I segreti dell'altalena
“Papà”.
“Sì, bambina mia?”
“Senti, c'è una cosa che è da un po' che ti devo dire, però mi devi promettere che non lo dici a nessuno”.
“Cos'è successo, bambina mia”.
“Senti, sai quando andiamo nel parco a volte al pomeriggio”.
“Sì”.
“Che tu ti metti sulla panchina a leggere il Giornale e io vado sull'altalena e a volte veniva anche la Lorenza”.
“Cosa c'è, vi siete picchiate di nuovo? Adesso sua madre mi sente...”
“No, no, non mi ha fatto niente la Lorenza. Non è questo”.
“Ah. Del resto è un po' che non si vede più”.
“Sua mamma non vuole più portarla”.
“Nel parco? Cos'è, ha paura di te adesso”.
“Ma no, no, papà. È che sta andando da un dottore, però non è come il dottore che ti mette il termometro, è una specie di dottore della testa, che ti mandano da lui quando vedi le cose strane”.
“Le cose strane? Perché, cosa ha visto Lorenza?”
“Ma niente, papà”.
“Non riesco a capire”.
“Neanch'io papà. È tutto cominciato due settimane fa anzi no forse tre perché mi ricordo che non c'era ancora nell'angolo il venditore di castagne”.
“Allora è più di un mese”.
“Insomma, quando tu mi accompagni al parco e ti metti sulla panchina, io vado sull'altalena con la Lorenza, ma a volte c'è una signora che ci spinge. Tu l'hai mai vista la signora?”
“Mah, no. È la mamma di un'altra bambina?”
“Dice che è la mamma di un bambino, ma io non l'ho mai visto il suo bambino, comunque, lei non fa proprio niente di male papà, ci spinge soltanto”.
“Ma com'è fatta questa signora”.
“È tanto bella”.
“Ah”.
“Con un velo che la copre tutta”.
“Eh?”
“Ma sì, hai presente, un velo, come la mamma della mia compagna Fatima, hai presente, però il colore è diverso, è...”
“Tutta? Non si vede neanche il viso?”
“Sì papà, si vede il viso”.
“E di viso com'è?”
“Te l'ho detto papà, è molto bella”.
“Sì, va bene, è bella, ma il viso, insomma, di che colore è? Come quello della tua compagna Fatima?”
“Un po' sì”.
“E parla italiano?”
“Sì, anche se...”
“Anche se?”
“Parla strano, insomma papà, io non è che capisco tutto quello che dice, però...”
“Però”.
“Sono cose bellissime e bruttissime”.
“Spiegati meglio, tesoro”.
“Ma per esempio ci dice che ci saranno cose molto brutte, delle battaglie, i cattivi sembra che vinceranno contro i buoni ma non dobbiamo avere paura, anche se ci saranno queste cose molto brutte... a un certo punto ci saranno degli eserciti che faranno una guerra terribile, ma alla fine vincerà lei...”
“E queste cose ve le spiega sull'altalena?”
“Sì, e ci dice per adesso di non dirle a nessuno perché è ancora presto, ma ecco, è successo che la Lorenza è andata a dirle a sua madre e sua madre l'ha portata da questo dottore”.
“Ma che dottore. Qui c'è da andare dalla polizia, altroché”.
“Dalla polizia? Ma perché, papà, è successo qualcosa?”
“E' successo che nel parco c'è una integralista islamica che fa la predica a mia figlia, mi sembra abbastanza. Ma senti, questa signora te l'ha detto come si chiama?”
“No papà”.
“Tanto di sicuro è un nome assurdo. E da dove viene?”
“Non viene da nessuna parte, papà, è sempre lì”.
“Come sarebbe a dire è sempre lì, vedrai bene se arriva da una parte o dall'altra... viene dalla parte del venditore di castagne o dalla strada?”
“Papà, te l'ho detto, è sempre lì”.
“Ed è tutta velata?”
“Sì papà”.
“Dal capo ai piedi?”
“Sì... beh, no, ai piedi porta una cosa, come si chiama, una fetta di luna...”
“La mezzaluna?”
“Ecco, sì, papà”.
“Maledetti musulmani. Ti volti un attimo e si mettono a convertire tua figlia. Ma io questa la stronco. Senti. La prossima volta che andiamo al parco...”
“Sì papà?”
“Appena la vedi ti metti a urlare, va bene?”
“Ma papà, io quando la vedo non riesco a urlare”.
“Come sarebbe a dire”.
“È una cosa strana, papà, io quando la vedo mi sento tutta bloccata, però sto bene, anzi sto benissimo, però non riesco a parlare”.
“Figlia mia! Ma cosa ti hanno fatto questi bastardi... senti, nel parco non ci andiamo più, hai capito?”
“E alla signora cosa le dico?”
“Non le dici niente! Non la vedrai mai più”.
“Ma se viene in camera mia?”
“Come in camera tua? Come fa a venire in camera tua”.
“A volte di notte è venuta”.
“Eh? Scherzi? No, è un sogno. Ipnosi. Un veleno. Insomma, non lo so. Senti, facciamo così, adesso chiamo la mamma di Lorenza e le chiedo il numero di quel dottore...”
