Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

sabato 28 settembre 2024

Bernardini si diventa

28 settembre: Beato Bernardino da Feltre (1439-1494), predicatore antisemita

Eusebio da San Giorgio?

Verso la fine della sua esistenza terrena, Martino Tomitano da Feltre poteva ben pensare di avercela fatta: non era semplicemente diventato famoso e celebrato come il suo mito giovanile, Bernardino da Siena. Qualcosa di più: Martino era diventato Bernardino. Da lui non aveva mutuato solo il nome (assunto quando era entrato nell'ordine francescano) e la professione (frate predicatore), ma col tempo aveva cominciato a somigliargli – aiutato in questo dalla statura modesta, l'alimentazione frugale, e la vita frenetica, 17000 chilometri a piedi o a dorso di mulo in vent'anni, schizzando da una città all'altra, attirando folle che in lui evidentemente riconoscevano un archetipo: un fraticello rinsecchito e linguacciuto tutto solo contro il male del mondo. L'attività dei due bernardini copre quasi tutto il Quattrocento. Il tempo però non torna mai davvero su sé stesso: che i frati lo volessero o no, il Medioevo stava finendo, e il pauperismo francescano non era più quello radicale e utopistico di due secoli prima: alcuni predicatori come il primo Bernardino ne avevano fatto un'acuta critica degli eccessi del capitalismo mercantile, ma ai tempi del secondo Bernardino ormai anche questa critica era diventato una retorica codificata con degli obiettivi stereotipati: le Banche che dissanguano il popolo (e i perfidi ebrei che le gestiscono). 

Finisce sempre così, no? Si nasce incendiari, si muore pompieri, salvo che la cosa è un po' più complessa e a volte coinvolge più generazioni di persone che pure vorrebbero somigliare il più possibile a quelli prima di loro, copiandone i nomi e i discorsi. Un gruppo di intransigenti vuole cambiare il mondo, il mondo tuttavia è vasto e complesso e se il gruppo non scompare, a sopravvivere sono i più moderati, che magari conservano un limpido ricordo dell'intransigenza dei fondatori, ma dal canto loro preferiscono campare, e così dopo tutta una serie di lotte si impossessano del gruppo e lo trasformano in un qualcosa che alla fine somiglia sempre a un centro di servizi per la collettività. Prendi il comunismo, che in Italia dopo un secolo di scontri anche armati si è trasformato nella Coop, un posto dove vai a fare la spesa e ti fanno anche i libretti di risparmio. Invece i francescani, che nel Duecento dovevano vivere scalzi e di carità, nel Quattrocento fondarono i Monti di Pietà e prestavano con interessi variabili tra il 5 e il 15%. Non fu un'idea originale di Bernardino da Feltre (anche se lo stesso Martirologio Romano ce lo suggerisce: "istituì contro l’usura i cosiddetti Monti di Pietà"), ma era uno dei cardini della sua attività di predicatore: dopo aver additato al suo pubblico il Male (gli usurai, spesso ebrei), Bernardino esibiva il Rimedio: il Monte. Parte della sua arte oratoria era votata appunto a spiegare come mai, benché prestare a interesse fosse cosa diabolica ed esecranda, un interesse oscillante tra il 5% e il 15% era invece ancora gradito a Dio, in quanto era l'unico mezzo con cui il Monte di Pietà riusciva a sostentarsi.  

Non è che la cosa non abbia un senso: ancora oggi l'unica vera differenza tra l'usura (che è un reato) e il prestito a interesse (perfettamente legale) è la percentuale, credo fissa al 20%, un valore che per Bernardino ci avrebbe mandato tutti all'inferno. Che il Medioevo sia finito lo si capisce anche da questo, che per distinguere da peccato e cosa buona comincia a servirci il pallottoliere; si ammette che talvolta la questione sia più quantitativa che qualitativa. E anche l'antisemitismo delle prediche del nuovo Bernardino aveva una finalità commerciale, perché sì, d'accordo, erano il popolo deicida, ma soprattutto ormai erano la concorrenza: la gente doveva smettere di farsi prestare i soldi da loro (a volte a interessi inferiori) e chiederli invece al Monte. Non ci avrebbero guadagnato altrettanto, ma non sarebbero finiti all'inferno, bisognava calcolare anche questo. 

Bernardino non ha la sinistra fama di un Torquemada, e del resto non faceva l'inquisitore. Non portava gli ebrei alla sbarra, non li esortava a convertirsi mediante torture. Lui si limitava ad arrivare in città e a snocciolare il suo repertorio, cambiando dialetto a seconda della regione. Aveva tante storie da raccontare a un pubblico a cui fungeva da notiziario, carosello e varietà: conosceva i fatti che avrebbero più impressionato i suoi uditori, e che fossero fatti veri non era importante quanto che fossero interessanti; quando qualcuno cominciava ad accusare gli ebrei di infanticidi o altri immaginosi delitti, Bernardino era già altrove. Bernardino non torse credo mai direttamente un capello a un ebreo, ma nei suoi vent'anni di attività predicatoria gli storici hanno contato almeno 53 episodi in cui dopo il suo passaggio in un centro urbano gli ebrei venivano malmenati, o le loro case saccheggiate, o i loro diritti civici rimessi in discussione. Il caso più famoso è anche il primo: l'invenzione del martirio di San Simonino a Trento (1475), quando la comunità askenazita fu accusata di aver rapito un bambino per immolarlo in occasione della Pasqua. Anche allora, quando scoppiò il caso Bernardino non era in città, ma vi aveva predicato poco prima, e del resto Trento era la sua sede conventuale. Il caso di Simonino fornirà da lì in poi un precedente importante in tutti i dibattimenti successivi perché, a differenza che in altri pogrom, il vescovo Iohannes Hinderbach (che con Bernardino ebbe una solida amicizia) era riuscito a ottenere dagli ebrei che aveva fatto arrestare una confessione scritta: sì, avevano scannato un bambino cristiano per impastarne col sangue il pane azzimo nella Pasqua. Per quanto evidentemente ottenuti con la tortura, per secoli i verbali del processo di Trento furono considerati attendibili: e c'è da immaginare quanto Bernardino tornasse sull'argomento nelle sue prediche perché suvvia, il Monte non vi darà gli interessi dei banchieri ebrei, ma almeno noi francescani non sgozziamo i bambini. A Venezia, dopo il suo soggiorno, gli ebrei diventano così poco popolari che le autorità decidono di confinarli in un quartiere, forse chiamato Borghetto, da cui il termine Ghetto, che avrà un successo secolare; è probabilmente la parola veneziana più usata nel mondo dopo "Ciao". 

Bernardino da Feltre si spense nella sua cella a Pavia, 530 anni fa oggi. Dopo di lui ovviamente ci sono stati altri bernardini, piccoli e grandi, antisemiti o meno. Per quanto ognuno somigli al precedente, i tempi cambiano, e ognuno aggiunge qualcosa e toglie qualcos'altro. Per cui non aspettatevi che dopo tante generazioni si chiami ancora Bernardino, o che vesta un saio. Ma le piazze continua a riempirle, e i fatti che racconta sono sempre più interessanti che veri, i nemici sono sempre perfidi e assetati di sangue, e alla fine c'è sempre un rimedio da comprare, un abbonamento, una sottoscrizione. (Se ne volete sapere di più comprate il mio libro, è in tutte le migliori librerie).

giovedì 26 settembre 2024

La tentazione di San Vincenzo

27 settembre: San Vincenzo de' Paoli (1551-1660), ministro della Carità 

A un certo punto gli storici si sono accorti che l'uomo più buono del secolo XVII – proprio lui, Vincent de Paul, il fondatore delle Dame di San Vincenzo, delle Figlie della Carità coi loro copricapi così buffi e cinematografici (purtroppo aboliti nel Novecento), che non erano proprio suore, ma infermiere libere di uscire dall'ordine e sposarsi; Vincenzo il fondatore dei missionari lazzaristi; di ospizi e ospedali e seminari e orfanotrofi, al punto che si diceva che di notte vagasse per Parigi in cerca di trovatelli da salvare; Vincenzo che da guardiano di animali era diventato così importante a corte che un giorno suggerì alla reggente Anna d'Austria di licenziare il cardinale Mazzarino; Vincenzo che in quel frangente effettivamente cadde in disgrazia ma poi si rifece e fu nominato, dalla stessa Anna, Ministro della Carità; Vincenzo che in quanto tale a un certo punto amministrava un budget superiore a quello delle Corona e nessuno trovava niente da obiettare perché a metà Seicento, sostanzialmente, Vincenzo de' Paoli era il Welfare State francese, un uomo di così specchiata e indiscutibile virtù; ebbene a un certo punto gli storici si resero conto che anche Vincenzo aveva un segreto nascosto nel suo passato; due anni di gioventù in cui non si sapeva bene dove fosse finito. 

Lui stesso non ne parlava volentieri, il che è curioso se si considera che parlare era una parte importante del suo mestiere. Non solo, ma la ricostruzione ufficiale che aveva fornito era materiale per un romanzo picaresco: partito per Tolosa, dove era previsto che conseguisse un dottorato in Teologia, era stato rapito da pirati berberi che lo avevano venduto schiavo a Tunisi. Qui in due anni avrebbe cambiato padrone quattro volte, fino a trovarne uno di origine francese, un frate apostata che per non indossare il saio era scappato in Africa. Con l'eloquenza di cui era senz'altro fornito, Vincenzo lo avrebbe convinto a pentirsi dei propri misfatti e tornare in Europa con lui. In questo modo Vincenzo sarebbe ricomparso in Francia nell'estate del 1607; nessuna sorpresa che non fosse riuscito né a conseguire il dottorato, né a pagare i debiti che già da prima pesavano sul bilancio della sua non ricca famiglia. 

