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martedì 26 novembre 2002

Maestri di vita: (1) lo sguardo di Oliver Hardy

Capita nel bel mezzo di una comica, di solito a gag sopraggiunta, che Oliver Hardy guardi verso la cinepresa, perplesso, sbuffante. Non so se sia stato il primo a farlo, ma il più antico che mi ricordo è lui. Ed è a lui che penso quando mi capita – e mi capita spesso – nel bel mezzo di un guaio, o di una situazione che troverei comica, se non mi riguardasse in prima persona – di guardarmi in giro perplesso, come in cerca di una telecamera, un monitor, un pubblico qualunque davanti a cui sbuffare, anche solo un attimo, prima del prossimo ciak.

Guardare verso il pubblico, cercare la sua solidarietà, è un espediente vecchio quanto il teatro. Ma Oliver Hardy ci aggiunge qualcosa di nuovo, un ritrovato della tecnica: il primo piano. Non ha bisogno di fare un passo in avanti sul palcoscenico: d'improvviso il suo faccione riempie lo schermo, guarda verso lo spettatore, e non fa nulla: sbuffa appena. E lo spettatore ride. Per la verità stava già ridendo dalla gag precedente. Ma lo sguardo di Hardy aggiunge qualcosa di più. Prima ridevamo di lui: ora gli ridiamo in faccia. Per di più, lui sa che noi ridiamo, e resta serio. Non cerca neanche un momento di salvare la faccia, mettendosi a ridere anche lui. Sarebbe patetico. Invece accusa il colpo. Sbuffa, impreca sommessamente contro il suo destino di clown. E la comica riprende.

Sì, però Oliver Hardy è un clown professionista, e un genio del mestiere. Ma io? Chi sto cercando? La candid camera, il pubblico del Grande Fratello, o del Truman Show? O forse una parte di me stesso, né subconscio né superIo, né sopra né sotto, ma nei paraggi, una specie di risata registrata interiore? O forse sto cercando Dio, però vorrebbe dire che ho smesso di cercare un Dio-onnipotente in cielo (da cui piovono solo disgrazie), rassegnandomi a un più modesto Dio-spettatore che si degna di sghignazzare alle mie spalle – concedendomi qualche rada volta l'onore di sghignazzarmi in faccia. Del resto, ha pagato il biglietto…

Quando la gente mi trova serio – e la gente mi trova serio – è difficile spiegare che la mia serietà l'ho imparata tutta da Oliver Hardy. E che anzi di nascosto sono un buffone, ma non mi piace deridere nessuno a parte me stesso. Perciò preferisco essere io il protagonista dei miei sketch.
Mi spetta la parte più difficile e più ridicola, che è quella del clown bianco. Il clown che si crede superiore, e viene continuamente umiliato dal più autentico pagliaccio, lo Stan Laurel di turno, l'Augusto, il bambino, il genio. Mentre io aspiro a una vita seria, normale, dove le torte si mangiano e non finiscono invariabilmente sulla mia faccia.
Stan non ha questo orizzonte. Per lui è normale saltellare sulle travi di un cantiere con un bicchiere d'acqua in tasca. Ma io, per quanto goffo, so che questo non è il mio posto, e che qualcuno, da qualche parte ride di me. E guai se non ci fosse. Sarebbe tutto vano.

Così certe sere io mi chiedo: ma che pazzia è, esattamente, il voler tenere un blog, pretendere di avere tre o quattro storielle divertenti alla settimana? Perché? Per chi? Non conosco il nome di questa patologia, ma somiglia al voltarsi di scatto (in un aria di vetro) a cercare una cinepresa, un pubblico, qualcuno a cui sbuffare. Non voglio essere famoso, ma vorrei che qualcuno sorridesse un po' di me. Per poter – restando serio – sorridere un poco con lui. E in questo modo andare avanti.

(In fondo il boom mondiale dei blog è scoppiato pochissimo dopo il boom del Grande Fratello: ci ha fatto caso qualcuno? Ci faccio caso io).

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