“No, papà, per favore! Papà! La signora non mi ha fatto niente. Mi ha solo...”
“Taci te. Non hai neanche idea di cosa... Fila in camera tua”.
Cara Signora,
mi dispiace che ho parlato di te con mio papà, ma non sapevo più come fare. Adesso lui è molto arrabbiato e non vuole più portarmi al parco.
Allora ho pensato che io, a me tu stai simpatica, però forse è meglio che non ci vediamo più, e al massimo quei Tre segreti che ci devi dire li dici alla Lorenza, che lo so che voi vi vedete ancora anche se lei va dal dottore.
Però la Lorenza ce la fa a tenere i segreti, invece io cara Signora mi dispiace, mi dispiace tantissimissimo, ma con mio papà proprio non ce la faccio.
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi.
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lunedì 30 novembre 2009
giovedì 26 novembre 2009
Qualcuno che può capirla
Il ministro è occupato
“Pronto Telefono Rosa, Sono Lucia. In cosa posso aiutarla?”
“Ecco, io volevo sapere... questo è il numero per le donne vittime di violenza, vero?”
“Certo. Ha un caso da segnalarci?”
“Ecco, io... non so esattamente se...”
“Non si preoccupi. Ci racconti. Non deve per forza dirci chi è. La chiamata è anonima”.
“Ma forse è meglio se chiamo un'altra volta, adesso starei al lavoro e...”
“Va bene, ma posso dirle una cosa? Una cosa soltanto”.
“Sì”.
“Ci sono donne, come lei, che dicono così, e poi non richiamano più”.
“No, no, io poi vi richiamo”.
“Se mentre era al lavoro ha sentito l'impulso di chiamarci, è chiaro che in quel momento sentiva di avere davvero bisogno di aiuto”.
“No, ma io non chiamo per me, chiamo per... per una mia amica che... lei non ha il coraggio e allora io...”
“Va bene, va bene. Nel momento in cui ha fatto il numero, lei si sentiva veramente in pena per questa sua amica”.
“Sì, è così”.
“E ha avuto il coraggio di chiamarci”.
“Sì”.
“E ha fatto benissimo! Ma chissà quando le tornerà il coraggio. Magari tra un'ora, magari domani. Magari tra una settimana”.
“Ecco, io...”
“...e intanto la sua amica sta male, e magari è in una situazione a rischio. Perché non comincia a parlarcene adesso?”
“Ma vede, non è proprio una situazione a rischio, voglio dire, non è che la picchiano questa mia amica, non c'è nessuno che le alza le mani, però...”
“Però la fanno soffrire”.
“Sì... tantissimo. Però non lo può dire, perché...”
“A noi lo può dire”.
“Sì, ma è come se non esistessero parole per questa cosa che fanno... oppure magari forse esistono, ma io non le so... lei non le sa...”
“Provi a spiegare a me. Magari le conosco io le parole. In fondo è il mio mestiere”.
“Ma non è una cosa... normale. Voglio dire che non è una cosa che succede a tante donne. Forse non è mai successa prima, non lo so”.
“Eh, signora, lei non ha idea... a proposito, posso chiederle come si chiama? Solo il nome, non voglio il cognome”.
“Mi chiamo M... Maria”.
“Maria, la posso chiamare così? Non si preoccupi, Maria. Io ascolto le storie più strane, tutti i giorni”.
“No, ma strana come la mia... voglio dire, come la mia amica... insomma, lei... a un certo punto cercava un lavoro”.
“Sì”.
“Era... è una donna molto bella, ma... voleva anche essere apprezzata per il cervello, mi sembra giusto, no? E allora ha lasciato un lavoro che aveva, di... nel ramo immagine, ecco, e ha provato a fare... no, non posso dirlo”.
“Allora non me lo dica, Maria. A un certo punto ha cambiato lavoro”.
“Sì”.
“Un lavoro di tipo intellettuale”.
“Una specie, sì”.
“Ma per essere accettata nel nuovo ambiente di lavoro, ha dovuto sottostare a dei... compromessi”.
“Sì! Però... (snif)... però non è come dice la gente!”
“Perché, la gente cosa dice?”.
“La gente pensa che sia una profittatrice, che abbia... alcuni addirittura pensano che abbia fatto dei ricatti, non è vero! Non è vero niente! Vorrei dirlo al mondo che non è vero! Ma non mi danno il permesso”.
“Le impediscono di parlare?”
“E' come se... mi hanno messo in un posto troppo importante... non so neanch'io più bene cosa faccio, ma da allora... sono sorvegliata a vita. Giro con la scorta armata, e va bene. Ma dentro la scorta armata c'è un'altra scorta di persone con le cuffiette e i blecbèrri che mi circonda e controlla ogni cosa che dico, ogni cosa che faccio! È un problema anche se sorrido troppo! Mi cazziano se sgrano troppo gli occhi! Lo sa dove sono adesso?”
“E' in bagno”.
“Come fa a saperlo?”
“Io parlo con tante donne, Maria”.
“Sono nel bagno di un posto... non ho neanche capito dove sono esattamente, è un posto che mi hanno mandato a visitare... ormai non mi spiegano niente, m'imbarcano con la scorta armata e la scorta con le cuffiette e mi scaricano qua e là con un discorso da imparare a memoria, ormai sono un pacco postale”.