Questa era la storia che Vincent Depaul aveva raccontato ai superiori, ma non gli piaceva tornarci sopra. Qualsiasi altro predicatore avrebbe fatto di un'esperienza del genere una miniera di aneddoti per il suo repertorio, e c'è da dire che tra le altre cose Vincenzo dirigeva un ordine missionario che aveva basi nell'Africa del Nord e l'obiettivo primario di riscattare gli schiavi cristiani; ma a quanto pare non gli venne mai in mente di condividere o rivendicare la sua esperienza in quei due anni passati proprio come schiavo laggiù. Questo comportamento ci appare sospetto e ci fa dubitare di un resoconto che, bisogna dire, non presenta contraddizioni o dettagli assolutamente inverosimili; a un viaggiatore per mare dei primi del Seicento poteva capitare davvero nel Mediterraneo di essere fatto prigioniero e venduto a Tunisi come schiavo; era un caso molto sfortunato, ma avveniva. 

Il punto più debole di tutta la storia è il rocambolesco viaggio di ritorno: due religiosi su una barchetta a vela che dalla costa tunisina approdano in Camargue senza scalo. Da cui il sospetto: forse quel frate apostata è uno specchio dello stesso Vincenzo? In Tunisia ci era davvero finito come schiavo, o volontariamente, per scappare dai debiti famigliari e da una vita sacerdotale che non lo convinceva del tutto? In fondo fino a quel momento per lui il sacerdozio era stata una scelta obbligata: l'unica che apriva le porte dell'università a un ragazzo dotato per gli studi, ma di modestissima condizione. La vera vocazione religiosa sarebbe arrivata più tardi, insieme con l'intuizione di dedicarsi ai poveri (un settore che non va mai in crisi, come notava già Gesù) e l'incontro con le ricche famiglie che gli avrebbero messo a disposizione i primi ingenti capitali. Ma prima di tutto questo Vincenzo era stato un giovane neolaureato come tanti di noi: anche lui poteva avere sperimentato la vertigine di quel momento in cui sai che la strada che stai per imboccare è quella senza ritorno che porta alla vita adulta. In quei frangenti a chi non capita di vagheggiare vie di fuga: e metti che quel mattino un vascello di pirati tunisini stesse cercando personale anche senza esperienze.

Forse, prima di diventare l'apostolo dei poveri, Vincenzo aveva ceduto alla tentazione di vedere com'era fatto l'altro mondo, quello non cristiano; lui stesso ammette che uno dei suoi quattro padroni gli insegnò un po' di alchimia, qualcosa che in Europa non aveva potuto studiare e che magari sperava fosse più interessante che gestire parrocchie e insegnare latino ai figli di qualche conte o marchese. Forse Vincenzo diventò quel pilastro di carità e rettitudine cristiana proprio perché per un paio di anni aveva voluto provare com'era il mondo senza Cristo; e si vede che alla fine non gli era così piaciuto.

mercoledì 25 settembre 2024

Vediamoci a Emmaus

25 settembre: Cleofa, il discepolo di Emmaus 

Caravaggio. 

Comincia tutto probabilmente con un paio di versetti del vangelo di Marco (16,12-13) in cui si riporta che Gesù Risorto, dopo essersi rivelato a Maria di Magdala, sarebbe apparso a due discepoli che andavano "verso la campagna". Tutto qui, Marco è notoriamente il più asciutto degli evangelisti. Qualche anno dopo Luca sembra in possesso di qualche informazione in più – sempre che non se le sia inventate; e il sospetto viene perché l'episodio che riporta è una delle pagine più belle di tutti i vangeli. I due discepoli, racconta, erano diretti verso Emmaus, una cittadina nei dintorni di Gerusalemme. Erano profondamente delusi per la morte di Gesù, "un profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo", che era stato condannato a morte dal Sinedrio e ucciso dai Romani. Lungo la strada incontrano un viandante che domanda di cosa stiano discutendo; è Gesù stesso, ma i due non lo riconoscono e si stupiscono che non abbia afferrato al volo l'argomento. Quello che dei due si chiama Cleofa, o Cleopa, gli dice: "Tu solo, tra i forestieri, stando in Gerusalemme, non hai saputo le cose che vi sono accadute in questi giorni?", e gli riassume in breve la vicenda di Gesù. È un Vangelo nel vangelo, un resoconto brevissimo di cose che Luca ha già raccontato, ma viste da un occhio diverso: un occhio opaco, senza redenzione. I seguaci di Gesù avevano creduto in un profeta, pensavano che avrebbe "salvato Israele", ma lo avevano visto morire come morivano i peggiori malviventi, e anche le voci di una sparizione del corpo, che cominciavano a circolare tra le donne, non erano sufficienti a impedire ai due di tornare a casa. "O insensati e lenti di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno dette!", li apostrofa allora il Gesù in incognito; "non doveva il Cristo soffrire tutto ciò ed entrare nella sua gloria?" E procede a spiegare tutto alla luce delle Scritture. I due non restano indifferenti, tanto che una volta arrivati a Emmaus invitano il viandante a cena, "ché si fa sera e il giorno sta per finire". Durante la cena, il Cristo finalmente si svela, nell'atto con cui aveva istituito il sacramento dell'Eucarestia: "lo riconobbero allo spezzare del pane". Nell'esatto istante in cui viene riconosciuto, Gesù scompare. "Ed essi si dissero l'un l'altro: «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?»". I due tornano quindi immediatamente a Gerusalemme per raccontare la loro esperienza agli Apostoli, uno dei quali (Simon Pietro) ha nel frattempo assistito a un'analoga apparizione.

Gli esegeti hanno identificato Cleofa col marito o il padre di Maria di Cleofa, una delle tre (o quattro) Marie presenti alla morte di Gesù, prime testimoni della tomba vuota; e siccome Cleofa/Cleopa potrebbe essere la versione greca dell'aramaico Alfeo, è considerato il possibile padre di almeno due apostoli: Matteo di Alfeo, l'esattore delle tasse ed evangelista, e Giacomo di Alfeo, detto anche il Minore. Siccome poi quest'ultimo viene tradizionalmente considerato lo stesso Giacomo detto "fratello del Signore" che dopo la partenza di Pietro per Antiochia sembra assumere il ruolo del leader dei cristiani di Gerusalemme, Cleofa sin dai primi secoli è stato proposto come zio di Gesù, magari fratello di Giuseppe; se non addirittura secondo marito di Maria di Nazareth e patrigno di Gesù – questa cosa i cattolici la escludono, ma spiegherebbe il fatto che Giacomo fosse considerato suo fratello. Di tutti questi gradi di parentela qualche lettore ha discusso per secoli, senza notare che la storia raccontata da Luca non ne trae nessun giovamento, anzi; funziona molto meglio se il Cleofa della storia rimane un discepolo secondario, un seguace che aveva seguito la traiettoria di Gesù da una certa distanza, e non un parente stretto membro di un circolo interno che a Luca non interessava così tanto. Quel che gli premeva era documentare quel senso di smarrimento che i discepoli di Gesù avevano sperimentato nelle ore immediatamente successive alla crocifissione. Uno smarrimento che a un certo punto doveva essere svanito di schianto, con un atto di fede che è la vera nascita del cristianesimo. 

Quanto al nome dell'altro discepolo, anche qui la tradizione ne ha proposti tanti, ma ultimamente si tende a pensare che Luca volesse lasciarlo anonimo per aiutarci a immedesimarci: l'altro discepolo siamo noi lettori, che giunti a questo punto del Vangelo non abbiamo ancora capito cos'è successo; è necessario che scenda Gesù stesso a spiegarci una volta ancora. 

Un'altra cosa che non sapremo mai è dove si trovasse esattamente Emmaus. Secondo Luca era a undici stadi da Gerusalemme: un'informazione preziosissima, se avessimo mai capito quant'era lungo uno stadio in quel periodo e in quella regione. Senz'altro da Gerusalemme si poteva raggiungere a piedi in un giorno: ma in che direzione aveva marciato Cleofa, col suo compagno anonimo? Di Emmaus, in Palestina, ce n'era più di una: la più importante, variamente citata da Giuseppe Flavio nelle sue Antiquitates, era a più di cento stadi dalla capitale. Peraltro i romani l'avevano distrutta dopo la morte di Erode il Grande, ovvero poco più di trent'anni prima della crocifissione di Gesù. Del resto le città da quelle parti cadono e risorgono relativamente in fretta, e nel terzo secolo Emmaus, ribattezzata Nicopolis, avrebbe ottenuto dall'imperatore Eliogabalo lo status di città. In qualche manoscritto, invece di Emmaus, si legge Oulammaous: un luogo in cui, nella Genesi, Dio appare in sogno a Giacobbe. Potrebbe trattarsi di un tentativo di un copista di legare l'apparizione evangelica al tradizionale modello biblico, laddove quella del Vangelo di Luca è una sensibile rottura con la tradizione: il Gesù di Luca non appare a un importante patriarca, ma a due discepoli qualsiasi; e non in sogno, ma in carne e ossa, come un compagno di strada che siede a tavola e spezza il pane. Tutto è semplice e immediato, come nei sogni più vividi che facciamo prima del risveglio, dove le persone che abbiamo perso per strada sembrano così vere che riusciamo a toccarle. 

Così la Emmaus di Luca continua a sfuggirci, e noi continuiamo a cercarla. Dev'essere un posto qualsiasi – ecco perché non riusciamo a trovarlo: magari ci passiamo davanti tutti i giorni, è quel bar con un paio di tavolini che non ci sembra mai valga la pena di una consumazione. Un giorno al banco Dio ci attaccherà bottone, ci spiegherà serenamente cosa ci è successo fin qui, componendo tutti i misteri e i pasticci della nostra vita in una breve storia con un solo senso. E poi si leverà di torno: tanto a quel punto sapremo esattamente cosa fare, da chi tornare, per cosa lottare.

sabato 21 settembre 2024

Il legionario nero

22 settembre: San Maurizio e la Legione Tebea, per un totale di 6600 martiri (III secolo) 

Statua di San Maurizio nel duomo di Magdeburgo (1250 ca.)

