Non è un pazzo.
Solo perché ha portato alle logiche, estreme conseguenze le chiacchiere che possono scapparvi a una certa ora al terzo grappino, al secondo limoncello, voi dite che è un pazzo, Breivik.
E siccome sotto la patina becera e pagana siete uomini di mondo, moderni e disincantati, non vi attraversa nemmeno per un istante il sospetto di averlo evocato voi il folle Breivik, durante i sonnellini della vostra ragione. No, il mostro lo avrà senza dubbio partorito qualcun altro - il gene dello stragismo, il welfare nordico, il disagio della società multiculturale, i videogiochi, il "sistema".
Io per me non credo che Breivik sia un pazzo, o meglio: non credo che la sua pazzia sia di un genere diverso dalla vostra. Se faccio qualche distinguo tra voi e lui, non è perché rispetti l'atteggiamento moderato con cui anche stanotte vi alzerete dal tavolino e ve ne andrete a nanna senza aver fucilato nemmeno un negro, nemmeno un comunista. Non è che vi stimi più di lui: mi fate meno paura, questo sì, ma non perché lui sia un pazzo e voi no. Il fatto è che la sua "pazzia", chiamiamola pure così, è molto più efficiente. Breivik, se ho capito bene, è stato abbastanza pazzo da trasferirsi in campagna per qualche anno, onde poter acquistare tutto il fertilizzante esplosivo che gli serviva senza destare sospetti. Quando alla fine ha colpito, non ha tirato alla cieca come i terroristi, a cui basta seminare il terrore.
Breivik aveva un obiettivo molto più preciso, accessibile soltanto in una piccola nazione: ammazzare un intero partito, interrompendone il ricambio generazionale. Così ne ha fatto esplodere la sede della capitale, attirando la polizia lontano dall'isola dove ha decimato con freddezza i futuri quadri del laburismo norvegese. Tutto alla luce del sole, perfettamente spiegato, senza quelle zone d'ombra in cui il terrorismo incuba: Breivik non è un terrorista, è il flagello di Dio. Il sorriso che mostra nelle foto dell'arresto lo leggete come il sorriso di un folle: io ci vedo la soddisfazione per un buon piano eseguito, per un lavoro ben fatto. C'è nella sua "pazzia" un metodo, una lucidità che forse noi sani di mente non possiamo permetterci. Quella che ci impedisce di irrompere con una mitraglietta nella redazione di Feltri, togliendo a lui e ai suoi pards la possibilità di mettere alla prova il proprio coraggio, la propria abnegazione, cos'è? ragionevolezza? O paura, o rassegnazione? Siamo meno pazzi o soltanto più pigri?
Di fronte a uomini lucidi come Breivik, in grado di concepire una missione e sacrificarvi tutta la loro esistenza; individualisti assoluti pronti a bruciare il proprio ego pur di rischiare l'alba di un nuovo Califfato o di un nuovo Sacro Romano Impero, forse la soluzione è: più videogiochi. Sul serio. Nel suo caso evidentemente non ne ha giocati abbastanza: alla lunga è rispuntata la voglia di irrompere nella realtà, realizzandovi le sue fantasie di sterminio e sacrificio. Forse avremo risolto il problema quando ognuno di voi, senza neanche alzarsi dal tavolino, avrà a disposizione la sua realtà simulata in cui uccidere tutti i laburisti e i negri che vuole, trionfare e regnare. Più crociate per tutti, purché virtuali; più target, più missioni, più munizioni, più ministeri in Brianza, più oppio per i popoli dell'Europa dei popoli. Il giorno in cui la fantasia sarà davvero più soddisfacente della realtà, quel giorno forse vi libererete all'estasi dei vostri sogni di purezza e gloria, e ci lascerete in pace a tentare di convivere e sopravvivere in questo mondo imperfetto. Forse a Bossi non abbiamo dato abbastanza Braveheart; forse da qualche parte qualcuno ha già scritto il gioco di ruolo che riuscirà a incatenare per sempre l'inquieto Borghezio, come Merlino nel Lago.
Nel frattempo dobbiamo sopportarvi, ma non è che ci facciate meno schifo di Breivik. Un po' meno paura, forse: e forse abbiamo torto. Perché non sarete lucidi e conseguenti quanto Breivik, ma quando volete sapete uccidere meglio di lui, con più pulizia e senza pagarne le conseguenze. A un simpatico leghista moderato come il ministro Maroni, a quel mattacchione ex-post-fascista sdoganato del ministro La Russa, basta lasciare soltanto due motovedette a pattugliare un largo braccio di mare all'apice dell'emergenza profughi in Libia, e il Canale di Sicilia si riempie in pochi giorni di quelle centinaia di cadaveri di fronte ai quali Breivik perde tutto il suo carisma folle e si rivela per quel che è: un dilettante, che ora andrà in galera. Voi invece restate al governo. Ma non è che mi facciate meno schifo di Breivik, o che dobbiate sembrarmi meno pazzi di lui.
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi.
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giovedì 28 luglio 2011
mercoledì 27 luglio 2011
Caino non dovrebbe morire mai
A ciascuno il suo fiordo
"Guarda, io da giovane ero anche contro la pena di morte, poi però ho cominciato a pensare..."
"Stop".
"Che alla fine la morte..."
"Stop, ti ho detto. Non m'interessa cosa ne pensi adesso".
"Ah no?"
"No. Mi contento di quello che pensavi da giovane".
"Guarda che adesso sono più pietoso. Adesso penso che la morte non sia il castigo peggiore che puoi infliggere a un uomo. Cioè, io se penso a Breivik, io non lo vorrei mai morto. Vorrei che vivesse per sempre, capisci? In una cella foderata di foto delle sue vittime che sorridono, mentre una tv che non si può spegnere gli mostra la Norvegia che diventa sempre più multiculturale. Non sarebbe peggio della morte?"
"Sì, in effetti è l'inferno dantesco. Benvenuto nel Trecento".
"Sempre meglio del duemila norvegese. Uccidi novanta persone e ti danno 21 anni?"
"Trenta. Se riescono a dimostrare che è un crimine contro l'umanità gliene danno trenta".
"Apperò. Se riescono a dimostrare... Eh, sarà dura".
"Guarda, di sicuro non me ne intendo, ma può anche darsi che una bomba e una settantina di omicidi non rientrino nella definizione".
"E comunque trent'anni, eh... Cioè, Hitler se si consegnava ai norvegesi era libero verso il 1975, faceva in tempo a scoprire Nina Hagen".
"Avevamo detto niente riferimenti agli anni Quaranta per un mese".
"Lo so. E il mese è passato".
"Di già? Comunque sono tanti trent'anni, eh. Alla sua età è quasi un ergastolo".
"Appunto, quasi. Io me lo immagino già novantenne in una casetta di legno appollaiata su qualche fiordo, mentre scarica la posta degli ammiratori..."
"Non sarà più la stessa persona".
"E non sarà più la stessa posta, e anche i fiordi chissà se saranno gli stessi; e allora? C'è che questi nordici non sanno più cos'è il male. Niente guerre da sessant'anni..."
"Come noi".
"Niente mafie, niente anni di piombo... Non sono preparati, non sono vaccinati".
"Mentre noi, invece..."
"Noi, guarda, avremo tanti difetti, ma a un tizio così... Strage, banda armata, ottanta omicidi... Uno o due ergastoli non glieli toglieva nessuno, no?"
"Massì anche otto. Come Fioravanti".
"..."
"...che infatti si è fatto più o meno trent'anni di notti in cella. Poi di giorno vabbe', magari era in giro a salvare qualche Caino, ci pensi mai?"
"A cosa dovrei pensare?"
"Che noialtri con le nostre vite dignitose e banali probabilmente non avremo mai salvato la vita di nessuno, mentre chissà quante vite di quanti Caini avrà contribuito a salvare Fioravanti col suo impegno diurno".
"È da un po' che non si sente in giro, comunque".
"Avrà anche lui il diritto di starsene per i fatti suoi, dopo tutto il bene e il male che ha fatto... Sarà anche lui appollaiato da qualche parte a scaricare la sua posta..."
"Ognuno ha i suoi fiordi, insomma".
"Ognuno ha i suoi fiordi".
"Guarda, io da giovane ero anche contro la pena di morte, poi però ho cominciato a pensare..."
"Stop".
"Che alla fine la morte..."
"Stop, ti ho detto. Non m'interessa cosa ne pensi adesso".
"Ah no?"
"No. Mi contento di quello che pensavi da giovane".
"Guarda che adesso sono più pietoso. Adesso penso che la morte non sia il castigo peggiore che puoi infliggere a un uomo. Cioè, io se penso a Breivik, io non lo vorrei mai morto. Vorrei che vivesse per sempre, capisci? In una cella foderata di foto delle sue vittime che sorridono, mentre una tv che non si può spegnere gli mostra la Norvegia che diventa sempre più multiculturale. Non sarebbe peggio della morte?"
"Sì, in effetti è l'inferno dantesco. Benvenuto nel Trecento".
"Sempre meglio del duemila norvegese. Uccidi novanta persone e ti danno 21 anni?"
"Trenta. Se riescono a dimostrare che è un crimine contro l'umanità gliene danno trenta".
"Apperò. Se riescono a dimostrare... Eh, sarà dura".
"Guarda, di sicuro non me ne intendo, ma può anche darsi che una bomba e una settantina di omicidi non rientrino nella definizione".
"E comunque trent'anni, eh... Cioè, Hitler se si consegnava ai norvegesi era libero verso il 1975, faceva in tempo a scoprire Nina Hagen".
"Avevamo detto niente riferimenti agli anni Quaranta per un mese".
"Lo so. E il mese è passato".
"Di già? Comunque sono tanti trent'anni, eh. Alla sua età è quasi un ergastolo".
"Appunto, quasi. Io me lo immagino già novantenne in una casetta di legno appollaiata su qualche fiordo, mentre scarica la posta degli ammiratori..."
"Non sarà più la stessa persona".
"E non sarà più la stessa posta, e anche i fiordi chissà se saranno gli stessi; e allora? C'è che questi nordici non sanno più cos'è il male. Niente guerre da sessant'anni..."
"Come noi".
"Niente mafie, niente anni di piombo... Non sono preparati, non sono vaccinati".
"Mentre noi, invece..."
"Noi, guarda, avremo tanti difetti, ma a un tizio così... Strage, banda armata, ottanta omicidi... Uno o due ergastoli non glieli toglieva nessuno, no?"
"Massì anche otto. Come Fioravanti".
"..."
"...che infatti si è fatto più o meno trent'anni di notti in cella. Poi di giorno vabbe', magari era in giro a salvare qualche Caino, ci pensi mai?"
"A cosa dovrei pensare?"
"Che noialtri con le nostre vite dignitose e banali probabilmente non avremo mai salvato la vita di nessuno, mentre chissà quante vite di quanti Caini avrà contribuito a salvare Fioravanti col suo impegno diurno".
"È da un po' che non si sente in giro, comunque".
"Avrà anche lui il diritto di starsene per i fatti suoi, dopo tutto il bene e il male che ha fatto... Sarà anche lui appollaiato da qualche parte a scaricare la sua posta..."
"Ognuno ha i suoi fiordi, insomma".
"Ognuno ha i suoi fiordi".
lunedì 25 luglio 2011
Il Piccolo Opinionista Nero
La vita non è facile in Italia, quando nasci piccolo e nero. Se poi vuoi fare pure l'opinionista, beh, solidarietà.
Scherzavo. No, nessuna pietà. La leggenda del Piccolo Opinionista Nero è sull'Unita.it, e si commenta ovviamente là. Speriam bene.
C'era una volta, in un Paese di bianchi, un piccolo uomo nero, a cui la sorte non aveva davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione. Ma cosa ci fai con l'astuzia e l'ambizione, se ti ritrovi piccolo e nero in un Paese di bianchi? È una vera ingiustizia, pensava il piccolo uomo: in altri Paesi uno come me potrebbe fare perfino il Presidente. Aveva ragione, tra l'altro.
Scherzavo. No, nessuna pietà. La leggenda del Piccolo Opinionista Nero è sull'Unita.it, e si commenta ovviamente là. Speriam bene.
C'era una volta, in un Paese di bianchi, un piccolo uomo nero, a cui la sorte non aveva davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione. Ma cosa ci fai con l'astuzia e l'ambizione, se ti ritrovi piccolo e nero in un Paese di bianchi? È una vera ingiustizia, pensava il piccolo uomo: in altri Paesi uno come me potrebbe fare perfino il Presidente. Aveva ragione, tra l'altro.
“Usa l'astuzia”, gli diceva il suo demone interiore. “Trasforma la tua debolezza in forza. Tu hai una cosa che i bianchi non hanno, ci hai mai pensato? Tu sei nero”.
“Lo so bene, ed è il motivo per cui mi sputano”.
“Ti sputano perché hanno paura dei neri come te, che sono tantissimi e arrivano da tutte le parti”.
“Ah sì? Non lo sapevo. È orribile!”
“Sì, in effetti non sono proprio tantissimi, e non arrivano proprio da tutte le parti. Però non importa, con la paura non si ragiona. A questo punto arrivi tu”.
“E che ci faccio io?”
“Tu fai il nero buono, il nero che ha studiato, il nero che parla come i bianchi, e li tranquillizzi. Gli spiegherai che i neri sono brava gente, gli racconterai i loro costumi, la loro cultura, la ricchezza dell'Islam”.
“Ma che ne so io, scusa, ho studiato dai salesiani”.
“Vuoi dire che non sei neanche musulmano?”
“Boh”.
“Vabbe', convertiti, insomma, studia, datti da fare. Devi amare un poco i neri per piacere a certi bianchi”.
E il Piccolo Nero si impegnò. Studiò un poco, si mise persino a frequentare le moschee, anche se non è che capisse sempre tutto. Scrisse pagine su pagine, che diventarono libri su libri, in cui spiegava che i neri non erano così cattivi, e quanto fosse difficile fare il nero in un Paese di bianchi, e tutto sommato era sincero. Dai e dai il suo faccino nero e il suo cognome strano cominciarono a comparire sulle pagine dei quotidiani più prestigiosi. Insomma stava filando tutto a gonfie vele, quando accadde che dei neri non proprio tolleranti dirottarono alcuni aerei e abbatterono alcuni grattacieli. Fu un disastro per tutti, e anche per il nostro Piccolo Opinionista Nero.
All'inizio si disse che non sarebbe cambiato niente, anzi, ci sarebbe sempre stato bisogno di una faccia nera sorridente che rassicurava e spiegava ai lettori che non tutti i neri erano cattivi. Però le cose stavano cambiando rapidamente. Ormai in quel Paese i neri erano tanti – non tantissimi in verità, ma si vedevano da lontano, come grani di caffè in una ciotola piena di zucchero. E tanti di questi neri ne sapevano molto più di lui sulla loro cultura e sull'Islam, insomma, non poteva più salire in cattedra impunemente come qualche anno prima. C'erano ancora lettori bianchi che lo stimavano per le cose che aveva scritto in passato, ma ormai i suoi libri li avevano comprati. Invece adesso andavano di moda libri molto diversi, per esempio furoreggiavano le favole di una vecchietta che vedeva neri dappertutto che distruggevano tutte le chiese e i monumenti cristiani. Benché avesse già scritto molti articoli per criticare la vecchietta, il Piccolo Opinionista Nero segretamente la invidiava: lei sì che poteva scrivere qualsiasi puttanata senza fare nessun tipo di ricerca, e il suo bacino di lettori aumentava geometricamente a ogni attentato.
“Non vale, cioè, è troppo facile così! Sarei capace anch'io di scrivere quella robaccia!”
“E perché non lo fai?”, gli chiese il suo demone.
