Non nel senso che "deve", eh. Solo nel senso che quando vuole può. Di solito non vuole.
Se ne parla ovviamente sul Post - perché a scrivere i pezzi sui Santi famosi sono buoni tutti, ma un pezzo su Sant'Evaristo Papa non lo leggerete da nessun'altra parte, nessuno ha mai veramente scritto più di quattro righe sul povero Sant'Evaristo Papa.
Certi santi ci lasciano monumenti di carta; altri giusto tre righe nella pergamena di un cronista svagato che magari sta solo improvvisando per riempire un buco. È il caso di Evaristo Papa, che secondo la tradizione sarebbe nato a Betlemme, ma poi in un qualche modo sarebbe arrivato a Roma in tempo per essere il quinto o il sesto successore di Pietro. Siamo tuttavia nel primo secolo, la Chiesa di Roma è ancora una piccola setta che non lascia molte tracce di sé. Può darsi che l'abbia fondata davvero Simone detto Pietro, ex pescatore palestinese con trascorsi sovversivi, come può anche darsi di no: in una delle sue tre lettere dice di scrivere da “Babilonia”, che può essere Roma ma anche qualsiasi città grande e corrotta dell'impero, per esempio Antiochia di Siria (metropoli dove Pietro rimase molti anni, non lontana dalla Babilonia storica).
I nomi dei suoi immediati successori al soglio romano sono graffiti evanescenti: “Lino” sembra davvero un nome da nulla per il secondo vescovo di Roma (contrazione di Aquilino?) Poi ci sono Cleto, Anacleto e Clemente I, ma potrebbero anche essere la stessa persona in tre dialetti diversi. Dei tre Clemente è l'unico di cui abbiamo notizie abbastanza certe, insomma il primo vero vescovo di Roma potrebbe essere lui. Nel 97 l'imperatore Traiano lo avrebbe espulso da Roma, ordinandone la deportazione nel buco più remoto dell'impero – in quel periodo la Crimea. Clemente ovviamente ne avrebbe approfittato per evangelizzare anche quella remota regione, finché l'imperatore spazientito non lo avrebbe fatto gettare in mare con un'ancora al collo... ma non era di lui che dovevamo parlare. Bensì del suo successore, Papa Evaristo. Ecco, di lui si sa ancora meno, ma quel poco che si sa è una bomba.
Secondo alcune fonti, infatti, Evaristo diventa Papa nel 97, ovvero non alla morte del suo predecessore, ma quando questi fu esiliato. Insomma, non potendo per ragioni di forza maggiore continuare a dirigere la Chiesa di Roma, Clemente avrebbe rassegnato le dimissioni. È un precedente clamoroso. Sì, voi non ne sapevate niente, delle dimissioni di Papa Clemente, ma potete star certi che sia Wojtyla che Ratzinger ne abbiano discusso (anche tra loro). Di dimissioni pontificie ce ne sono state altre (il “gran rifiuto” di San Celestino V è il più celebre), ma non così tante, e non sempre in circostanze chiarissime. Anche il caso di Evaristo non è così limpido: secondo altri studiosi tra il 97 e il 99 non fu proprio un Papa, ma una specie di vicario, perché nessuno poteva escludere in linea di massima un rientro miracoloso di Clemente a Roma. (Una delle difficoltà della Chiesa quando cerca di istituire delle regole pratiche è che non può mai, per definizione, escludere eventi miracolosi, ovvero assurdità). Probabilmente ai suoi contemporanei la questione doveva sembrare di lana caprina: Evaristo era il vicario di Cristo o il vicario del vicario? L'importante era che mandasse avanti la baracca. Il problema si pone duemila anni dopo: può un Papa subentrare a un altro Papa vivo?
Pare di sì. I precedenti ci sono, come abbiamo visto. Non solo, ma il diritto canonico riconosce nero su bianco questa possibilità, senza neanche porre troppe condizioni. (Can. 332 - §2: "S i richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti"). Memore dell'esempio di Clemente, Pio XII aveva una lettera di dimissioni pronta nel cassetto nell'eventualità che i nazisti lo arrestassero. Anche Wojtyla aveva preparato una lettera del genere, da divulgare soltanto in caso di infermità inguaribile. Il problema è che per un cattolico fervente nessuna infermità può essere ritenuta veramente inguaribile: equivarrebbe a dubitare della provvidenza, e con tutto il suo coraggio Wojtyla non avrebbe mai realmente osato farlo. Prevalse su tutto una considerazione che non era dettata dalla legge o dalla tradizione (del resto Giovanni Paolo II cambiava leggi e tradizioni ogni volta che lo riteneva utile): nessuno avrebbe potuto essere un Papa credibile mentre Wojtyla era ancora in circolazione. Come aveva detto a un chirurgo già ai tempi delle frattura al femore: “Dottore, sia lei che io abbiamo una sola scelta. Lei mi deve curare. E io devo guarire. Perché non c’è posto nella chiesa per un Papa emerito”. Una questione più mediatica che dottrinale.
Oggi che Ratzinger è stanco, e non si fa scrupolo di mostrarlo al mondo, la situazione è piuttosto diversa. Anche qui, non si tratta di dottrina – tutto sommato Benedetto XVI non si è discostato molto dal solco wojtyliano – ma di carisma mediatico: il predecessore ne aveva a pacchi, lui giusto qualche briciola. Il mattino in cui si dimetterà, decine di accorati vaticanisti si stracceranno le vesti, per poi passare immediatamente al toto-conclave senza concedere al rimpianto una mezza giornata in più. Nessuno gli chiederà nemmeno di andarsene, non c'è più nessuna Crimea da evangelizzare. Una camera nei palazzi vaticani non gliela dovrebbero negare, magari proprio quella in cui dormiva quando sognava di subentrare al suo capo. Il bello è che quando Wojtyla volle un parere serio sulla questione delle dimissioni, lo chiese proprio a lui. E lui, ovviamente dopo un accurato studio delle fonti e della patristica e del diritto eccetera, rispose sì, tranquillo, si può fare. Poi è rimasto paziente ad aspettare per altri anni. Troppi anni. I giardini Vaticani un po' come la Fortezza sul deserto dei Tartari. Quando alla fine i Tartari sono arrivati, Ratzinger era già stanco. Il parere che aveva fornito a Wojtyla alla fine sarà servito almeno a lui (è difficile non immaginare a questo punto W. da qualche parte che sorride, sempre tremando un po').