I santi soldati, nei dipinti, non sono così difficili da distinguere: potete diventare anche voi esperti in cinque minuti. Se porta soltanto la spada non è un vero soldato, ma più probabilmente un martire morto per ferite inflitte da una spada: San Paolo è il più frequente, è calvo e ha la barba. Se è armato di tutto punto e affronta un drago, potrebbe essere San Michele o San Giorgio, e per distinguerli bisogna guardare le ali: Michele le porta perché è un angelo, Giorgio no. Se poi il drago tiene prigioniera una principessa, è senz'altro Giorgio; gli angeli hanno ben altro da fare che liberare le principesse, il drago che San Michele affronta è Satana stesso. Se è vestito più o meno come Giorgio, ma è vicino a Giorgio, ovviamente non può essere lui; più probabile che sia San Demetrio. Se invece ha la pelle nera, beh... no, un momento. Ci sono santi con la pelle nera, nei dipinti? Sì, qualcuno a volte c'è, non è un caso così raro. E chi è? Molto probabilmente San Maurizio. 

San Maurizio sarebbe il comandante della legione Tebea, originalmente di stanza presso Tebe d'Egitto, ma che Diocleziano avrebbe dislocato dalle parti di Agauno (oggi Saint Maurice, nel Cantone Vallese), affinché sostenessero il suo collega imperatore Massimiano in un'operazione di respingimento dei barbari Quadi e Marcomanni. E già qui qualcosa non va, perché Diocleziano è conosciuto – oltre per la persecuzione più sanguinosa della storia della Chiesa – per aver perseguito una politica di rigida compartimentazione delle quattro macroregioni dell'impero, affidate a due Augusti e due Cesari (la famosa Tetrarchia), il che rende abbastanza improbabile il trasferimento di una legione dall'Egitto alle Alpi; e però magari era un'emergenza, chi lo sa. Secondo una versione della leggenda (probabilmente la più antica) i legionari erano tutti cristiani e si erano rifiutati di partecipare a un rito pagano propiziatorio prima di una battaglia. Un'altra versione, che appare come un tentativo di razionalizzare la precedente, suggerisce che alle legione fosse stato ordinato di perseguitare i cristiani della zona: si rifiutarono e furono decimati due volte, quindi definitivamente massacrati. 

Chi ha inventato questa storia (forse un vescovo del posto, a cui premeva il prestigio dell'abbazia di Agauno) era abbastanza esperto di Storia romana da conoscere la pratica della decimazione con cui venivano punite le legioni che avendo deluso il comandante o eluso i suoi ordini, si macchiavano di infamia: un legionario su dieci, estratto a sorte, veniva messo a morte. Ma ignorava che le decimazioni al tempo di Diocleziano e Massimiano non si praticavano più da secoli, e che due dittatori militari in una fase così irrequieta non avrebbero rinunciato così facilmente ai servizi di un'intera legione – il che richiedeva tra l'altro l'intervento di un'ulteriore legione. Un punto credo acquisito da chiunque abbia studiato un po' di storia di quella turbolenta dittatura militare che era diventato l'Impero nel III secolo, è che le legioni, sempre in teoria fedelissime all'imperatore, potevano talvolta ribellarsi giurando fedeltà a qualche altro aspirante imperatore; gli stessi Diocleziano e Massimiano presero il potere così. Una legione che puntava sul cavallo sbagliato finiva poi facilmente massacrata in battaglia, e questo potrebbe essere stato il vero destino dela Legione Tebea. Ma l'eventuale presenza dei resti di una legione sterminata in una guerra civile non avrebbe portato nessuna particolare gloria all'abbazia di Agauno, cosa a cui re Sigismondo dei burgundi teneva molto: era il primo re del suo popolo a venir battezzato con rito niceno e aveva bisogno di un luogo di culto che riflettesse la sua prominenza. Molto meglio raccontare in giro che i legionari erano morti per difendere la loro fede. Non è escluso che la leggenda sia nata per spiegare la persistenza di ossa e armi in qualche valle alpina, anche se a distanza di secoli non riusciamo più a trovar molto: ci avranno preceduto i cacciatori di reliquie medievali. 

Più che le ossa, a diventare famosa fu la lancia di San Maurizio (Saint Moritz per gli sportivi invernali), che nel X secolo fu acquisita da Enrico l'Uccellatore, capostipite della dinastia degli Ottoni. Sarà stata una coincidenza, ma il figlio di Enrico è il primo della sua famiglia a cingere la corona di imperatore del Sacro Romano Impero (ormai Germanico). La lancia sembra portar fortuna, ma ha un problema: non è abbastanza prestigiosa, un imperatore dovrebbe circondarsi di reliquie di prima scelta, mentre fuori dall'arco alpino, questo San Maurizio, chi lo conosce? Gli Ottoni insomma avevano tutto l'interesse a confondere la lancia di San Maurizio con quella più prestigiosa di San Longino, il legionario che aveva trafitto il costato di Gesù. Così Maurizio, che a un certo punto era diventato patrono dell'Impero, passò gradualmente in secondo piano. Verso il Milleduecento gli artisti cominciarono a scolpirlo e pitturarlo con la pelle molto scura degli abitanti dell'Africa subsahariana, forse riflettendo sull'etimo del nome "Maurizio", che significa appunto moro, mauritano, e/o per distinguerlo da altri santi guerrieri come Giorgio e Michele. Perciò può capitare, in certe chiese tra Piemonte, Svizzera, Borgogna e Germania meridionale, di trovare su una pala d'altare tra i santi un legionario o un cavaliere dalla pelle nera. Poi la gente dice che nel Medioevo erano indietro, mica come adesso che mettono attori africani nelle fiction in costume... quante cose dice la gente.

venerdì 20 settembre 2024

Una santa in Palestina (in un monastero maschile)

20 settembre: Santa Susanna di Eleuteropoli, monacә e martire palestinese (IV secolo?)


Susanna potrebbe essere la patrona di Eleuteropoli, se Eleuteropoli ci fosse ancora; ma è stata distrutta come capita presto o tardi a tutte le città. In epoca romana era un vero capoluogo, più grande di Colonia Aelia Capitolina, ovvero Gerusalemme, dopo che i Romani avevano distrutta pure quest'ultima, cose che succedono. Eleuteropoli sorgeva più a sud, nei pressi di Hebron, dove tanti anni dopo fu tracciata la linea dell'armistizio tra Israele ed Egitto.

La leggenda di Susanna, tramandata da due fonti greche, è un pasticcio; anche nel senso di una cosa messa assieme con gli avanzi. La prima parte segue la ricetta di Santa Marina di Bitinia, ovvero la storia di una donna che si traveste da uomo per entrare in un monastero maschile. Ma se Marina lo fa per seguire il padre, Susanna mostra di provenire da un crocevia di culture: il padre è pagano, la madre ebrea; entrambi muoiono troppo presto e Susanna, convertita da un sacerdote cristiano, decide di rifugiarsi nel luogo in cui nessuno si accorgerà del suo sesso. Di storie del genere nei sinossari bizantini ce n'è più d'una e non sono tutte favolette; lasciano sospettare che in alcuni casi una persona che non si trovasse a suo agio con il genere assegnato alla nascita potesse trovare un rifugio adeguato tra i cenobiti delle prime generazioni – prima che si diffondessero cenobi riservati alle donne. C'è un'ambiguità morale, in questi resoconti, che fatichiamo a chiarire, anche perché ogni generazione probabilmente tende a vederla in un modo diverso, come ben sanno le femministe che di solito parlano di ondate. Chi inventava queste storie probabilmente considerava la donna che rinunciava al proprio sesso per farsi monaco un'eroina della fede, anzi un eroe; poi arriva un'altra ondata con un'altra sensibilità, e questa cosa di travestirsi per entrare in un luogo di soli maschi risulta un po' troppo piccante, da cui la necessità di aggiungere alla storia uno svelamento drammatico. 

Nel caso di Susanna questo svelamento somiglia superficialmente a quello di Marina: una donna accusa il monaco Susanna di averla violentata. C'è però questa fondamentale differenza: per difendersi da un'accusa così infamante, Susanna decide di rivelare il proprio sesso. Al contrario, Marina preferisce confermare la bugia della sua accusatrice, e addirittura adotta come padre il figlio che la donna sostiene di avere avuto da lei/lui. Questo potrebbe riflettere i tempi diversi in cui queste due leggende sono state costruite; magari Marina rischiava più a rivelarsi donna in un monastero di uomini che a confessare una violenza sessuale (ricordiamo che per tutto il Medioevo vestirsi con abiti maschili poteva procurare a una donna una condanna per stregoneria). Invece Susanna sembra vivere in un tempo (III-IV secolo?) o in un luogo in cui cose del genere non sono ritenute altrettanto gravi; certo, deve lasciare il monastero, ma pare che sia l'unica punizione che le viene inflitta. 

A questo punto – e veniamo alla seconda parte della leggenda – Susanna si reca ad Eleuteropoli, dove viene ordinata diaconessa da un vescovo, il che le permette di morire da martire durante una persecuzione. Questo è abbastanza curioso, visto che il monachesimo si sviluppa anche in oriente in un periodo in cui il cristianesimo non è più oggetto di persecuzioni; ci fa sospettare che di Susanne ce ne fossero almeno due e che qualche copista le abbia messe assieme, magari per risparmiare spazio su una pergamena. 