“È questo che la fa stare male, Maria?”
“Ma non è questo, è che... mi odiano”.
“Quelli delle scorte?”
“No, loro... loro mi trattano male quando mi blocco in mezzo a un discorso, ma... no, a me mi odiano proprio tutti. Tutti. Io sono la persona più odiata del mondo”.
“Maria, questo è impossibile. Perché tutto il mondo dovrebbe odiarla?”
“Perché ho un lavoro che non mi merito, perché tutti pensano che se sono così importante è perché ho fatto la puttana. Io non sono una puttana”.
“Maria, spesso gli uomini sono invidiosi... e anche le donne”.
“Quelli che mi hanno dato questo posto, loro sì, loro mi hanno trattato da puttana. Ma questa cosa come faccio a dirla”.
“Me la sta dicendo, adesso”.
“Lei penserà che io sono solo una matta”.
“Ma no, Maria, no. Posso darti del tu?”
“Sì...”
“Maria, io non penso che tu sia matta. Penso che tu stia molto male, e che non riesci a trovare una soluzione per il dolore che provi. Allora a un certo punto hai visto il nostro numero e ti sei detta: proviamo. Ma questo è un comportamento razionale. I matti non fanno così”.
“Sì, ma voi magari... magari c'è una ragazza coi lividi in faccia che vi vuole chiamare e trova occupato perché...”
“Non ti preoccupare, Maria. Abbiamo tante linee”.
“A me i lividi in faccia non me li ha mai fatti nessuno, però...”
“Però stai male ugualmente”.
“Mi vergogno a dirlo... io...”
“Non ti devi vergognare con me”.
“Ho i brufoli! Lo so che è ridicolo!”
“Non è ridicolo. È un segno che stai male”.
“I brufoli a trentatré anni... e quando m'inquadrano i fotografi io... io...”
“Ti senti in gabbia”.
“Io... mi odio”.
“No, Maria, no”.
“Perché è colpa mia alla fine. Se non avessi...”
“Non ti devi sentire colpevole per il male che ti fanno gli altri. Non è giusto”.
“...”
“Maria?”
“...mi sento così stupida!”
“Non sei affatto stupida. Sei una persona che hai una difficoltà, e hai avuto il coraggio di ammetterlo. Non è da tutti, sai. Soprattutto quando si è in una posizione importante, e tu, se ho capito bene, sei in una situazione importante”.
“È meglio che metto giù. Ho parlato anche troppo. Se se ne accorgono, io...”
“Aspetta, Maria. Vorrei che tu capissi che non sei sola, che ci sono tante donne al tuo fianco”.
“Seh (snif), magari”.
“E per convincerti, vorrei passarti una persona. Sai, tu ci hai chiamato proprio mentre era venuta a visitarci una donna molto importante”.
“E chi sarebbe?”
“Il Ministro delle Pari Opportunità”.
“Ah, ed è una donna?”
“Sì, e vorrei passartela un momento. Se non ti dispiace”.
(Toc toc)
“Mah, non saprei cosa dirle...”
“Lascia che ti parli lei. È una donna in una posizione molto importante, chi meglio di lei può capire i tuoi problemi?”
(Toc toc)
“Non so... e poi scusa, mi stanno chiamando...”
"Ministro, scusi eh, ma è lì già da un quarto d'ora, la visita dovrebbe andare avanti..."
“Non ti preoccupare, Maria. Aspetta solo un attimo, l'abbiamo chiamata e sta arrivando”.
"In più, pare che ci sia una telefonata per lei. Non si è capito chi sia, le vogliono passare una donna in difficoltà, boh. Mi raccomando, la saluti, s'informi sui suoi cazzo di problemi e cerchi di non dire niente di personale".
“Io... mi dispiace, mi stanno chiamando”.
“Solo un attimo, Maria. Davvero”.
"E soprattutto mi raccomando non improvvisi, onorevole. Che quando improvvisa poi è sempre un casino".
“Arrivo, arrivo. Mi dispiace, devo mettere giù”.
"Onore', ma che le è successo, ha pianto?"
“Fatti i cazzi tuoi. E allora, dov'è questa donna in difficoltà?”
"Momento... stanno trasferendo la chiamata al portatile... ecco".
“Pronto... sono l'onorevole Carfagna... pronto... ma qui non c'è nessuno”.
"Come nessuno?"
“Suona libero. Avrà messo giù”.
"Auff. Certo che 'ste donne, non si sa mai cosa vogliono, eh".
“Già".
“Pronto Telefono Rosa, Sono Lucia. In cosa posso aiutarla?”
“Ecco, io volevo sapere... questo è il numero per le donne vittime di violenza, vero?”
“Certo. Ha un caso da segnalarci?”
“Ecco, io... non so esattamente se...”
“Non si preoccupi. Ci racconti. Non deve per forza dirci chi è. La chiamata è anonima”.
“Ma forse è meglio se chiamo un'altra volta, adesso starei al lavoro e...”
“Va bene, ma posso dirle una cosa? Una cosa soltanto”.
“Sì”.
“Ci sono donne, come lei, che dicono così, e poi non richiamano più”.
“No, no, io poi vi richiamo”.
