Il costo della Vita…
Cala, cala. E non è una buona notizia
Devo fare due cose che mi seccano un po’.
La prima è ammettere che ehm, forse mi sono sbagliato. O almeno, ho cambiato idea. Insomma, non mi riconosco più in quello che scrivevo un anno e mezzo fa. (Chi se ne frega, direte voi, ma questo sito era nato anche per riordinare le mie idee).
Il 18 settembre 2001 (erano giorni un po’ convulsi), scrivevo:
Gli USA si ritirarono dal Vietnam perché il prezzo in Vite Umane era troppo alto. E da allora non sono più riusciti a combattere una guerra che fosse realmente tale. Le truppe di terra sono intervenute soltanto quando la sproporzione col nemico era tale da non poter veramente impensierire (Granada, Panama, per certi versi anche Somalia e Mozambico); quando invece il nemico aveva un esercito vero e proprio, USA e NATO hanno sostituito la guerra con la cosiddetta "operazione chirurgica": tonnellate di tritolo su Iraq e Serbia.
Non è mancato a noi occidentali 'illuminati' il tempo di criticare la viltà di queste operazioni. Ma anche manifestando contro i bombardamenti non mancavamo mai di proclamare che mai e poi mai saremmo andati in guerra contro serbi e iracheni. Ribadivamo in questo modo che le nostre Vite Umane valevano troppo: che non potevano essere spese per sollevare un Saddam Hussein o un Milosevic. Che si sollevassero da soli, i tiranni. Noi non avremmo dato un capello. (Anche se, naturalmente, eravamo tutti solidali con le povere Vite di curdi o cossovari).
Proseguivo come al solito di paradosso in paradosso per arrivare a parare qui:
Le guerre degli anni Novanta sono state terribili. Ma noi Occidentali – che pure le abbiamo combattute – non ci siamo accorti di nulla. Nel frattempo il costo della Vita Umana in certe regioni del mondo precipitava. Oggi una vita afgana, o palestinese, vale veramente poco. Oggi a un giovane del Sud del mondo, con una speranza di vita ridicola, cresciuto nella dittatura, nella povertà, nell'ignoranza, nel fanatismo, costa relativamente poco arruolarsi nella Jihad come kamikaze. Costa una Vita: la sua. Ben poca cosa. I kamikaze abbondano quando e dove la Vita non costa più nulla.
E siamo a oggi. Bush ha dichiarato guerra contro il "Male", anche da parte nostra, a quanto pare. Non sappiamo ancora che tipo di guerra sarà (ribadiamo comunque la nostra scarsa attitudine a marciare e a sparare contro altre Vite Umane, per quanto poco possano valere). Speriamo tuttavia che non si tratti dell'ennesima vigliacca 'operazione chirurgica', che farebbe precipitare ancora di più il valore della Vita in una regione del globo, contribuendo così a creare migliaia di potenziali kamikaze.
Certe dichiarazioni dell'entourage della Casa Bianca ("sarà una guerra lunga"…) fanno ben sperare. Se gli americani sono convinti che il loro nemico è Bin Laden, o l'intero Afganistan, paghino il loro prezzo in Vite Umane, rovescino l'inumana dittatura dei talebani, arrestino Bin Laden. E se hanno bisogno dell'aiuto degli alleati, ci chiedano un prezzo in vite umane: vedremo poi noi, italiani, ed europei, se siamo ancora così entusiasti di far parte della Nato.
Sono passati venti mesi, gli USA hanno combattuto due prevedibilissime guerre in Asia, che non sono state “operazioni chirurgiche”, e (questa è la novità) non hanno neanche preteso di esserlo. I soldati americani – e i loro alleati – si sono rimessi a morire, in quantità che lasciano sgomenti. In venti mesi il mito del Militare Occidentale Intoccabile si è sciolto al sole: oggi ascoltiamo i bollettini dei morti angloamericani come routine, e già iniziamo a sbadigliare al pensiero del prossimo kolossal hollywoodiano con Demi Moore nei panni di Jessica Lynch.
E intanto io ho cambiato idea. (Forse perché sono il solito bastian contrario antiamericano). Venti mesi fa pensavo che “Le guerre sono cose veramente orribili. Specie se si mandano i missili a combatterle in vece nostra”. Trovavo qualcosa di positivo nel fatto che gli Occidentali rimettessero in gioco le loro vite.
