Noi siamo razzisti (tranne
te)
«Capo!»
«Eh?»
Mettiamo che capiti a voi, di perdere
temporaneamente la casa, di ritrovarvi nella mensa di un campo
profughi, con un buco nel cuore ma anche, enorme, nello stomaco. Però
non siete del posto – magari vivete e lavorate lì da anni, però
non vi considerano del posto, oh! sono fatti così. E hanno gusti
strani, per esempio mangiano carne di topo. Che bisogna dire non è
come il topo nostro, schifoso, il ratto di fogna, quello fa ribrezzo
anche a loro, no: siccome sono millenni - che ne mangiano, hanno selezionato una razza di roditori
d’allevamento placidi, non hanno neanche più i denti, e poi li macellano, e poi li mangiano – però voi non ne volete sapere, non ne avete neanche mai assaggiato
uno.
Ve l’hanno detto tutti che non sapete
cosa vi perdete, che il roditore stagionato di quella zona è
un’eccellenza assoluta, un presidio slow food. Vi hanno spiegato
che siete vittima di un condizionamento culturale, che non è colpa
vostra poverini se nella vostra terra d’origine circolavano
superstizioni e infamie contro i roditori, che in fin dei conti è
carne, ed è buona, e insomma, che rompipalle che siete a non volerla
mangiare. Comunque, proprio perché sono ospitali, e non si
dimenticano le buone maniere neanche nella calamità naturale, vi
hanno fatto il pentolone a parte con il ragù senza topo, va bene?
E voi siete contenti, perché sarebbe
lunga cercare di spiegare che condizionamento o no, slow food o no,
voi proprio il topo non riuscireste a mandarlo giù, nemmeno nel
terremoto e nella carestia. Quindi siete lì, state aspettando che vi
scodellino il piatto. Quando fate caso a un particolare. La
volontaria che passa con le razioni ha un cucchiaio di legno solo.
Uno solo. Per voi e per i mangiatopi. E adesso sta puntando verso di
voi.
Questa storia è successa davvero, in
una tendopoli. Il topo in realtà era un maiale. Il cucchiaio era un
cucchiaio. Voi non eravate voi, ma alcuni musulmani che del maiale
avevano orrore. Il giorno dopo circolava – anche a mezzo volantini
– un invito a liberarsi di questi stranieri ingrati e schifiltosi.
«UN MIRANDOLESE IMPEGNATO NEI SOCCORSI
POST TERREMOTO SCRIVE
Averli accolti, aver dato loro spazi,
averli rispettati nelle loro tradizioni fino al punto di calpestare
le nostre, averli istruiti sui loro diritti senza mai chiedere il
minimo dovere, vederli comodamente seduti a tutte le ore nei bar, non
vederli mai salutare o cercare un contatto. E vederli ora nelle
tendopoli chiedere la carne tagliata in un certo modo, chiedere il
cibo e poi gettarlo perché non è loro gradito, guardarli ridere
mentre ci si affanna per tirare su tende e strutture di accoglienza,
guardarli mentre si rifiutano sdegnati di aiutare, guardali mentre
fumano ridono e scherzano... guardarli. È il
fallimento dell’integrazione, i nodi sono venuti al pettine. Basta.
MANDIAMOLI TUTTI FUORI DAL NOSTRO
PAESE!»
La cosa che mi ha fatto più male di
questo volantino è la punteggiatura. Perché i contenuti più o meno
li conoscevo, potevo immaginarmeli. Questo volantino, non lo avessi
ritrovato in rete, avrei potuto riscriverlo da solo, le chiacchiere
da bar alla fine sono sempre le stesse. Ma la punteggiatura. Non
avevo mai visto un volantino razzista con una punteggiatura così
efficace. Dietro c’è qualcuno che ha letto, che ha studiato.
Certo, questo non lo ha smosso di un centimetro dalla convinzione di
vivere nella migliore delle Emilie possibili, un luogo dove tutti
vogliono venire, al punto che c’è da tirarli fuori con la pala.
Nello stesso giorno in cui girava
questo volantino, un sacco di residenti extracomunitari al posto di
blocco mi salutavano col trolley: se ne
stavano andando da soli, senza aspettare il fallimento
dell’integrazione. Un pachistano dell’età di mio padre mi spiegò
che andava in Danimarca, aveva degli amici là. Gli feci i
complimenti, la Danimarca per quel che sapevo era non sismica. Mio
padre in Danimarca non c’è mai stato. Neanch’io, ora che ci
penso, ci sono mai stato. Neanche il tizio del volantino, magari.