“Se mentre era al lavoro ha sentito l'impulso di chiamarci, è chiaro che in quel momento sentiva di avere davvero bisogno di aiuto”.
“No, ma io non chiamo per me, chiamo per... per una mia amica che... lei non ha il coraggio e allora io...”
“Va bene, va bene. Nel momento in cui ha fatto il numero, lei si sentiva veramente in pena per questa sua amica”.
“Sì, è così”.
“E ha avuto il coraggio di chiamarci”.
“Sì”.
“E ha fatto benissimo! Ma chissà quando le tornerà il coraggio. Magari tra un'ora, magari domani. Magari tra una settimana”.
“Ecco, io...”
“...e intanto la sua amica sta male, e magari è in una situazione a rischio. Perché non comincia a parlarcene adesso?”
“Ma vede, non è proprio una situazione a rischio, voglio dire, non è che la picchiano questa mia amica, non c'è nessuno che le alza le mani, però...”
“Però la fanno soffrire”.
“Sì... tantissimo. Però non lo può dire, perché...”
“A noi lo può dire”.
“Sì, ma è come se non esistessero parole per questa cosa che fanno... oppure magari forse esistono, ma io non le so... lei non le sa...”
“Provi a spiegare a me. Magari le conosco io le parole. In fondo è il mio mestiere”.
“Ma non è una cosa... normale. Voglio dire che non è una cosa che succede a tante donne. Forse non è mai successa prima, non lo so”.
“Eh, signora, lei non ha idea... a proposito, posso chiederle come si chiama? Solo il nome, non voglio il cognome”.
“Mi chiamo M... Maria”.
“Maria, la posso chiamare così? Non si preoccupi, Maria. Io ascolto le storie più strane, tutti i giorni”.
“No, ma strana come la mia... voglio dire, come la mia amica... insomma, lei... a un certo punto cercava un lavoro”.
“Sì”.
“Era... è una donna molto bella, ma... voleva anche essere apprezzata per il cervello, mi sembra giusto, no? E allora ha lasciato un lavoro che aveva, di... nel ramo immagine, ecco, e ha provato a fare... no, non posso dirlo”.
“Allora non me lo dica, Maria. A un certo punto ha cambiato lavoro”.
“Sì”.
“Un lavoro di tipo intellettuale”.
“Una specie, sì”.
“Ma per essere accettata nel nuovo ambiente di lavoro, ha dovuto sottostare a dei... compromessi”.
“Sì! Però... (snif)... però non è come dice la gente!”
“Perché, la gente cosa dice?”.
“La gente pensa che sia una profittatrice, che abbia... alcuni addirittura pensano che abbia fatto dei ricatti, non è vero! Non è vero niente! Vorrei dirlo al mondo che non è vero! Ma non mi danno il permesso”.
“Le impediscono di parlare?”
“E' come se... mi hanno messo in un posto troppo importante... non so neanch'io più bene cosa faccio, ma da allora... sono sorvegliata a vita. Giro con la scorta armata, e va bene. Ma dentro la scorta armata c'è un'altra scorta di persone con le cuffiette e i blecbèrri che mi circonda e controlla ogni cosa che dico, ogni cosa che faccio! È un problema anche se sorrido troppo! Mi cazziano se sgrano troppo gli occhi! Lo sa dove sono adesso?”
“E' in bagno”.
“Come fa a saperlo?”
“Io parlo con tante donne, Maria”.
“Sono nel bagno di un posto... non ho neanche capito dove sono esattamente, è un posto che mi hanno mandato a visitare... ormai non mi spiegano niente, m'imbarcano con la scorta armata e la scorta con le cuffiette e mi scaricano qua e là con un discorso da imparare a memoria, ormai sono un pacco postale”.
“È questo che la fa stare male, Maria?”
“Ma non è questo, è che... mi odiano”.
“Quelli delle scorte?”
“No, loro... loro mi trattano male quando mi blocco in mezzo a un discorso, ma... no, a me mi odiano proprio tutti. Tutti. Io sono la persona più odiata del mondo”.
“Maria, questo è impossibile. Perché tutto il mondo dovrebbe odiarla?”
“Perché ho un lavoro che non mi merito, perché tutti pensano che se sono così importante è perché ho fatto la puttana. Io non sono una puttana”.
“Maria, spesso gli uomini sono invidiosi... e anche le donne”.
“Quelli che mi hanno dato questo posto, loro sì, loro mi hanno trattato da puttana. Ma questa cosa come faccio a dirla”.
“Me la sta dicendo, adesso”.
“Lei penserà che io sono solo una matta”.
“Ma no, Maria, no. Posso darti del tu?”
“Sì...”
“Maria, io non penso che tu sia matta. Penso che tu stia molto male, e che non riesci a trovare una soluzione per il dolore che provi. Allora a un certo punto hai visto il nostro numero e ti sei detta: proviamo. Ma questo è un comportamento razionale. I matti non fanno così”.
“Sì, ma voi magari... magari c'è una ragazza coi lividi in faccia che vi vuole chiamare e trova occupato perché...”
“Non ti preoccupare, Maria. Abbiamo tante linee”.
“A me i lividi in faccia non me li ha mai fatti nessuno, però...”
