[Questa è sempre La Cura, un infinito torneo di canzoni di Franco Battiato. Oggi che abbiamo? Una sonata per violino su una nota sola, un brano elettropop che demolisce l'elettropop, un lato B dei Rolling Stones, un lato B di Dalida].
Di cose ostiche all'ascolto Battiato ne ha incise parecchie e per vari motivi, ma qui siamo forse tra le prime dieci. Telegrafi consiste in sei minuti di Giusto Pio che maltratta il suo violino; comincia con una cascata di note che ricorda l'attacco a effetto di Adieu, ma abbastanza presto si fissa su una nota sola, com'è opportuno trattandosi di telegrafi. Il brano faceva parte di quella colonna sonora per il film tv Brunelleschi che fu rifiutata dai produttori Rai, e riascoltando Telegrafi non è difficile capire il perché. Ma non è neanche difficile immaginare un sottofondo così dissonante sulle immagini in bianco e nero di uno di quegli sceneggiati in costume anni Settanta sempre un po' sperimentali e inquietanti.
1983: La musica è stanca (#145) (testo di FB e Tommaso Tramonti)
E quante cantanti di bella presenza che starebbero meglio a fare compagnia... in quegli ironici '80 bastava grattare appena un po' la patina postmoderna per scoprire in Battiato un arcigno castigatore dei costumi; dopodiché ci precipitavamo a rispalmargli la patina postmoderna che insomma era il vero motivo per cui lo amavamo. Orizzonti perduti disorientò parte dei fan di Battiato a causa degli arrangiamenti completamente elettronici – il che non sarebbe stato nemmeno una novità, se non fossero stati affidati a un sequencer (il Roland MC-4 microcomposer) che già in quegli anni era facile accostare all'europop da classifica più superficiale e danzereccio. Col tempo questo è diventato il segreto del fascino di Orizzoni perduti, un disco in cui la voce di Battiato è l'unico residuo di umanità in un paesaggio sintetico, ma in quel momento la mossa poteva lasciare perplessi: tanto più che nella più ritmata delle otto tracce FB se la prendeva proprio con la stupidità della musica contemporanea. "Brutta produzione, altissimo consumo, la musica è stanca, non ce la fa più". Con tanto di coretti accelerati "disco disco! telegatti!", contro cui si invoca un raga già probabilmente mongolico. È il brano più pazzoide di tutto il disco, una presa di distanze dalla soffusa malinconia degli altri sette, e contiene una sotterranea ammissione: più che la musica, è FB che è stanco di farla in questo modo. La EMI lo ha trasformato in un animale da alta classifica, ma lui non vede l'ora di cambiare pelle, di nuovo.
1999: Ruby Tuesday (Jagger/Richards, #17)
Dying all the time. La leggenda, raccontata per lo più da Marianne Faithfull, racconta che Keith Richards per comporre Ruby Tuesday non si fece aiutare da Mick Jagger (che pure è accreditato), ma dalla meteora degli Stones, Brian Jones. Che quindi nella sua breve esistenza avrebbe scritto una sola canzone, e che canzone. È solo una leggenda, ma forse serve a spiegare la stranezza di un brano che c'entra poco con tutto quello che gli Stones facevano e avrebbero fatto, e allo stesso tempo cattura molto bene una certa tristezza e un senso di vuoto che sta al centro del loro mito. Ruby Tuesday è quel tipo di brano che si presta molto bene a cover mediocri: comunque vada sarà sempre un'ottima canzone, ma è impossibile battere l'incanto dell'incompiutezza della versione originale, con quel coretto lievemente fuori di chiave. Battiato forse ci riesce, ed è uno dei risultati più notevoli di tutti i suoi Fleurs. In un certo senso la sua Ruby è il manifesto dei Fleurs: prendere una canzoncina di un gruppo di finti teppisti su una groupie poco seria e leggerla come un testo sacro, interpretarla come un Lied, con intensità, serietà, rispetto, trasporto, senza timore che la canzone non riesca a reggere tutta questa intensità religiosa, questo rispetto che è dovuto a una cosa sacra, perché in ogni cosa c'è qualcosa di sacro, forse – sicuramente c'è in Ruby Tuesday e Battiato ce l'ha mostrato. Persino il suo inglese, meno atroce che in passato ma comunque ingessato, stavolta ha un senso, sembra una di quelle lingue liturgiche uguali in tutto il mondo salvo per l'accento del sacerdote officiante. Alfonso Cuarón la scelse per una delle scene più toccanti di Children of Men.
2008: Il venait d'avoir 18 ans (#112)
Fleurs è un bel gioco che forse è durato troppo. Il primo disco è un capolavoro, il secondo non lo è, il terzo boh, c'è sempre questo pericoloso effetto karaoke nell'aria. Ha a che vedere anche con la scelta delle canzoni: quelle del primo disco, s'intuiva, narravano un'educazione sentimentale ancor prima che musicale e non oltrepassavano gli anni Sessanta. Quando arriva al terzo volume (che s'intitola Fleurs2), Battiato sta sempre più sconfinando nei Settanta e raccontandoci qualcosa di meno chiaro: eravamo convinti che quegli anni li avesse passati a esplorare le potenzialità dei sintetizzatori e a registrare e montare rumori; ma ora salta fuori che ascoltava pure Dalida? è buffo. Il brano, certo, da un punto di vista musicale è senza tempo: come tutti i migliori fleurs battiateschi esiste indipendentemente dalla storia della musica che gli scorreva intorno. Ma è anche un brano eccezionalmente autobiografico, un parziale coming out per la cantante più famosa di Francia che a 40 anni racconta di avere avuto a 36 anni una relazione sessuale con un ragazzo diciottenne. Probabilmente le date non tornano, magari lei ne aveva un po' di meno e il ragazzo un po' di più, ma insomma l'età dell'innocenza è finita, qui c'è un'artista che fa spettacolo della propria vulnerabilità sessuale sottoponendosi al giudizio del pubblico (che solo in seguito avrebbe scoperto i lati più tragici della vicenda: Dalida era rimasta incinta, aveva abortito, le complicazioni dell'aborto l'avevano resa sterile). Tutto questo rende particolarmente drammatica la versione originale, e... abbastanza dimenticabile la versione battiatesca, che racconta la storia in terza persona. Verso la fine compare una cantante iraniana (Sepideh Raissadat) che riporta quella spezia mediorientale che Battiato sapeva dosare con estrema cura.
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