Ho tirato giù un posto di blocco israeliano (e cosa c’è di male)
Per ricordare Tom Horindal: prima parte
Quando mi sono trovato davanti ai carri armati, io, non mi sono comportato tanto bene.
Del resto non volevo neanche andarci. Tutta colpa di Marcella.
“Il 27 dicembre del 2001 gli studenti di Ramallah che rientravano dalle vacanze di Natale trovarono un posto di blocco sulla strada per l’università di Bir Zeit, e allora…”
”Che palle, nonno, sempre la stessa storia…”
“Zitti, che è importante”.
Il 27 dicembre 2001 gli studenti di Ramallah chiesero alla delegazione di Action For Peace di fare opera di interposizione a quel posto di blocco l’indomani. Quella sera stavo giusto tornando dopo il mio primo pellegrinaggio alla città vecchia, assai fiero di aver rintracciato l’albergo da solo, dopo essermi alienato dai compagni in un internet cafè. Nella hall Marcella stava leggendo sulla lavagna il programma del giorno successivo: c’era un cambiamento. Un gruppo, invece di andare a Nabius, come previsto, si sarebbe recato al posto di blocco tra Ramallah e Bir Zeit. Quest’ultima era un’operazione delicata; c’era il concreto rischio di dover fronteggiare l’esercito israeliano, perciò servivano persone con una certa esperienza, un certo coraggio, una certa determinazione. Insomma, non si stava parlando di me.
Però Marcella si voltò e mi chiese: “Andiamo a Ramallah, domani?”
“Eh?”
Prima che pensiate male, l’antefatto: io e Marcella ci eravamo presentati il giorno prima, alla stazione di Modena. A Modena ci si conosce tutti di faccia, ma a parte la faccia, io non la conoscevo. Conoscevo invece il suo ragazzo, il quale, salutandoci, “Mi raccomando” aveva detto, “attento che non si metta nei guai”. Sono cose che a trent’anni si dicono per scherzo. E poi, anche senza conoscere molto di più della sua faccia, non credevo che Marcella potesse mai mettersi nei guai. Ha un volto molto buono, un’aria serafica, non credo di averla mai vista scandire uno slogan a un corteo. Però il 28 dicembre 2000 voleva andare a Ramallah, e io mica potevo dirle di andare da sola, quindi…
“Si marcia in fila indiana fino al posto di blocco, poi ci si piazza ai bordi e si cerca di far passare i palestinesi. È probabile che tirino fumogeni, ma la cosa a cui dovete stare attenti sono le bombe assordanti: oggi me ne hanno tirata una, mi sembra di aver perso l’uso di un orecchio. Mah, speriamo mi passi. Guai a dividersi. Guai a scappare. Solo chi scappa si mette in pericolo. L’importante è restare uniti. Domande?”
“Ehm… e se caricano?”
“L’importante è restare uniti”.
La periferia di Ramallah è una città finta, un cantiere abbandonato: qualcuno aveva pensato che dopo Camp David ai palestinesi sarebbe piaciuto venire ad abitare in un appartamento nel centro più dinamico della Palestina, a 15 minuti d’auto da Gerusalemme. Ma Camp David era un bluff, coi posti di blocco i 15 minuti sono diventati tre ore, i palestinesi non hanno più potuto lavorare in Israele, quegli appartamenti erano stati abbandonati a metà, quando li ho visti, la mattina del 28 dicembre 2001. I rappresentanti degli studenti ci erano venuti incontro con una buona notizia: gli israeliani avevano lasciato il posto di blocco. Sapevano di certo che eravamo diretti lì, e non volevano avere delle noie.
D’altro canto noi ormai lì c’eravamo. Iniziammo a marciare in fila indiana, con le nostre ridicole pettorine bianche con la scritta “Italian Delegation”. Noi italiani eravamo il grosso della spedizione: l’età media era sopra i quaranta. I francesi erano molti meno, e facevano molta più confusione (più di una volta ci avrebbero messo nei guai). Inglesi e americani si sentivano poco, ma – come stavo per rendermi conto – erano i più pazzi. Qualcuno distribuiva limoni, questi famosi limoni che dovrebbero fare da antidoto ai fumogeni, anche se nessuno sa mai dirti come. Io, per non saper leggere né scrivere, me ne ero messo in tasca uno. Marcella marciava davanti a me.
“Tutto bene?”
“Sì, perché?”
Giunti al posto di blocco ci piazzammo lì, due file di pacifisti mano nella mano. In mezzo la gente passava. La maggior parte non erano studenti, ma donne con bambini, operai, ragazzini. E c’era anche qualche testa calda, ovviamente. Il posto di blocco, in cemento, era stato abbandonato: buttarlo giù era una tentazione troppo forte (d’altronde era un posto di blocco con la bandiera israeliana in un territorio amministrato dall’Autonomia Palestinese). Ma siccome sulla collina c’era un blindo israeliano, armato di videocamera, bisognava evitare che qualche ragazzino del posto si lasciasse inquadrare mentre distruggeva qualcosa. I ragazzini finiscono in carcere anche per meno.
“Lasciate, è meglio se lo distruggiamo noi”
Lì si videro attempati padri di famiglia, con la bandiera della pace a mò di mantello, metter mano a travi e spranghe e buttar giù quello che potevano. (Ma io e Marcella continuavamo a tenerci per mano, salvo quando ci capitava di scattare una foto). Ma la cosa non poteva che eccitare ancor di più i palestinesi, che a un certo punto attaccarono la guardina, buttandola giù a spallate e dandole fuoco. A quel punto, da sopra la collina, iniziarono a spuntare altri blindi e un carro armato. E noi continuavamo a tenerci per mano, come bambini.
Partì un fumogeno, lo vedemmo salire, salire, e poi scendere, a pochi metri da noi. Continuammo a tenerci per mano.
Ne partì un altro, io lo vidi salire, e mentre scendeva cercai di calcolare dove sarebbe finito, ed ebbi la sensazione precisa che sarebbe finito su di me. (Continua)
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