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venerdì 19 marzo 2004

Lui e la guerra

Riassunto di ieri: un socialista, un rivoluzionario, fonda tutta la sua carriera sul pacifismo più intransigente: finché alle soglie di un grandioso conflitto di civiltà non cambia idea. Chi è? È Lui.

E io sono a Roma per aiutar [Lui]. Sapete che è “un uomo”? Ha fatto un quotidiano in una settimana.
(G. P.)

In quei giorni Lui sta già pensando di metter su un nuovo giornale. Naturalmente, occorrono soldi. Soldi puliti, perché Lui sta per essere espulso dal Partito e deve dimostrare a tutti che la sua coscienza è immacolata. “Dove trovare il denaro?”, si chiede, “Un denaro che io possa accettare”.

In realtà non ci mette troppo a trovarlo. In Italia (e anche all’estero) c’è qualcuno che crede in Lui. Il primo ad aiutarlo è il collega capo-redattore di un quotidiano borghese: in seguito, un po’ di soldi arriveranno da un Partito straniero, che si è già convertito alla guerra e che vorrebbe che la stessa cosa accadesse in Italia. Nel giro di un mese esce il primo numero. Sotto la testata portava ancora la dicitura di “quotidiano socialista”, ma gli articoli chiedevano a gran voce l’entrata in guerra dell’Italia.
È un successo strepitoso: il primo numero viene esaurito verso le dieci del mattino. Nei mesi successivi il quotidiano, partito con una tiratura di trentamila copie, arriva a punte di 80.000. Socialista o no (l’espulsione dal partito è ormai inevitabile), Lui rimane soprattutto un grande polemista. Il fronte degli italiani che vogliono la guerra – fronte trasversale, che mette insieme destra nazionalista e sinistra rivoluzionaria – finisce per trovare in lui la Guida. (La parola non è esattamente quella). Come dice un telegramma di ex avversari, all’indomani dall’espulsione: “Partito Socialista ti espelle. Italia ti accoglie”.

Quest’“Italia” non è – nemmeno si sogna di essere – la maggioranza del Paese. È un gruppo di pressione, formato per lo più da intellettuali, impiegati, piccoli borghesi: un ceto medio che legge i giornali e si tiene informato, e che chiede la guerra in modo assolutamente disinteressato. Non si può lasciare la civiltà europea sola a lottare contro la barbarie e le dittature: l’intervento dell’Italia avrebbe potuto essere decisivo, e salvare ulteriori vite umane. Coi mesi questo gruppo prende coraggio: in primavera scendere persino in piazza. Dalle colonne del suo giornale, Lui scandisce gli slogan: “O guerra o rivoluzione”. Sembra più determinato che mai.
In realtà è disperato. Teme di aver sbagliato tutto: il giornale vende bene, è vero, ma non rientra nei costi (l’eterno dramma dei quotidiani italiani). Le manifestazioni di piazza riescono bene, ma la maggior parte degli italiani restano ostili alla guerra, impermeabili a tutti gli appelli alla civiltà, alla fratellanza, a qualsiasi cosa. In una lettera di quei giorni, scrive:

Siamo vecchi, amico mio, decrepiti: è stato il sole – compiacente ruffiano – che ci ha fatto credere in una seconda o terza giovinezza. Ma è ora di seppellirci o di cambiare patria. La nostra è vile. Una buona e disperata stretta di mano dal tuo…

Pochi giorni dopo, l’Italia entra in guerra. In seguito, Lui se ne prenderà il merito (si prenderà molte altre cose).

La guerra sarebbe durata ancora tre durissimi anni. L’Europa, con tutta la sua esperienza di invasioni ed epidemie, forse non ha mai assistito a un carnaio peggiore. Armi di distruzione di massa, gas, ma anche il caro vecchio corpo a corpo, il coltello e la baionetta. Sul fronte si scoprì che Barbarie e Civiltà fraternizzavano, come fraternizzavano i fantaccini nemici tra un massacro e l’altro.
E sul fronte c’era anche Lui – mica poteva stare a casa! (e pensare che in gioventù aveva cercato di obiettare al servizio militare fuggendo in Svizzera). Non fu un’esperienza facile: i graduati lo guardavano male perché socialista, i commilitoni che si ritrovavano in una guerra non voluta avevano parecchi motivi per detestarlo. Nel frattempo il suo giornale, senza di Lui, infilava una gaffe dopo l’altra, perdeva colpi e tiratura. Dopo due anni di guerra combattuta, ferito dallo scoppio di un lanciabombe, Lui venne congedato e tornò al suo vecchio posto in redazione.
Il giornale sembrava alla frutta. La posizione filo-guerra era sempre meno popolare, e molti finanziatori, una volta centrato l’obiettivo dell’entrata in guerra, avevano chiuso i rubinetti. A questo punto forse Lui avrebbe dovuto chiudere il giornale. Ma il giornale – oltre a essere l’arma che maneggiava meglio – era ormai tutto quello che aveva: il vecchio Partito lo aveva espulso, un nuovo partito era ancora tutto da fondare. Nei mesi successivi il quotidiano non solo riuscì a superare la crisi, ma aprì anche una seconda redazione a Roma. Da qualche parte, quindi, Lui aveva trovato altri soldi. Ma da chi?