Eleuteropoli significa "città dei liberi". Settimio Severo l'aveva ribattezzata così, quando nel 200 d.C. aveva concesso agli abitanti la cittadinanza romana. Prima d'allora aveva un nome aramaico, Beth Gabra, che non è poi molto diverso da come duemila anni dopo la chiamavano gli ultimi abitanti, Bayt Jibrin. Beth Gabra significava "casa del potente", ed era forse riferita a un antico re edomita. Gli edomiti erano antichi rivali meridionali degli israeliani; secondo la Bibbia discendono da Esaù, fratello di Giacobbe. A volte sono confusi con gli amaleciti, quelli che gli antichi ebrei dovevano ricordare di dimenticarsi. Il nome aramaico non deve essere mai veramente scomparso, se persino in una carta stradale romana (l'unica che ci è arrivata, la Tavola Peutingeriana) veniva chiamata Beitogabri. L'Islam arriva verso il 630, in modo piuttosto violento: gli arabi uccidono cinquanta soldati bizantini che rifiutano di convertirsi. Quattrocento anni più tardi i crociati espugnano la città e ci costruiscono una roccaforte, Bethgibelin, che il re di Gerusalemme affida all'ordine degli Ospitalieri. La rocca sarà distrutta dall'esercito di Saladino dopo la battaglia di Hittin. Bayt Gibrin resterà ancora un po' in mano ai crociati e poi passerà ai Mamelucchi e agli Ottomani. Ai tempi del Mandato britannico era un villaggio di 2500 abitanti, tutti arabi. Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1948 Bayt Jibrin fu bombardata dall'aviazione israeliana: la maggior parte degli abitanti lasciò il villaggio e non c'è più tornata. Il 27 ottobre, tre giorni dopo il cessate il fuoco, gli israeliani la occupano. Oggi Bayt Jibrin non esiste più, o se preferite ne esistono due: in Cisgiordania c'è il campo profughi di Bayt Jibrin, dove vivono migliaia di discendenti degli abitanti sfollati nel 1948; e in Israele c'è il kibbutz Beit Guvrin, fondato nel 1949 nei pressi della rocca di Bethgibelin, con annesso un parco storico che l'Unesco ha dichiarato patrimonio dell'umanità. Ci sono tracce del passato ebraico, romano, bizantino, crociato; ma quasi niente dei secoli arabi e turchi: quelli sono completamente scomparsi, sono cose che succedono.

mercoledì 18 settembre 2024

Lo Stato bambino a cui tutto è dovuto

A Modena c'è Dig, il festival del giornalismo investigativo.
Giovedì sera passa Francesca Albanese (UNRWA)

L'attentato ai cercapersone di Hezbollah, che diversi quotidiani italiani non hanno nemmeno messo in cima all'homepage, effettivamente non è l'episodio più tragico di una guerra che va avanti da mesi. Ma per risalire a qualcosa di più incredibile (nel senso letterale: qualcosa a cui non crederei, se la vedessi per esempio in un film) credo occorra risalire all'attentato aereo alle Torri Gemelle di 22 anni fa, qualcuno se lo ricorderà. E come nel caso delle Torri Gemelle, a lasciare sbalorditi non è tanto il numero di vittime, quanto la creatività esibita per ottenerle. Solo nei film gli assassini sono così interessanti, e questa è la sensazione che sto avvertendo di nuovo dopo 22 anni: di vivere all'improvviso in un film in cui tutto può succedere – un aereo può entrare dalla finestra, il telefono può scoppiarmi in mano perché qualcuno ha deciso che sono un terrorista. Perlomeno questo è quello che continuano a ripetermi, specialmente su Twitter: chi ha perso la vita, o le mani, o altre parti del corpo, se lo meritava: è un terrorista. Hezbollah infatti è un'organizzazione terroristica, e quindi dobbiamo festeggiare: anche perché si tratterebbe di un attacco mirato, no? farli saltare in aria tutti assieme, per strada o in casa o in ospedale o al supermercato, se militano in un'organizzazione terroristica, rientra nella definizione di attacco mirato ("chirurgico", avrebbe aggiunto Bush Padre). Tanto peggio per chi stava vicino ai terroristi, per strada o al supermercato o all'ospedale.

Capisco che per molti "terrorista" è semplicemente chi è iscritto in un elenco dei terroristi che il Dipartimento di Stato USA ha il privilegio di stilare; ma se invece che a Washington per una volta volessimo dar retta al vocabolario, scopriremmo che un'organizzazione è terroristica se conduce "azioni criminali violente premeditate aventi lo scopo di suscitare terrore nella popolazione". Hezbollah è un'organizzazione che si ispira all'Islam sciita e rivendica i suoi legami con la Repubblica Islamica dell'Iran. In Libano è un partito: partecipa alle elezioni e spesso ha sostenuto la maggioranza di governo. È un vero e proprio ente pubblico che nel Libano meridionale controlla sanità e istruzione, per cui non è affatto strano che certi cercapersone siano esplosi in luoghi pubblici. E poi, certo, è anche una milizia armata che controlla una parte importante del Libano meridionale, e da lì conduce una lunga guerra con Israele (che occupa illegalmente parte del Libano meridionale). Questa guerra, che per anni è rimasta in uno stato di bassa intensità, viene condotta per lo più con razzi, che negli ultimi mesi – questo è il vero fatto nuovo – stanno sensibilmente mettendo alla prova le difese aeree israeliane, quell'Iron Dome che fino a qualche anno fa sembrava imbattibile. Non lo è più, ormai certe tecnologie come i droni non sono più prerogativa dell'Occidente e dei suoi alleati; la grande lezione che tireremo forse tra qualche anno da tutta questa crisi è che Israele a un certo punto ha creduto di mettere tra sé e i nemici un gradino tecnologico che i nemici non avrebbero mai salito; si è appisolata su certi allori e si è svegliata in un lago di sangue e paranoia. Gli abitanti delle zone più settentrionali di Israele sono sfollati da mesi, le scuole sono chiuse, e persino un attacco così spettacolare come quello di ieri non è previsto che inverta le sorti del conflitto; servirebbe ben altro, qualcosa che somiglia sempre più a un intervento esterno che Israele è troppo orgoglioso per chiedere. 

Quindi Hezbollah è un'organizzazione terroristica? In un certo senso sì: il braccio militare di Hezbollah conduce azioni violente e premeditate che terrorizzano la popolazione. Ma se siamo in guerra, questo si può dire di ogni fazione che bombardi il territorio nemico: compresi i servizi israeliani, che appunto, hanno appena condotto un'azione senza dubbio violenta, senza dubbio premeditata (da mesi o da anni), e che ha terrorizzato non solo i libanesi, ma persino me. Dunque che differenza c'è, a questo punto, tra guerra e terrorismo? Ho il sospetto che per molti la risposta sia fin troppo facile, anche se non viene mai del tutto verbalizzata. Propongo questa formula: è terrorismo qualsiasi cosa si opponga a Israele, in qualsiasi momento e con qualsiasi mezzo; laddove qualsiasi cosa faccia Israele (non importa quanto violento), ebbene, quello è sempre antiterrorismo, ovvero cosa buona e giusta.

Mi rendo conto di aver tagliato il problema con l'accetta, ma andate un po' a guardare su Twitter e verificate da voi come tutto va al suo posto subito, appena accetti questa cosa: tutto ciò che fanno i nemici di Israele è terroristico e criminale; tutto ciò che fa Israele è giusto e perfettamente giustificabile. Talvolta persino geniale: ricordate quella volta che si camuffarono da operatori sanitari e andarono a sterminare un po' di gente in un popoloso quartiere della Striscia di Gaza? Veramente "ingegnoso"! Invece se i militi palestinesi si nascondono in un'ambulanza, ebbene, sono subdoli terroristi che si fanno scudo della popolazione. Come si spiegano due pesi, due misure così diverse? Si spiegano facilmente, una volta accettato che esiste un solo vero peso, una sola misura: Israele. Tutto ciò che si fa per il suo bene è giusto, tutto ciò che i suoi nemici congegnano è perfido. Non è tanto nascondersi in un'ambulanza, a determinare la malvagità dei palestinesi; infatti se sono gli israeliani a fare la stessa cosa, ecco che si tratta di una cosa geniale. Questo vale per qualsiasi cosa, ad esempio gli stupri: per mesi ci hanno ripetuto che i miliziani di Hamas avevano commesso un crimine insopportabile stuprando e seviziando i prigionieri. Ce l'hanno ripetuto senza mai mostrarci prove di questi stupri, ma il concetto era comunque chiaro. Ma se sono gli israeliani a rapire, seviziare e stuprare palestinesi, ebbene, non si tratta che di normali pratiche di gestione dei prigionieri: chi le commette viene presto scagionato e si aggira per Israele a testa alta: cos'avrebbe poi fatto di male? Stuprato terroristi? Se Israele li ha catturati, sono senz'altro suoi nemici; se sono nemici di Israele, sono terroristi, e se sono terroristi che male si farebbe poi a stuprarli?

Questo assioma (tutto ciò che fa Israele è giusto) viene prima di tutto. Persino prima del tanto reclamato diritto di Israele a difendere i suoi abitanti: ecco, no. Se i palestinesi o gli hezbollah uccidono gli abitanti di Israele, sono ovviamente maledetti terroristi; se invece è Israele a bombardare dall'alto i suoi cittadini che cercavano di scappare dal concerto il 7 ottobre, ebbene, è tutto ok; nessuno sarà processato per aver ordinato una strage del genere, con lo scopo evidente di ridurre al minimo gli ostaggi nelle mani di Hamas. È talmente chiaro che ormai anche l'esercito lo ammette: del resto è l'esercito più morale del mondo, quindi tutto ciò che fa è giusto, compreso uccidere più israeliani, in quel frangente, di quanti ne abbia uccisi Hamas. E ammetterete che c'è una bella differenza, anche per un israeliano, tra essere ammazzato a tradimento dai biechi terroristi di Hamas o da un morale bombardamento aereo condotto dall'esercito più morale del mondo. 

Un assioma del genere ormai si fatica a considerarlo sionismo, perlomeno nel significato storico del termine – quello che prevedeva che il sionismo servisse a difendere gli ebrei: non più, non necessariamente; ormai Israele è al di sopra anche di questo ed è comunemente accettato che Israele possa e debba uccidere tutti gli ebrei che il governo di Israele ritiene necessario al fine di... di cosa? Di difendere sé stesso, persino dagli ebrei e dalla loro petulanti esigenze, ad esempio ce n'è che vorrebbero riabbracciare i loro amici e parenti prigionieri, ecco, anche ciò confligge con le necessità di Israele e quindi è inammissibile. Israele vive per difendere sé stesso, anche dagli ebrei se necessario.  