“Ah, rieccoti. Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il buonismo dei tuoi articoli mi annoiava profondamente”.
“Ecco, vedi? Adesso vanno di moda le apocalissi, le lotte di civiltà, di religione, le crociate, tutta quella roba lì”.
“E tu scrivile!”
“Ma non posso! Io sono il nero gentile che scrive di tolleranza, di pace, di multicult...”
“Bla bla bla. Tu sei il piccolo nero a cui nessuno ha mai regalato niente, ricordatelo! E nessuno mai te lo regalerà! Se vuoi il successo, devi prendertelo senza guardare in faccia a nessuno, hai capito? E adesso cos'è, hai paura di una vecchietta? Quanto pensi che durerà? E quando se ne sarà andata, a chi toccherà il suo posto?”
“Non può mica toccare a me, scusa, lei è una crociata e io sono un musulmano”.
“Ah sì, sei un musulmano adesso? Beh, e allora convertiti”.
E fu così che il Piccolo Opinionista Nero si convertì – fu un grande giorno, venne anche il grande capo degli uomini Bianchi in persona, a bagnargli il capo; e per quanto lo chinasse, il Piccolo Opinionista non poté fare a meno di notare che il gran capo non era più alto di lui, né più bello, né più sveglio; era solo nato bianco, tutto qui, che ingiustizia! Ma si poteva rimediare. Ora che era cristiano il Piccolo Opinionista non scorgeva più l'orizzonte delle sue ambizioni. È vero che qualche bianco ancora non si fidava di lui; per ingraziarseli, il Piccolo Op. cominciò a denunciare tutti i neri che aveva conosciuto quando frequentava le moschee: siccome non sempre riusciva a capire cosa dicessero, non c'era il minimo dubbio che stessero complottando contro il Cristianesimo; pianificando di minare qualche sacrestia, avvelenare un battistero, dirottare un campanile... andavano fermati! Il Piccolo Opinionista li fermò. E non si fermò lì. Scrisse libri sulla bellezza del Cristo, che conosceva più o meno come Maometto (poco), e sull'esigenza di difenderlo dai cani infedeli rabbiosi infami, senza fidarsi di chi si riempiva troppo la bocca di paroloni vuoti come Tolleranza Rispetto Multiculturalità Dialogo... 'Non vi fidate, essi mentono! Vogliono soltanto entrare nel vostro giardino, cogliere i fiori che avete coltivato con tanto amore, suggere i vostri frutti, fare quattro tuffi nella vostra piscina, prima di avvelenarla!' così diceva, più o meno, e si stupiva lui stesso di quanto riusciva a essere convincente. Si sentiva persino più sincero di prima; era come se tutta la frustrazione che aveva raccolto nella sua vita si fosse trasformata d'incanto in qualcosa di nobile, di giusto, di puro. E guadagnava un sacco. Cercò anche di entrare in un partito politico, ma gli dissero che era troppo estremista; fu quasi un complimento. Tanto più che in fondo lui non voleva essere secondo a nessuno: così si fondò un partito su misura per lui. Come simbolo prese il crocifisso, tanto non si pagava il copyright. Propose anche di metterlo sulla bandiera, come nei Paesi del Nord: nessuno era già arrivato a tanto! Perché ormai ragionava più bianco dei Bianchi.
E certamente avrebbe potuto vendere libri su libri, superando il record della vecchietta (che nel frattempo aveva lasciato questo mondo), se solo gli islamici avessero continuato a fare attentati con una certa regolarità. E invece c'era questo problema: che da un po' di tempo in qua nicchiavano, non dirottavano più aerei, nemmeno autobombe; per quanto li si bombardasse e invadesse e torturasse, non reagivano quasi più, smidollati! Il Piccolo Opinionista Nero li aveva sempre segretamente disprezzati, ma adesso decisamente li odiava: possibile che non facessero mai, mai quello che ci si aspettava da loro? “Sembra che lo facciano apposta per deludermi”, pensava.
Ma poi finalmente, una sera, da un Paese del Nord arrivò la notizia di un'autobomba e di una sparatoria, e il Piccolo Opinionista Nero si rimproverò di essere stato così ingiusto coi suoi ex-fratelli. Nel giro di mezz'ora aveva già scritto un pezzo trionfante contro la tolleranza, contro l'ideologia del multiculturalismo e il relativismo “che si fonda sulla tesi che per amare il prossimo devi sposare la sua religione e le sue idee”. Lo mandò al giornale e andò a letto presto. Sognò un'elezione, una bandiera crociata, e un popolo biancovestito che lo incoronava Presidente, proprio lui, un piccolo uomo nero! proprio come negli USA...
Al mattino il risveglio fu un po' brusco.
“Incapace”, gli disse il suo demone, “guarda cos'hai combinato!”
“Ah, sei tu! Era da un po' che non ti si vedeva in giro”.
“Il fondamentalismo dei tuoi articoli cominciava a imbarazzarmi, e i fatti non mi hanno certo dato torto. Lo sai chi ha ucciso tutti quei bianchi nordici multiculturali?”
“Non so, i soliti islamici, presumo”.
“Ma non li leggi i giornali?”
“No, li scrivo”.
“Il solito problema. Bene stamattina dicono tutti che è stato un bianco nordico che odia il multiculturalismo e la tolleranza”.
“Oddio! Sono fregato!”
“Piano, piano. Certo, certe pagine del suo memoriale assomigliano veramente molto a uno dei tuoi libri, come si chiama...”
“Quello? Ma è tutta roba copiata dalla vecchietta!”
“Avrà copiato anche lui. Poi è uscito, ha messo due bombe e fucilato un centinaio di ragazzini”.
“E aveva le mie idee! Era uno come me! Stavolta sono fregato davvero!”
“Ehi, piano, piano. Non è uno come te”.
“Come no. Era cristiano, odiava la tolleranza... lo hai detto tu...”
“Sì, però guardati. Lui era alto e biondo. Sei alto tu? Sei biondo?”
“Ma che c'entra, scusa”.
“C'entra, c'entra eccome. Tu sei piccolo. E nero. Non scordartelo mai”.
“Ma mi sono convertito...”
“Non ha nessuna importanza. A certe cose non ci si converte. Se ci fossi stato tu, ferito, su quell'isola, lui non ci avrebbe pensato due volte a darti il colpo di grazia. Anche se tu credi nel suo Dio. Anche se ti comporti come un bianco. Anzi, proprio perché ti comporti così. Capisci?”
“Credo di sì”.
“Più ti sforzi di assomigliare a loro, più ti odiano. Sono nazisti, fondamentalisti, è quel che sono. Vengono a corrompere la nostra società aperta. Bisogna combatterli”.
“Cosa devo fare?”
“Il solito. Convertiti”.
“A cosa?”
“Boh, improvvisa. Il tizio ha massacrato i giovani laburisti. Potresti convertirti al laburismo”.
“Non ho la minima idea di cosa sia”.
“Toh, una novità. E allora studia, aggiornati, su. Prima che vengano a cercarti col fucile”.
“Sì, però che stanchezza”.
“Sei stanco? Stanco di cosa?”
“Ma di dover sempre cambiare religione, cambiare idea, cambiare camicia, quando alla fine è solo la mia faccia che non va. La mia faccia piccola e nera. Non è giusto”.
“Ma sentilo un po', il calimero. Sei stanco di cambiare? Vorresti restare quel che sei adesso? Un nero che ispira gli ammazzaneri?”
“Non so. Vorrei... forse vorrei provare una volta sola a essere semplicemente me stesso”.
“Te stesso? E chi sarebbe, “te stesso”?”
“Buffo, ormai non lo so più”.
“Allora te lo ricordo io: tu non sei mai stato nessuno. Solo un piccolo uomo nero a cui la sorte non ha davvero regalato molto. Solo un briciolo di orgoglio, qualche etto di astuzia e tanta, tantissima ambizione...”
mercoledì 20 luglio 2011
Ok, disperdiamoci
Dieci anni sono un intervallo interessante. Di solito, se è ancora troppo presto per il “com'eravamo stupidi”, è quasi sempre il momento in cui si smette di dire “sembra ieri”. Questo è curioso perché in effetti qualche somiglianza con ieri (le manifestazioni anti-tav, o quelle studentesche dell'autunno scorso) persiste. Eppure non c'è nessuno in giro che osi dire sembra ieri. Genova è già un termine di paragone storico: i suoi protagonisti (Agnoletto, Caruso, Casarini, i vertici della polizia italiana, Scajola, George W. Bush) sono lontani dai riflettori; l'espressione “Movimento di movimenti” nessuno la sente più da anni; il social forum nessuno si ricorda bene cosa fosse; indymedia Italia fa gli accessi di un blog di provincia. A quanto pare l'unico termine che è sopravvissuto nella memoria collettiva è “black bloc”, salvo che ormai vuol dire tutto e niente.
Di fronte a una dissoluzione così spettacolare, il primo istinto è quello di istituire un rapporto di causa-effetto con l'unico aspetto ancora assolutamente attuale dell'esperienza genovese: le mazzate dei poliziotti (quelle sì, potrebbero avercele date ieri o l'altro ieri, più o meno con gli stessi tonfa). L'ho letto da più parti: il movimento a Genova è stato “sconfitto”, ecco perché facciamo persino fatica a ricordarci cosa fosse la Rete di Lilliput o il Genoa Social Forum. Genova insomma sarebbe il migliore esempio di repressione di un movimento, una success story da insegnare a tutte i gendarmi del mondo, che dal Libano alla Spagna sembrano avere un gran bisogno di lezioni. Questo è il messaggio che rischia di passare, anche quando continuiamo a raccontare le nostre ormai decennali esperienze treno-mazzate-treno ad amici e conoscenti che, a questo punto, più che chiederci come ci siamo trovati a Genova dovrebbero chiederci cosa abbiamo fatto dopo. Ci hanno disperso, ci hanno dissuaso, soprattutto ci hanno “mostrato gli strumenti”: non ci hanno ammazzati ma ci hanno fatto capire che era un'opzione, e dopo lo choc iniziale ognuno è tornato alla sua vita; due mesi dopo sono venute giù le torri e il decennio ha preso un binario diverso.
Io ovviamente non sono d'accordo. Trovo questa versione non soltanto ingiusta – Genova non è stata la “fine” di un bel niente – ma anche in un qualche modo consolatoria. Perché se è vero che ci siamo dispersi, non sono state le mazzate a farlo. Ci siamo dispersi da soli, con calma, negli anni successivi. Alle mazzate si può riconoscere viceversa il merito di averci temporaneamente riunito in un qualcosa che il venti luglio 2001 era ancora un cartello di associazioni diverse, con storie diverse e progetti diversi, che addirittura facevano manifestazioni diverse (le maledette “piazze tematiche”) e il ventuno era un Movimento che marciava compatto, battezzato nel sangue di Piazza Alimonda e della Diaz. Da questo punto di vista Genova potrebbe anche essere considerato un inizio di qualcosa, di un “attivismo anni zero” che ha caratteri abbastanza diversi da quelli del decennio precedente.
Ora, proprio perché sono passati dieci anni di manifestazioni, è difficile rendersi conto della differenza, ma Genova non era una manifestazione come la concepiamo oggi, con un obiettivo, delle rivendicazioni precise, un comitato che la promuove, un percorso più o meno negoziato con le autorità ecc. A Genova eravamo arrivati con idee diverse, progetti diversi, e una piattaforma comune che si riduceva a uno slogan: un altro mondo è possibile. A parte questo, non c'era nessuna possibilità che un tesserato Legambiente potesse condividere qualcosa con una Tuta Bianca: se si fossero incontrati, non si sarebbero capiti, ma del resto anche questo era improbabile: dormivano in campeggi diversi, partecipavano a riunioni diverse, manifestavano addirittura in piazze diverse. Fino al diciannove. Il venti abbiamo scoperto che il manganello non faceva nessuna differenza; che le piazze tematiche erano trappole per topi, che nessun distinguo ci salvava dai pestaggi e dalle infiltrazioni. Lì forse abbiamo dato un taglio all'attivismo anni '90 e all'idea che la pluralità sia sempre un valore. Il social forum smise di essere un coordinamento di non-rappresentanti e diventò un movimento; tra l'altro fu uno di quei casi in cui l'insieme si rivelò maggiore della somma algebrica delle parti, perché molte persone che sfilarono il ventuno arrivarono a Genova quel mattino, ignorando gli inviti dei dirigenti dei DS che nella notte avevano ordinato alla Sinistra Giovanile di non salire sui treni e disdire le corriere. Il risultato fu abbastanza spettacolare: il venti c'erano ancora tute bianche, anarcoinsurrezionalisti, cattolici lillipuziani, rifondaroli, attacchini, sindacalisti; il 21 c'era il Forum Sociale. Non era più un modo di dire: esisteva, ed è esistito per parecchio. Nella mia pigra città si fecero riunioni regolari almeno per un paio di anni, e a un certo punto i reduci del G8 erano una minoranza; la maggior parte degli attivisti a Genova non c'era andata, eppure era chiaro a tutti che Genova era stato il punto di partenza. Poi cos'è successo? Tante cose.
Cominciamo da quelle positive. I membri di quel movimento, che oggi sembrano piuttosto inclini all'elegia e alla celebrazione, dieci anni fa non ebbero grossi problemi a riconoscere i loro errori, e ad ammettere che una forza più organizzata aveva giocato con loro come il gatto col topo. La prima cosa che doveva fare il movimento per ottenere una credibilità era marcare la sua differenza coi casseur più o meno nerovestiti, e lo fece. Nel giro di un anno e mezzo riuscì a riposizionarsi: da cartello di facinorosi a movimento pacifico e pacifista. Le tappe di questo percorso furono le marce della pace dell'ottobre 2001 e del maggio successivo; la manifestazione romana anti-wto del novembre 2001 (con il disturbatore Ferrara ad agitare la bandierina israeliana), fino al trionfale forum sociale di Firenze (novembre 2002), quando centinaia di migliaia di attivisti si incaricarono di smentire le profezie vandaliche di Oriana Fallaci. L'undici settembre, e l'immediata invasione dell'Afganistan, lungi dal disperderci diedero più stabilità alla piattaforma comune, ma soprattutto ci fornirono un avversario ideologico (il neoconservatorismo filoamericano) che rese molto più semplici le adunate: non c'era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori 'soft' come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme. Il 2003 fu la consacrazione: non solo con l'invasione dell'Iraq i “noglobal” diventavano definitivamente “no war”, ma il loro attivismo era diventato un elemento stabilizzante per tutta la sinistra: quando Cofferati, all'indomani dell'assassinio Biagi, non annullò il corteo di Roma, ma lo trasformò in un'enorme e composta celebrazione, ricalcava inconsapevolmente su una scala molto diversa quello che avevano fatto Agnoletto & co all'indomani dell'assassinio di Giuliani; ma intanto aveva dietro di sé l'esempio di due anni di manifestazioni composte e pacifiche. Insomma, se si trattasse di un film, uno potrebbe scegliere di mettere i titoli di coda sulle adunate di Firenze e Roma, e sarebbe il migliore lieto fine immaginabile: c'era una volta un movimento fatto di tanti gruppi autoreferenziali, che non si parlavano e non distinguevano infiltrati e utili idioti, e che nel giro di pochi giorni sono cresciuti, sono cambiati, sono diventati un movimento serio con obiettivi precisi (la denuncia delle violenze della polizia, il ritiro dell'Italia dall'Iraq), alcuni li ha persino ottenuti, quindi fine. Ma appunto, non è un film: e quel che viene dopo è meno esaltante. È anche molto più difficile da raccontare. Cos'è successo dal 2004 in poi?
