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giovedì 23 dicembre 2010

I figli di Bearzot

Per vincere domani

A vederlo da qui, il Calcio italiano sembra avere avuto due incarnazioni, che per comodità possiamo chiamare “in bianco e nero” e “a colori”. Dunque il calcio in bianco e nero è un mondo di leggende, sacrifici, uomini di poche parole dal destino spesso tragico, magliette a strisce strette e senza scritte, riprese accelerate. Il calcio a colori è un mondo di stelle e stelline, scritte ovunque, indossatori di scarpe, spot di telefoni, risse in campo e sugli spalti, azioni al rallentatore. Al centro di questo grande cambio di paradigma, per un curioso accidente, c'è il Mundial del 1982, e la nazionale di Bearzot, coi suoi uomini che hanno un piede nel mondo antico e uno già in quello moderno, ma non appartengono davvero a nessuno dei due.

Aspettate, aspettate, non cliccate via. Non sono venuto qui a dirvi che il nostro mondiale è stato più bello del vostro; vorrei soltanto cercare di spiegare ai più giovani e ai più anziani che per noi, che eravamo al mondo da nemmeno dieci anni, fu qualcosa di diverso e irripetibile, né una saga in bianco e nero né una fiction a colori. Un romanzo, un incredibile romanzo, il primo vero romanzo che abbiamo visto consumarsi tra la tv e i giornali (quanti giornali! E che titoli! Me ne ricorderò sempre uno, che forse non era nemmeno in prima pagina, in un maiuscoletto che pugnalava il cuore: IL CAMERUN CI FA PAURA).

Vorrei spiegare che prima di tutti i grandi romanzi di formazione degli anni Ottanta, prima di Pat Morita che ti fa dare la cera e togliere la cera, prima di Rocky che spacca la legna, persino prima dei napoletani che sfidano a football gli yankees della base Nato e ovviamente si fanno massacrare, finché Bud “Bulldozer” Spencer non si rompe i coglioni ed entra in campo, prima che qualcuno dicesse “coniglio” a Michael J. Fox, insomma, prima di ogni cosa, ci fu quella nazionale pesante, che non riusciva a giocare contro la Polonia, non riusciva a battere il Perù; quella nazionale criticata da tutti che aveva paura del Camerun, quella nazionale passata al secondo turno per una pietosa differenza reti, quella nazionale che quando si ritrovò in un girone a tre con Brasile e Argentina fu data per spacciata dai nostri saggi padri.

Noi invece, non sapendo davvero nulla di calcio, che altro potevamo fare se non sperare, pregare, sognare che i potentissimi sudamericani si liquefacessero come nella Bibbia accade agli empi nemici di Israele. E così fu: il Dio della nostra infanzia ascoltò le querule preghiere dei suoi figli piccoli e quella nazionale, già vergogna delle italiche genti, si rialzò sferragliante come Mazinga prima che gli diano il colpo di grazia, e sconfisse l'Argentina di Maradona, trionfò sul Brasile di Zico e Falcao, passeggiò sulle spoglie della Germania di Muller e Rummenigge, e ci diede il primo vero lieto fine della nostra vita; non una semplice vittoria: una crescita, un riscatto. Lo avevamo sognato, ora il sogno era realtà. Ed era appropriato che i protagonisti di questa avventura avessero nomi bizzarri, da romanzo ungherese: Zoff, Bearzot (anche se poi chi segnava i gol portava cognomi più rassicuranti: Rossi, Tardelli).

L'allenatore, in particolare, fu immediatamente assunto nel nostro olimpo di nonni rassicuranti, con Pertini ed Enzo Ferrari (che per me a nove anni avevano davvero il volto intercambiabile): uomini saggi che tenevano dritto il timone, incuranti delle sconfitte passeggere, essi vegliavano sui nostri sonni e ovviavano ai disastri dei nostri genitori. Senza di loro, Gilles Villeneuve non sarebbe stato che un locale campione d'autoscontro. Erano loro ad aver pescato Paolo Rossi dal vortice del calcioscommesse; ad aver creduto in lui per quattro lunghe partite mentre si aggirava per l'area avversaria struggendosi nel tentativo di rammentarsi le regole del giuoco. E i nostri saggi padri lo fischiavano, maledicendo Bearzot e chi ce l'aveva mandato, e l'Argentina '78 era un'altra cosa, per tacer del Messico.

