Indovina chi viene a cena - in una bella villa bianca sul lato deserto del lago, tutto intorno chilometri di boschi, non un'anima a parte i cervi e i bianchi ricchi e progressisti. Rose vuole presentare Chris ai suoi genitori. Li ha almeno avvisati che Chris, oltre a essere un bravo fotografo, è... nero? No, ma non importa, anzi forse è meglio perché... è gente aperta, avrebbero votato Obama anche una terza volta, e poi chi non vorrebbe avere un bel ragazzo nero da sfoggiare al rinfresco?
Indovina chi ha azzeccato un altro thriller in una casa nei boschi: la Blumhouse, esatto. Ma stavolta ha esagerato. Con un regista esordiente e non pratico del genere (veniva dalle commedie); con la sua formula antica e austera, 10% azione e 90% suspense; con la sua produzione parsimoniosa, per non dire taccagna, ha portato in sala un film che è costato quattro milioni e mezzo di dollari e ne ha fatti duecentotrenta. Per intenderci: il King Arthur della Warner non ha ancora superato i cento - ce la farà, ma è costato centosettanta, per via dei mega-elefanti in computer-grafica che evidentemente erano necessari. La Blumhouse non usa computer-grafica (o se c'è davvero non si vede). Per emozionare lo spettatore - spaventarlo, divertirlo, consolarlo - non ha altre risorse che il montaggio, la recitazione, la storia: per farla breve: la Blumhouse fa il cinema. E funziona. Forse un cinema così classico è ormai merce talmente rara che fa notizia. Non spende tanto ma spende bene: luci e musiche ti danno l'impressione che il film giochi in serie A. Get Out cattura con cose semplici - occhi sgranati, occhi piangenti, porte chiuse e all'improvviso aperte, e qualche rumore semplicissimo e fantastico. Chi proprio vuole il sangue alla fine avrà il suo sangue, ma a Get Out per catturarti basta il suono di un cucchiaino (continua su +eventi!)
L'orrore è una lacrima. |
Certo, dalla sua Jordan Peele aveva anche la tematica-di-scottante-attualità: la questione razziale in America, il movimento Black Lives Matter, la fine dell'era Obama e il modo in cui anche il razzismo sta cambiando (evolvendo, per così dire), adattandosi alla postmodernità e scavandosi nuove nicchie. In questo senso forse Get Out è meno a fuoco di quanto molti hanno voluto credere. Non per imperizia di chi lo ha scritto, diretto e recitato, ma proprio perché non vuole essere un manifesto, ma soprattutto un film: anzi un film di genere, orgogliosamente di serie B, con una storia semplice e intagliata nell'antico legno delle fiabe. È un film che attinge da immagini banali e fortissime (un bicchiere di latte, un trofeo di caccia), da un brodo di emozioni vere e presenti (l'imbarazzo di sentirsi nero alle feste: non necessariamente disprezzato; anzi a volte persino ammirato, ma sempre e comunque etichettato, categorizzato, pesato e prezzato), e non disdegna una di quelle belle catarsi sanguinolenti che solo il cinema di genere può permettersi di servire.
Get Out forse esagera a prendersela coi liberal bianchi, un avversario forse un po' troppo facile e sgonfio, proprio mentre una nuova ondata di razzismo tutt'altro che ipocrita e liberal manda un suo uomo alla Casa Bianca. Ma la storia funziona molto meglio così, e quindi tanto peggio per i liberal. Get Out non salverà l'America dal razzismo, ma intanto sta salvando il cinema: perché le cose che ha da dire, giuste o o meno giuste che siano (o persino sbagliate), le dice coi mezzi antichi e potenti del cinema. Al Cinelandia di Borgo San Dalmazzo (20:20, 22:40); al Vittoria di Bra (20:15, 22:20); all'Italia di Saluzzo (20:00, 22:15) e al Cinecittà di Savigliano (20:20, 22:30).
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