In un certo senso, niente. A invasione dell'Iraq completata, il ritmo delle grandi manifestazioni è rallentato, e ci siamo tutti dati una calmata. Non essendo un movimento generazionale, non ha senso cercare una spiegazione anagrafica; però nella vita di grandi e piccini esistono dei cicli, e forse chi aveva vissuto l'estate terribile ed entusiasmante del 2001 dopo tre anni era semplicemente stanco. Io per esempio cominciai a sentire una certa insofferenza quando mi resi conto che non c'era ricambio: tre anni dopo eravamo sempre gli stessi, ora si trattava di incrostarci e sopravvivere in attesa di confluire nella successiva ondata, nel successivo movimento di movimenti. Nel frattempo ci furono le amministrative e nella mia pigra città i noglobal arrivarono in Consiglio, addirittura in Giunta, e quello forse fu un altro segno della fine. Più in generale, dopo aver lottato contro la globalizzazione, contro la criminalizzazione e la repressione e contro la guerra, si trattava di passare alla fase propositiva, ma per questo passaggio non eravamo pronti, ammesso che un movimento lo sia. Molte idee sfoggiate a Firenze alla prova dei fatti mostravano la loro scarsa consistenza: mi viene in mente l'esempio del Bilancio Partecipativo: quando ci mettemmo a studiare da vicino la rivoluzionaria proposta della municipalità di Porto Alegre, ci accorgemmo che poteva essere rivoluzionaria, sì, per una cittadinanza analfabeta, e che i bilanci delle nostre amministrazioni comunali o circoscrizionali erano già altrettanto aperti senza nessuna rivoluzione. Andò un po' meglio con la Tobin Tax, perlomeno se ne parla ancora come di qualcosa di serio. Per il resto, continuavano a esserci milioni di buoni motivi per dire di no: no al Tav, no alla Del Molin, no al rifinanziamento delle missioni italiane, no ai periodici sgomberi... ma a quel punto eravamo più o meno tornati al pre-Genova, alle piazze tematiche e un po' autoreferenziali. Poi, se uno vuole, nella vittoria del sì all'ultimo referendum può anche verderci un colpo di coda dei noglobal seguaci di Zanotelli (ma anche dei verdi antinucleari anni'80: in fondo se smettiamo per un attimo di mettere a fuoco le etichette ci rendiamo conto che c'è gente che manifesta da vent'anni per lo stesse cose, anche se - comprensibilmente - ogni tanto cambia berretto).
Insomma è andata così. Poteva andare meglio. Però che sia chiaro: non è stata colpa delle mazzate, anzi. Finché ci sono state mazzate, c'è stata unità di intenti, prontezza di riflessi, determinazione a reagire. Qui mi fermo, perché il passo successivo è lamentarsi che abbiano smesso di darcene, e chiederne altre. E invece no: quello che ci è mancato è la concentrazione e la determinazione per passare al passo successivo, dal movimentismo alla politica. E un'altra cosa che ci è mancata – ma qui partiranno i fischi – sono stati i leader. Per forza, il movimento era antileaderistico e acefalo per sua costituzione. Però un movimento si riconosce anche dai personaggi che riesce a formare e selezionare, e qui sta la nostra vera sconfitta. Non abbiamo creato nessuna classe dirigente; quei pochi leader che avevamo li abbiamo presi in prestito dai centri sociali o dai cobas o dalla LILA. Non ne abbiamo creati di nuovi, e sì che a un certo punto sembrava che nelle nostre file militassero gli intellettuali, gli economisti, i giuristi, i mediattivisti più aggiornati (per quanto farraginosa e caotica, indymedia nel 2001 era lo stato dell'Arte dell'informazione on line). Da tutta questa fucina di talenti non è uscito quasi niente: giusto qualche romanzo, qualche pezzo celebrativo ogni estate verso il venti luglio, tutto qui.
Di fronte a una dissoluzione così spettacolare, il primo istinto è quello di istituire un rapporto di causa-effetto con l'unico aspetto ancora assolutamente attuale dell'esperienza genovese: le mazzate dei poliziotti (quelle sì, potrebbero avercele date ieri o l'altro ieri, più o meno con gli stessi tonfa). L'ho letto da più parti: il movimento a Genova è stato “sconfitto”, ecco perché facciamo persino fatica a ricordarci cosa fosse la Rete di Lilliput o il Genoa Social Forum. Genova insomma sarebbe il migliore esempio di repressione di un movimento, una success story da insegnare a tutte i gendarmi del mondo, che dal Libano alla Spagna sembrano avere un gran bisogno di lezioni. Questo è il messaggio che rischia di passare, anche quando continuiamo a raccontare le nostre ormai decennali esperienze treno-mazzate-treno ad amici e conoscenti che, a questo punto, più che chiederci come ci siamo trovati a Genova dovrebbero chiederci cosa abbiamo fatto dopo. Ci hanno disperso, ci hanno dissuaso, soprattutto ci hanno “mostrato gli strumenti”: non ci hanno ammazzati ma ci hanno fatto capire che era un'opzione, e dopo lo choc iniziale ognuno è tornato alla sua vita; due mesi dopo sono venute giù le torri e il decennio ha preso un binario diverso.
Io ovviamente non sono d'accordo. Trovo questa versione non soltanto ingiusta – Genova non è stata la “fine” di un bel niente – ma anche in un qualche modo consolatoria. Perché se è vero che ci siamo dispersi, non sono state le mazzate a farlo. Ci siamo dispersi da soli, con calma, negli anni successivi. Alle mazzate si può riconoscere viceversa il merito di averci temporaneamente riunito in un qualcosa che il venti luglio 2001 era ancora un cartello di associazioni diverse, con storie diverse e progetti diversi, che addirittura facevano manifestazioni diverse (le maledette “piazze tematiche”) e il ventuno era un Movimento che marciava compatto, battezzato nel sangue di Piazza Alimonda e della Diaz. Da questo punto di vista Genova potrebbe anche essere considerato un inizio di qualcosa, di un “attivismo anni zero” che ha caratteri abbastanza diversi da quelli del decennio precedente.
Ora, proprio perché sono passati dieci anni di manifestazioni, è difficile rendersi conto della differenza, ma Genova non era una manifestazione come la concepiamo oggi, con un obiettivo, delle rivendicazioni precise, un comitato che la promuove, un percorso più o meno negoziato con le autorità ecc. A Genova eravamo arrivati con idee diverse, progetti diversi, e una piattaforma comune che si riduceva a uno slogan: un altro mondo è possibile. A parte questo, non c'era nessuna possibilità che un tesserato Legambiente potesse condividere qualcosa con una Tuta Bianca: se si fossero incontrati, non si sarebbero capiti, ma del resto anche questo era improbabile: dormivano in campeggi diversi, partecipavano a riunioni diverse, manifestavano addirittura in piazze diverse. Fino al diciannove. Il venti abbiamo scoperto che il manganello non faceva nessuna differenza; che le piazze tematiche erano trappole per topi, che nessun distinguo ci salvava dai pestaggi e dalle infiltrazioni. Lì forse abbiamo dato un taglio all'attivismo anni '90 e all'idea che la pluralità sia sempre un valore. Il social forum smise di essere un coordinamento di non-rappresentanti e diventò un movimento; tra l'altro fu uno di quei casi in cui l'insieme si rivelò maggiore della somma algebrica delle parti, perché molte persone che sfilarono il ventuno arrivarono a Genova quel mattino, ignorando gli inviti dei dirigenti dei DS che nella notte avevano ordinato alla Sinistra Giovanile di non salire sui treni e disdire le corriere. Il risultato fu abbastanza spettacolare: il venti c'erano ancora tute bianche, anarcoinsurrezionalisti, cattolici lillipuziani, rifondaroli, attacchini, sindacalisti; il 21 c'era il Forum Sociale. Non era più un modo di dire: esisteva, ed è esistito per parecchio. Nella mia pigra città si fecero riunioni regolari almeno per un paio di anni, e a un certo punto i reduci del G8 erano una minoranza; la maggior parte degli attivisti a Genova non c'era andata, eppure era chiaro a tutti che Genova era stato il punto di partenza. Poi cos'è successo? Tante cose.
Cominciamo da quelle positive. I membri di quel movimento, che oggi sembrano piuttosto inclini all'elegia e alla celebrazione, dieci anni fa non ebbero grossi problemi a riconoscere i loro errori, e ad ammettere che una forza più organizzata aveva giocato con loro come il gatto col topo. La prima cosa che doveva fare il movimento per ottenere una credibilità era marcare la sua differenza coi casseur più o meno nerovestiti, e lo fece. Nel giro di un anno e mezzo riuscì a riposizionarsi: da cartello di facinorosi a movimento pacifico e pacifista. Le tappe di questo percorso furono le marce della pace dell'ottobre 2001 e del maggio successivo; la manifestazione romana anti-wto del novembre 2001 (con il disturbatore Ferrara ad agitare la bandierina israeliana), fino al trionfale forum sociale di Firenze (novembre 2002), quando centinaia di migliaia di attivisti si incaricarono di smentire le profezie vandaliche di Oriana Fallaci. L'undici settembre, e l'immediata invasione dell'Afganistan, lungi dal disperderci diedero più stabilità alla piattaforma comune, ma soprattutto ci fornirono un avversario ideologico (il neoconservatorismo filoamericano) che rese molto più semplici le adunate: non c'era più bisogno di spiegare che mondo possibile si desiderava; bastava essere contro il mondo dei neocon: la guerra infinita, uno scenario molto più concreto del Wto o degli immaginosi imperi toninegriani. Da questo punto di vista, provocatori 'soft' come Ferrara o la Fallaci ci resero un servizio enorme. Il 2003 fu la consacrazione: non solo con l'invasione dell'Iraq i “noglobal” diventavano definitivamente “no war”, ma il loro attivismo era diventato un elemento stabilizzante per tutta la sinistra: quando Cofferati, all'indomani dell'assassinio Biagi, non annullò il corteo di Roma, ma lo trasformò in un'enorme e composta celebrazione, ricalcava inconsapevolmente su una scala molto diversa quello che avevano fatto Agnoletto & co all'indomani dell'assassinio di Giuliani; ma intanto aveva dietro di sé l'esempio di due anni di manifestazioni composte e pacifiche. Insomma, se si trattasse di un film, uno potrebbe scegliere di mettere i titoli di coda sulle adunate di Firenze e Roma, e sarebbe il migliore lieto fine immaginabile: c'era una volta un movimento fatto di tanti gruppi autoreferenziali, che non si parlavano e non distinguevano infiltrati e utili idioti, e che nel giro di pochi giorni sono cresciuti, sono cambiati, sono diventati un movimento serio con obiettivi precisi (la denuncia delle violenze della polizia, il ritiro dell'Italia dall'Iraq), alcuni li ha persino ottenuti, quindi fine. Ma appunto, non è un film: e quel che viene dopo è meno esaltante. È anche molto più difficile da raccontare. Cos'è successo dal 2004 in poi?
In un certo senso, niente. A invasione dell'Iraq completata, il ritmo delle grandi manifestazioni è rallentato, e ci siamo tutti dati una calmata. Non essendo un movimento generazionale, non ha senso cercare una spiegazione anagrafica; però nella vita di grandi e piccini esistono dei cicli, e forse chi aveva vissuto l'estate terribile ed entusiasmante del 2001 dopo tre anni era semplicemente stanco. Io per esempio cominciai a sentire una certa insofferenza quando mi resi conto che non c'era ricambio: tre anni dopo eravamo sempre gli stessi, ora si trattava di incrostarci e sopravvivere in attesa di confluire nella successiva ondata, nel successivo movimento di movimenti. Nel frattempo ci furono le amministrative e nella mia pigra città i noglobal arrivarono in Consiglio, addirittura in Giunta, e quello forse fu un altro segno della fine. Più in generale, dopo aver lottato contro la globalizzazione, contro la criminalizzazione e la repressione e contro la guerra, si trattava di passare alla fase propositiva, ma per questo passaggio non eravamo pronti, ammesso che un movimento lo sia. Molte idee sfoggiate a Firenze alla prova dei fatti mostravano la loro scarsa consistenza: mi viene in mente l'esempio del Bilancio Partecipativo: quando ci mettemmo a studiare da vicino la rivoluzionaria proposta della municipalità di Porto Alegre, ci accorgemmo che poteva essere rivoluzionaria, sì, per una cittadinanza analfabeta, e che i bilanci delle nostre amministrazioni comunali o circoscrizionali erano già altrettanto aperti senza nessuna rivoluzione. Andò un po' meglio con la Tobin Tax, perlomeno se ne parla ancora come di qualcosa di serio. Per il resto, continuavano a esserci milioni di buoni motivi per dire di no: no al Tav, no alla Del Molin, no al rifinanziamento delle missioni italiane, no ai periodici sgomberi... ma a quel punto eravamo più o meno tornati al pre-Genova, alle piazze tematiche e un po' autoreferenziali. Poi, se uno vuole, nella vittoria del sì all'ultimo referendum può anche verderci un colpo di coda dei noglobal seguaci di Zanotelli (ma anche dei verdi antinucleari anni'80: in fondo se smettiamo per un attimo di mettere a fuoco le etichette ci rendiamo conto che c'è gente che manifesta da vent'anni per lo stesse cose, anche se - comprensibilmente - ogni tanto cambia berretto).
Insomma è andata così. Poteva andare meglio. Però che sia chiaro: non è stata colpa delle mazzate, anzi. Finché ci sono state mazzate, c'è stata unità di intenti, prontezza di riflessi, determinazione a reagire. Qui mi fermo, perché il passo successivo è lamentarsi che abbiano smesso di darcene, e chiederne altre. E invece no: quello che ci è mancato è la concentrazione e la determinazione per passare al passo successivo, dal movimentismo alla politica. E un'altra cosa che ci è mancata – ma qui partiranno i fischi – sono stati i leader. Per forza, il movimento era antileaderistico e acefalo per sua costituzione. Però un movimento si riconosce anche dai personaggi che riesce a formare e selezionare, e qui sta la nostra vera sconfitta. Non abbiamo creato nessuna classe dirigente; quei pochi leader che avevamo li abbiamo presi in prestito dai centri sociali o dai cobas o dalla LILA. Non ne abbiamo creati di nuovi, e sì che a un certo punto sembrava che nelle nostre file militassero gli intellettuali, gli economisti, i giuristi, i mediattivisti più aggiornati (per quanto farraginosa e caotica, indymedia nel 2001 era lo stato dell'Arte dell'informazione on line). Da tutta questa fucina di talenti non è uscito quasi niente: giusto qualche romanzo, qualche pezzo celebrativo ogni estate verso il venti luglio, tutto qui.
lunedì 18 luglio 2011
Un popolo di eroi
Siamo noi, ovviamente, gli eroi che salveranno la baracca anche stavolta. Fosse la volta buona, almeno (H1t#82 sull'unita.it, si commenta laggiù).
Ho trovato questo messaggio, che volentieri pubblico:
“Buongiorno, Presidente. Chi le scrive non ha nessuna importanza. Diciamo che sono uno dei milioni di contribuenti onesti di questo Paese.
Uno di quelli che lavora – finché lavoro ce n'è – senza lamentarsi troppo, e non evade le tasse, perché non può, o magari non vuole: pensi che c'è gente che paga ancora persino il canone Rai; ecco, io sono tra questi. Non creda che io lo faccia perché mi piace la Rai. Non so nemmeno io più perché lo faccio. Forse perché quando si è eroi, bisogna esserlo fino in fondo, e Presidente, in questi giorni ho finalmente compreso questa semplice verità: io sono un eroe. Sono il cavaliere senza macchia e senza paura che anche stavolta salverà l'Italia, salverà la moneta unica europea, salverà la faccia ai miei rappresentanti: sono io.