Come poteva non scattare l'immedesimazione, come potevamo non sentirci tutt'uno con quel Paolo Rossi timido, incapace, distrutto dalle critiche, che a un certo punto si sblocca e piazza tre gol ai brasiliani? Era ovvio che prima o poi sarebbe successo anche a noi: ci saremmo sbloccati. Avremmo spiccato il volo e superato in elevazione tutte le difficoltà. Non è escluso che da qualche parte, nella nostra testa, ci crediamo ancora: ci sbloccheremo prima o poi, la faremo vedere a tutti. Forse sarebbe bastato trovare un saggio maestro, un nonno partigiano, un Bearzot che credesse in noi.

Non ci furono sequel al romanzo: chiusa la copertina Bearzot tornò immediatamente un comune mortale, il selezionatore di nazionali mediocri, che non si qualificarono agli Europei e uscirono agli ottavi in Messico. Ci furono altri mondiali, e anche se non abbiamo mai smesso di tifare per gli azzurri, da qualche parte nel nostro cuore c'era come una resistenza, l'idea che nessuna fiaba sarebbe mai stata bella come quella di Bearzot. Magari piangemmo persino nel '90, quando la cavalcata trionfale di Baggio e Schillaci si schiantò sulla più bituminosa Argentina mai vista: piangemmo, ma qualcosa dentro di noi diceva meglio così, ci sta bene, abbiamo voluto vincere tutte le partite e ci siamo dimenticati che non c'è vera gloria senza sofferenza.

Soffrimmo di più per l'Italia di Sacchi, che in partenza poteva sembrare ancora più arrogante di quella di quattro anni prima, ma poi fu messa in ginocchio da infortuni e squalifiche che la resero un'armata brancaleone, trascinata di peso da Baggio fino al malinconico finale. In seguito i calciatori diventarono sempre meno simpatici, eppure avevano un modo di mettersi nei guai che ti costringeva a credere in loro, a sperare nel riscatto, a cercare nel fondo del nostro cuore il Dio delle vittorie assurde che avevamo pregato nel 1982. Persino l'europeo di Grecia diventò interessante soltanto quando Totti si fece cacciare, e Cassano scese in campo e segnò, ma Svezia e Danimarca fecero melina e allora pianse: sì, Cassano pianse. Due anni dopo, in pieno scandalo Moggi, era di nuovo una questione di riscatto: i nostri gladiatori pompati e tatuati dovevano dimostrare di essere professionisti all'altezza, e forse ce la fecero, ma poi.

Poi, l'ho scritto, almeno in me qualcosa si è rotto – qualcosa, credo, tra la testata di Zidane e la scenetta odiosa di Totti con la coppa in mano. Non riesco più ad appassionarmi, mi sembro una donna che vede ventidue idioti a spasso per un prato e cambia canale. Non capisco - se mai l'ho capito - che senso abbia far giocare miliardi di budget contro milioni di debiti, non riesco più a trovare motivi d'interesse. Non posso nemmeno dire che rimpiango il calcio che fu: se riguardo al Mundial dell'82 con gli occhi di oggi, mi rendo conto che fu una bella impresa, sì, ma come tante altre, nulla di davvero eccezionale: non ci voleva un genio a capire che quel Brasile non sapeva difendersi, e Bearzot probabilmente non era un genio.

