Il pezzo definitivo sull'11/9 e sui tormentoni da 11/9 ("quel giorno io ero da qualsiasi parte a fare qualsiasi cosa e ho subito pensato: nulla sarà come prima!") lo ha scritto Defarge, l'anno scorso, e io lo copio pari pari.
(Defarge, qui, può scrivere quando vuole, ma non vuole quasi mai)
Ma tu dov'eri l’11 settembre? Le storie dell'11 settembre cominciano spesso da qui, da una telefonata privata o dall'interruzione di un programma radiofonico. Perche' dove fossimo e cosa stessimo facendo sono le forme che diamo, forse, a un desiderio di protagonismo storico offeso, quando gli eventi scioperavano e la storia era finita. «Io c'ero» - a un concerto degli U2 come al G8 di Genova - ha costituito per qualche tempo l'unico modo del quale potevano disporre adolescenti o agenti della questura di Bologna per soddisfare questo desiderio di soggettivita', corroborata da una scritta sulla t-shirt. U2, G8: sono coordinate esistenziali. Ogni badile ha il suo manico, diciamo in provincia. E anche gli adolescenti e la polizia hanno il loro, di manico. Ma gli scrittori? Cosa fanno gli scrittori quando due aerei si vanno a schiantare nel centro simbolico del mondo e lo vanno a sbudellare? All'apparenza gli scrittori non sono molto diversi dagli altri esseri umani. Norman Mailer, per esempio, si introduce nell'11 settembre passando per l'anticamera della stessa scena privata. Cosi' veniamo a sapere che il suo intervistatore, Dotson Rader, si trovava «a Manhattan, sulla Ottantacinquesima est» e che qualcuno, nel frattempo, faceva squillare il telefono di Mailer, a Provincetown, per dirgli di accendere il televisore. Sappiamo gia' che Patti Smith era coricata sul suo letto, che Jacques Derrida si trovava in Cina e che Art Spiegelman stava passeggiando con la moglie, un paio di isolati a sud dal World Trade Center. Perche', tra le altre cose, l'11 settembre rimarra' nella storia come una formidabile mappa di chi era dove, una sorta di panopticon civile e spontaneo. Io ero qui. Io c'ero, come Rolando c'era a Roncisvalle, vi fornisco le prove e le coordinate.
Ad animare la premura topografica e il primo piano sui gesti individuali, pero', non puo' essere solo una generica mania di protagonismo. Gli scrittori non sono ne' poliziotti, ne' adolescenti. Loro protagonisti lo sono tutto il tempo, senza bisogno della t-shirt, sulle copertine del New Yorker e del Time, ai party della Quinta e di Holliwood, nei talk-show e sui nostri comodini. La spinta all’autodenuncia potrebbe allora dipendere da una roba simile a quella che condanna Fabrizio Del Dongo, nella Certosa di Parma, a morire con il dubbio di non aver fatto la guerra: l'esigenza di esserci, certo, ma anche la paura di non esserci nel modo giusto. Di non aver capito, di aver confuso la guerra con un bivacco e l'Imperatore con un attendente di cavalleria.
Se l'amministrazione (uno delle forme del potere, quella della sporgenza del pathos, diceva Karl Schmitt, realista quel tanto che basta a prendere una tessera del Reich) reagisce con gli eserciti che aveva preventivamente equipaggiato e con un ordine mondiale che di nuovo puo' vantare solo la sponda pubblicistica della liberta' duratura (riducendo il «nulla sarà più come prima» a un sinonimo della propria impunita'), per gli scrittori l'11 settembre ha lasciato domande «senza risposta, come pagine bianche e vuote», uno spazio da reinventare e una narrazione allergica al riutilizzo delle parole e dei nomi con cui le cose venivano afferrate prima che il mondo si capovolgesse. Da una parte ci sono gli eserciti e le t-shirt, l'uso pubblico della catastrofe, gli stili di vita che ne approfittano per diventare madonne vergini. Dall'altra l'esitazione e la volonta' di capire il ruolo che il nostro azionariato, sicuramente minoritario, puo' aver comunque giocato nel retrobottega dell'11/9, quanto gli stili di vita, legati ben stretti ai dipartimenti di politica estera, possano aver influito nella degenerazione degli altri. E' un'algebra difficile, quasi impossibile. Ma puo' produrre dei risultati notevoli, anche per approssimazione. Norman Mailer, Toni Morrison, Jonathan Franzen, Paul Auster, Don De Lillo, Gore Vidal e parecchi altri: tutti a raccontare dov’erano e a chiedersi subito dopo cosa deve cambiare, a partire da quella cosa che c'era prima e che c'è adesso e che si chiama Norman Mailer, Toni Morrison, Jonathan Franzen, Paul Auster, Don De Lillo... Il chi fosse dove viene inserito in un nuovo contesto, quindi, differente dalla coazione alla t-shirt e alla difesa degli interessi nazionali: adesso la cesura tra i vecchi nomi e le nuove cose comporta lo smottamento delle identità individuali e professionali, mentre l’esserci, come per Fabrizio Del Dongo, è reso inquieto dalla coscienza della propria marginale, costitutiva impreparazione.
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