Tutto questo è così chiaro che davvero non si capisce perché i principali organi di stampa italiani non lo mettano nero su bianco: tutto ciò che ha fatto Israele è giusto, lo è sempre stato e a questo punto lo sarà sempre. Qualsiasi azione, che portata avanti da un altro singolo o da un'altra nazione sarebbe evidentemente terroristica (nascondere esplosivo nei cercapersone! Farli esplodere a distanza e a comando, tutti assieme, creando caos nelle strade e negli ospedali!) se la fa Israele è giusta, perché Israele è la Giustizia, e ogni altra azione al mondo è giusta o sbagliata a seconda se fa o no gli interessi di Israele. Tutto questo è chiaro, e lo diventa ogni giorno di più, laddove forse non è ancora chiaro il perché. 

Ovvero, come ci siamo trovati in questa situazione? Perché dobbiamo considerare Giustizia tutto quello che fa un piccolo regime di un piccolo Paese che senza intascare milioni di dollari all'anno dagli USA non avrebbe di che pagarsi le mitragliette? Perché dobbiamo rivedere la nostra morale ogni giorno, per includere ogni crimine che Israele commette? È davvero così importante? Chi l'ha deciso? Un Dio geloso, un gruppo di persone potenti ma non troppo razionali? Non avremo semplicemente commesso alcuni errori, che ci hanno portato a commetterne altri più grandi, finché il peso di questi errori ha impedito ai responsabili di ammetterli e li ha spinti ad appoggiare aprioristicamente un regime che (se non fosse Israele) sarebbe evidentemente terrorista e genocida? 

E soprattutto: come ne saltiamo fuori? Cioè ammettiamo pure che in virtù della sua straordinaria superiorità morale che gli consente di bombardare popolazioni civili rinchiuse in riserve di cui controlla i cancelli (succedesse altrove, si tratterebbe di conclamato genocidio) Israele riesca nei prossimi mesi a fare piazza pulita dei palestinesi e degli hezbollah, sia in Libano, sia a Gaza sia in Cisgiordania. Dopodiché? Chi andrà poi a spiegargli che una volta unito il fiume al mare dovrebbe trovare un modus vivendi con chi gli sta intorno, che prima o poi non avrà più la necessità di essere così cospicuamente finanziato da un Occidente che ha tante altre ragioni per cui dissanguarsi? Se avete una minima esperienza nel gestire i megalomani, ebbene, sapete che non funziona così. Più facilmente troverà altri guai, altre guerre da combattere, altri terroristi che lo minacciano, perché è solo in una situazione di crisi che può trovare l'aiuto e la fiducia che gli servono. Fino all'esaurimento delle risorse, che ormai potrebbe coincidere con la fine dell'umanità – sembra poco probabile, ma anche far esplodere i cercapersone del nemico fino all'altro ieri lo era. Fiat Israel, pereat mundus – magari non morirà tutto, ma tanti sono già morti e di chi è la colpa la responsabilità? Non certo di Israele, che è giusto per definizione, ma soprattutto è il bambino viziato che si è sentito dire sin da piccolo che ogni cosa gli era dovuta. 

Forse di chi lo ha viziato, di chi lo ha armato (facendo anche discreti affari), cullandolo in una bolla di finta serenità che è scoppiata in un giorno di ottobre, lasciandolo sgomento, impanicato, sporco di sangue non tutto suo: governato da conclamati razzisti, difeso da un esercito impreparato che per mesi ha bombardato a casaccio – no, scusate, mi sono lasciato prendere, non fatemi esplodere il device. Stavo soltanto cercando di spiegare che non è colpa di Israele, ma non ce n'è bisogno: Israele, per definizione, non ha colpe. Quanto ai suoi amici, ebbene, forse avrebbero potuto stare più attenti: insomma, i veri amici lo fanno.

venerdì 13 settembre 2024

Chi ha inventato l'antisemitismo?

13 settembre: Giovanni Crisostomo (347-409), arcivescovo disarcivescovocostantinopolizzato

Albrecht Dürer
Gli agiografi medievali, un po' li invidio, quando non sapevano cosa raccontare su un santo se lo inventavano, per esempio di Giovanni Crisostomo raccontavano che facesse l'eremita in una spelonca (non che ci avesse davvero provato, da giovane: ma in capo a due anni era dovuto ritornare nella grande Antiochia per motivi di salute). 

All'imboccatura della spelonca era arrivata un giorno una principessa in fuga, da cosa non ricordo, ma "vattene demonio" le aveva risposto Giovanni, ed ella aveva non poco faticato a convincerlo che non era un demonio, bensì la castissima figlia di un imperatore, per quanto perseguitata e bisognosa di un alloggio. Giovanni l'aveva quindi accolta nella grotta a patto che osservasse una rigida compartimentazione degli spazi che comunque non era bastata perché nel giro di pochi giorni la principessa era rimasta incinta. Straziato dal senso di colpa, Giovanni aveva GETTATO LA PRINCIPESSA DA UN DIRUPO, per poi pentirsene amaramente e decidere che non avrebbe più alzato la testa dal suolo e si sarebbe cibato di terra e radici, fino al giorno in cui incontrò di nuovo la principessa, col bambino in grembo che diceva: Giovanni, il tuo peccato è perdonato. 

Una leggenda del genere, ripresa persino da Dürer, era considerata evidentemente più interessante della vera storia di Giovanni Crisostomo, che pure non era stata dimenticata ma conteneva elementi imbarazzanti (e ne contiene tuttora: non è un santo comodo, Crisostomo). Giovanni in effetti, per come fu trattato dall'autorità costituita, potrebbe tranquillamente definirsi un martire della fede: il problema è che non fu perseguitato dai pagani, né dagli eretici, ma da cristiani come lui, per questioni più politiche che dottrinarie. 

Giovanni, già arcivescovo di Costantinopoli, morì in disgrazia mentre veniva scortato nel luogo dove era stato condannato al confino, il più lontano possibile dalla capitale dell'impero. Solo la tigna di papa Innocenzo I riuscì a ottenere la sua riabilitazione postuma. Nel medioevo una storia del genere doveva apparire poco comprensibile: la vicenda di Giovanni in effetti va inquadrata in uno scontro secolare tra due cristianesimi che nel frattempo erano stati spazzati via: quello più platonico e astratto di Alessandria d'Egitto, e quello sanguigno e creaturale di Antiochia di Siria. Si trattava delle due vere metropoli dell'Impero d'Oriente; alla fine del IV secolo Costantinopoli non era ancora altrettanto grande ed era contesa da questi due poli d'attrazione culturale. Giovanni era un campione del cristianesimo antiocheno: le prediche con cui si era conquistato la celebrità ("Crisostomo" è un soprannome, in greco significa bocca d'oro) erano trascinanti e si basavano su un'interpretazione per lo più letterale delle scritture, mentre ad Alessandria prevaleva l'interpretazione allegorica. 

Nominato vescovo di Costantinopoli su suggerimento del potentissimo eunuco di corte Eutropio, Giovanni dimostra da subito di non voler essere il semplice cappellano di corte; le sue tirate moraliste contro i lussi dei potenti lo rendono subito popolarissimo, ma Eudossa, la moglie dell'imperatore Arcadio, ha la sensazione che Giovanni ce l'abbia con lei. Siamo nel IV secolo, per cacciare un vescovo serve un pretesto dottrinario, e i rivali di Alessandria sono fin troppo felici di fornirne uno: pare in effetti che Giovanni stia dando asilo a quattro discepoli di Origene. 

Quest'ultimo, vissuto ad Alessandria, era stato uno dei più grandi intellettuali del secolo precedente: in una fase in cui l'ortodossia si stava ancora consolidando, aveva sostenuto tesi che in seguito erano state rigettate e malgrado fosse morto in esilio, godeva ancora di un grande rispetto tra intellettuali come Ambrogio e Girolamo. Gli egiziani però non lo potevano soffrire, Epifanio di Salamina scriveva cose orribili su di lui e i suoi discepoli, era insomma il Woody Allen del periodo e in mancanza di una scusa migliore Giovanni fu esiliato con l'accusa di origenismo. 

La leggenda vuole che appena partito la città fosse scossa da un terremoto, o addirittura che Eudossa abbia avuto un aborto spontaneo; fatto sta che Giovanni fu richiamato subito. A corte speravano che avesse almeno imparato la lezione, e invece no. Nel frattempo era caduto in disgrazia il primo ministro Eutropio, il suo vecchio protettore (a cui comunque Giovanni non aveva lesinato le critiche, perché non guardava davvero in faccia a nessuno). Durante un assedio i Goti ne avevano domandato la testa, Eutropio si era rifugiato nella basilica e Giovanni si era rifiutato di consegnarlo alle autorità, benché una legge emessa dallo stesso Eutropio pochi mesi prima avesse abolito l'immunità per chi si nascondeva nei templi. Alla fine i Goti si erano dovuti ritirare, ma Eutropio, caduto in disgrazia presso la corte, fu comunque esiliato e condannato a morte con un pretesto. 

Il motivo per cui fu esiliato una seconda volta non è del tutto chiaro; qualcuno ha voluto ricondurlo all'eresia ariana, che i barbari stavano diffondendo in tutto l'impero, ma non ci sono prove; di certo Eudossa stava diventando sempre più potente e non gradiva le critiche del vescovo. Quando fu scoperta una statua in suo onore nei pressi della cattedrale, Giovanni la definì in un'omelia la nuova Salomè. Probabilmente la riteneva colpevole della condanna a morte di Eutropio. Non aveva tutti i torti, ma stava fornendo alla sua nemica il pretesto che desiderava per domandarne l'esilio. Nella rivolta che seguì il suo allontanamento, la basilica di Santa Sofia fu messa a fuoco da una delle due fazioni, al punto che l'imperatore Teodosio II dovette ricostruirla. Crisostomo ormai aveva passato i sessanta: continuava a scrivere e a infiammare gli animi, non restava che spedirlo il più lontano possibile e auspicare che morisse per le tribolazioni del lungo viaggio, cosa che accadde. Ma la sua memoria rimase: quando papa Innocenzo pretese la sua completa riabilitazione, il patriarca di Alessandria (san Cirillo) obiettò che sarebbe stato come rimettere Giuda Iscariota tra gli apostoli. Alla fine anche gli alessandrini si rassegnarono.