L'unica cosa che mi porto dentro, alla quale non voglio rinunciare, è il mio concetto di vittoria, che è quello dei film degli anni Ottanta dove Rocky deve sempre prima andare al tappeto, sanguinare, vedere doppio, spaccare la legna, mettere la cera, togliere la cera... per vincere domani. Il mio concetto di vittoria è che la vittoria in sé non m'interessa. Non voglio essere il più forte, non trovo nessuna gloria nel nascere Maradona. Non ci sarebbe gloria nemmeno nel battere il Brasile, se prima non hai avuto paura del Camerun. Per me l'unica vittoria che abbia senso è la vittoria di Paolo Rossi, che sbeffeggiato dal mondo intero spicca il volo, supera due ciclopi brasiliani in elevazione e la mette dentro. Perciò mi troverete sempre coi perdenti: non perché mi piaccia perdere, ma perché sto aspettando l'unica vittoria che mi farebbe godere realmente: la vittoria di Davide su Golia, di Bearzot sui mostri del calcio, di Pertini sui fascisti i nazisti e i democristiani. Voi tifate pure per la vostra squadra miliardaria: mica vi giudico, e mi fareste un piacere se non giudicaste me. Siamo semplicemente diversi, abbiamo avuto educazioni diverse, ci siamo letti romanzi diversi negli anni in cui leggere i romanzi ci serviva davvero. Adesso per capirsi forse è tardi, voi state da una parte, io dall'altra, e non m'importa quante palle mi mettete dentro: l'importante è la sola palla che un giorno metteremo noi. Ne basterà una sola, a un certo punto ci sbloccheremo, scenderà Bulldozer, il signore degli Eserciti, vi faremo un culo così, la palla schiacciata in meta scoppierà e non ne verranno fabbricate altre, non ci saranno rivincite, il mio romanzo finirà in quel momento.

24 commenti:

  1. ti consiglio questo, se riesci non perderlo a teatro http://www.sellerio.it/popup.php?bid=2241

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  2. Enia è splendido, non solo mi avverte quando passa da queste parti, ma mi ha pure regalato il libro (unico autore che mi regala qualcosa in 10 anni di blogging).
    In effetti ho perso un'altra occasione per citarlo. Leggete Davide Enia! Andatelo a vedere!

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  3. Oddio, il finale di questo post descrive benissimo quel riflesso condizionato che mi si scatena quando leggo certi commenti a post "antogovernativi"; sai, quando scrivono "continuate così, che Berlusconi governarà altri vent'anni" (è un topos anche di alcuni politici televisivi, spesso in odor di Lega).

    Ecco, lì sento quel fastidio per chi, seduto sul carro del vincitore, trova soddisfazione nello sbeffeggiare chi è rimasto a terra; come se vincere (quasi) sempre fosse merito e ragione.

    E tanto per restare sul parallelo, ricordo il momento di gioia e speranza che mi aveva dato la vittoria di Prodi del 96, proprio perché sprazzo di riscatto dopo anni di patimenti. Non che quell'esperienza non fosse destinata ad impastarsi presto col fango, come avvenne peraltro negli Europei di Bearzot (R.I.P).

    Basta col parallelo, mi comincia a sembrare scolasticamente noioso...

    VilCatto

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  4. Bellissimo post. Dice tutto quello che avrei detto io (e meglio).

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  5. Sublime, mi legge dentro.
    Io sono quello che scrivi,e mi ricordo che i miei avevano il televisore a colori per l'occasione e stavo a leccare ghiaccioli alla menta, che poche ore prima della finale mi ero spaccato la lingua tra i denti e poi di corsa in ospedale e mi tenevano la lingua fuori con le bende e sudavo freddo sul tavolo del pronto soccorso e poi ghiaccioli e goal e fine.
    E ora come allora a pretendere il riscatto dei perdenti, l'unica strada vera per la gloria.

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  6. Ecco, però nel '90 ero ancora piccolo, e quella fu l'ultima nazionale a farmi sentire in lotta contro i cattivi (che per me erano pure tra i nostri, come quando all'inizio Carnevale stava in campo e Schillaci strabuzzava gli occhi dalla panchina). Non so se dopo siam cresciuti noi, o se son gli altri che nel frattempo han preferito farsi invidiare vivendo di rendita (spesso neanche su meriti propri) invece di stare a rotolarsi nel fango in cerca di riscatto.

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  7. Ecco, e con questo post, stando alle ultime indiscrezioni, ti sei meritato la panchina dell'Inter...

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  8. Diciamo che le cose vanno sempre, e naturalmente, peggio.
    Ma nel calcio l'abbastanzismo è la filosofia di vita.

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  9. parli di rocky come se esistesse solo rocky 4 ma il vero underdog fu rocky 1 con la scalinata di philadelphia il sacco sui quarti di bue, le uova crude mangiate alle 4 di mattina a correre sotto la neve, la vita da povero in periferia eccetera.
    In Rocky 4 rocky è campione indiscusso, Drago era campione dei dilettanti al primo incontro da professionista, un po' come dire Klitchko Vs Cammarelle è Drago che deve dimostrare chi è ,infatti finchè non ammazza apollo nessuno lo prende sul serio (più o meno).