“Però stai male ugualmente”.
“Mi vergogno a dirlo... io...”
“Non ti devi vergognare con me”.
“Ho i brufoli! Lo so che è ridicolo!”
“Non è ridicolo. È un segno che stai male”.
“I brufoli a trentatré anni... e quando m'inquadrano i fotografi io... io...”
“Ti senti in gabbia”.
“Io... mi odio”.
“No, Maria, no”.
“Perché è colpa mia alla fine. Se non avessi...”
“Non ti devi sentire colpevole per il male che ti fanno gli altri. Non è giusto”.
“...”
“Maria?”
“...mi sento così stupida!”
“Non sei affatto stupida. Sei una persona che hai una difficoltà, e hai avuto il coraggio di ammetterlo. Non è da tutti, sai. Soprattutto quando si è in una posizione importante, e tu, se ho capito bene, sei in una situazione importante”.
“È meglio che metto giù. Ho parlato anche troppo. Se se ne accorgono, io...”
“Aspetta, Maria. Vorrei che tu capissi che non sei sola, che ci sono tante donne al tuo fianco”.
“Seh (snif), magari”.
“E per convincerti, vorrei passarti una persona. Sai, tu ci hai chiamato proprio mentre era venuta a visitarci una donna molto importante”.
“E chi sarebbe?”
“Il Ministro delle Pari Opportunità”.
“Ah, ed è una donna?”
“Sì, e vorrei passartela un momento. Se non ti dispiace”.
(Toc toc)
“Mah, non saprei cosa dirle...”
“Lascia che ti parli lei. È una donna in una posizione molto importante, chi meglio di lei può capire i tuoi problemi?”
(Toc toc)
“Non so... e poi scusa, mi stanno chiamando...”
"Ministro, scusi eh, ma è lì già da un quarto d'ora, la visita dovrebbe andare avanti..."
“Non ti preoccupare, Maria. Aspetta solo un attimo, l'abbiamo chiamata e sta arrivando”.
"In più, pare che ci sia una telefonata per lei. Non si è capito chi sia, le vogliono passare una donna in difficoltà, boh. Mi raccomando, la saluti, s'informi sui suoi cazzo di problemi e cerchi di non dire niente di personale".
“Io... mi dispiace, mi stanno chiamando”.
“Solo un attimo, Maria. Davvero”.
"E soprattutto mi raccomando non improvvisi, onorevole. Che quando improvvisa poi è sempre un casino".
“Arrivo, arrivo. Mi dispiace, devo mettere giù”.
"Onore', ma che le è successo, ha pianto?"
“Fatti i cazzi tuoi. E allora, dov'è questa donna in difficoltà?”
"Momento... stanno trasferendo la chiamata al portatile... ecco".
“Pronto... sono l'onorevole Carfagna... pronto... ma qui non c'è nessuno”.
"Come nessuno?"
“Suona libero. Avrà messo giù”.
"Auff. Certo che 'ste donne, non si sa mai cosa vogliono, eh".
“Già".
martedì 24 novembre 2009
Proletario, proprio
Coraggio, ormai ci siamo. Ancora qualche mese, forse appena qualche settimana, e poi Cesare Battisti sarà estradato in Italia: e il mondo finalmente sarà un luogo più sicuro per tutti. Un giardino fiorito dove portare i figli a giocare, senza più dover temere le insidie degli empi Proletari Armati per il Comunismo.
Sul serio, fa bene al cuore sapere che non c'è luogo al mondo dove un terrorista possa nascondersi all'occhio di una Giustizia implacabile. Anche se dopo tante chiacchiere forse abbiamo perso un po' di vista la vicenda in sé. Forse è meglio tornare ai fondamentali: perché merita di scontare l'ergastolo, Cesare Battisti?
Per aver ucciso il maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro? Questo almeno secondo il pentito Mutti, ex compagno di Battisti. In cambio del nome dell'assassino, Mutti ottenne uno sconto di pena. Quando poi nuove prove costrinsero Mutti ad ammettere che Santoro lo aveva ucciso lui, Battisti rimane collegato all'omicidio in qualità di “copertura”. Uhm.
Per aver ucciso il macellaio Sabbadin? Anche questo risulterebbe dalla testimonianza del pentito Mutti. A un certo punto però un altro ex compagno, Diego Giacomin, confessa di aver ucciso Sabbadin insieme a Mutti. E anche stavolta quella di Battisti rimane una “copertura armata”.
Per aver ucciso il gioielliere Pierluigi Torregiani? Eh, ma in questo caso ha un alibi: stava facendo la “copertura armata” ai due che lo stesso giorno ammazzavano Sabbadin. In questo caso Battisti è stato condannato in qualità di co-ideatore e co-organizzatore.
Per aver ferito il figlio di Torregiani, che è quel signore sulla sedia a rotelle che spesso viene intervistato in qualità di parente delle vittime, e vittima egli stesso? Ma a ferirlo fu proprio il padre, che rispose al fuoco dei Proletari Armati. Battisti nemmeno c'era (stava coprendo, secondo Mutti, gli assassini di Sabbadin).