Oggi non ci credo più. Me ne sono reso conto oggi in un bar, leggendo un pezzo del Resto del Carlino. E questa è la seconda cosa che mi secca un po’ fare: lincare il Resto del Carlino. D’altronde sulla pagina in questione non ci sono donnine nude, e il pezzo di Giampaolo Pioli, Soldati in fuga dalla povertà, merita. È il tipo di pezzo che mi piacerebbe leggere sul Manifesto. (E magari ce ne sono, di pezzi così, sul Manifesto, ma al bar non lo trovo mai, e il sito è labirintico).
La guerra a Saddam sta mostrando il volto nuovo delle forze armate Usa. Non sono più la rappresentanza quasi esatta dei gruppi etnici del paese e delle sue classi sociali, ma una vera e propria super azienda. La più grande del paese con oltre 1.500.000 dipendenti in servizio effettivo. Più di 31.000 soldati non sono nemmeno cittadini. Hanno la «carta verde», il permesso di residenza permanente ma vengono da luoghi poveri e lontani. A uno di loro, il caporale Martinez-Flores di Guadalajara in Messico, morto nel suo carro armato di 60 tonnellate Abrams finito nell'Eufrate durante la battaglia di Nassiriya il «passaporto blu» il governo Usa lo ha consegnato alla moglie perché lo tenesse come ricordo e come segno di ringraziamento per l'alto sacrificio.
Vale a dire: finché lavori (e ammazzi) sei solo un immigrato; ma se muori, sei un Eroe e sei morto per la Patria.
Questo mi ricorda qualcosa: le centinaia di irregolari (il numero vero non si saprà mai) con o senza carta verde caduti l’11 settembre. Ci fu qualche senatore che ebbe la macabra idea di proporre per loro la cittadinanza post mortem.
Sul Carlino il pezzo è accompagnato da una foto di Jessica Lynch e Lori Piestewa, insieme. Sorridono. Potrebbe essere l’occasione per una tirata retorica sull’esecito democratico, che ha abbattuto le barriere sessiste e razziali, mandando a morire anche ragazze native americane, come appunto la Piestewa (in Italia c’è già chi rende onore alla “squaw caduta sotto il fuoco amico”). Invece è l’occasione per raccontare come l’esercito americano stia diventando un rifugio non solo per gli immigrati, ma per una fascia crescente della popolazione che la crisi economica spinge oltre la soglia della povertà. In fondo, è la stessa cosa che hanno in mente al Foglio (cioè sul Wall Street Journal), quando dicono che l’esercito sta dando una mano a raddrizzare i giovani: altroché se li raddrizza, gli dà una paga e una posizione sociale. In cambio, certo, ogni tanto chiede una vita: si incrocia le dita, si spera che tocchi al collega, ma se toccherà a noi, pazienza: era nel contratto.
Viene in mente una sequenza di Gangs of New York: gli immigrati appena sbarcati da Ellis Island, che ancora non sanno l’inglese, e già si ritrovano reimbarcati con una casacca blu e un fucile per andare a combattere i Sudisti. “Ma pensi che adesso ci daranno da mangiare?”
Viene in mente l’altra grande “superazienda” emergente negli USA: l’amministrazione carceraria. È da dieci anni che gli americani hanno deciso che conviene ingrandire le galere (e privatizzarle) piuttosto che spendere per lo Stato Sociale. L’ospedale più grande della California è in un penitenziario.
Viene in mente Jessica Lynch, che si è difesa strenuamente mandando al creatore più nemici che poteva, che non è una fanatica cresciuta a film di Chuck Norris (quelli secondo me restano a casa a scrivere sui blog), ma soltanto una ragazza a corto di risorse, che vuole “pagarsi il college e diventare insegnante elementare”. Insomma, forse se io fossi nato negli USA nei primi anni 80 ora mi ritroverei indosso una casacca grigioverde e un fucile, non perché io creda nella Terra della Libertà e della Democrazia, ma solo perché voglio studiare in un college decente.
E allora mi rendo conto che mi ero sbagliato, il 17 e il 18 settembre 2001, a pensare in termini di Vite Umane Occidentali e non Occidentali: che quest’occidente è sempre più una categoria immaginaria: che esistono semplicemente Vite Ricche e Vite Povere, e la grande novità degli ultimi due o tre anni è che i Poveri ormai anche negli USA e in Occidente sono maggioranza. E manovalanza.
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