell’italianistica, e uscivano certi articoli miei che adesso non riuscirei neanche a leggere. Certo, il mondo è pieno di giovani promesse dell’italianistica (non lo sapevate? Ora sì), c’è una vera inflazione, bisognerebbe fondare più riviste, più cattedre, fare qualcosa per tutte queste giovani promesse.
Al limite, abbatterle.
Quanto a Chip, lui corregge bozze (quello che farò la settimana prossima, e il cameriere alla Festa del Lambrusco) e ripone le ultime speranze in una patetica sceneggiatura. Ma quando si mette in tasca i dollari delle mance sul bancone di un cocktail bar, sembra Raphaël redivivo che fa a pezzi il mobilio della sua povera mansarda per trovare, dal profondo della miseria, un biglietto da cento per uscire con la Gran Dama.
E infatti poche pagine più tardi (stavano assegnando la supplenza n. 60), non salta fuori anche per Chip una specie di eredità? Questa volta è un tizio dalla Lituania. Non è parente, ma gli è straordinariamente somigliante. Gli propone un risky business nel Paese baltico, mille $ al mese, gliene infila tremila in tasca in acconto. Ehi, fanno sei milioni di lire! Chip esce nella strade di New York con sei milioni in tasca, wow! (chissà quanto veniva in dollari, Nastasja).
“Hanno finito di chiamare, allora?”
“Sì, hanno finito”.
“Bene. Cioè, bene per niente. Torni giù?”
“Sì. Tu ce l’avresti fatta, comunque”.
“Sei sicura?”
“Sì, con i diciotto punti ce la facevi”.
“E vabbè, magari ora ci chiamano i presidi”.
“Devono chiamarne settanta, prima di noi”.
“Magari rifiutano tutti”.
“Sì, magari. È bello il libro?”
“Sì”.
Il libro di Franzen è molto bello, il mio lascia assai a desiderare. Non fa che avvitarsi su sé stesso, si ripete, per esempio questa cosa della Chiamata è già capitata due anni fa, c’era la neve. E dire che basterebbe così poco. Un telegramma da Calcutta, o Bogotà, uno zio nel traffico d’armi, qualcosa di assolutamente illogico e imprevisto. Nella realtà non succede, ma nessun romanzo vuol essere noioso come la realtà. E gli eroi romantici e spiantati annoiano, alla lunga.
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