Pagherò tutto io, per gli anni di vacche grasse che ho visto molto da lontano; pagherò ticket e superbolli mentre metto da parte per le vacche magre che invece all'orizzonte si distinguono già benissimo; ma non importa, tanto ci penso io. Sono il nuovo Robin Hood che ruba a sé stesso per dare ai poveri, ma anche ai ricchi che hanno paura di rimetterci qualcosina del loro; senza dimenticare una mancia generosa per lo sceriffo di Nottingham che senza di me non saprebbe dove sbattere la testa. Faccio tutto io, come mio padre vent'anni fa, come suo nonno che si cavò il sangue con la quota novanta. Come vede vengo da una stirpe di eroi. Tutti ignoti, come me.
Pagherò tutto io, per gli anni di vacche grasse che ho visto molto da lontano; pagherò ticket e superbolli mentre metto da parte per le vacche magre che invece all'orizzonte si distinguono già benissimo; ma non importa, tanto ci penso io. Sono il nuovo Robin Hood che ruba a sé stesso per dare ai poveri, ma anche ai ricchi che hanno paura di rimetterci qualcosina del loro; senza dimenticare una mancia generosa per lo sceriffo di Nottingham che senza di me non saprebbe dove sbattere la testa. Faccio tutto io, come mio padre vent'anni fa, come suo nonno che si cavò il sangue con la quota novanta. Come vede vengo da una stirpe di eroi. Tutti ignoti, come me.
In cambio non chiedo certo un monumento. L'unica cosa che pretendo, Presidente, è che tra dieci, tra vent'anni, a mio figlio non sia chiesto lo stesso sacrificio. A lui almeno vorrei fosse concesso il diritto di scegliere, se essere eroe o vivere una vita normale in un Paese non più sull'orlo del baratro. Ma affinché questo succeda, Presidente, occorre che Lei e i suoi uomini si levino di mezzo. Mi spiace, perché Lei mi sembra una brava persona e onesta; ma il sistema politico che rappresenta è marcio alle radici, e probabilmente lo sa. Come sa che noi eroi ignoti non sopporteremo un solo giorno di più lo spettacolo dei privilegi di cui gode la casta dei governanti che ha portato il Paese allo sfascio.
Sciolga le camere, Presidente, indica le elezioni, e lasci che noi eroi ignoti completiamo l'opera – abbiamo salvato il bilancio, salveremo anche la democrazia, se merita d'essere salvata. Ma bisogna farla finita con la politica, con questa politica. Non abbia paura del caos: qualsiasi caos è preferibile agli uomini che ci hanno portato a questo ennesimo disastro. Chiunque verrà dopo di loro, non potrà che essere migliore – persino quell'Umberto Bossi, con quel piglio barbarico, se andasse al potere non potrebbe che fare del bene. Certo, taglierebbe molti uffici inutili, molti enti assurdi, molte teste; tanto meglio. Ma ancora meglio di lui potrebbe fare un imprenditore, uno dei pochi che dal niente è riuscito a mettere insieme un solido impero economico: uno come il cavaliere Silvio Berlusconi, insomma, il fondatore della Fininvest. Se solo accettasse di candidarsi...”
(Fax trovato in una bottiglia al largo di Marina di Ravenna, domenica 17 luglio. Anche se manca la data, tutto lascia supporre che sia stato scritto 19 anni fa, nell'autunno del 1992, mentre il governo presieduto da Giuliano Amato fronteggiava la svalutazione della lira varando la finanziaria “lacrime e sangue” da 93.000 miliardi di lire. Onore all'eroe ignoto, a tutti gli eroi ignoti. Ma beati anche i Paesi che sanno farne a meno). http://leonardo.blogspot.com
venerdì 15 luglio 2011
Perché ho scelto Scienze Inutili
La stanzetta della principessa.
Non capita molto spesso ultimamente che una cosa che leggo on line mi faccia pensare parecchio, e quando succede di solito è dello Scorfano. Eppure questo pezzo non dovrebbe fare altro che confermare le mie non originalissime tesi sul sistema educativo superiore italiano. Io sono infatti tra quelli che credono che in Italia si continui a dare troppa importanza ai licei, e soprattutto ai licei classici; che il motivo per cui continuiamo a tenerli aperti e iscriverci i figli abbia più a che fare con un problema di status che con una reale esigenza del mondo del lavoro (ma anche del mondo tout court: nessuno ha bisogno di così tanti latinisti); che questa inerzia culturale ci consegna non solo un enorme bacino di umanisti sottopagati, ma una generale sottovalutazione delle competenze tecniche e scientifiche. E bla e bla e bla, ne abbiamo parlato centinaia di volte.
E quindi lo Scorfano, che insegna in un liceo e non credo condivida la mia tesi, cosa fa? Mi mostra un laureato in lettere col massimo dei voti che stacca biglietti al cinema. Perfetto, no? Il guaio è che in lettere mi ci sono laureato anch'io, ovviamente col massimo dei voti (esistono altri voti oltre al massimo? Se non hai un centodieci quella pergamena non la vai nemmeno a ritirare), e se dopo la laurea non ho staccato biglietti, mi sono capitate anche mansioni più umilianti. Quindi, insomma, si parla di me? Do la colpa alla società per gli errori che io ho commesso? La mia rabbia contro il sistema della scuola media superiore italiana nasce dalla frustrazione di essere diventato quello che sono diventato? Ma io non me la passo così male, in realtà. Ho una cattedra, già da alcuni anni: con quello che succede in questi giorni sono abbastanza contento che Tremonti non me l'abbia ancora portata via, e il giorno che capiterà non sarà una tragedia; nel frattempo ho avuto diverse esperienze lavorative, sono riuscito a portare a termine un dottorato di ricerca e ho persino pubblicato una lunghissima tesi; ho messo su famiglia; e poi che altro c'è? Ah già, tengo un blog che mi dà qualche soddisfazione. Tutto sommato la tana che mi sono scavato in questi anni universalmente grami non mi sembra da disprezzare: anche se sospetto di avere avuto, rispetto ad altri coetanei laureati in lettere, diverse botte di puro culo (e il tempismo di laurearmi in tempo per l'ultimo oceanico concorsone: quello ha fatto la differenza, molto più di tutto quello che posso aver studiato o capito prima o dopo).
Dunque, a questo punto della mia non eccezionale ma nemmeno catastrofica parabola professionale, se vedo un neolaureato in lettere che si lamenta perché non riesce a trovare un lavoro in cui esprimere le sue competenze, cosa gli devo dire? La prima cosa è esattamente quella venuta in mente allo Scorfano, e cioè: Lo sapevi. Lo sapevi benissimo. Te l'avevano detto i genitori, i compagni, perfino gli insegnanti. Perlomeno, a me l'avevano detto davvero tutti: Vai a lettere? Vai a studiare da disoccupato. Punto. La scuola è un brutto mondo e comunque fuori c'è la fila; l'editoria è un miraggio; il giornalismo si impara da un'altra parte. Questi discorsi li abbiamo ascoltati cento, mille volte, eppure ci siamo iscritti a Lettere lo stesso. Cosa c'era di sbagliato in noi? Per prima cosa, avevamo diciott'anni. Ma questo ci scusa fino a un certo punto. A diciott'anni cos'è che non dovremmo sapere? Non sappiamo che dovremo affrancarci dai genitori, metter su famiglia, casa, proteggere i nostri cari da imprevisti, malattie e vecchiaia? In un qualche modo no, non lo sappiamo, altrimenti non ci iscriveremmo a Lettere, che se uno non è ricco di famiglia è oggettivamente una scelta dissennata. Del resto nei centri operosi era la scuola delle signorine di buona famiglia. E noi studenti di Lettere, in fondo, sotto sotto siamo tutti così: signorine di buona famiglia, di cui tutti lodano l'impegno, ma che nessuno si aspetta debbano rendersi utili: al massimo è lodevole che si trovino un modo elegante per occupare il tempo. Ecco, se volete una risposta all'eterna domanda: Perché nelle facoltà di lettere non si nega un trenta a nessuno?, la mia risposta è: ma vuoi negare un trenta a una gentile signorina di buona famiglia che si vede che s'impegna molto, e che comunque non arrecherà alcun danno a chicchessia? Devi essere una belva senza cuore (invece, il più delle volte, dall'altra parte della cattedra c'è una versione precedente, un po' inacidita, della stessa signorina).
Qui secondo me c'è un problema. Forse è il liceo classico. Forse no. Ma insomma se ogni anno migliaia di studenti maturi in tutta Italia fanno questa scelta oggettivamente dissennata, da qualche parte nella loro formazione è mancata una lezione di vita. Una cosa banalissima, secondo me basterebbe anche una mezza giornata, quel classico momento in cui per esempio ti telefona una tizia con cui esci che ha un ritardo e non sa bene cosa fare. Tu ti siedi un attimo a fare due conti e ti rendi conto che almeno in senso tecnico sei già un adulto, che non puoi più scegliere gli indirizzi di studio come si scelgono i film al cinema, che puoi anche laurearti in lettere classiche se ti piacciono tanto, ma probabilmente non ti potrai permettere la villetta suburbana col giardino per il cane e la mansarda per i giochi dei bimbi. Perché tantissimi diciottenni, soprattutto (ma non solo) al liceo, non si siedono brevemente a fare questo ragionamento? Non potrebbe trattarsi di una lacuna nella loro formazione?
Ho ripensato a quel me stesso spensierato che aveva davvero tutta la vita davanti, che poteva provare a diventare un medico o un magistrato e invece s'iscrisse a Lettere. Cosa gli frullava nel cervellino, pure già molto ben coltivato? Non c'era nessuno che poteva dargli buoni consigli? Ho pensato a tutte le persone sagge che conoscevo – che mi apparivano sagge in quel momento, al liceo e fuori. E forse ho capito una cosa. Io non sono cresciuto in un contesto competitivo. Io sono cresciuto in un contesto che faceva tutto il possibile per proteggermi dalla competizione. È vero che persino i nostri prof ci mettevano in guardia dalla facoltà-fucina di disoccupati. Ma lo facevano con una certa dose di ironia, che era poi la vera lezione che ho trattenuto. Cioè, è vero che rischiavamo di finire sulla strada, ma c'era poi qualcosa di male nel finire sulla strada? Gli anni Ottanta erano finiti da un pezzo, c'era la crisi e Amato doveva rastrellare novantaduemilamiliardi di lire per salvare l'euro che ancora non esisteva e già rompeva i coglioni eppure no, non c'era nulla di male a immaginarsi un futuro da dropout. L'importante era essere ricchi dentro.
Cosa significhi essere ricchi dentro credo che lo spieghi meglio di tutti Niccolò Machiavelli in una lettera che è antologizzata in tutti i manuali di letteratura del liceo, quella in cui racconta il suo ingaglioffirsi in un borgo dov'era finito durante un temporaneo rovescio di fortuna, i pomeriggi passati a bere e a giocare le carte eccetera; poi però la sera entrava nel suo studio, e lì tornava un ricco, un sapiente, a suo modo un nobile, che dialogava coi grandi della letteratura e coi potenti della terra, trattandoli da pari. Ecco: invece di attirare la mia pigra attenzione sul fatto che un giorno avrei dovuto mantenere un nucleo famigliare; che un giorno soltanto il mio reddito mi avrebbe difeso dalla miseria e dalla morte; invece di contagiarmi quell'ansia calvinista che ti porta a studiare giorno e notte anche una cosa che non ti piace, o a costruire computer nei garage, al liceo mi insegnarono che non importa quanto mi sarei ingaglioffito di giorno: se studiavo i classici, ci sarebbe sempre stata una stanzetta in cui avrei potuto essere grande, essere nobile, trattare i grandi personaggi alla pari. Se studiavo i classici.
mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E credo che sia stata quella stanzetta a fare la differenza, almeno nel mio caso. Se avessi studiato legge, avrei potuto condannare un innocente. Se avessi studiato medicina, avrei potuto ammazzare un sano. Ma studiando lettere non avrei mai ammazzato Pirandello; non solo, ma potevo immaginare di essere il suo più grande amico, e certo lui non avrebbe potuto protestare. La stanzetta non è che te la regalavano: dovevi studiare sodo, e io credo di averlo fatto. Ma non quanto deve studiare un veterinario o un architetto. Tanto non dovrò mai curare un cavallo, né disegnare un edificio che resti in piedi. Devo soltanto portare pazienza tutti i giorni, con quell'ironia che è la prima e l'ultima cosa che mi hanno insegnato al liceo, mentre assolvo le incombenze quotidiane che mi assicurano il pane, in attesa di entrare in quella stanzetta dove finalmente sono a tu per tu con Dostoevskij e Fenoglio (peggio per me se preferisco perder tempo con Facci e Merlo), e non c'è più spazio per temere le povertà, o sbigottirmi della morte.
La stanzetta è l'immunità a qualsiasi fallimento che la vita ti riserva, una specie di patto col diavolo: se tu hai paura di non farcela nella vita, ti iscrivi a Lettere e a diciannove anni sei già un perfetto fallito. Da lì in poi puoi solo fare progressi e apprezzarli, come è successo a me.
La stanzetta non è una metafora, esiste davvero. La prima che ho avuto era così piccola che un letto e una scrivania non ci stavano, bisognava scegliere, e io scelsi di dormire sul divano. La seconda era una mansarda, in cui ho ammazzato centinaia di zanzare mentre traducevo libri di cose che non conoscevo, e ogni tanto mi sentivo con David Foster Wallace. Tante volte poi, passando davanti alla mia stessa casa, guardavo in alto e pensavo questo molto strano pensiero: “io sono lì”. La terza è quella dove sto scrivendo adesso. Ma in un certo senso la stanzetta è questo stesso blog. È il posto dove io posso discutere di massimi sistemi senza pudore; posso criticare film o libri o musiche come se ne fossi un esperto, e poi nei commenti la gente dice sei un frustrato. Sono un frustrato? Può darsi, ma la mia è la stessa frustrazione di Niccolò Machiavelli, soffrirla è un onore.
Tutto questo per arrivare a dire che io, se incontrassi come lo Scorfano un neolaureato bigliettaio che si lamenta perché il mercato del lavoro non ha bisogno di lui, dopo qualche minuto di riflessione, gli direi: guarda che ti sei sbagliato. Tu non hai fatto Lettere per trovare un buon lavoro a scuola o nell'editoria. Tu hai fatto Lettere perché è quel corso di studi che dovrebbe farti sentire ricco, ricco dentro, anche se nella vita di tutti i giorni fai il bigliettaio. Dovresti staccare i biglietti spensierato, pensando ad Alceo o Arbasino. E se non hai capito questa cosa, vuol dire che non hai capito nemmeno la prima satira del primo libro delle satire di Orazio; figurati le altre.
Poi scapperei, perché una risposta così altera si merita gli schiaffi. Ma insomma noi nobili italiani, noi principesse di buona famiglia, siamo così. Non c'interessa nulla di quanto ci fruttino i latifondi o i btp: l'estratto conto lo degniamo di uno sguardo distratto, e torniamo nella stanzetta a chiacchierare con Franzen. Il mondo sarà anche pieno di gente più ricca, più elegante, più sana di noi, ma in un qualche modo dalla nostra stanzetta riusciamo a guardarli tutti dall'alto, e nessun destino ci sembra valga veramente il nostro. Siamo fatti così.
Siamo fatti male? Siamo fatti male.
Non capita molto spesso ultimamente che una cosa che leggo on line mi faccia pensare parecchio, e quando succede di solito è dello Scorfano. Eppure questo pezzo non dovrebbe fare altro che confermare le mie non originalissime tesi sul sistema educativo superiore italiano. Io sono infatti tra quelli che credono che in Italia si continui a dare troppa importanza ai licei, e soprattutto ai licei classici; che il motivo per cui continuiamo a tenerli aperti e iscriverci i figli abbia più a che fare con un problema di status che con una reale esigenza del mondo del lavoro (ma anche del mondo tout court: nessuno ha bisogno di così tanti latinisti); che questa inerzia culturale ci consegna non solo un enorme bacino di umanisti sottopagati, ma una generale sottovalutazione delle competenze tecniche e scientifiche. E bla e bla e bla, ne abbiamo parlato centinaia di volte.