Allora per aver ucciso l'agente Digos Andrea Campagna... in questo caso almeno è stato riconosciuto come esecutore materiale... sì, ma sempre in base alla testimonianza di Mutti, (altro giro, altro sconto di pena). E dire che anche in questo caso c'è un reo confesso, Giuseppe Memeo. Aveva un complice, biondo, alto 1 metro e 90. L'identikit preciso di Cesare Battisti, cotonato, e con 30 cm. di tacco.
E allora, insomma, siamo sicuri che se lo merita un ergastolo, Cesare Battisti? Altroché. Almeno per i motivi che vado ad elencare.
1. Perché ha scommesso sugli asili politici sbagliati: il Sudamerica e soprattutto la Francia, con quella Dottrina Mitterand che all'inizio sembrava il bengodi, ma a ben vedere non era che la capricciosa concessione di un sovrano illuminato. Morto il re, fine della Dottrina. Se Battisti si fosse studiato un po' meglio il mondo, se avesse scelto come asilo un Paese davvero serio, ad es., il Giappone... oggi probabilmente gestirebbe una fiorente attività di import-export, e ogni tanto si farebbe anche fare qualche intervista telefonica in Rai. Peggio per lui, doveva pensarci prima: ergastolo.
2. Perché ha fatto lo scrittore e diciamolo, un ex terrorista che fa lo scrittore non ce la conta giusta. Specie lo scrittore noir. Insomma, non ha l'aria di una cosa seria. Vuoi mettere con Zorzi e il suo import-export? è roba da adulti, un modo per dire lasciatemi stare, non faccio più politica, faccio soldi. Oppure un bell'impegno nel sociale, tipo che so, attivista di Nessuno Tocchi Caino... ecco, se prima ammazzavi la gente e poi ti trovi un posto a Nessuno Tocchi Caino, è chiaro che lo fai perché sei pentito del male che hai fatto, perché vuoi salvare tante meritevoli vite umane, e questo noi italiani lo capiamo: siamo cattolici, perdio, anche Pannella. Cioè alla fine cosa vuoi che sia la complicità in quattro omicidi, per giunta comprovata in processi farsa... quello che ci premeva, Cesare, è che tu ti facessi un pianto, che ci chiedessi scusa. Ma i noir, come si fa a chieder scusa coi noir? E allora ergastolo, tie'.
3. Perché può farsi tutti i romanzi e tutti gli scioperi della fame che vuole, ma in fin dei conti resta sempre e solo un ladruncolo, Cesare Battisti. Uno che se lo arrestano, cosa fa? Scappa! Che razza di comportamento. Proletario, proprio. Un terrorista di classe non si comporta così. Un terrorista di classe per prima cosa vende qualche ex compagno in cambio di uno sconto di pena. Vedi Mutti: ha ammazzato più o meno le stesse persone che ha ucciso Battisti, e in otto anni si è sistemato, altro che ergastolo. Oppure si ficca in qualche meritevole Onlus, e facendo due conti... se Fioravanti per una novantina di omicidi si è fatto 26 anni, a Battisti con quattro morti e qualche altra rapina quanti mesi avrebbero dato? Giusto il tempo di buttar giù un noir di tema carcerario. Che poi come minimo glielo avrebbe pubblicato Mondadori. Ecco, si vede da queste piccole cose che non è uomo di mondo, Battisti. E allora basta, ergastolo. Niente di personale, ma te lo meriti tutto.
A questo punto però io ho una proposta. Visto che ormai lo abbiamo preso, e con tutto il baccano che ha fatto è difficile che lo libereremo mai più (è diventato un simbolo, e coi simboli non si scherza); visto che i vecchi processi non si possono rifare... non potremmo aprirne altri, e condannarlo per qualcosa di più importante, come per esempio la bomba alla stazione di Bologna? Rifletteteci bene. A lui non costerebbe un giorno solo in più, ma in compenso il suo sacrificio ci aiuterebbe a crescere i nostri bambini. Sì, perché questa cosa della liberazione di Fioravanti e Mambro alla lunga si rivelerà destabilizzante. Come si fa a crescere dei bimbi rispettosi della legge, in un Paese dove uno che si è preso 8 ergastoli gira per strada... secondo me persino Fioravanti e la Mambro hanno qualche difficoltà.
F. MAMBRO: Non devi picchiare i tuoi compagni con la catena del motorino.
BAMBINO: Perché?
F. MAMBRO: Perché non è giusto.
BAMBINO: Sì, ma concretamente cosa rischio? Mi togliete l'uso della playstation per cinque minuti con la condizionale?
F. MAMBRO: I prepotenti fanno una brutta fine.
BAMBINO: Ahahah, mamma, sei un vero spasso.
Sul serio, fa bene al cuore sapere che non c'è luogo al mondo dove un terrorista possa nascondersi all'occhio di una Giustizia implacabile. Anche se dopo tante chiacchiere forse abbiamo perso un po' di vista la vicenda in sé. Forse è meglio tornare ai fondamentali: perché merita di scontare l'ergastolo, Cesare Battisti?
Per aver ucciso il maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro? Questo almeno secondo il pentito Mutti, ex compagno di Battisti. In cambio del nome dell'assassino, Mutti ottenne uno sconto di pena. Quando poi nuove prove costrinsero Mutti ad ammettere che Santoro lo aveva ucciso lui, Battisti rimane collegato all'omicidio in qualità di “copertura”. Uhm.