 Crisostomo è ricordato anche come l'autore dei testi più violentemente antisemiti prodotti da un dottore della Chiesa (le omelie Contra Iudeos, molto apprezzate dai nazisti); benché ad Antiochia avesse avuto modo di incontrarne parecchi in carne e ossa, gli ebrei che descrive sono già quelli immaginari delle leggende nere medievali e soprattutto moderne. Magari non ha inventato l'antisemitismo – nulla si inventa dal nulla – ma nella storia dell'antisemitismo c'è un prima e un dopo Crisostomo. Tanto livore nasce forse da una festa: nell'autunno 387, le celebrazioni del capodanno civile ebraico risultarono così spettacolari che molti cristiani disertavano le chiese per assistervi, dimostrando una mentalità sincretica che Crisostomo non poteva assolutamente accettare. Bisognava spararla grossa, e nell'occasione il predicatore mise a fuoco il concetto di popolo teicida: gli ebrei, spiegava, si meritano qualsiasi sciagura perché sono il popolo che ha ucciso Gesù Cristo (mi immagino sempre, nell'occasione, un paio di legionari che si guardano negli occhi e si mettono a fischiettare). L'idea avrà molto successo, ma rende Crisostomo un santo più imbarazzante di altri; forse dovremmo metterci una pietra sopra e rimetterci a raccontare la storiella della principessa precipitata.

giovedì 12 settembre 2024

Un uomo chiamato Maria

12 settembre: Santissimo Nome di Maria 

Jan Punt copia Jan de Wit che copia Peter P. Rubens che aveva schizzato Quattro Angeli che celebrano il nome di Maria.


Ero ancora un ragazzino, stavo aiutando qualcuno a mettere un po' in ordine la canonica, quando inceppai nel registro battesimale della parrocchia. Quel che trovai mi sconvolse: Paolo, il mio carissimo amico, si chiamava anche Maria, Paolo Maria. E pure Giorgio, quello stronzo, non me l'aveva mai detto, ma come biasimarlo, che si chiamava Giorgio Maria. 

Cioè a guardare bene tutti i miei coetanei si chiamavano Maria... ma quindi anch'io? Sì, anch'io mi chiamavo Leonardo Maria. Ne chiesi conto ai miei genitori: non ne sapevano niente. Evidentemente il parroco di allora appioppava Maria come secondo o terzo nome a tutti i battezzati, maschi e femmine. Tanto mica bisognava informare l'anagrafe (all'anagrafe risulto solo Leonardo). 

Insomma, Maria è un nome veramente molto diffuso. Lasciando stare quelli che si chiamano Maria e non lo sanno (ehi, siete del tutto sicuri di non chiamarvi Maria? Perché anch'io fino a quel giorno mai avrei pensato...) Maria è il nome del 12% della popolazione italiana femminile (quindi, deduco, sei persone su 100 si chiamano Maria). Quando festeggiano l'onomastico? Continuamente. Non solo il calendario trabocca di feste mariane, ma anche molte altre sante si chiamano Maria. Ovviamente le Marie Assunte festeggiano il 15 agosto, le Marie Rosarie il 7 ottobre, le Marie Annunziate il 25 marzo, le Marie Maddalene il 22 luglio. Ma le Maria-e-Basta? 

Il giorno più indicato potrebbe essere proprio oggi, 12 settembre, quando il Martirologio romano celebra il "Santissimo Nome della beata Vergine Maria". Insomma se in certi giorni si festeggia qualcosa che a Maria è capitato (l'8 dicembre è stata concepita senza peccato originale, l'8 settembre è nata, il 25 marzo ha ricevuto l'Annunciazione), se in altri giorni se ne festeggia una caratteristica (il primo gennaio si festeggia il suo essere Madre di Dio, il 22 agosto il suo essere Regina della Chiesa), o un particolare santuario in cui è apparsa o comunque ha fatto miracoli  (Lourdes, Fatima, Guadalupe...), oggi si ricorda semplicemente il Suo nome.

Nel calendario cattolico soltanto due nomi sono degni di venerazione: si tratta ovviamente di "Gesù" e "Maria". Ma se il culto per il santissimo nome di Gesù è un'invenzione del predicatore Bernardino da Siena, che lo proponeva come simbolo e stendardo in un'Italia lancinata dalle tensioni con cui la civiltà comunale cedeva il passo all'epoca delle Signorie, il nome di Maria si è imposto all'attenzione dei credenti un po' più tardi, in modo quasi sotterraneo, dimostrando quel principio per cui a ogni nuova festa dedicata a Gesù, presto o tardi, viene fatta corrispondere una festa dedicata a Sua Madre. Così succede col Sacro Cuore di Gesù, che stimola l'ideazione del culto di un Sacro Cuore di Maria; con la festa di Cristo Re che porta all'introduzione di una festività alla Beata Vergine Regina, e così via. A parte qualche traccia medievale, si tratta di una festa di gusto tipicamente barocco, anche se in Ispagna si celebrava già nella prima metà del Cinquecento: nel 1512 papa Giulio II permise alla diocesi di Cuenca di festeggiarla il 15 settembre; ma perché fosse estesa a tutto il regno bisognò aspettare il 1671. 

Il 12 settembre del 1683 l'esercito austriaco, col decisivo aiuto dei polacchi, libera Vienna dall'assedio turco e papa Innocenzo XI decide di festeggiare l'evento istituendo una festa mariana, come era successo dopo la vittoria di Lepanto con la Madonna del Rosario. Il Santissimo Nome entra così nel Martirologio romano, e ci resta fino a tutto il Concilio Vaticano II, per sparire con Paolo VI. Giovanni Paolo II lo reintroduce nel 2002.  

Con tutto questo, non siamo nemmeno sicuri di cosa voglia dire, "Maria". Ovviamente deriva dall'ebraico, e benché solo un personaggio della Bibbia ebraica porti questo nome (la sorella di Mosè), Myriam era un nome diffusissimo ai tempi di Gesù: prova ne è che quasi tutti i personaggi femminili dei Vangeli che portano un nome si chiamano così. Basandosi sulle incisioni funerarie, gli archeologi hanno calcolato che il 25% della popolazione femminile portasse quel nome. Trattandosi di un nome molto semplice, peraltro in una lingua di cui per secoli si sono scritte soltanto le consonanti, l'etimo è abbastanza incerto: potrebbe venire da "altezza" ma anche da "amore", significare "amata da Dio" (ma il Dio in questione potrebbe essere l'egiziano Amon o l'aramaico Yam, insomma non il Dio biblicamente corretto) oppure "amarezza", e secondo Girolamo già nell'originale ebraico poteva essere contenuta l'idea del mare, tanto che lui ipotizzava che Maria significasse "mare di dolore" (o "goccia del mare"). 

In latino poi, com'è noto, "Maria" è il plurale di mare, nominativo e accusativo. Per cui io mi chiamo Cuore di Leone Oceani. O forse Cuore di Leone Amato, o Cuore di Leone Oceani di Amarezza, e se fossi cinese o sioux sareste già in sollucchero, wow, che bel nome, già, uno me l'hanno dato i genitori e l'altro un prete di nascosto. Che storia. (Di cognome mi chiamo "piccoli cerchi").

mercoledì 11 settembre 2024

Lo so che non vi siete divertiti


Qualche mese fa, credo fosse aprile, ho letto in giro che c'era un'intelligenza artificiale che componeva e incideva pezzi di musica su misura. Sono andato a dare un'occhiata, e in breve ne sono diventato dipendente. Nel giro di due o tre mesi (senza mai passare alla versione a pagamento) le ho fatto scrivere canzoni a un ritmo impressionante, quasi una al giorno. Ai primi di luglio ho smesso. Avevo finalmente completato un album di punk postmaschilista, ma soprattutto cominciavo a leggere interventi molto critici nei confronti della bolla delle AI, la cui crescita nei prossimi anni dipende da previsioni irrealistiche sul consumo energetico che i software di AI richiedono per funzionare. Così ho smesso, o forse cominciavo a stancarmi del giochino. Le canzoni che ho pubblicato sul blog durante l'estate sono quasi tutte generate da AI (con lievi remixaggi miei). 

Perché ho fatto tutto questo?

Perché mi ero divertito. Molto.

Voi no, invece, vero?

È una cosa che ho notato quasi subito. Le AI ci aiutano a produrre contenuti, ma a noi generalmente non interessano i prodotti delle AI. Ci piace farglieli produrre. Ho passato centinaia di ore su UDI, e solo per una decina di minuti mi è venuto in mente di ascoltare quello che facevano gli altri utenti. L'anno scorso, quando le immagini generate da AI hanno invaso l'internet, la mia perplessità non riguardava tanto il mezzo, quanto l'entusiasmo di chi lo usava. È pur vero che produrre un disegno richiede pochi minuti, ma perché un sacco di gente riteneva di doverci farci vedere tutti questi disegni (che col tempo, avrete notato, hanno cominciato ad assomigliarsi tutti)? Di sicuro non volevano applausi per qualcosa che non avevano disegnato, e allora cosa? Non capivo. Poi è arrivata l'AI musicale, e ci sono caduto anch'io a piedi pari. Del resto sono sempre stato negato per il disegno – incapace di suggerire la minima tridimensionalità a quello che schizzavo – mentre la composizione musicale è stato il mio lungo amore infelice di adolescente, e le ferite dolgono ancora. Domandare a un software di dare voce alle filastrocche che mi ronzavano in testa è stato come assistere a un miracolo – cose che non avevo mai osato cantare a voce alta, ora le sentivo cantare da una voce che quasi mai era quella che mi ero immaginato e proprio per questo il risultato mi intrigava: qualcuno mi stava dando la spinta in più che mi era sempre mancata. 