E quindi lo Scorfano, che insegna in un liceo e non credo condivida la mia tesi, cosa fa? Mi mostra un laureato in lettere col massimo dei voti che stacca biglietti al cinema. Perfetto, no? Il guaio è che in lettere mi ci sono laureato anch'io, ovviamente col massimo dei voti (esistono altri voti oltre al massimo? Se non hai un centodieci quella pergamena non la vai nemmeno a ritirare), e se dopo la laurea non ho staccato biglietti, mi sono capitate anche mansioni più umilianti. Quindi, insomma, si parla di me? Do la colpa alla società per gli errori che io ho commesso? La mia rabbia contro il sistema della scuola media superiore italiana nasce dalla frustrazione di essere diventato quello che sono diventato? Ma io non me la passo così male, in realtà. Ho una cattedra, già da alcuni anni: con quello che succede in questi giorni sono abbastanza contento che Tremonti non me l'abbia ancora portata via, e il giorno che capiterà non sarà una tragedia; nel frattempo ho avuto diverse esperienze lavorative, sono riuscito a portare a termine un dottorato di ricerca e ho persino pubblicato una lunghissima tesi; ho messo su famiglia; e poi che altro c'è? Ah già, tengo un blog che mi dà qualche soddisfazione. Tutto sommato la tana che mi sono scavato in questi anni universalmente grami non mi sembra da disprezzare: anche se sospetto di avere avuto, rispetto ad altri coetanei laureati in lettere, diverse botte di puro culo (e il tempismo di laurearmi in tempo per l'ultimo oceanico concorsone: quello ha fatto la differenza, molto più di tutto quello che posso aver studiato o capito prima o dopo).
Dunque, a questo punto della mia non eccezionale ma nemmeno catastrofica parabola professionale, se vedo un neolaureato in lettere che si lamenta perché non riesce a trovare un lavoro in cui esprimere le sue competenze, cosa gli devo dire? La prima cosa è esattamente quella venuta in mente allo Scorfano, e cioè: Lo sapevi. Lo sapevi benissimo. Te l'avevano detto i genitori, i compagni, perfino gli insegnanti. Perlomeno, a me l'avevano detto davvero tutti: Vai a lettere? Vai a studiare da disoccupato. Punto. La scuola è un brutto mondo e comunque fuori c'è la fila; l'editoria è un miraggio; il giornalismo si impara da un'altra parte. Questi discorsi li abbiamo ascoltati cento, mille volte, eppure ci siamo iscritti a Lettere lo stesso. Cosa c'era di sbagliato in noi? Per prima cosa, avevamo diciott'anni. Ma questo ci scusa fino a un certo punto. A diciott'anni cos'è che non dovremmo sapere? Non sappiamo che dovremo affrancarci dai genitori, metter su famiglia, casa, proteggere i nostri cari da imprevisti, malattie e vecchiaia? In un qualche modo no, non lo sappiamo, altrimenti non ci iscriveremmo a Lettere, che se uno non è ricco di famiglia è oggettivamente una scelta dissennata. Del resto nei centri operosi era la scuola delle signorine di buona famiglia. E noi studenti di Lettere, in fondo, sotto sotto siamo tutti così: signorine di buona famiglia, di cui tutti lodano l'impegno, ma che nessuno si aspetta debbano rendersi utili: al massimo è lodevole che si trovino un modo elegante per occupare il tempo. Ecco, se volete una risposta all'eterna domanda: Perché nelle facoltà di lettere non si nega un trenta a nessuno?, la mia risposta è: ma vuoi negare un trenta a una gentile signorina di buona famiglia che si vede che s'impegna molto, e che comunque non arrecherà alcun danno a chicchessia? Devi essere una belva senza cuore (invece, il più delle volte, dall'altra parte della cattedra c'è una versione precedente, un po' inacidita, della stessa signorina).
Qui secondo me c'è un problema. Forse è il liceo classico. Forse no. Ma insomma se ogni anno migliaia di studenti maturi in tutta Italia fanno questa scelta oggettivamente dissennata, da qualche parte nella loro formazione è mancata una lezione di vita. Una cosa banalissima, secondo me basterebbe anche una mezza giornata, quel classico momento in cui per esempio ti telefona una tizia con cui esci che ha un ritardo e non sa bene cosa fare. Tu ti siedi un attimo a fare due conti e ti rendi conto che almeno in senso tecnico sei già un adulto, che non puoi più scegliere gli indirizzi di studio come si scelgono i film al cinema, che puoi anche laurearti in lettere classiche se ti piacciono tanto, ma probabilmente non ti potrai permettere la villetta suburbana col giardino per il cane e la mansarda per i giochi dei bimbi. Perché tantissimi diciottenni, soprattutto (ma non solo) al liceo, non si siedono brevemente a fare questo ragionamento? Non potrebbe trattarsi di una lacuna nella loro formazione?
Ho ripensato a quel me stesso spensierato che aveva davvero tutta la vita davanti, che poteva provare a diventare un medico o un magistrato e invece s'iscrisse a Lettere. Cosa gli frullava nel cervellino, pure già molto ben coltivato? Non c'era nessuno che poteva dargli buoni consigli? Ho pensato a tutte le persone sagge che conoscevo – che mi apparivano sagge in quel momento, al liceo e fuori. E forse ho capito una cosa. Io non sono cresciuto in un contesto competitivo. Io sono cresciuto in un contesto che faceva tutto il possibile per proteggermi dalla competizione. È vero che persino i nostri prof ci mettevano in guardia dalla facoltà-fucina di disoccupati. Ma lo facevano con una certa dose di ironia, che era poi la vera lezione che ho trattenuto. Cioè, è vero che rischiavamo di finire sulla strada, ma c'era poi qualcosa di male nel finire sulla strada? Gli anni Ottanta erano finiti da un pezzo, c'era la crisi e Amato doveva rastrellare novantaduemilamiliardi di lire per salvare l'euro che ancora non esisteva e già rompeva i coglioni eppure no, non c'era nulla di male a immaginarsi un futuro da dropout. L'importante era essere ricchi dentro.
Cosa significhi essere ricchi dentro credo che lo spieghi meglio di tutti Niccolò Machiavelli in una lettera che è antologizzata in tutti i manuali di letteratura del liceo, quella in cui racconta il suo ingaglioffirsi in un borgo dov'era finito durante un temporaneo rovescio di fortuna, i pomeriggi passati a bere e a giocare le carte eccetera; poi però la sera entrava nel suo studio, e lì tornava un ricco, un sapiente, a suo modo un nobile, che dialogava coi grandi della letteratura e coi potenti della terra, trattandoli da pari. Ecco: invece di attirare la mia pigra attenzione sul fatto che un giorno avrei dovuto mantenere un nucleo famigliare; che un giorno soltanto il mio reddito mi avrebbe difeso dalla miseria e dalla morte; invece di contagiarmi quell'ansia calvinista che ti porta a studiare giorno e notte anche una cosa che non ti piace, o a costruire computer nei garage, al liceo mi insegnarono che non importa quanto mi sarei ingaglioffito di giorno: se studiavo i classici, ci sarebbe sempre stata una stanzetta in cui avrei potuto essere grande, essere nobile, trattare i grandi personaggi alla pari. Se studiavo i classici.
mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.
E credo che sia stata quella stanzetta a fare la differenza, almeno nel mio caso. Se avessi studiato legge, avrei potuto condannare un innocente. Se avessi studiato medicina, avrei potuto ammazzare un sano. Ma studiando lettere non avrei mai ammazzato Pirandello; non solo, ma potevo immaginare di essere il suo più grande amico, e certo lui non avrebbe potuto protestare. La stanzetta non è che te la regalavano: dovevi studiare sodo, e io credo di averlo fatto. Ma non quanto deve studiare un veterinario o un architetto. Tanto non dovrò mai curare un cavallo, né disegnare un edificio che resti in piedi. Devo soltanto portare pazienza tutti i giorni, con quell'ironia che è la prima e l'ultima cosa che mi hanno insegnato al liceo, mentre assolvo le incombenze quotidiane che mi assicurano il pane, in attesa di entrare in quella stanzetta dove finalmente sono a tu per tu con Dostoevskij e Fenoglio (peggio per me se preferisco perder tempo con Facci e Merlo), e non c'è più spazio per temere le povertà, o sbigottirmi della morte.
La stanzetta è l'immunità a qualsiasi fallimento che la vita ti riserva, una specie di patto col diavolo: se tu hai paura di non farcela nella vita, ti iscrivi a Lettere e a diciannove anni sei già un perfetto fallito. Da lì in poi puoi solo fare progressi e apprezzarli, come è successo a me.
La stanzetta non è una metafora, esiste davvero. La prima che ho avuto era così piccola che un letto e una scrivania non ci stavano, bisognava scegliere, e io scelsi di dormire sul divano. La seconda era una mansarda, in cui ho ammazzato centinaia di zanzare mentre traducevo libri di cose che non conoscevo, e ogni tanto mi sentivo con David Foster Wallace. Tante volte poi, passando davanti alla mia stessa casa, guardavo in alto e pensavo questo molto strano pensiero: “io sono lì”. La terza è quella dove sto scrivendo adesso. Ma in un certo senso la stanzetta è questo stesso blog. È il posto dove io posso discutere di massimi sistemi senza pudore; posso criticare film o libri o musiche come se ne fossi un esperto, e poi nei commenti la gente dice sei un frustrato. Sono un frustrato? Può darsi, ma la mia è la stessa frustrazione di Niccolò Machiavelli, soffrirla è un onore.
Tutto questo per arrivare a dire che io, se incontrassi come lo Scorfano un neolaureato bigliettaio che si lamenta perché il mercato del lavoro non ha bisogno di lui, dopo qualche minuto di riflessione, gli direi: guarda che ti sei sbagliato. Tu non hai fatto Lettere per trovare un buon lavoro a scuola o nell'editoria. Tu hai fatto Lettere perché è quel corso di studi che dovrebbe farti sentire ricco, ricco dentro, anche se nella vita di tutti i giorni fai il bigliettaio. Dovresti staccare i biglietti spensierato, pensando ad Alceo o Arbasino. E se non hai capito questa cosa, vuol dire che non hai capito nemmeno la prima satira del primo libro delle satire di Orazio; figurati le altre.
Poi scapperei, perché una risposta così altera si merita gli schiaffi. Ma insomma noi nobili italiani, noi principesse di buona famiglia, siamo così. Non c'interessa nulla di quanto ci fruttino i latifondi o i btp: l'estratto conto lo degniamo di uno sguardo distratto, e torniamo nella stanzetta a chiacchierare con Franzen. Il mondo sarà anche pieno di gente più ricca, più elegante, più sana di noi, ma in un qualche modo dalla nostra stanzetta riusciamo a guardarli tutti dall'alto, e nessun destino ci sembra valga veramente il nostro. Siamo fatti così.
Siamo fatti male? Siamo fatti male.
lunedì 11 luglio 2011
Il Lodo Ligabue
Le persone che non siamo diventate.
Stavo cercando di inventarmi un'ucronia, sapete, una realtà alternativa, non la solita dove Hitler vince la guerra; una cosa un po' più verosimile, del tipo: la CIR nel 1991 si prende la Mondadori, magari riesce anche a ottenere un'emittenza televisiva, la Fininvest perde smalto e quando arriva Mani Pulite Berlusconi è già decotto. Di conseguenza noi oggi saremmo... boh, una nazione normale? Una dittatura del popolo con gigantografie di Scalfari su tutti i muri? O viceversa Scalfari sarebbe caduto e dimenticato come Trotskij? Ma faccio molta fatica, non è come Hitler e il nazifascismo, una foto in bianco e nero da osservare da fuori. Questa è una foto a colori, e in più ci sono dentro anch'io, non riesco a mantenere il necessario distacco, voglio dire, nel 1991 ero quasi maggiorenne, andavo già in giro, facevo cose.
Oddio, “cose”.
In realtà l'estate 1991 è un angolo buio, non c'è neanche un Mondiale o un Europeo per aggrapparsi al ricordo delle partite. Tutto quello che riesco a ricostruire è che avevo comprato un biglietto per un concerto di un giovane cantautore rock di Correggio che l'anno prima mi aveva piacevolmente sorpreso – non è che andassi pazzo per il rock italiano, però il primo disco di questo tizio era la fotografia precisa di quello che stavo facendo io e i miei amici in quel periodo, ovvero niente.
Ma un niente molto inquieto, che cominciava alle ventuno nel parcheggio della parrocchia e che poteva portare in una pizzeria dall'altra parte della provincia, e da lì in una birreria che stava magari nella provincia di fianco, e poi a far la coda per entrare in una disco magari in un'altra regione, magari per rompersi le palle prima di entrare perché dai, ventimila lire e sono già le tre, e finire in un'altra birreria in un'altra provincia ancora, se non era già l'ora dei bomboloni in un forno ad altri cento km di distanza – insomma, in quel periodo la sera, più che andare in pizzeria, o in birreria, o in disco, si stava in macchina. Per ore intere, ad ascoltare musica con impianti stereo spesso più soddisfacenti di quelli che avevamo in casa, come a dire che alla fine le brevi consumazioni nei pub di Ravarino o Gualtieri non erano che pretesti, scuse per aggiungere chilometri alla serata. E questo nuovo rocker di Correggio, imparato a memoria sui sedili posteriori degli amici che avevano la patente, ecco, non è che suonasse così originale neanche allora, al massimo si poteva apprezzare che non cercasse di copiare Vasco; che partendo da un accento simile fosse già riuscito a costruire un birignao tutto suo. Ma soprattutto che parlasse di noi, esattamente di noi, che ci fornisse polaroid non importa quanto mosse o saturate della nostra vita banalissima e inquieta, e insomma, io venticinque sacchi per il suo concerto li avevo staccati, ma in realtà era anche e soprattutto una scusa per vedere la Franca.
Perché quando arrivava luglio e la scuola era terminata da un pezzo, e le corriere non si prendevano più, le persone che ti eri abituato a vedere tutti i giorni diventavano improvvisamente ricordi lontani (no cellulari, no facebook), e l'idea di rivederle diventava un miracolo, un'epifania, la sola fantasia di poterle riavere per un istante nel campo visivo ti rendeva capace di espedienti astuti e temerari, o viceversa penosi e ridicoli, come comprare un biglietto per Ligabue senza avere la macchina per andarci. Nessuno dei miei amici mi avrebbe accompagnato, non so perché poi: probabilmente erano troppo tarantolati, troppo schiavi dell'inquietudine del motore a scoppio per accettare le costrizioni di un concerto, il dover restare bloccati nella stessa folla per un'oretta senza poter girare i tacchi in qualsiasi istante “O raga mi son rotto le palle, andiamo a Pievepelago che c'è un posto dove hanno la birra non filtrata?” E un po' li capisco, in fondo sono anch'io così. Quando non sono innamorato.