Per aver ucciso il macellaio Sabbadin? Anche questo risulterebbe dalla testimonianza del pentito Mutti. A un certo punto però un altro ex compagno, Diego Giacomin, confessa di aver ucciso Sabbadin insieme a Mutti. E anche stavolta quella di Battisti rimane una “copertura armata”.
Per aver ucciso il gioielliere Pierluigi Torregiani? Eh, ma in questo caso ha un alibi: stava facendo la “copertura armata” ai due che lo stesso giorno ammazzavano Sabbadin. In questo caso Battisti è stato condannato in qualità di co-ideatore e co-organizzatore.
Per aver ferito il figlio di Torregiani, che è quel signore sulla sedia a rotelle che spesso viene intervistato in qualità di parente delle vittime, e vittima egli stesso? Ma a ferirlo fu proprio il padre, che rispose al fuoco dei Proletari Armati. Battisti nemmeno c'era (stava coprendo, secondo Mutti, gli assassini di Sabbadin).
Allora per aver ucciso l'agente Digos Andrea Campagna... in questo caso almeno è stato riconosciuto come esecutore materiale... sì, ma sempre in base alla testimonianza di Mutti, (altro giro, altro sconto di pena). E dire che anche in questo caso c'è un reo confesso, Giuseppe Memeo. Aveva un complice, biondo, alto 1 metro e 90. L'identikit preciso di Cesare Battisti, cotonato, e con 30 cm. di tacco.
E allora, insomma, siamo sicuri che se lo merita un ergastolo, Cesare Battisti? Altroché. Almeno per i motivi che vado ad elencare.
1. Perché ha scommesso sugli asili politici sbagliati: il Sudamerica e soprattutto la Francia, con quella Dottrina Mitterand che all'inizio sembrava il bengodi, ma a ben vedere non era che la capricciosa concessione di un sovrano illuminato. Morto il re, fine della Dottrina. Se Battisti si fosse studiato un po' meglio il mondo, se avesse scelto come asilo un Paese davvero serio, ad es., il Giappone... oggi probabilmente gestirebbe una fiorente attività di import-export, e ogni tanto si farebbe anche fare qualche intervista telefonica in Rai. Peggio per lui, doveva pensarci prima: ergastolo.
2. Perché ha fatto lo scrittore e diciamolo, un ex terrorista che fa lo scrittore non ce la conta giusta. Specie lo scrittore noir. Insomma, non ha l'aria di una cosa seria. Vuoi mettere con Zorzi e il suo import-export? è roba da adulti, un modo per dire lasciatemi stare, non faccio più politica, faccio soldi. Oppure un bell'impegno nel sociale, tipo che so, attivista di Nessuno Tocchi Caino... ecco, se prima ammazzavi la gente e poi ti trovi un posto a Nessuno Tocchi Caino, è chiaro che lo fai perché sei pentito del male che hai fatto, perché vuoi salvare tante meritevoli vite umane, e questo noi italiani lo capiamo: siamo cattolici, perdio, anche Pannella. Cioè alla fine cosa vuoi che sia la complicità in quattro omicidi, per giunta comprovata in processi farsa... quello che ci premeva, Cesare, è che tu ti facessi un pianto, che ci chiedessi scusa. Ma i noir, come si fa a chieder scusa coi noir? E allora ergastolo, tie'.
3. Perché può farsi tutti i romanzi e tutti gli scioperi della fame che vuole, ma in fin dei conti resta sempre e solo un ladruncolo, Cesare Battisti. Uno che se lo arrestano, cosa fa? Scappa! Che razza di comportamento. Proletario, proprio. Un terrorista di classe non si comporta così. Un terrorista di classe per prima cosa vende qualche ex compagno in cambio di uno sconto di pena. Vedi Mutti: ha ammazzato più o meno le stesse persone che ha ucciso Battisti, e in otto anni si è sistemato, altro che ergastolo. Oppure si ficca in qualche meritevole Onlus, e facendo due conti... se Fioravanti per una novantina di omicidi si è fatto 26 anni, a Battisti con quattro morti e qualche altra rapina quanti mesi avrebbero dato? Giusto il tempo di buttar giù un noir di tema carcerario. Che poi come minimo glielo avrebbe pubblicato Mondadori. Ecco, si vede da queste piccole cose che non è uomo di mondo, Battisti. E allora basta, ergastolo. Niente di personale, ma te lo meriti tutto.
A questo punto però io ho una proposta. Visto che ormai lo abbiamo preso, e con tutto il baccano che ha fatto è difficile che lo libereremo mai più (è diventato un simbolo, e coi simboli non si scherza); visto che i vecchi processi non si possono rifare... non potremmo aprirne altri, e condannarlo per qualcosa di più importante, come per esempio la bomba alla stazione di Bologna? Rifletteteci bene. A lui non costerebbe un giorno solo in più, ma in compenso il suo sacrificio ci aiuterebbe a crescere i nostri bambini. Sì, perché questa cosa della liberazione di Fioravanti e Mambro alla lunga si rivelerà destabilizzante. Come si fa a crescere dei bimbi rispettosi della legge, in un Paese dove uno che si è preso 8 ergastoli gira per strada... secondo me persino Fioravanti e la Mambro hanno qualche difficoltà.