Chiedo scusa ai mirandolesi, di cui qui
si fa il nome, solo per associarli all’iniziativa di un tizio
razzista che ha scritto un volantino. Però era veramente un testo
interessante. Non solo per quella cosa del «cibo non gradito» –
che davvero vien da ridere, se avete mai incontrato un modenese
all’estero. Non è difficile, basta andare nei ristoranti modenesi.
Li troverete là alle ore pasti, che discettano di ripieno di
tortellini e si fanno riportare il carrello dei bolliti. Ma il
volantino non parla di questo. Parla soprattutto dell’invidia.
Guardateli, dice, questi stranieri. Come fumano ridono e scherzano.
Guardateli. Cosa c’è da ridere? Cosa c’è da scherzare?
C’è che loro hanno perso meno di
noi, tutto qui. Una casa? Ne troveranno un’altra. Un lavoro? Vabbe', di sicuro non era il migliore lavoro sulla
terra. Ci sarà qualche altra terra dove andare, qualche altra
opportunità. Tanto il cordone ombelicale lo hanno reciso da un
pezzo. È a noi che duole, a loro no. «MANDIAMOLI TUTTI FUORI.» Ma
se ne stavano già andando. Ho insegnato in anni in cui ogni classe
ne aveva quattro o cinque, e già sembrava un’invasione. Da qualche
anno a questa parte stava calando il coefficiente di cognomi strani,
anche se non calava il disagio. So di cinesi che sono tornati in
Cina. Turchi in Turchia. Ingrati fino all’ultimo, non aspettano
nemmeno che li cacciamo coi forconi. Tipico.
Noi emiliani siamo razzisti. Noi
emiliani però si era detto che non esistevamo, e quindi tolgo la
parola e la frase rimane così: noi siamo razzisti. No, tu che leggi
senz’altro no, ma dico in generale. Ci sono eccezioni,
ma comunque siamo più razzisti di quanto dovrebbe essere consentito,
e lo si vede da centinaia di cose – potrei
parlartene per ore, ma diciamo che ti fidi, va bene? Siamo razzisti
perché proprio in questa stagione cominciamo ad andare a scuola a
chiedere che i nostri figli siano inseriti in una certa classe e non
in un’altra, e perché? Che differenza c’è?
Tante volte la differenza la fanno gli
stranieri. Che poi stranieri non sono, la stragrande maggioranza è
nata nell’ospedale a cinquecento metri dalla scuola, però sono
figli di stranieri e quindi per noi sono stranieri anche loro. Il
razzismo in fin dei conti è tutto qui.
Noi siamo razzisti perché abbiamo
accolto molti stranieri, sembra un controsenso ma è andata così.
Forse fino a un certo punto contavamo su una nostra ospitalità, una
nostra disponibilità, che alla prova dei fatti non si è mostrata
all’altezza. Certo, se ci fossimo guardati un po’ meglio ce ne
saremmo resi conto, che non eravamo così ospitali come credevamo di
essere. Sarebbe bastato vedere come parlavamo dei «marocchini», che
fino agli anni Ottanta non erano quelli che venivano dal Marocco, ma
da Caserta in giù, coi quali lavoravamo nelle fabbriche e nei
cantieri, ma senza legare più di tanto.
Nel frattempo magari tendevamo a
idealizzare minoranze che ancora non avevamo imparato a ospitare. Poi improvvisamente da un anno
all’altro sono arrivati, a ondate, e ci hanno messo paura. C’è
chi davvero parla di invasione, e ci crede: basterebbe un occhio alle
statistiche per rendersi conto che non è verosimile. Ma la gente non
ha voglia di guardare i fogli con i numeri. Esce al pomeriggio e in
certi quartieri trova in giro solo loro. Si sono presi le palazzine brutte che
gli italiani stavano mollando: a un certo punto a molti padroni di
casa conveniva affittare soltanto a loro, creavano meno problemi e il
mensile continuava a restare alto, perché i nuclei famigliari sono
sempre numerosi. Ed è vero che tendono a farsi vedere in giro più
degli italiani: forse perché hanno meno spazio in casa.
«Capo, dico a te.»
«Sì?»
Quella sera mi giravano un poco, vuoi
perché il turno di notte è quel che è, vuoi perché non ha senso
mettersi lì impalati per otto ore davanti a un accesso, se poi a
cinquanta metri ce n’è un altro e non lo controlla nessuno. Far la
guardia ha un senso, ma il picchetto a un recinto aperto, grazie, no.