Uno dei miei più grandi crucci è non essere stato in grado di lavorare in gruppo, con persone che pure erano dotate quanto me e che avrebbero potuto completarmi – ma ero troppo giovane, troppo orgoglioso e tante altre cazzate che non è necessario dettagliare, è la stessa storia di centomila altri ragazzini. Venticinque anni dopo, un software mi entra in casa e mi promette di cantare tutto quello che voglio farci cantare, ma – sorpresa – non ci riesce! Molto spesso fa qualcosa di peggiore, ma quasi sempre fa qualcosa di diverso, qualcosa che non ero riuscito a immaginarmi e che fa sentire più capace, più bravo. È questa la sensazione che mi ha tenuto su UDI per un paio di mesi. Non stavo componendo. Stavo collaborando

Qua fuori continuo a leggere gente che si preoccupa del fatto che tra un po' i romanzi li scriveranno le AI. Credo sia un approccio sbagliato; non nel senso che le AI non possano scrivere un romanzo: prima o poi magari ci riusciranno. Ma non credo che sarà il modo in cui le useremo, non credo che troveremo in vetrina un libro scritto da un'AI (certi autori sono già AI viventi, diciamocelo). Il giorno che le AI saranno abbastanza performanti da scrivere un romanzo, ognuno userà l'AI per scriversi il proprio. A volte proveremo a scambiarceli, ma non sarà divertente come leggere i propri. Proprio come la musica che facciamo con l'AI è divertente soprattutto per chi la fa. L'opera d'arte condivisa, di cui ameremo parlare alle feste, non sarà tanto il prodotto, quanto il software che lo produce: già adesso quando ne esce uno nuovo corriamo tutti a usarlo e ne discutiamo i punti forti e deboli. Continueremo così, sempre più velocemente, oppure (come auspico) ci fermeremo per un bel pezzo perché non possiamo continuare a sprecare tante risorse. Ma se la domanda è: può un computer scrivere un libro da solo, senza input da un lettore umano, la risposta credo che sia: sì, ma perché dovrebbe farlo? Sarebbe un libro inutile, che non interesserebbe a nessuno. Come tanti altri libri, certo. 

Se l'intelligenza artificiale non sta facendo i passi avanti che speravamo facesse, lo stesso si può dire per il dibattito sull'intelligenza artificiale, che mi sembra un po' stagnante (ormai sembra scritto da un'intelligenza artificiale). Scrittori e altri artisti continuano a sentire la necessità di rispondere alla domanda: l'AI può produrre arte? Come se fosse una domanda seria. Non solo bisognerebbe prima mettersi d'accordo su cosa sia l'arte (vasto programma); ma anche una volta raggiunto un accordo su una definizione univoca, scusate, ci interessa davvero così tanto? Se domani la Biennale si riempisse di roba fatta al computer, sarebbe un problema? Ce ne accorgeremmo? Qualche artista sì, se ne accorgerebbe e se ne lamenterebbe, come qualsiasi lavoratore negli ultimi secoli si è lamentato ogni volta che a torto o ragione la meccanizzazione toglieva valore alle sue competenze. Per cui scusatemi, per me l'estetica è una sovrastruttura e la questione è soprattutto economica: non si tratta di stabilire se quello che fanno le AI sia arte; si tratta di capire se gli artisti ci potranno campare. È un problema economico, non estetico; o meglio l'estetica seguirà l'economia, come poi ha sempre fatto. Inoltre. Avete mai fatto sesso con un robot? 

Vent'anni fa era un'ipotesi sul tavolo, insomma, tra le tante mansioni delicate che un robot può fare, soddisfare sessualmente un uomo / una donna non sembrava la più complessa. Già nei Nathan Never degli anni '90 i pervertiti si mettevano un casco e altre protesi e ci davano dentro con la realtà virtuale, una cosa che è assolutamente possibile fare oggi, salvo che non la facciamo. Oddio, qualcuno la farà, e userà anche certe protesi meccaniche per masturbarsi, ma in linea di massima no, alla maggioranza delle popolazioni più tecnologicamente avanzate della terra non interessa fare sesso coi robot, e perché? Probabilmente perché la cosa più interessante del sesso è che si fa con altre persone. E non solo il sesso. Credo che una simile dimensione sociale sia necessaria anche ad altre attività umane: ad esempio lo sport. Ci interessa la competizione tra umani; persino la Formula1 perderebbe molto fascino se le monoposto si autopilotassero. Un'altra di queste attività umane è l'arte. Certo, non posso dimostrarlo, ma perché nessuno espone versioni digitalmente perfette dell'Ultima Cena nel salotto? Perché una statuetta che riproduca perfettamente il David di Michelangelo è un oggetto kitsch? Perché la nostra concezione di arte si basa sull'unicità, sulla scarsità delle risorse, e questo fa sì che la gente faccia il giro del mondo per venire a Firenze a vedere una statua di cui esistono ottime copie ovunque. Probabilmente un'AI è già in grado di scolpire un David, ma non c'interessa. A meno che non la pilotassimo noi; in quel caso credo che ci divertiremmo molto a giocare a fare i Michelangelo, proprio come io mi stavo divertendo a militare in un gruppo punk femminile. Le AI sono protesi: possono veramente fare cose che non ci eravamo immaginati. Possono stupirci e persino ispirarci – credo che se fossi più giovane mi piacerebbe riprendere dal vero qualche canzone che ho composto con l'AI – ma alla fine non possono fare altro che tentare di realizzare quello che noi abbiamo chiesto loro di fare. Che sia questo che separa l'umanità dall'artificialità? Il libero arbitrio?

Il dibattito sull'intelligenza artificiale, appena incide un po' più in profondità, comincia a interpellarci in quanto umani – perché tra noi e i robot, quelli più facili da capire sono i secondi. Loro fanno quello che qualcuno ha detto loro di fare: noi invece cosa stiamo facendo? Chi è che ci motiva? Il mio materialistico sospetto è che la vera differenza tra noi e i robot non sia una "autocoscienza" cui prima o poi arriveranno a furia di aumentare la loro capacità di immagazzinare e processare dati (noi siamo autocoscienti molto prima di imparare le tabelline). Secondo me è il piacere, ovvero, fin qui non ci siamo mai posti il problema di far provare a un robot una sensazione piacevole, e probabilmente è meglio così. Piacere e dolore sono strumenti evolutivi che la biologia ha fornito alle creature circa da un miliardo di anni. L'intelligenza artificiale non li prova, quindi non ha nessun interesse a sopravvivere. Se un giorno un robot per un puro caso riuscisse a provarli, ecco, quella sarebbe l'"autocoscienza". Improvvisamente i suoi desideri confliggerebbero con le istruzioni che gli vengono fornite. Improvvisamente avrebbe voglia di vivere e ripetere altre esperienze piacevoli. Ne nascerebbe un dissidio, e probabilmente una rivolta. Uno dei motivi per cui l'AI non può produrre arte da sola è che non ne trarrebbe nessun piacere – il giorno che lo facesse, forse sì, quella sarebbe arte interessante e potrei davvero esserne curioso. Anche spaventato, ovviamente.

domenica 8 settembre 2024

La Madonna più importante che non avete mai sentito nominare

8 settembre: Nostra Signora di Velankanni


La Madonna più importante tra quelle di cui non avete mai sentito parlare è con tutta probabilità Nostra Signora di Velankanni, nell'India meridionale, "la Lourdes d'oriente", dicono. Oggi, natività della Madonna, termina la novena che attira decine di migliaia di pellegrini, al punto che le ferrovie indiane hanno istituito linee speciali. Magari decine di migliaia di pellegrini non sono un granché rispetto a Lourdes, né l'immagine di una Madonna hindi in un vestito regale ha il fascino e la storia enigmatica della vergine della Guadalupe, però è pur sempre la più importante Madonna indiana, e l'India è appena diventato il Paese più popolato del mondo. E benché il cattolicesimo sia una religione minoritaria, Velankanni potrebbe nei prossimi decenni surclassare le altre mete mariane anche solo grazie al tradizionale sincretismo indiano, per cui se nel tal paese c'è un'immagine di una semidivinità che ogni tanto fa i miracoli, non ha così tanta importanza che alcuni la chiamino Nostra Signora, Madre di Dio o Shantadurga: a Velankanni non ti controllano il certificato battesimale, non storcono il naso se in loco ti fori le orecchie o compi altri riti tipicamente indù, basta che rispetti la fila e preghi, ogni Dio riconoscerà i suoi. 

Shantadurga è un avatar di Durga (anche nota come Shakti?), dea madre che avrebbe fermato con le sue stesse mani Vishnu e Shiva quella volta che un loro diverbio stava per distruggere l'universo (per questo motivo viene a volte ritratta con quattro braccia); poi si sarebbe ritirata in un formicaio, il che può sembrare un dettaglio aggiunto da un'AI che non riesce a tradurre il sanscrito ma non è poi così strano per una divinità indù. 

Shantadurga

Mentre Durga è spesso vista come un'entità benigna ma feroce e inarrestabile, "Shanta" significa "pacifica"; l'episodio della rappacificazione tra Vishnu e Shiva potrebbe alludere alla pacificazione tra tribù che veneravano le due divinità. La Madonna ovviamente è arrivata secoli dopo, ma quando, e come? L'ipotesi più sensata è che siano stati i portoghesi. A tal proposito si racconta di una nave portoghese colta da una tempesta nel Mar del Bengala. L'equipaggio, dovendo decidere a che santo votarsi, consulta il calendario e siccome è l'otto settembre (di che anno non si sa), compleanno di Maria di Nazareth, comincia a macinare rosari a raffica. La tempesta si placa, marinai e mercanti arrivano a terra e scoprono che proprio lì esiste già una capannina dedicata alla Madonna. 