Ecco (comincio a ricordare) io nell'estate del 1991, mentre De Benedetti e Berlusconi si giocavano la Mondadori e il destino dell'industria culturale, ero sbandato perso per la Franca, totalmente drogato di quella cosa potentissima che è l'assenza, dopo mesi e anni che avevo avuto per parlarle invece di far lo scemo con Baraldi sui sedili posteriori, poi arriva l'estate del 1991 e magari non avevo neanche il numero del suo fisso. Ma Ligabue a Nonantola non se lo sarebbe perso. Di questo ero sicuro, e di nient'altro: Ligabue le piaceva, l'iscrizione in uniposca sopra la tasca del suo zainetto non mentiva e soprattutto non potevano mentire le foto appiccicate sulle pagine estive della sua smemo (intercettata da Baraldi durante una innocente finta colluttazione sui seggiolini). Oggi, ripensando al primo tizio con cui si mise (e al tizio con cui si mise due anni dopo, il padre se non sbaglio dei suoi quattro cattolicissimi figli, ma potrei aver perso il conto) mi sembra evidente ciò che nel 1991 non mi attraversava nemmeno per sbaglio il cervello, ovvero: Ligabue le piaceva soprattutto in quanto uomo; le piaceva quel tipo di vitello emiliano con quell'aria da sventragalline a riposo, con quell'esistenzialismo alla Lupo Alberto, per cui è sempre colpa della sfiga, è Dio che ce l'ha con me, ma se tu insisti baby mi converto, quel tizio che a ventisei anni ne mostra trentasei ma poi inspiegabilmente si blocca lì, quindi di recente devo averlo sorpassato a destra. Non che abbia molta voglia di controllare.
Dunque a Franca piacevano quei tipi lì, questo mi è terribilmente chiaro solo oggi, però voglio dire, non è detto, uno passa anche trent'anni di vita senza assaggiare ghiaccioli all'anice, poi scopre che esistono e diventa matto e ne vuole tutti i giorni, sì, cose di questo tipo succedono. Io coi miei amori de lonh ero probabilmente un tizio ridicolo nel 1991, e magari per certi versi lo sono anche adesso, però mi piace pensare che avrei potuto essere il ghiacciolo all'anice della Franca, se non fosse stato per Baraldi che la sera mi dice: Ma sei sfigato? Come ci vuoi andare a Nonantola, in bici? Dai qua il biglietto, valà. E cala trenta sacchi, un Return On Investment immediato del dodici per cento, ma non fu quello il motivo per cui capitolai. Fu l'incubo della Sfiga, fu la vergogna di avere un biglietto e non avere nemmeno un vespino, qualcosa di dignitoso, niente: pedalare nella notte fino a Nonantola e ritorno non sarebbe stato un problema, ma era una cosa che fanno gli scemi del villaggio, non gli innamorati.
“Ma a te non faceva cagare Ligabue, scusa”.
“Non è per me, è una mia (occhiolino) amica, ce la porto”.
“Allora te ne servono due”.
“Lei ce lo ha già, però non ha nessuno che la accompagni, (occhiolino) capisci”.
Baraldi adesso te lo posso dire, tu mi hai rovinato la vita io ti odio, con quel tuo perpetuo occhiolino e il tuo continuo alzare l'asticella sul baratro della Sfiga, io quella notte sarei sfrecciato nella luce del crepuscolo sulla mia viscontea bordeaux, perché no?, l'aria mi avrebbe phonato i capelli dando loro il volume ottimale, asciugando nel contempo il sudore senza lasciare aloni sulla polo, e sarei arrivato in tempo per occupare le prime file e trovarci la Franca, magari per lasciarle il posto davanti alla spia del solista, e lei avrebbe sgranato gli occhi con quel riflesso condizionato di cui era inconsapevole, e mi avrebbe detto Ma cosa ci fai qui? Sei da solo? Sei un matto!, ma con quel sarcasmo bonario che amavo alla follia anche se ci avevo messo quattro anni per accorgermene, e poi avrebbe preso il mio posto passandomi davanti e lasciandomi a pochi centimetri dai suoi dolcissimi fianchi per tutto il concerto, che mi auguravo lunghissimo – ma tu mi hai corrotto, tu, tu hai messo su un piatto i miei sogni d'amore e sull'altro trentamila lire, tu hai comprato la mia innocenza, il mio entusiasmo giovanile, con un ROI immediato del dodici per cento (cinque sacchi), mi hai fatto sentire irrimediabilmente sporco. Ma non è neanche questo il problema.
Il problema è che, come ben immagina il lettore a questo punto, la ragazza che hai accompagnato al concerto era proprio la Franca, e che la notte stessa sotto il ponte di Navicello l'hai sverginata sulla tua Tipo Diesel rossa, con Ba-ba-bambolina in sottofondo, tu con la tua estetica da bagnino nato per sbaglio in questo luogo così ingiustamente remoto al mare: tu non mi hai semplicemente spezzato il cuore, tu lo hai trasformato in antimateria, c'è una vescica di nulla che pulsa da allora nel mio petto, io Franca l'avrei amata sul serio, non avevo neanche bisogno di convertirmi e credere al Vangelo, io quattro figli glieli avrei fatti sulla parola, saremmo andati a vivere in una di quelle villette a schiera di San Prospero che non costano tanto e non sono poi così male, e insomma a questo punto sarei una persona molto diversa. Non saprei neanche dirti che persona sarei.
Andrò in tribunale, a chiedere l'indennizzo per la persona che non sono diventato nel 1991. Cinquecento milioni non li spunto, ma un paio, chissà. Insomma, è una vita intera, mica briciole.
(è un racconto, Franca e Baraldi non sono mai esistiti, neanche io del resto, e magari non è esistito neanche Liguabue, non so, non ho molta voglia di controllare).
Stavo cercando di inventarmi un'ucronia, sapete, una realtà alternativa, non la solita dove Hitler vince la guerra; una cosa un po' più verosimile, del tipo: la CIR nel 1991 si prende la Mondadori, magari riesce anche a ottenere un'emittenza televisiva, la Fininvest perde smalto e quando arriva Mani Pulite Berlusconi è già decotto. Di conseguenza noi oggi saremmo... boh, una nazione normale? Una dittatura del popolo con gigantografie di Scalfari su tutti i muri? O viceversa Scalfari sarebbe caduto e dimenticato come Trotskij? Ma faccio molta fatica, non è come Hitler e il nazifascismo, una foto in bianco e nero da osservare da fuori. Questa è una foto a colori, e in più ci sono dentro anch'io, non riesco a mantenere il necessario distacco, voglio dire, nel 1991 ero quasi maggiorenne, andavo già in giro, facevo cose.
Oddio, “cose”.
In realtà l'estate 1991 è un angolo buio, non c'è neanche un Mondiale o un Europeo per aggrapparsi al ricordo delle partite. Tutto quello che riesco a ricostruire è che avevo comprato un biglietto per un concerto di un giovane cantautore rock di Correggio che l'anno prima mi aveva piacevolmente sorpreso – non è che andassi pazzo per il rock italiano, però il primo disco di questo tizio era la fotografia precisa di quello che stavo facendo io e i miei amici in quel periodo, ovvero niente.
Ma un niente molto inquieto, che cominciava alle ventuno nel parcheggio della parrocchia e che poteva portare in una pizzeria dall'altra parte della provincia, e da lì in una birreria che stava magari nella provincia di fianco, e poi a far la coda per entrare in una disco magari in un'altra regione, magari per rompersi le palle prima di entrare perché dai, ventimila lire e sono già le tre, e finire in un'altra birreria in un'altra provincia ancora, se non era già l'ora dei bomboloni in un forno ad altri cento km di distanza – insomma, in quel periodo la sera, più che andare in pizzeria, o in birreria, o in disco, si stava in macchina. Per ore intere, ad ascoltare musica con impianti stereo spesso più soddisfacenti di quelli che avevamo in casa, come a dire che alla fine le brevi consumazioni nei pub di Ravarino o Gualtieri non erano che pretesti, scuse per aggiungere chilometri alla serata. E questo nuovo rocker di Correggio, imparato a memoria sui sedili posteriori degli amici che avevano la patente, ecco, non è che suonasse così originale neanche allora, al massimo si poteva apprezzare che non cercasse di copiare Vasco; che partendo da un accento simile fosse già riuscito a costruire un birignao tutto suo. Ma soprattutto che parlasse di noi, esattamente di noi, che ci fornisse polaroid non importa quanto mosse o saturate della nostra vita banalissima e inquieta, e insomma, io venticinque sacchi per il suo concerto li avevo staccati, ma in realtà era anche e soprattutto una scusa per vedere la Franca.
Perché quando arrivava luglio e la scuola era terminata da un pezzo, e le corriere non si prendevano più, le persone che ti eri abituato a vedere tutti i giorni diventavano improvvisamente ricordi lontani (no cellulari, no facebook), e l'idea di rivederle diventava un miracolo, un'epifania, la sola fantasia di poterle riavere per un istante nel campo visivo ti rendeva capace di espedienti astuti e temerari, o viceversa penosi e ridicoli, come comprare un biglietto per Ligabue senza avere la macchina per andarci. Nessuno dei miei amici mi avrebbe accompagnato, non so perché poi: probabilmente erano troppo tarantolati, troppo schiavi dell'inquietudine del motore a scoppio per accettare le costrizioni di un concerto, il dover restare bloccati nella stessa folla per un'oretta senza poter girare i tacchi in qualsiasi istante “O raga mi son rotto le palle, andiamo a Pievepelago che c'è un posto dove hanno la birra non filtrata?” E un po' li capisco, in fondo sono anch'io così. Quando non sono innamorato.
Ecco (comincio a ricordare) io nell'estate del 1991, mentre De Benedetti e Berlusconi si giocavano la Mondadori e il destino dell'industria culturale, ero sbandato perso per la Franca, totalmente drogato di quella cosa potentissima che è l'assenza, dopo mesi e anni che avevo avuto per parlarle invece di far lo scemo con Baraldi sui sedili posteriori, poi arriva l'estate del 1991 e magari non avevo neanche il numero del suo fisso. Ma Ligabue a Nonantola non se lo sarebbe perso. Di questo ero sicuro, e di nient'altro: Ligabue le piaceva, l'iscrizione in uniposca sopra la tasca del suo zainetto non mentiva e soprattutto non potevano mentire le foto appiccicate sulle pagine estive della sua smemo (intercettata da Baraldi durante una innocente finta colluttazione sui seggiolini). Oggi, ripensando al primo tizio con cui si mise (e al tizio con cui si mise due anni dopo, il padre se non sbaglio dei suoi quattro cattolicissimi figli, ma potrei aver perso il conto) mi sembra evidente ciò che nel 1991 non mi attraversava nemmeno per sbaglio il cervello, ovvero: Ligabue le piaceva soprattutto in quanto uomo; le piaceva quel tipo di vitello emiliano con quell'aria da sventragalline a riposo, con quell'esistenzialismo alla Lupo Alberto, per cui è sempre colpa della sfiga, è Dio che ce l'ha con me, ma se tu insisti baby mi converto, quel tizio che a ventisei anni ne mostra trentasei ma poi inspiegabilmente si blocca lì, quindi di recente devo averlo sorpassato a destra. Non che abbia molta voglia di controllare.
Dunque a Franca piacevano quei tipi lì, questo mi è terribilmente chiaro solo oggi, però voglio dire, non è detto, uno passa anche trent'anni di vita senza assaggiare ghiaccioli all'anice, poi scopre che esistono e diventa matto e ne vuole tutti i giorni, sì, cose di questo tipo succedono. Io coi miei amori de lonh ero probabilmente un tizio ridicolo nel 1991, e magari per certi versi lo sono anche adesso, però mi piace pensare che avrei potuto essere il ghiacciolo all'anice della Franca, se non fosse stato per Baraldi che la sera mi dice: Ma sei sfigato? Come ci vuoi andare a Nonantola, in bici? Dai qua il biglietto, valà. E cala trenta sacchi, un Return On Investment immediato del dodici per cento, ma non fu quello il motivo per cui capitolai. Fu l'incubo della Sfiga, fu la vergogna di avere un biglietto e non avere nemmeno un vespino, qualcosa di dignitoso, niente: pedalare nella notte fino a Nonantola e ritorno non sarebbe stato un problema, ma era una cosa che fanno gli scemi del villaggio, non gli innamorati.
“Ma a te non faceva cagare Ligabue, scusa”.
“Non è per me, è una mia (occhiolino) amica, ce la porto”.
“Allora te ne servono due”.
“Lei ce lo ha già, però non ha nessuno che la accompagni, (occhiolino) capisci”.
Baraldi adesso te lo posso dire, tu mi hai rovinato la vita io ti odio, con quel tuo perpetuo occhiolino e il tuo continuo alzare l'asticella sul baratro della Sfiga, io quella notte sarei sfrecciato nella luce del crepuscolo sulla mia viscontea bordeaux, perché no?, l'aria mi avrebbe phonato i capelli dando loro il volume ottimale, asciugando nel contempo il sudore senza lasciare aloni sulla polo, e sarei arrivato in tempo per occupare le prime file e trovarci la Franca, magari per lasciarle il posto davanti alla spia del solista, e lei avrebbe sgranato gli occhi con quel riflesso condizionato di cui era inconsapevole, e mi avrebbe detto Ma cosa ci fai qui? Sei da solo? Sei un matto!, ma con quel sarcasmo bonario che amavo alla follia anche se ci avevo messo quattro anni per accorgermene, e poi avrebbe preso il mio posto passandomi davanti e lasciandomi a pochi centimetri dai suoi dolcissimi fianchi per tutto il concerto, che mi auguravo lunghissimo – ma tu mi hai corrotto, tu, tu hai messo su un piatto i miei sogni d'amore e sull'altro trentamila lire, tu hai comprato la mia innocenza, il mio entusiasmo giovanile, con un ROI immediato del dodici per cento (cinque sacchi), mi hai fatto sentire irrimediabilmente sporco. Ma non è neanche questo il problema.
Il problema è che, come ben immagina il lettore a questo punto, la ragazza che hai accompagnato al concerto era proprio la Franca, e che la notte stessa sotto il ponte di Navicello l'hai sverginata sulla tua Tipo Diesel rossa, con Ba-ba-bambolina in sottofondo, tu con la tua estetica da bagnino nato per sbaglio in questo luogo così ingiustamente remoto al mare: tu non mi hai semplicemente spezzato il cuore, tu lo hai trasformato in antimateria, c'è una vescica di nulla che pulsa da allora nel mio petto, io Franca l'avrei amata sul serio, non avevo neanche bisogno di convertirmi e credere al Vangelo, io quattro figli glieli avrei fatti sulla parola, saremmo andati a vivere in una di quelle villette a schiera di San Prospero che non costano tanto e non sono poi così male, e insomma a questo punto sarei una persona molto diversa. Non saprei neanche dirti che persona sarei.
Andrò in tribunale, a chiedere l'indennizzo per la persona che non sono diventato nel 1991. Cinquecento milioni non li spunto, ma un paio, chissà. Insomma, è una vita intera, mica briciole.
(è un racconto, Franca e Baraldi non sono mai esistiti, neanche io del resto, e magari non è esistito neanche Liguabue, non so, non ho molta voglia di controllare).
sabato 9 luglio 2011
Anche dieci anni, anche vent'anni
A leggere intercettazioni e fuori-onda dei notabili del centrodestra, all'inizio ti diverti: c'è il Ministro Caio che dà del cretino al Ministro Tizio, la ministra Sempronia che dà della vaiassa alla deputata Calpurnia... dopo un po' però ti viene lo stesso sospetto che ti socchiude le palpebre mentre guardi i reality, e cioè: non faranno anche un po' finta? Si danno dei cretini per risultare credibili, e in effetti dopo un po' uno gli crede. Però in fondo va bene così, tanto c'è gente che è in nomination da anni e non viene mai eliminata, e per un Bondi o un Fini che lasciano le scene c'è sempre pronto uno Scilipoti o uno Stradacquanio.