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  10. ah e dimenticavo, ovviamente il primo rocky è precedente il mundial.

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  11. Sono dello stesso anno tuo, Leonardo.
    Tutte le sensazioni di cui parli
    tutte
    uguali uguali
    scrivo pure come Amelie, adesso :P.

    P.S. Le stesse sensazioni, le ho avute leggendo Q, di Luther Blisset

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  12. Ma noi rocky e bulldozer non li abbiamo mica visti al cinema. Solo più tardi in tv tutti assieme.

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  13. Come sarebbe "unico autore che mi regala qualcosa"? E i nostri commenti, le nostre riflessioni (i nostri post)? Conta solo la carta?
    :-/

    Cmq. buon natale...

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  14. Nell'82 avevo 6 anni, il giorno della finale mia madre che è sempre stata patita di calcio seguiva la partita attraverso la finestra dei vicini perchè non c'era la TV nella casa delle vacanze. Alla fine tutti in strada.
    La nazionale del '90 un vero peccato.
    Il Mondiale del 2006 è lo sguardo di Totti che tira il rigore contro l'Australia.

    E il giorno in cui tutto inizia a girare anche per gli eterni perdenti quest'anno è arrivato, ed è stato impagabile! Anche se Davide era una squadra miliardaria.

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  15. Hai andamento, cadenze, ritmo milaniani. Li hai proprio introiettati.

    Al

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  16. ehi leo, ho sentito che sei diventato allenatore dell'inter! certo che ti sei ridotto a far proprio di tutto per lottare contro berlusconi!

    ok, dimentica sta cavolata.
    complimenti per il blog (anche se, non essendoci stato nell'82, questo post lo apprezzo un po' meno degli altri) e buone feste.

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  17. Io di anni ne avevo 7 nell'82. Ricordo solo qualche sensazione e qualche immagine. Piu' che altro la mia e' stata gioia riflessa.

    Ho avuto modo di provarla una quindicina d'anni dopo, la gioia del tifo sportivo, quello vero e appassionato. Quello che non e' finalizzato al risultato, ma nasce da una scelta precisa.

    E poi e' arrivata la delusione, cocente, per colpa di modi e stili che non riconoscevo piu'.
    Come un amante tradito, ho realizzato. Ho rifiutato. Disilluso, ho lasciato perdere tutto.
    E per fortuna questo e' accaduto qualche anno prima che emergesse in tutta la sua puzzolente evidenza il baraccone delle partite truccate, degli arbitri amici e dei giochi di potere. Chissa' se da tifoso sarei riuscito ad accettarlo, pur di continuare ad avere le mie partite in tv.

    Ora il calcio continuo a giocarlo, come sempre, ma per guardarlo, quelle rare volte, devo concentrarmi sulla palla, e far finta di non vedere chi la calcia.

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  18. ancora un punto in comune tra te e Berlusconi...
    la competizione e l'aspirazione alla vittoria, non la vittoria in se'
    sotto sotto lo stimi?

    con affetto nipponico
    Aru

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  19. vero e commmuovente per chi ha 40 anni o giù di lì

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  20. interista diventi pazzo
    son 15 anni che non vinci un cåzzø

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  21. tutto perfetto, eccetto che non si nasce maradona, si diventa maradona. il che, temo, toglie di significato alle altre 3.000 parole circa del per ogni altro verso pregevole essay.

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  22. ah già, dimenticavo il coming out: sono un '72, avevo dieci anni, l'anno dopo ho perso una finale di coppa campioni contro l'amburgo ad immediato antidoto, poi ho vinto e perso, sia come giocatore (più perso he vinto) che come tifoso (il contrario). ci vuole un certo impegno a raggiungere elevati livelli di scolarizzazione mantenendo a un tempo la passione più pura per il fubal ma si può: basta cominciare a vedere l'epica laddove la maggior parte, al conseguimento del dottorato, cominciano a vedere 22 milionari analfabeti che inseguono una palla di cuoio (di materiali sintetici brevettatissimi, in realtà, è uguale).

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