American Hustle (David O. Russell, 2013).
All'inizio di tutto c'è Christian Bale alle prese col riporto più brutto che abbiate mai visto. Non può venirne a capo, non c'è abbastanza brillantina al mondo per sistemare quella cosa. E invece sì. L'apparenza inganna. È il sottotitolo del film. In effetti potrebbe essere il sottotitolo di qualsiasi film; della cinematografia in generale. American Hustle dovrebbe essere un caper movie, quel genere che in italiano poteva anche chiamarsi "colpo grosso", prima che Umberto Smaila arrivasse a complicare la semantica delle cose. David O. Russell voleva girare un colpo grosso, un film di truffatori e truffati. Dopo il film romantico (Silver Lining Playbook), quello pugilistico (The Fighter), quello bislacco (I Heart Huckabees), quello di guerra (Three Kings). Cambiano gli ambienti ma le storie hanno qualcosa in comune: all'inizio c'è un protagonista che commette azioni discutibili. Un maggiore delle forze speciali che vuole rubare l'oro di Saddam, un ex pugile che fuma crack, questo tipo di cose. Più avanti la crisi, la riscoperta-dei-valori-veri, la redenzione. Il lieto fine, anche quando non fosse previsto, sarà imposto dalla produzione.
Dopo Christian Bale appare Amy Adams. È meravigliosa, e veste Gucci e Halston vintage per tutto il film. American Hustle è anche un period movie come vanno adesso, un film che tenta di evocare un'epoca determinata, con una precisione che sta diventando stucchevole tanto è maniacale. Per una curiosa coincidenza, è esattamente la stessa epoca (1978-1980) di Argo, oscar per il miglior film l'anno scorso. Stesse infinite variazioni sul marroncino che ritornano in No di Larraín - ambientato dieci anni più tardi, ma in Cile, dove il forno a micro-onde è ancora un oggetto inquietante. Quello di Larraín è il caso limite, visto che ha girato con la pellicola e gli strumenti dell'epoca, mescolando spot televisivi originali. Negli altri casi è lecito domandarsi se costumisti e trovarobe non si stiano un po' allargando a spese di sceneggiatura e regia. Va a finire come con Mad Men, dopo un po' ti accorgi che t'interessa più l'arredamento della trama. Russell si adegua e decide, per definire i suoi personaggi, di affidarsi ai capelli: la parte di noi più deperibile, la più sacrificabile alle mode. Il grande truffatore ha un riporto impossibile: è chiara la metafora? Gli arrampicatori sociali invece si fanno ricci coi bigodini. Anche lo smalto per le unghie è estremamente simbolico. Non era una cattiva idea, ma Russell è preoccupato che ci sfugga e ci insiste finché non diventa ridondante.
In seguito arrivano Bradley Cooper e Jennifer Lawrence. Non è passato neanche un anno da quando erano la coppia quadripolare di Silver Lining, ed eccoli non-protagonisti di lusso in un film in apparenza tanto diverso. Invece assomigliano ai vecchi personaggi: Cooper è un agente federale spiritato, con episodi maniacali che a volte sfociano in scoppi di violenza (la cocaina naturalmente gioca la sua parte) (continua su +eventi!) La Lawrence è la casalinga matta, sempre più credibile. È come se il vecchio film non volesse cedere del tutto lo spazio al nuovo. Una sensazione che accresce ancor di più il sospetto che questo non sia un vero caper movie; che il colpo grosso sia solo parte dello scenario, in un film dove lo scenario è ingombrante ma non è tutto. A Russell non interessa davvero il meccanismo della truffa, il trucco da preparare nei dettagli, il trabocchetto da tendere allo spettatore (e in effetti chi è cresciuto con la Stangata non ci casca: ma non ha davvero tanta importanza). A Russell interessano i personaggi, in carne e ossa e peli e unghie e soprattutto sentimenti. Ci tiene tanto ai sentimenti. Spero che ci teniate anche voi, perché Russell con la scusa del colpo grosso vuole provare di nuovo a raccontarvi una storia d'amore e redenzione.
