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lunedì 11 ottobre 2004

2 bar
Dietro al banco c'è un mutuo / che il cliente non sa
Lomas, banchi del bar

Al mio paese, che non esiste, ci sono due bar, che per comodità chiameremo.

Il primo è a due isolati da qui, ma per andarci occorre comunque una macchina. Insegna al neon, bancone luminoso, ampia scelta di superalcolici. Molto fumo in giro, fumano tutti, nessun divieto. Niente televisione. La manopola della radio si è ossidata col tempo su un'unica stazione, che manda classici fuori dal tempo cantati da eroi sbattuti con la voce molto roca – in pratica manda solo Tom Waits, tutto il tempo. Il bar si chiama, non potrebbe non chiamarsi, Roxy.
Sotto 35 anni non si entra al Roxy Bar, né serve esibire la patente, le cicatrici bastano. E poi bisogna essere maschi, il Roxy è una fantasia maschile. È il posto dove ci si rilassa verso il tramonto della propria vita spericolata: si raccontano le vecchie storie, i casini da cui siamo saltati fuori, insomma le solite cazzate. Il Roxy è, per dirla tutta, il punto di arrivo: è a due isolati da qui, ma per arrivarci occorre avere fatto il giro del mondo, il periplo delle terre conosciute e no.

In una vecchia storia dei Simpson, Bart sogna una cosa che abbiamo sognato tutti: diventare una rockstar. Ma nel sogno non si sofferma troppo sulla sua ascesi musicale, sulle folle in delirio e sulla vita da backstage: gli preme arrivare subito al dunque. In pratica dopo pochi secondi Bart si vede già in crisi d'astinenza, riverso seminudo su un divano con la bava alla bocca, mentre un Milhaus cappellone lo rimprovera: "Una volta ti facevi solo di musica!" Una volta, già. In quel momento la nuvoletta del sogno scoppia, e Bart esclama: Fico! Questo è il vero sogno dell'aspirante rockstar: non l'ascesa, non il trionfo, ma quel che viene dopo: un viale del tramonto imboccato a duecento all'ora, e poi una strana sopravvivenza. Le rockstar vere sono tutti esseri sovrumani, reduci da stravizi di ogni tipo. Hanno fatto il giro del mondo in lungo e in largo, e ora bevono whisky al roxy bar. Ogni tanto mettono in giro un disco nuovo, rigorosamente simile ai vecchi, giusto per far notare che ce l'hanno fatta, sono sopravissuti, sono eterni.

Ora, la cosa interessante non è che Vasco ci stia speculando più o meno da 15 anni, su questa estetica del sopravvissuto; ma che tutto sommato avesse previsto tutto molto prima, e per giunta a Sanremo, cantando Vita spericolata. Come a dire che in realtà l'hanno fondato dei giovinetti, il Roxy Bar. Scientemente hanno deciso: ora vado, mi sbatto, mi faccio questo e quello, e tra vent'anni se sopravvivo vi offro da bere. Questa, se volete, è un'altra interpretazione degli '80: non ci si distruggeva più per sfondare le porte della percezione ('67) o per autodistruggersi semplicemente ('77), ma per il gusto di diventare protagonisti di una narrazione: ascesi, trionfo, caduta, sopravvivenza. In fondo, il vero gruppo rock del periodo sono stati gli Aerosmith.

L'altro bar sta sotto casa, ci passo più spesso. C'è un flipper, un biliardo, quattro pensionati a un tavolino di briscola, la Gazzetta dello Sport e il Resto del Carlino spiegazzati sul congelatore pieno di ghiaccioli e coppe del nonno. La birra è acquosa, il caffè è buono. Il gestore si chiama Mario. Immaginatevelo come il barista dello spot della Peroni – in realtà si tratta proprio di quel bar, coi suoi personaggi, la vecchina, il vitellone, la coppietta, la cassiera imperiosa, eccetera. Il Bar Mario è un po' come la tv generalista, non ha barriere di ceto o di genere; perlomeno non vorrebbe averne.