E allora ho detto al mio compagno: ma in via Narsete c’è qualcuno?
Non lo sapeva. Scusa, stiamo qui a rompere le palle alle suore che
vogliono andare in Sant’Antonio, e intanto in via Narsete può
entrare chi vuole? E l’ambulatorio che hanno svaligiato ieri,
ricordami, in che via era? Narsete. Ah, ecco. Senti, hai detto che
sei qua fino all’una? Allora è inutile che stiamo in due. Io mi
vado a mettere in via Narsete.
È un passaggio pedonale, senza
lampioni; la sera diventa buio subito. Ma non ci si sente soli, nel
parchetto lì davanti si sono accampate due famiglie di africani,
quelli che hanno un tono di voce sempre alto come se litigassero,
anche se non litigano mai. Ma a noi razzisti sembra così. Dal modo
in cui articolano l’inglese potrebbero essere nigeriani o ghanesi.
Tutti piuttosto alti di statura. Sto scrivendo un messaggino quando
mi sento chiamare
«Capo!»
«Eh?»
E dall’oscurità mi viene incontro un africano di due metri e venti.
«Ciao, fai la guardia?»
«Eh, sì.»
«Ma qui non c’è mai nessuno, capo.»
Me lo dice con un tono che interpreto come di rimprovero.
«Lo so, adesso però ci sono io.»
Mi guarda con un’espressione che
interpreto come di scetticismo: ah, beh, capo, se ci sei tu siamo a
posto. In effetti, col mio bel casco giallo, non gli arrivo al naso.
«Qui può passare un sacco di gente.»
«Eh lo so, si fa quel che può.»
«Capo, domani voglio venire io.»
«Tu?»
«Io li conosco tutti quelli che
abitano qui, io sto in via IV novembre ma l’anno scorso stavo lì
in via Narsete, li conosco tutti. E loro conoscono me, faccio passare
solo chi ci abita.»
«Beh, guarda... ti do il numero della
protezione civile, così se hanno bisogno di aiuto...»
«Ecco,
grazie capo.»
In quel momento ti si accende come
una lampadina. Cosa stai facendo? Sì, lo sai, sarebbe una sentinella
perfetta. Alto come una torre, nero come la notte; conosce tutti, e
tutti lo conoscono. Però.
Ti ricordi dove abitiamo?
Te lo immagini mentre chiede la
carta d’identità alla tizia che ha la gioielleria all’angolo?
Vuoi metterlo nei guai?
Vuoi costringere qualcun altro a
dirgli di no, vuoi scaricare su qualcun altro quella piccola dose di
razzismo che ci stiamo dividendo in parti uguali?
«Senti, scusa... io adesso il numero
te lo do... ma tu... sei sicuro?»
«Certo capo.»
«Si tratta di stare qui, e fare
entrare soltanto i residenti...».
«Li conosco tutti.»
«Ma anche, per dire, se non ne
conoscessi uno, dovresti chieder loro i documenti, cioè...».
Capo, mi stai chiedendo se so
leggere?
«Vabbe’, comunque il numero è
questo.»
Noi di qua siamo razzisti, ma non lo
saremo per sempre. O ci mescoleremo – ci stiamo già mescolando,
però ci vuole tempo – o se ne andranno loro, in cerca di meglio.
Di lavoro, soprattutto: da noi l’offerta stagnava già da un paio
di anni, e molte facce scure in giro per i quartieri erano
semplicemente in cassa integrazione.
In certi casi il terremoto dev’essere
stato la goccia che fa traboccare il vaso, o la strattonata di un
conoscente che ti dice: dove stai buttando la tua vita? In quel posto
di zanzare e sciami sismici? Ma lo sai che qui da noi in India / Cina
/ Turchia il Pil cresce che è un piacere? Si dice, non so se sia
vero, che il governo marocchino abbia offerto a tutti i residenti nei
comuni terremotati il biglietto aereo per rientrare. A volte
conviene, tenere una madrepatria lontana da qualche parte. Qualcuno
che per male che vada ti può pagare un biglietto. In realtà
possiamo andarcene anche noi, quando vogliamo. Da qualche parte dove
saremo anche noi un’etichetta, gli «italiani», che vuol dire
tante cose e quasi nessuna che somigli a noi davvero. E nessuno ci
offrirà di fare la sentinella: senza offesa ma... non sei adatto.