D'altro canto ti chiedi anche se si possa vivere in quel modo, senza potersi fidare di un amico, un collega, un complice; dovendo dare per scontato che tutti ti sparlino alle spalle. La Casa delle Libertà, una volta si chiamava così, sembra una di quelle famiglie dove il papà non deve neanche più dare le spalle per sentire che gli danno del rincoglionito, dove tutti si sorvegliano nei corridoi per evitare che il fratello tossico si venda il televisore, la sorella cominci a ricevere i clienti pure in camera. Uniti tutti solo dalla paura che frani il tetto che nessuno si umilia a riparare, e dalla paura che fa il mondo di fuori. E ti chiedi per quanto ancora può durare, una famiglia così, per quanto.
Poi pensi a famiglie che conosci, e ti rispondi.
giovedì 7 luglio 2011
I venti viceré
I provinciali.
Io credo che la scarsa convinzione con cui i parlamentari del PD affrontano il dibattito sull'abolizione delle province si possa facilmente spiegare con questa cartina. Parliamo di un partito che nella sua breve Storia non è mai arrivato al 30% nazionale, ma che occupa, soprattutto nel livello amministrativo intermedio, una quantità di territorio impressionante: poco meno della metà. Un turista bizzarro che volesse esplorare l'Italia transitando soltanto per le province governate dal PD potrebbe partire dalla Val di Susa e arrivare nell'Agro Romano; un analogo turista del PDL al massimo potrebbe fare un Ascoli-Salerno, non è la stessa cosa.
Ci vuole insomma un certo tasso di masochismo a essere del PD e a chiedere l'abolizione delle province (e infatti molti militanti del partito le chiedono). Il PD non è un movimento (pseudo)rivoluzionario che cavalca le proteste del momento; non è nemmeno il braccio politico di un miliardario che ha problemi con la giustizia; il PD è un partito di amministratori. Nel bene e nel male: nel primo caso (bene) si parla di buon governo, nel secondo (male) di clientelismo e corruzione, ma in sostanza un partito di amministratori si difende occupando le amministrazioni, a ogni livello. Se un livello viene a mancare, è difficile che facciano salti di gioia. Un signore come Pierluigi Bersani non ha nuovi miracoli italiani da offrire: l'unica cosa che può promettere agli italiani è di governare bene, così come ha governato bene una Comunità montana e una Regione. Il suo cursus honorum l'ha fatto lì: dove avrebbe dovuto farlo? In publitalia, in magistratura, doveva fare il comico o l'opinionista in tv? Le amministrazioni sono l'ambiente in cui l'apparato del PD si difende, in cui costruisce il suo consenso (quando amministra bene); chiedere allo stesso apparato di abolire l'istituzione secolare delle province è un po' come proporre al consorzio dei pesciolini rossi l'abolizione dell'acquario. Il fatto che alcuni pesciolini si dicano favorevoli, addirittura entusiasti, non depone a favore dell'intelligenza collettiva della specie, che (come ogni specie) dovrebbe per prima cosa tendere all'autoconservazione.
Quanto all'IdV, beh, è chiaro che ha altre priorità. L'IdV è un partitino d'assalto che, a parte qualche feudo locale, si gioca tutte le sue carte a Roma, dove può diventare ago della bilancia, in attesa che il piattino di centrodestra sobbalzi e travasi una fetta interessante dell'elettorato. Così, a Roma, l'IdV può anche esercitarsi nel gioco preferito della seconda Repubblica, “suggerisci una riforma costituzionale a caso”, in questo caso una proposta piccola piccola che eliminava la parola “province” da tutti gli articoli della Costituzione in cui compariva (avranno usato ctrl+f?) E i deputati del PD, vuoi per disciplina, vuoi per puro istinto di autoconservazione, non l'hanno votata. Apriti cielo. Il Partito è stato accusato, anche dai meno esagitati degli osservatori, di aver perso chissà quale occasione importante di realizzare un'abolizione delle province che addirittura comparirebbe nel programma del PD. Al punto che Bersani è stato costretto a dire che il PD le vuole abolire sul serio le province, che ha già una sua bozza pronta. È tutto abbastanza deprimente.
In realtà la bozza del PD non prevede la sbianchettatura della parola “province” dalla Costituzione: al massimo un iter per l'accorpamento di enti locali, per cui certe province potrebbero, se proprio volessero, autoabolirsi (sì, certo, come no). In realtà nel programma del 2008 il PD non chiedeva di abolire le province, se non quelle che dovevano trasformarsi in aree metropolitane. E qui bisognerebbe aprire una parentesi. Molti appassionati sostenitori dell'abolizione delle province non hanno la minima idea di cosa le province siano e facciano. Non per ignoranza, ma perché non abitano in una dimensione provinciale. Spesso stanno a Roma, o a Milano, o in altre città dove in effetti è difficile capire a cosa servano degli uffici provinciali che sono a tutti gli effetti dei doppioni di quelli comunali. Del resto già da tempo almeno Roma, Milano e Napoli sarebbero dovute diventare aree metropolitane.
Per contro, io che ho sempre abitato in una provincia, non faccio molta fatica a identificarla. Quando sento dire che in provincia fanno poco, la mia reazione d'istinto non è chiederne l'abolizione, ma un ulteriore sforzo di decentramento delle competenze regionali (o accentramento di quelle comunali). Fanno poco? Male, dovrebbero fare molto di più. Mentre ai comuni dovrebbe essere affidato tutto ciò che che rientra nella gestione dei centri abitati (che in Italia non sono quasi mai enormi conurbazioni) alle provincia dovrebbe competere tutto ciò che è gestione del territorio, dall'allocazione delle discariche alla cura dei corsi d'acqua (a proposito, abbiamo appena chiesto, con un referendum, che l'acqua potabile sia gestita dal pubblico: e poi vogliamo abolire l'ente pubblico?) Dove vanno costruiti gli ospedali? Le scuole secondarie? Dove devono passare le autolinee? Sono tutte decisioni che non possono essere prese a livello comunale, e di cui la regione – secondo me – non dovrebbe impicciarsi. Anzi, faccio un po' fatica a capire di cosa dovrebbe impicciarsi, la regione, in generale: pur vivendo a cinquanta minuti da Bologna, non riesco a capire cosa debba fare lei per me e io per lei, figurati se stessi a Fiorenzuola o a Comacchio. Insomma secondo gli allegri riformatori costituzionali dell'IdV, le decisioni sul mio pronto soccorso, o sul mio inceneritore, o sulle fermate della mia corriera, le dovrebbero prendere a Bologna i consiglieri eletti tra Piacenza e Rimini. Ora io non ho niente contro piacentini e riminesi, però non capisco cosa c'entrino col mio territorio, semplicemente. Per me la regione continua a essere un'astrazione, un accorpamento di territori eterogenei per fini statistici; ma mi rendo conto che il federalismo all'italiana va in una direzione diversa. Va, in sostanza, verso la creazione di venti vicereami indipendenti, retti da venti sovrani più o meno autonomi, tutti occupati a nascondere la spazzatura (centrali inquinanti e discariche) nella piega del tappeto più lontana alla propria capitale, più prossima al feudo del vicino.
Siccome eliminando la parola “province” dalla Costituzione non si eliminano i fiumi né le discariche, e gli ospedali restano dove stanno, sembra abbastanza chiaro che quella proposta dall'IdV non è l'abolizione delle province. Al massimo corrisponde alla loro trasformazione in enti esclusivamente burocratici, senza rappresentanti eletti. L'ufficio scolastico provinciale cambierebbe targhetta e diventerebbe la sezione provinciale dell'istituto scolastico regionale, ma in sostanza continuerebbe a fare le stesse cose. La cura delle strade intorno alla provincia di Ascoli Piceno continuerebbe a dipendere da un ufficio sito di Ascoli e da maestranze di Ascoli, che però dovrebbero aspettare ordini da Ancona. Continueremmo a pagare per una burocrazia provinciale, con l'unica differenza che non sarebbe più controllata da un rappresentante eletto dei cittadini a livello provinciale, ma solo a livello regionale: tutto dovrà passare dal viceré di Bologna, di Torino, di Milano, di Roma, di Napoli, che bel federalismo. Io preferisco chiamarlo accentramento regionale, che è più o meno quello che ha in mente la Lega (oddio, “mente”...) e che piace anche a qualche masoch del centrosinistra. Deve piacere anche a me?
In Europa è così? Le uniche nazioni con cui si possono fare paragoni seri, per dimensioni e popolazione, sono Francia e Germania. Ci sarebbe anche il Regno Unito, ma i suoi livelli amministrativi sono incomprensibili per me; comunque mi pare di capire che anche i sudditi britannici possano votare per enti locali di almeno tre livelli (correggetemi se sbaglio). Nella Germania federale i cittadini votano per comuni (Gemeinde), province (Landkreis) e Stati federali, tranne nelle Città-Stato (Amburgo, Berlino, Brema) che sono in pratica aree metropolitane, dove i Landkreis non ci sono. In Francia si votava per i comuni, i dipartimenti e le regioni, ma recentemente le elezioni regionali sono state soppresse: dal 2014 il consiglio regionale sarà composto da rappresentanti del dipartimento (l'unità territoriale più simile alla nostra provincia). Non si potrebbe fare una cosa del genere in Italia? Abbiamo realmente bisogno di eleggere direttamente i venti viceré con annessi cortigiani, non potremmo mandare ai consigli i delegati delle province (che così lavorerebbero un po' di più)? Eh, ma vuoi mettere quanto è più sexy promettere l'“abolizione delle province”?
martedì 5 luglio 2011
Tutti matti per B.B.
La definizione di Black Bloc
"E questo è il mio contributo al movimento: un contributo da piccolo correttore di bozze frustrato" (un pirla, 10 anni fa).
Non so quanto senso abbia dirlo oggi, ma i veri Black Bloc di dieci anni fa (perché è questo che stiamo facendo: adoperiamo una terminologia di dieci e più anni fa) non mandavano i poliziotti in infermeria. Non che avessero alcuna simpatia per le forze dell'ordine, ma semplicemente questa idea di caricare i professionisti della carica, di bastonare i professionisti del bastone, non rientrava nelle loro pratiche di contrapposizione, credo che allora si dicesse così. Insomma loro facevano un'altra cosa precisa, che consisteva nel nascondersi e vandalizzare i simboli del potere economico (banche, fastfood, automobili a partire da una certa cilindrata, vetrine). Non erano nemmeno 'violenti' in senso stretto, a meno di non voler considerare le vetrine come esseri senzienti in grado di percepire il dolore, e in effetti a Genova molti piansero più per la sensibilità offesa dei negozi che per la testa spaccata di Giuliani. Diciamo che erano vandali organizzati, che allo scontro frontale (pallino dei masochisti militanti dei centri sociali italiani) preferivano tattiche di guerriglia oggettivamente meno rischiose, cercando di massimizzare l'impatto mediatico. L'idea era che un negozio devastato richiama più attenzione di centinaia di cortei pacifici, e non era così campata in aria, purtroppo.
Ne parlo al passato anche se probabilmente i BB veri da qualche parte esistono ancora, e continuano a spaccare vetrine con furia antiturbocapitalista. Però da noi non è più possibile chiamarli col loro vero nome, da Genova 2001 in poi, con tutta l'infiltrazione e la semplice confusione che ci fu in quelle giornate. Al punto che mi sento un pirla io, a voler fare la punta alle matite, a sottolineare che ai miei tempi, eh, ai miei tempi signora mia anche i Black Bloc erano una cosa precisa, mica tutto 'sta confusione di adesso.
In realtà no, non ho nessuna pretesa o speranza di vincere una battaglia terminologica che è già stata persa da anni, più o meno da quando ci siamo rassegnati a usare il termine finto inglese vero autarchico napulitano “No Global”, che all'inizio era una cosa che non si poteva sentire. Più o meno nello stesso periodo qualsiasi tizio col volto coperto pronto a tirare qualche oggetto contundente sul casco di un poliziotto è stato arruolato dalla stampa italiana nei temibili Black Bloc (spesso con un'altra kappa finale, non ci sono mai abbastanza kappa quando si parla di queste cose). Oppure negli anarco-insurrezionalisti, che anche loro in realtà sarebbero quelli che mettono le bombe nei cassonetti, salvo che lo fanno così raramente (una volta ogni due o tre anni) che il nome praticamente è sprecato, ed è un peccato perché suona proprio bene, anarco-insurrezionalista. Così alla fine lo hanno riciclato, lo usano tutte le volte che nei filmati non ci sono abbastanza manifestanti vestiti di nero, per cui usare Black Bloc suonerebbe un po' incongruo, ecco, quelli diventano anarco-insurrezionalisti.
In realtà è affascinante studiare perché certi nomi funzionino meglio di altri, ad esempio io capii che “No Global” aveva vinto quando vidi le magliette che vendevano ai margini dei forum sociali: qualche genio (malvagio) aveva serigrafato una foto del subcomandante Marcos col passamontagna e il dito medio alzato sopra a quel maiuscolo sfacciato NO GLOBAL, ecco, credo che si trattasse di un fotomontaggio, non ce lo vedo proprio il subcomandante, che a suo modo è persona di una certa raffinatezza, col medio alzato; ma quella serigrafia aveva qualcosa di così volgarmente efficace da mangiarsi in un boccone qualsiasi altro slogan più costruttivo e possibilista, ad esempio “un altro mondo è possibile”. Possibile? Ma quindi bisogna sbattersi a immaginarlo, fare progetti, prospetti, riunioni, una fatica che non ti dico (qualcuno crede che il movimento di Genova fu sconfitto a Genova, e invece no, finché si prese le botte cresceva e attirava consensi: cominciò a perderli quando si passò alla fase propositiva, dal forum di Firenze in poi). NO GLOBAL è molto più chiaro: ci sono dei malvagi global e noi gli diciamo no. Praticamente è neolingua: paradossale per costituzione, perché in fondo cosa c'è di più globalizzato del dito medio, probabilmente il segno non verbale più conosciuto del mondo. Un'altra cosa che funziona bene nella neolingua sono le allitterazioni: BB, Big Brother, Black Bloc, riempie la bocca in un modo meraviglioso, non che importi realmente che gente fosse e cosa faceva. Sì, è un po' come confondere PCI e Brigate Rosse; d'altro canto molta gente ormai lo fa.
Questa approssimazione nella terminologia, questo arrivare sempre più o meno con dieci anni di ritardo (magari alcuni “black bloc” della Val di Susa ai tempi dei BB veri avevano sei o sette anni), una volta era scusabile, diciamo fino a tutto il ventesimo secolo, quando certi gruppi o gruppuscoli erano semiclandestini e i loro ciclostili non sempre leggibili. Però siamo nel 2011, non è così difficile digitare “black bloc” su google. A questo punto secondo me un certo tipo di sciatteria è intenzionale. Voglio dire che ci tengono, i giornalisti, a risultare poco informati sull'argomento. È un modo per far sentire le distanze. Nessun organo di stampa serio vuole mostrare di conoscere, anche solo per cultura generale, la lingua dei facinorosi. In fondo è sempre una questione di propaganda, più che di informazione, coi quotidiani italiani.
Ricordo sempre (e mi scuso, perché non c'entra poi così tanto) quel che scrisse Repubblica l'indomani della morte di Giuliani. Scrisse che era un “Punk bestia”, precise parole, punk bestia. E già allora mi chiedevo come fosse possibile che nessuno in quella redazione conoscesse la grafia di pancabbestia, un neologismo ventennale, così poco neo da risultare ormai quasi affettuoso. Mentre a smontarlo recuperava tutto il disprezzo originale, come si fa a dare della bestia a un ragazzino morto? Oggi avrebbe ventotto anni e magari una laurea in scienze marine, va' a sapere.