Il generalismo è un'utopia molto italiana: nel resto d'Europa i ricchi non entrano nel locale dei poveri, le donne non siedono al bancone degli uomini (lasciate stare le capitali, andate a vedere in provincia). Ma anche qui da noi, mi chiedo fino a che punto il Bar Mario esista davvero, se pure è mai esistito. Forse abbiamo cominciato a sognarlo, nelle canzoni e negli spot, quando è scomparso, quando i giovani hanno preferito i luoghi per giovani e gli anziani il circolo anziani. Salvo sentire gli uni la mancanza degli altri. Il Bar Mario sembra eterno: in realtà è più nuovo del Roxy, è un'idea di 15 anni fa. È il ritorno del quartiere, dopo un periodo in cui non ci si rivolgeva più la parola tra vicini. E il ritorno del dialetto.

Il dialetto, da noi, non era mai scomparso, ma tra '70 e '80 ha vissuto un brutto momento. I genitori lo usavano tra loro, ma ai figli parlavano soltanto in italiano. L'italiano fiammante della tv. E dopo l'italiano sarebbero venute le altre lingue importanti: l'inglese per girare il mondo, il tedesco per fare affari.
Il dialetto è arrivato dopo. È una lingua che non è ammessa al Roxy Bar: i clienti del Roxy sono gli sradicati per eccellenza. Ma i ragazzini degli anni '90 sono andati al bar di Mario a impararlo. È una lingua che non serve a girare il mondo, e in fondo neanche a comunicare: il suo fine principale è farti sentire a casa tua. Questo soprattutto è il Bar Mario: la tua casa. Coi suoi personaggi, sempre più o meno gli stessi.

Roxy Bar e Bar Mario sono due idee della provincia, da due decenni l'un contro l'altro armati, Vasco contro Ligabue, e ora tocca pronunciarsi, scegliere dove vorremmo essere stasera. Forse in nessuno dei due.
Il Roxy, è vero, è più cosmopolita: per arrivarci occorre viaggiare, vivere, stravivere, pentirsi ed eccetera. Mario, per contro, è un ormeggio ideale per un cordone ombelicale: a dodici anni verrai a prendere i ghiaccioli, a venti la birra, a venticinque ci porterai la morosa, a trenta la lascerai a casa e vincerai il primo torneo di pinnacolo, e così via, fino alla pensione.
È un posto più umano, senza dubbio. Mentre il Roxy in fondo è un covo di solitari che la raccontano a sé stessi, da Mario l'atmosfera è più comunitaria. Sennonché alla lunga ti viene a noia quell'aria di casa, quella mutua società di sorveglianza. È una delle cose che mi è piaciute di più di Lavorare con lentezza: il modo in cui un luogo mitico come il bar di periferia si trasforma lentamente in qualcosa di sinistro, i vecchietti con la pipa e il Resto del Carlino smettono di sembrare saggi e inoffensivi, e tutti i personaggi capiscono che è ora di cambiare aria. Quel che m'indispone di Mario è quella parvenza di eternità, quel suo voler abolire la storia, pretendere che tutto andrà sempre così, tanto Mario riapre prima o poi. E sì, verrà un giorno che il vitellone perderà al flipper, "ma per fortuna non oggi".

Alla fine, non vedo perché dovrei vergognarmi a dirlo: entrambi i bar mi hanno un po' stancato. Mi ha stancato l'epica del rocker, quel modo di conquistarsi la gloria a mazzate sul fegato, mi ha rotto Tom Waits, forse anche Capossela, da quando ho un blog grazie al cielo bevo un po' meno. E mi ha stancato anche il circolo di quartiere, la piccola comunità con la sua piccola antropologia, i suoi usi e i suoi costumi. Forse è l'età, forse sono di quelli che invecchiando si trovano un hobby e non escono più di casa. No.
(No, scherzo. In realtà mi troverai in qualsiasi posto tu voglia offrirmi da bere).

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