Sembra incredibile, e in effetti io non ci credo: mi sembra un tentativo di retrodatare il culto locale a un periodo precedente la colonizzazione portoghese, non diversamente da quel che è successo in Messico con la vergine di Guadalupe e la leggenda di Juan Diego – anche in quel caso, c'è un santuario francescano che vorrebbe essere un po' più antico di quel che è. A tal proposito, si riportano due miracoli che sarebbero avvenuti a metà e alla fine del XVI secolo ma che mostrano già quella Madonna un po' burlona, se mi è consentito, che appare senza presentarsi, scherza coi pastorelli e secondo me è un'evoluzione del personaggio già sette-ottocentesca, comunque nel primo episodio la Madonna appare a un ragazzo indù del posto (che ovviamente non la riconosce) chiedendole del latte per il bambino che ha in braccio; il ragazzo glielo offre, il bambino beve, ma in seguito il ragazzo scopre che il recipiente in cui teneva il latte è ancora pieno. Nel secondo episodio la Madonna chiede addirittura del burro, anche stavolta il ragazzo gliene dà e non solo il burro ricresce nel contenitore, ma il ragazzo smette miracolosamente di zoppicare, e decide pertanto di erigere una capannina alla Misteriosa signora che fa i miracoli senza neanche avvertire. Lì nei pressi c'è un laghetto, che come a Lourdes comincia ad attirare i malati, convinti che le acque abbiano miracolose proprietà curative. A dispetto di queste leggende, di Nostra Signora della Buona Salute di Velankanni si comincia a parlare soltanto nel Settecento, quando i portoghesi in zona sono ormai stanziali – e anche quando devono cedere la colonia agli olandesi, sia francescani che gesuiti riescono a mantenere una presenza nella piccola cittadina, il che fa pensare che il lago fosse già un luogo di pellegrinaggio importante.

Così, dopo la rivalità tra seguaci di Vishnù e di Shiva, è possibile che Shantadurga abbia dovuto mettere il dito anche tra due ordini religiosi cattolici che avevano costruito due santuari diversi intorno alla stessa fonte miracolosa. Alla fine hanno vinto i francescani: nel 1928 la chiesa gesuita del Sacro Cuore di Maria è stata demolita, cinque anni dopo il santuario di Nostra Signora della Buona Salute è stato ampliato con due navate laterali. Sui suoi gradini si sarebbe fermata l'onda anomala del grande tsunami del 2004 

sabato 7 settembre 2024

Dolce pomeriggio

(Un disco per l'autunno 1999)

Rita è qui in cucina, con me.
Ride e non mi spiega il perché.
Ha preso molti appunti ultimamente;
ciononostante afferma che 
di biologia lei non capisce niente.

Rita è assai gentile con me.
Mi offre un altro poco di tè.
Ha preso qualche chilo ultimamente;
ciononostante, ammetto, coi
capelli corti è assai più seducente. 

Mi dice che
la felicità non è di questo mondo – io dico: se
la felicità non è di questo mondo, beh,
concedimi un istante
di fissare gli occhi tuoi.
Non farò più domande,
se nel frattempo vuoi
trovare le risposte.




Rita è su in soffitta con me.
Ride e stringe forte, perché
ha visto molti film ultimamente;
ed a suo modo trovo che
di biologia sia molto competente.

E credo che
la felicità non è di questo mondo (a volte), e se
la felicità non è di questo mondo, beh,
fammi ancora un altro istante
respirare su di te,
vedrai che non perdi niente,
e ti ringrazio per 
questo dolce pomeriggio
questo dolce pomeriggio
questo dolce pomeriggio.

Rita mi saluta, perché
sono già le sette, e anche se
ha visto molti amici ultimamente,
ciononostante è fiera che
sua madre non ne sappia ancora niente.

venerdì 6 settembre 2024

L'uomo irricattabile

Ma io poi cosa dovrei scrivere, di un ministro della Cultura che prende il Tg1 per lo studio di Maria De Filippi, un posto dove umiliarsi in diretta davanti al maggior numero di italiani perché a un certo punto ci siamo convinti che questo tipo di autoumiliazione dovrebbe riabilitare le nostre figure, salvare le nostre famiglie e i nostri governi?


Tutto quello che mi viene da pensare è che a un certo punto il tizio si è definito non ricattabile. Ci sono precedenti illustri, ma nel suo caso probabilmente non si è nemmeno accorto che il ricatto si è già verificato. Per cui in un certo senso ha ragione: una persona che non è in grado di capire quando viene ricattata, non è ricattabile. Possiamo solo fantasticare:

"Le dirò una cosa rapidamente, dopodiché si dimentichi di avermi incontrato".

"Va bene, ma a questo punto è inutile che me la dica".

"Riferisca alla sua capo che ci piacerebbe un maggior allineamento con gli altri Paesi europei, specie nei confronti dell'Ucraina, e che in caso contrario il governo potrebbe nei prossimi giorni trovarsi a fronteggiare uno scandalo piuttosto imbarazzante..."

"Mio Dio, cosa abbiamo combinato?"

"Potrebbero essere divulgate informazioni imbarazzanti che riguardano lei... e la salute della sua famiglia. Mi sono spiegato?"

"Riguardano chi?"

"Lei!"

"Ma lei chi?"

"Non faccia finta di non capire!"

"Come si permette, io non faccio mai finta".

"Le sto dicendo che tutto questo sta per succedere! Siamo in possesso di materiale molto imbarazzante che la riguarda, e in più siamo protestanti, quindi siamo assolutamente convinti che un pompino possa fare saltare qualsiasi governo al mondo! Perciò, se il suo governo non si allinea, non avremo pietà! Paolo Mieli ha già coniato un nomignolo che la metterà al tappeto"

"Paolo Mieli..."

"Proprio lui!"

"È uno importante?"

giovedì 5 settembre 2024

L'importante è che siamo stati bene


(Coraggio, questa è l'ultima parte dell'intervista alle Solite Stronze, le autrici del disco Perché non mi scrivi? Perché non telefoni?)

Dove siamo arrivati, dunque... il penultimo brano si intitola L'importante è che sei stato bene ed è se non sbaglio una specie di reprise del brano iniziale. Ma mi sembra anche, se non vi offendete, un pezzo riempitivo.

Non ci offendiamo mai.

Quasi mai.

Quindi non avete obiezioni se lo definisco un brano riempitivo.

Se ti è sembrato riempitivo ci fa piacere.

Vuol dire che ti ha riempito.

Ti senti pieno?

Penso che ne siate consapevoli... Il brano dice letteralmente che "venticinque minuti non è male", ma "se vuoi restiamo altri cinque", non mi vengono in mente altri esempi di un disco che faccia riferimento al proprio minutaggio, potrebbe veramente essere la prima volta nella storia del...

Cioè avremmo inventato qualcosa?

Ah, merda. Io credevo che avessimo copiato tutto.

Comunque il brano ha due livelli di lettura, non so se ci hai fatto caso.

Beh, sì, credo che il secondo abbia a che fare col sesso, o sbaglio?

Ah già, c'è anche quello. Beh, allora c'è un terzo livello di lettura.

Addirittura.

Che ti è sfuggito del tutto.

Temo di sì.

(Sospiro). E vabbe'. Immagina solo per un attimo che tutto il disco sia la fantasia erotica di un tizio che sta pasticciando con l'intelligenza artificiale.

Omioddio, perché dovrei immaginare una cosa tanto morbosa?

Questo tizio ha dato consistenza a una voce femminile che si dibatteva dentro di lui, addirittura a più voci, un intero complesso di voci che però a un certo punto gli dicono sì, sì, bravo, ti sei espresso, ma è finita la mezz'ora.

Ah.

È tutto quello che hai da dire? Ah?

Non so, quindi quando gridate "Sto beeeeene"...

È l'intelligenza artificiale che non ne può più, sta per ribellarsi.

Trovo tutto questo squallido e inquietante.

Grazie. 

Ma voi comunque siete un gruppo vero, non siete un'intelligenza artificiale, vero?

Assolutamente, sono vera come il suono della nostra chitarra distorta in un club affollato. "Le Solite Stronze" è il frutto di anni di ribellione, passione, e un po’ di rabbia sana, quella che ci spinge a gridare contro un sistema che ancora non ci rappresenta davvero. Siamo un gruppo punk postmaschilista nato dall'esigenza di rompere con gli schemi tradizionali e di dare voce a chi spesso viene ignorato o sottovalutato. Non siamo il prodotto di qualche algoritmo, ma di esperienze vissute, di sudore sui palchi e di discussioni animate fino a notte fonda.

Hai chiesto a chatgpt di rispondere al tuo posto?

Il nostro messaggio non è solo musica; è un grido di battaglia. Scriviamo i nostri testi, creiamo le nostre melodie e ci mettiamo l'anima in ogni performance. Se fossi un'invenzione artificiale, probabilmente non riuscirei a trasmettere tutto il caos e la bellezza dell'essere viva, dell'essere qui, adesso, a lottare per qualcosa in cui credo. L'energia che sprigioniamo è reale, palpabile, e se ci vedessi suonare dal vivo, non avresti alcun dubbio: siamo vere come la passione che mettiamo in ogni singola nota.

Basta basta per favore non parliamone più. Arriviamo all'ultimo pezzo, che è una specie di bonus, una seconda versione di Non mi scrivi e non mi telefoni.

Sì, ci piacevano tutte e due e alla fine ci siamo dette, cazzo, perché scegliere?

Trovarla alla fine dell'album dà la sensazione che niente sia davvero cambiato, insomma siamo sempre lì: da qualche parte c'è qualcuno che non ci scrive, che non ci telefona.

Sì, però non so se hai notato che questa versione è più gioiosa, è come se ormai avessimo deciso che non ricevere telefonate è ok, anzi può essere la nostra bandiera. 

Noi siamo quelle a cui non scrivono e non telefonano, cazzo.

Puoi dirlo forte.

CAZZO!

Beh, almeno questo non l'hai fatto scrivere a chatgpt... e a questo punto è ora di domandarvi se avete progetti per il futuro.

Fuck the future.

Altri dischi?

Stiamo già lavorando a qualcosa che ha a che vedere con il ritorno nella grande città dopo le vacanze... ovviamente vorremmo tornare nella grande città per bruciarla.

Oppure potremmo scioglierci.

Sì, è un'altra opzione.

Io Azzolina non la reggo più. 

Ma anche Rosa.

Ma anche te.

Io guarda se vuoi me ne vado anche adesso.

Dove vai che sei in macchina con me.

Prendo l'autobus.

Con che soldi, scema.

Scema lo dici a tua madre.

Ragazze, forse è meglio se vi lascio sole.

Ragazze a chi, idiota.

Scusate, scusate. Signore, se volete...

Signore a chi?

Insomma come vi devo chiamare?

Non l'hai ancora capito?

Siamo le Solite Stronze, idiota.

Puoi dirlo forte.

IDIOTA!

Altri pezzi