Dall’entrata in guerra erano passati due anni e mezzo, ormai, quando un giorno d’ottobre il fronte italiano cedette su tutta la linea. Per qualche giorno la guerra sembrò ormai persa. Lui (ancora in stampelle) continuò a lavorare al giornale. I famigliari lo trovavano stanco e depresso: a sua sorella disse che gli sarebbe piaciuto morire.
Ma non morì, e nemmeno perse la testa: s’indurì soltanto. Chiese leggi speciali, disciplina di guerra. Scriveva:

Non fermiamoci dinanzi ai diritti della libertà individuale. Spazziamo questo feticcio. Lo ha spazzato l’Inghilterra…

Non c’è solo l’Inghilterra, qualche giorno dopo trova un esempio migliore:

Una delle condizioni per vincere la guerra è questa: chiudere il Parlamento. Mandare i deputati a spasso. [Il Presidente degli Stati Uniti del tempo], per esempio, esercita la dittatura. Il congresso ratifica ciò che [egli] ha deciso. La più giovane democrazia, come la più antica, quella di Roma, sente che la condotta democratica della guerra è la più grande delle stupidità umane.

E ancora (contro i socialisti che continuano a parlar male della guerra):

Fuori di qui ci sono gli stranieri e i nemici. Ma il governo, invece di prendere una buona volta di fronte questi nemici e schiantarli – in questo momento propizio – li tratta coi guanti. È pieno di riguardi per loro. Guai a toccarli! Censura! E quelli non disarmano.

Fino a ridursi, Lui, socialista e giornalista, a chiedere la chiusura dei quotidiani…

O i giornali si uniformano alle necessità della guerra – sotto tutti i suoi aspetti, dai politici ai psicologici – o diamo al governo l’incarico di tenerci informati, con un foglio quotidiano di carta stampata.

Ma per il momento i quotidiani resistono – compreso il suo – e non campano di sole parole. In quei giorni comincia a farsi sempre più insistente, sulle pagine del suo giornale, la pubblicità di un certo gruppo industriale, il più grande e importante dell’epoca. Nel frattempo, nei suoi editoriali, Lui comincia a sostenere la necessità di superare il socialismo. Con cosa? Il nome è nell’aria, ma non è ancora stato individuato. Il primo tentativo è un neologismo orrido: “Trincerocrazia"

L’Italia va verso due grandi partiti: quelli che ci sono stati e quelli che non ci sono stati; quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto; quelli che hanno lavorato e i parassiti… I partiti vecchi, gli uomini vecchi che si accingono, come se niente fosse all’exploitation dell’Italia politica di domani saranno travolti. La musica di domani avrà un altro tempo […] Potrà essere un socialismo anti-marxista, ad esempio, e nazionale.

Il nome deve ancora essere trovato, ma gli ingredienti, come vedete, ci sono già quasi tutti. È tempo ormai di togliere dalla testata quel sottotitolo “anacronistico”:

Oggi, dopo quattro anni, dalla testata di questo giornale scompare il sottotitolo di socialista. Un altro lo sostituisce che mi piace di più. D’ora innanzi questo giornale sarà il giornale dei combattenti e dei produttori.

I combattenti li conosciamo: ma chi sono questi “produttori”? È presto detto: “quelli che producono, ma non soltanto con le braccia”: un po’ borghesi, un po’ proletari.

Difendere i produttori significa permettere alla borghesia di compiere la sua funzione storica – ci sono ancora due continenti quasi intatti che attendono di essere travolti nel turbine della civiltà moderna capitalistica – e significa anche agevolare agli operai il conseguimento del maggior benessere per il maggior numero.

E qualche giorno dopo.