Se invece le storie d'amore tra personaggi non simpaticissimi non sono il vostro forte, American Hustle rischia di lasciarvi con l'amaro in bocca. Non c'è truffatore repellente che non possa redimersi, non c'è spogliarellista in carriera che non possa darci lezioni di integrità sentimentale. L'importante è trovare amici che ci sappiano scaldare al fuoco del loro affetto e della loro rettitudine. Pur di trovarli Russell è ben disposto a violentare la storia vera che sta raccontando, trasformando un sindaco colluso con la criminalità in un eroico difensore di orfani e vedove e lavoratori di ogni colore. Ora il punto non è tanto che il sindaco vero non fosse decisamente uno stinco di santo (trafficava narcotici e banconote false, robetta). Non sarebbe la prima volta che un criminale diventa un eroe sulla pellicola per esigenze narrative. Però poi arriva il momento in cui questo eroe ti porta in un casinò appena riaperto ad Atlantic City, e dopo averti spiegato com'è vitale per tutta la collettività multiculturale del New Jersey la legalizzazione del gioco d'azzardo, e quante cose belle e civiche si possono fare restaurando i vecchi casinò che sono un patrimonio culturale - dopo tutti questi bei discorsi - ti mostra un gruppo di persone in fondo alla sala e dice che prima o poi con quelli bisogna andarci a parlare. È la mafia di Miami.
Il sindaco piezz'e'core, per far marciare l'economia, deve invitare la mafia di Miami. E va bene, si vede che le cose stavano davvero così: per far funzionare le case da gioco ti serviva il know-how della mafia. Però Russell non è Scorsese, non riesce a fare del suo sindaco Carmine un personaggio complesso, un personaggio ambiguo. Il tizio continuerà a gironzolare per tutto il film spiegando quanto è onesto ed eroico e quante cose buone ha fatto per i suoi cittadini, e noi spettatori dovremmo crederci e dimenticare il fatto che ha invitato i mafiosi a fare affari nella sua città: dovremmo pure stare in pena per la sua sorte. È che a Russell interessano i sentimenti, solo i sentimenti; e se gli è scappato un minimo di affresco sociale è stato per sbaglio. Eppure sotto le scenografie e le musiche, sotto la tricologia e gli arredi, persino sotto la storia d'amore, c'è la traccia di un film impensabile in Italia: un film dove i politici sono onesti lavoratori perseguitati da folli magistrati, pardon, da agenti federali ubriachi di potere. Un film che Berlusconi si guarderebbe a rotazione tutte le sere e non è escluso che lo faccia - ha molto tempo libero adesso.
Alla fine di tutto c'è un gran senso di vuoto. Mi succede sempre così coi suoi film. Mentre li guardo mi diverto anche molto; mi commuovo, mi appassiono, provo tutti i sentimenti che Russell desidera che io provi. Poi si accendono le luci e non mi ricordo quasi più il film che ho visto. Ricordo Amy Adams; qualche vestito di Amy Adams; Bradley scamiciato come Moroder che balla un pezzo di Moroder; il sindaco bravo e buono che invita i mafiosi; il riporto impossibile di Christian Bale, tutto qui. Mi ha fregato di nuovo, David O. Russell. L'apparenza inganna - la gente crede a quello che vuole credere, e mentre lo guardavo volevo crederci. Mi sembrava proprio un film coi fiocchi, un vero colpo grosso. Ma forse il pollo ero io.
American Hustle è al Cine4 di Alba (18:30, 21:30); al Cinelandia di Borgo S. Dalmazzo (14:30, 17:15, 20:00, 22:45); all'Italia di Saluzzo (16:00, 18:45, 21:30); al Cinecittà di Savigliano (16:00, 18:45, 21:30).
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Tutto vero... hai proprio ragione. Comunque rispetto alla programmazione di questi giorni era il meglio da vedere, secondo me. 6€ ben spesi.
RispondiEliminaVedremo se the counselor di Scott, sarà meglio
"Approfitto di questi giorni di pausa per dedicarmi anche ai miei gatti. Da qualche settimana infatti sono diventati due. Al nostro Gigibillo si è aggiunto un magnifico gattone nero, a cui ancora dobbiamo trovare un nome (suggerimenti?). La convivenza tra i due, all'inizio difficile, ora sta migliorando e mi pare che Gigibillo abbia imparato a conoscerlo e a condividere con lui spazi e crocchette"
RispondiEliminaChi indovina di chi è questo messaggio?
La moglie di beppe strillo?
Eliminatutto giusto, a parte il fatto che in Mad Men, dopo un po' di puntate, te la scordi proprio la cura maniacale e ti innamori della storia, altrochè.
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