Io poi tutta la faccenda non la sto seguendo molto, e così come non pretendo di sapere se il TAV sia giusto o no (a occhio mi pare una scommessa rischiosa, l'unica certezza i soldi degli appalti) non saprei neanche più dire chi siano realmente i “black bloc” o “anarcoinsurrezionalisti” della Val di Susa. Faccio fatica a immaginarli grillini, anche se Grillo a furia di promettere apocalissi che non arrivano qualche fanatico lo starà crescendo, ogni Lutero ha il suo Müntzer. Il loro approccio frontale, più che violento masochistico, mi ricorda tantissimo i soliti movimentisti dei soliti centri sociali, con o senza ricambio generazionale: il loro antico pallino per le battaglie campali e per le ferite da mostrare. Alla fine sono complementari ai picchiatori che hanno davanti, e che probabilmente gliele hanno date anche stavolta di santa ragione senza attendere che qualche manifestante scagliasse la prima pietra: non faccio nessuna fatica a crederci, così come non dubito che parecchi residenti e manifestanti pacifici, sotto i fumogeni, abbiano simpatizzato con loro. Però il risultato della battaglia è sempre il solito: da qui in poi chi è contro la Tav è un terrorista, avanti con la Tav. Anche qui, sarebbe bastato cercare su google, c'è tutto un archivio, una galleria, un museo degli errori impressionante. Ma anche qui, c'è gente che su google si guarda bene dall'andarci.
"E questo è il mio contributo al movimento: un contributo da piccolo correttore di bozze frustrato" (un pirla, 10 anni fa).
Non so quanto senso abbia dirlo oggi, ma i veri Black Bloc di dieci anni fa (perché è questo che stiamo facendo: adoperiamo una terminologia di dieci e più anni fa) non mandavano i poliziotti in infermeria. Non che avessero alcuna simpatia per le forze dell'ordine, ma semplicemente questa idea di caricare i professionisti della carica, di bastonare i professionisti del bastone, non rientrava nelle loro pratiche di contrapposizione, credo che allora si dicesse così. Insomma loro facevano un'altra cosa precisa, che consisteva nel nascondersi e vandalizzare i simboli del potere economico (banche, fastfood, automobili a partire da una certa cilindrata, vetrine). Non erano nemmeno 'violenti' in senso stretto, a meno di non voler considerare le vetrine come esseri senzienti in grado di percepire il dolore, e in effetti a Genova molti piansero più per la sensibilità offesa dei negozi che per la testa spaccata di Giuliani. Diciamo che erano vandali organizzati, che allo scontro frontale (pallino dei masochisti militanti dei centri sociali italiani) preferivano tattiche di guerriglia oggettivamente meno rischiose, cercando di massimizzare l'impatto mediatico. L'idea era che un negozio devastato richiama più attenzione di centinaia di cortei pacifici, e non era così campata in aria, purtroppo.
Ne parlo al passato anche se probabilmente i BB veri da qualche parte esistono ancora, e continuano a spaccare vetrine con furia antiturbocapitalista. Però da noi non è più possibile chiamarli col loro vero nome, da Genova 2001 in poi, con tutta l'infiltrazione e la semplice confusione che ci fu in quelle giornate. Al punto che mi sento un pirla io, a voler fare la punta alle matite, a sottolineare che ai miei tempi, eh, ai miei tempi signora mia anche i Black Bloc erano una cosa precisa, mica tutto 'sta confusione di adesso.
In realtà no, non ho nessuna pretesa o speranza di vincere una battaglia terminologica che è già stata persa da anni, più o meno da quando ci siamo rassegnati a usare il termine finto inglese vero autarchico napulitano “No Global”, che all'inizio era una cosa che non si poteva sentire. Più o meno nello stesso periodo qualsiasi tizio col volto coperto pronto a tirare qualche oggetto contundente sul casco di un poliziotto è stato arruolato dalla stampa italiana nei temibili Black Bloc (spesso con un'altra kappa finale, non ci sono mai abbastanza kappa quando si parla di queste cose). Oppure negli anarco-insurrezionalisti, che anche loro in realtà sarebbero quelli che mettono le bombe nei cassonetti, salvo che lo fanno così raramente (una volta ogni due o tre anni) che il nome praticamente è sprecato, ed è un peccato perché suona proprio bene, anarco-insurrezionalista. Così alla fine lo hanno riciclato, lo usano tutte le volte che nei filmati non ci sono abbastanza manifestanti vestiti di nero, per cui usare Black Bloc suonerebbe un po' incongruo, ecco, quelli diventano anarco-insurrezionalisti.
In realtà è affascinante studiare perché certi nomi funzionino meglio di altri, ad esempio io capii che “No Global” aveva vinto quando vidi le magliette che vendevano ai margini dei forum sociali: qualche genio (malvagio) aveva serigrafato una foto del subcomandante Marcos col passamontagna e il dito medio alzato sopra a quel maiuscolo sfacciato NO GLOBAL, ecco, credo che si trattasse di un fotomontaggio, non ce lo vedo proprio il subcomandante, che a suo modo è persona di una certa raffinatezza, col medio alzato; ma quella serigrafia aveva qualcosa di così volgarmente efficace da mangiarsi in un boccone qualsiasi altro slogan più costruttivo e possibilista, ad esempio “un altro mondo è possibile”. Possibile? Ma quindi bisogna sbattersi a immaginarlo, fare progetti, prospetti, riunioni, una fatica che non ti dico (qualcuno crede che il movimento di Genova fu sconfitto a Genova, e invece no, finché si prese le botte cresceva e attirava consensi: cominciò a perderli quando si passò alla fase propositiva, dal forum di Firenze in poi). NO GLOBAL è molto più chiaro: ci sono dei malvagi global e noi gli diciamo no. Praticamente è neolingua: paradossale per costituzione, perché in fondo cosa c'è di più globalizzato del dito medio, probabilmente il segno non verbale più conosciuto del mondo. Un'altra cosa che funziona bene nella neolingua sono le allitterazioni: BB, Big Brother, Black Bloc, riempie la bocca in un modo meraviglioso, non che importi realmente che gente fosse e cosa faceva. Sì, è un po' come confondere PCI e Brigate Rosse; d'altro canto molta gente ormai lo fa.
Questa approssimazione nella terminologia, questo arrivare sempre più o meno con dieci anni di ritardo (magari alcuni “black bloc” della Val di Susa ai tempi dei BB veri avevano sei o sette anni), una volta era scusabile, diciamo fino a tutto il ventesimo secolo, quando certi gruppi o gruppuscoli erano semiclandestini e i loro ciclostili non sempre leggibili. Però siamo nel 2011, non è così difficile digitare “black bloc” su google. A questo punto secondo me un certo tipo di sciatteria è intenzionale. Voglio dire che ci tengono, i giornalisti, a risultare poco informati sull'argomento. È un modo per far sentire le distanze. Nessun organo di stampa serio vuole mostrare di conoscere, anche solo per cultura generale, la lingua dei facinorosi. In fondo è sempre una questione di propaganda, più che di informazione, coi quotidiani italiani.
Ricordo sempre (e mi scuso, perché non c'entra poi così tanto) quel che scrisse Repubblica l'indomani della morte di Giuliani. Scrisse che era un “Punk bestia”, precise parole, punk bestia. E già allora mi chiedevo come fosse possibile che nessuno in quella redazione conoscesse la grafia di pancabbestia, un neologismo ventennale, così poco neo da risultare ormai quasi affettuoso. Mentre a smontarlo recuperava tutto il disprezzo originale, come si fa a dare della bestia a un ragazzino morto? Oggi avrebbe ventotto anni e magari una laurea in scienze marine, va' a sapere.
Io poi tutta la faccenda non la sto seguendo molto, e così come non pretendo di sapere se il TAV sia giusto o no (a occhio mi pare una scommessa rischiosa, l'unica certezza i soldi degli appalti) non saprei neanche più dire chi siano realmente i “black bloc” o “anarcoinsurrezionalisti” della Val di Susa. Faccio fatica a immaginarli grillini, anche se Grillo a furia di promettere apocalissi che non arrivano qualche fanatico lo starà crescendo, ogni Lutero ha il suo Müntzer. Il loro approccio frontale, più che violento masochistico, mi ricorda tantissimo i soliti movimentisti dei soliti centri sociali, con o senza ricambio generazionale: il loro antico pallino per le battaglie campali e per le ferite da mostrare. Alla fine sono complementari ai picchiatori che hanno davanti, e che probabilmente gliele hanno date anche stavolta di santa ragione senza attendere che qualche manifestante scagliasse la prima pietra: non faccio nessuna fatica a crederci, così come non dubito che parecchi residenti e manifestanti pacifici, sotto i fumogeni, abbiano simpatizzato con loro. Però il risultato della battaglia è sempre il solito: da qui in poi chi è contro la Tav è un terrorista, avanti con la Tav. Anche qui, sarebbe bastato cercare su google, c'è tutto un archivio, una galleria, un museo degli errori impressionante. Ma anche qui, c'è gente che su google si guarda bene dall'andarci.
domenica 3 luglio 2011
What a room service
E quindi, chi lo avrebbe mai detto, ma in un albergo con suite a 3000 dollari a notte circolano inservienti compiacenti che potrebbero consentire a rapporti sessuali in cambio di mance adeguate, salvo poi denunciare il proprio utilizzatore finale e rovinargli la corsa all'Eliseo. In altre parole: DSK non ha fatto niente di male. Ma proprio niente? Cioè: lo vorreste alla Présidence della vostra République, un tizio così?
Io forse no.
Scusate, era un rigurgito di moralismo. Sull'Unita.it (H1t#81). Si commenta laggiù.
Al Sofitel di Times Square, per una cifra intorno ai tremila dollari, puoi passare una notte nella suite imperiale. È probabilmente possibile, con un piccolo sovrappiù, convincere una componente del personale di servizio a un rapporto orale, e magari anche a farsi strattonare un po', per una cifra probabilmente inferiore a quella che guadagna Strauss-Kahn in dieci minuti, e un'inserviente in un anno. È andata così?
Non lo sappiamo ancora, non è detto che lo sapremo mai: un conto è la verità processuale e un conto è quel che accade in una stanza, senza testimoni, tra una 32enne analfabeta venuta dalla Guinea e il direttore del Fondo Monetario Internazionale. Però non è così improbabile. E allora mettiamo da parte l'accusa di violenza, che forse non regge più. Ammettiamo anche che “Ophelia” abbia cercato, maldestramente, di ricattare l'uomo potente. Riconosciamo, con una certo stupore, l'ingenuità degli inquirenti newyorkesi, che pensavamo ben più professionali, ma forse abbiamo guardato troppi telefilm. Quel che ci resta è un mix amarognolo di moralismo e incredulità: sul serio DSK farebbe ancora in tempo a candidarsi all'Eliseo? Sul serio i francesi potrebbero pensare di votare un signore col passatempo di strattonare donne di servizio, ancorché consenzienti?
Io forse no.
Scusate, era un rigurgito di moralismo. Sull'Unita.it (H1t#81). Si commenta laggiù.
Al Sofitel di Times Square, per una cifra intorno ai tremila dollari, puoi passare una notte nella suite imperiale. È probabilmente possibile, con un piccolo sovrappiù, convincere una componente del personale di servizio a un rapporto orale, e magari anche a farsi strattonare un po', per una cifra probabilmente inferiore a quella che guadagna Strauss-Kahn in dieci minuti, e un'inserviente in un anno. È andata così?
Non lo sappiamo ancora, non è detto che lo sapremo mai: un conto è la verità processuale e un conto è quel che accade in una stanza, senza testimoni, tra una 32enne analfabeta venuta dalla Guinea e il direttore del Fondo Monetario Internazionale. Però non è così improbabile. E allora mettiamo da parte l'accusa di violenza, che forse non regge più. Ammettiamo anche che “Ophelia” abbia cercato, maldestramente, di ricattare l'uomo potente. Riconosciamo, con una certo stupore, l'ingenuità degli inquirenti newyorkesi, che pensavamo ben più professionali, ma forse abbiamo guardato troppi telefilm. Quel che ci resta è un mix amarognolo di moralismo e incredulità: sul serio DSK farebbe ancora in tempo a candidarsi all'Eliseo? Sul serio i francesi potrebbero pensare di votare un signore col passatempo di strattonare donne di servizio, ancorché consenzienti?
In fondo perché no, dopotutto ieri il neosegretario del PdL ha confermato che nel 2013 gli italiani avranno ancora la possibilità di votare l'uomo del bunga bunga. Sì, però l'Italia è la famosa repubblica delle banane che non dovrebbe fare testo. In Francia non risultano tg minzoliniani pronti a negare l'evidenza e a ritagliare un santino intorno a DSK. Ma forse manca pure quel moralismo bacchettone che mi pervade in questo momento, mentre penso che sì, forse il direttore del del FMI non ha fatto nulla di penalmente rilevante, forse è vittima di un complotto, ma non mi piacerebbe ugualmente essere governato da un uomo come lui. È un pregiudizio? Un uomo che confessa ai suoi collaboratori più stretti di temere macchinazioni nei suoi confronti, e poi nella suite di un albergo paga la prima sconosciuta che trova? L'uomo responsabile di decisioni su scala planetaria appare, come minimo, poco avveduto: incapace di mettere a freno pulsioni che alla sua età dovrebbe essersi lasciato alle spalle. Ma sono pur sempre pulsioni maschili, nelle quali riconosco (elevate alla massima potenza) le stesse mie, e in parte alla base della mia riprovazione morale potrebbe esserci semplicemente questo.
Se io trovo ancora osceno un mondo in cui un uomo ricco è libero di sbattersi un'inserviente per una cifra ridicola, è per un'antica educazione egalitaria o semplicemente perché il mio gradino sulla scala sociale è rimasto troppo vicino a quello dell'inserviente, troppo remoto da quello di DSK? In una parola: non è la mia semplice invidia? Sì, può darsi, tra l'altro è uno dei carburanti della società. È anche la misura della mia distanza da quei potenti che probabilmente non si rendono nemmeno conto della differenza tra sesso consensuale, prostituzione o stupro: visto dalle altezze dei loro superattici il confine morale che alcuni di noi inservienti mettono ancora intorno ai loro genitali deve sembrare uno steccatino ridicolo – come quel Berlusconi che qualche anno fa disse solennemente “non ho mai pagato una donna” e probabilmente era una frase sincera, da parte di un uomo che non va in giro col portafogli in tasca e probabilmente da trent'anni non ha mai nemmeno fisicamente pagato un caffè. Ecco, forse mi sbaglio anche su DSK, forse quella notte non era in preda a nessuna incontrollabile pulsione, forse dopo l'idromassaggio ha chiesto alla donna delle pulizie una fellatio o una sodomia con lo stesso riflesso stanco con cui io posso chiedere a un cameriere un caffè dopo la pizza. Dobbiamo fargliene una colpa? Non merita come Bill Clinton di essere giudicato non per le sue distrazioni occasionali, ma per quello che fa nel suo mestiere di banchiere mondiale, oggi, e magari tra un anno di presidente? E se il prezzo da pagare per avere un buon professionista in un ruolo di assoluta responsabilità è qualche inserviente coi graffi ogni tanto, non varrebbe comunque la pena?
Non lo so. Meglio così, visto che la decisione spetta ai francesi. Ho invidiato loro molti candidati in questi anni: Jospin, la Royal, perfino il vecchio Chirac mi pareva, con tutti i suoi processi sospesi, più rispettabile di qualsiasi rappresentante della destra italiana. Invece non invidio Dominique Strauss-Kahn, che forse ha soprattutto il torto di esibire ai riflettori quello che sapevamo già, ma preferivamo borbottare nei nostri cinici dopocena: in questo mondo libero i ricchi sono liberi di sbattersi i poveri, i poveri sono liberi di chiedere la mancia. Ma senza esagerare, senza tirare troppo la corda, come probabilmente ha fatto Ophelia.http://leonardo.blogspot.com
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