L’essenziale è “produrre". Questo è il “cominciamento”. In una nazione ad economia passiva, bisogna esaltare i produttori, quelli che lavorano, quelli che costruiscono, quelli che aumentano la ricchezza e quindi il benessere generale. Produrre, produrre con metodo, con diligenza, con pazienza, con passione, con esasperazione è soprattutto nell’interesse dei cosiddetti proletari. […] Bisogna esaltare i produttori, perché da essi dipende la più o meno rapida ricostruzione del dopoguerra. Disorganizzate la produzione e preparerete un dopoguerra tristissimo ai reduci dalle trincee. […] Sì, produrre, produrre, produrre: non già e non soltanto perché l’Italia di domani sia meno povera di quella di ieri, ma perché sia l’Italia libera.

Produrre, produrre, produrre. Con metodo, con passione, perfino con esasperazione. Ma cosa?
Facciamo un esempio. Prendiamo il grande Gruppo industriale che da qualche mese, ormai, pubblicava le sue inserzioni sul giornale di Lui. Cosa produceva? Un po’ di tutto. Fondeva i metalli, estraeva i minerali. E fabbricava armi: cannoni, bombarde, aeroplani, navi. Prima della guerra dava lavoro a 4000 operai: nell’ultimo anno di ostilità, gli operai (anzi, i “produttori”), erano passati a 56.000. Ma la guerra non sarebbe durata in eterno. E allora?
Il grande gruppo industriale era nelle mani di due uomini, i fratelli Perrone. Due classici industriali italiani, insaziabili e onnivori. Compravano di tutto: fonderie, miniere, cantieri. E anche banche. E quotidiani: avevano già Il Messaggero e Il Secolo XIX. E in un qualche modo, misero le mani anche sul giornale di Lui.

Non fu difficile. Si mossero per interposta persona – c’erano pur sempre delle parvenze da salvare – ma un polemista di razza come Lui, in un momento in cui bisognava convincere gli italiani a produrre, produrre, produrre, faceva veramente comodo.
E a Lui faceva comodo lavorare per i Perrone. Dopo avere perso un Partito, aveva trovato un padrone. Che è meglio di niente. Dopo anni di vita grama, ora viaggiava su un automobile messa a disposizione dall’importante Gruppo. Addirittura, un giorno ebbe il privilegio di poter provare una straordinaria novità della tecnica: un aeroplano! Per planare sui cantieri del Grande Gruppo e poi pubblicare, sulle colonne del suo non più suo quotidiano, queste riflessioni “en plein air”:

Combattere oggi e nello stesso tempo lavorare, navigare, produrre, volare: conquistare la terra, i mari, i cieli, ecco l’Italia grande che va, sicura dei suoi destini, incontro all’avvenire…

E nell’avvenire dell’Italia, senza dubbio, c’era ancora tanto spazio per Lui. Che, per inciso, era Benito Mussolini, socialista rivoluzionario, direttore dell’Avanti fino al 1914, fondatore del Popolo d’Italia, e poi del movimento nazional-socialista di “combattenti e produttori” che alla fine prenderà il nome di Fascismo. Il gruppo dei fratelli Perrone era l'Ansaldo.
Tra socialisti e Ansaldo, la Grande Guerra: nessun conflitto sembrò così giusto all’inizio e così insensato alla fine.

Ora ci scuserete – mi prendo la licenza del plurale, per stavolta – se noialtri, che in fondo saremmo socialisti se il nome non se ne fosse andato da parecchio tempo a puttane, preferiamo non seguire l’esempio e restare dalla parte della Pace. Perché avete un bel da dire, voi, che questa guerra è giusta e necessaria, e da una parte ci sono le barbarie, e dall’altra la civiltà: tutte cose già dette, già sentite. Ma quando avremo rinnegato i compagni, i fratelli, chi si prenderà cura di noi? C’è un padroncino vorace anche per noi, che ci farà scrivere su un giornale tutto quello che ci va? No, non c’è, tutti i posti già occupati.
Voi che vi riempite la bocca con lo spirito di Monaco: bravi, conoscete la Storia. Ripassatevi allora anche lo spirito delle “radiose giornate”. Un’élite di piccoli borghesi che chiede la Guerra per spirito di avventura, e si mette contro il popolo, e nella disgrazia resta sola, si fa odiare e odia, e per vendetta si vende al miglior offerente. Questo è il fascismo, questo è l’uomo che l’ha inventato. Un pacifista che un giorno rimase intrappolato in un se, in un ma. Forse la Storia non c’insegna nulla. Ma a ogni buon conto.

Le citazioni da Mussolini (e quella da Prezzolini in cima al pezzo di oggi), sono tratte da Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario (1883-1920), Einaudi, Torino, 1965.

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