F. MAMBRO: Non devi picchiare i tuoi compagni con la catena del motorino.
BAMBINO: Perché?
F. MAMBRO: Perché non è giusto.
BAMBINO: Sì, ma concretamente cosa rischio? Mi togliete l'uso della playstation per cinque minuti con la condizionale?
F. MAMBRO: I prepotenti fanno una brutta fine.
BAMBINO: Ahahah, mamma, sei un vero spasso.
venerdì 20 novembre 2009
Eroi del Tiburtino
Roma Ostiense Cisterna Roma Termini Cassino:
adesso siamo a Roma Tiburtino...
Adesso che c'è la Frecciarossa, ne ho parlato, raggiungere Roma da Bologna è veramente comodo e facile. E' tornare che è un po' più complicato: di notte tutti questi treni non ci sono. Così a volte mi capita di prendere l'830 che parte dalla stazione Tiburtina verso l'una. Ci sono vari motivi che mi spingono a questo gesto sconsiderato.
Il primo è un senso di attaccamento alle radici, all'umanità compressa pulsante e un po' fetente dei vecchi treni del sud imbottiti di emigranti coi termos di caffè e la valigia di cartone, da qualche anno magari firmata (ma se la scannerizzi ben bene ti accorgi che è ugualmente di cartone). Quegli scompartimenti dove ognuno dimentica la razza, il sesso e il lignaggio, e si accuccia sui piedi del prossimo suo, sia bianco nero o giallo, tanto dopo qualche ora puzziamo tutti uguale. L'Italia per me è anche questo, forse soprattutto questo, insomma l'830 è un po' la fornace che ci ha cotti in un certo modo.
Il secondo è che sì, il Frecciarossa è tanto bello e veloce ma insomma, Roma-Bologna a 18 euro è una cosa che non ha prezzo: anzi no, a ben vedere un prezzo ce l'ha e sono appunto 18 ridicoli euro per girarsi mezza Italia. Il terzo è che mi fa sentire giovane, vado ancora sui treni di notte e non ho paura di niente.
Il quarto è che l'830 si prende a Roma Tiburtina, e io, ogni volta che capito di notte a Roma Tiburtina, mi sento un eroe.
Sul serio, non c'è volta che non mi lasci la sensazione di aver salvato la vita a qualcuno. Se non la vita, almeno la notte. Ma per come si mettono le notti a Roma Tiburtina, secondo me non c'è tutta questa differenza.
Salvare la vita alle persone è bello, specie quando ti costa così poco (18 euro). Uno sarebbe disposto a salvare la vita anche ad anziane signore e malati terminali, ma la cosa fantastica che ti offre Roma Tiburtina a mezzanotte è la possibilità di salvare vite a giovani studentesse inglesi e spagnole, insomma se siete single a Roma ve lo consiglio senz'altro, fiondatevi a Roma Tiburtina. Anche stanotte. Non dovete fare niente. Giusto masticare una lingua straniera e rimanere lì impassibili. Prima o poi saranno loro a venire da voi, con un biglietto in mano e una domanda: What? Where? How? E soprattutto, Why? Perché uno straniero non ci può capire nulla di nulla, a Roma Tiburtina?
La risposta è molto semplice: non c'è una scritta in inglese a pagarla. Ci sono i monitor, ma di sicuro sbagliano orari e binari, per il comprensibile motivo che la stazione è in ristrutturazione (da parecchi mesi) e quindi l'arrivo dei convogli non è così prevedibile. Per questo motivo bisogna fare molta attenzione agli annunci, che però sono rigorosamente nella lingua di Dante, Petrarca e Leonardo Da Vinci: e se speravi di poter girare l'Italia senza conoscerla, poor grullo, meriti di morire di morte violenta, o come minimo passare una notte all'addiaccio nella stazione di Roma Tiburtina.
A quel punto salvare la vita di giovani fanciulle è semplicissimo: e qualora nessuna ti avesse ancora chiesto di aiutarla, spiegarle dov'è il treno, ospitarla per la notte... tu attendi l'annuncio all'altoparlante, e appena dice "l'830 arriverà in ritardo di dieci minuti sul binario 4 anziché il 19", tu vai al 19. Ci trovi senz'altro un gruppetto di scozzesi o argentini od olandesi che stanno aspettando un treno sul binario sbagliato. Li avverti nell'inglese più storpiato che vuoi. Loro all'inizio non ti crederanno, tu insisterai, e alla fine, tombola! Avrai salvato la vita a una mezza dozzina di persone. Sarà il momento più eroico della tua vita, davvero, roba da rivoltarti il karma negativo come un calzino: in seguito potrai anche ammazzarne un paio e comunque il bilancio finale sarà in saldo attivo.
E questo è il motivo per cui non mi dispiace andare a prendere un treno notturno a Roma Tiburtina. Che diventerà, mi dicono, una delle stazioni più belle e importanti di Roma, e ne son contento: per allora avranno anche messo gli annunci in inglese. Però gli stranieri perdono il treno adesso. Tutte le notti, secondo me, ce n'è almeno uno che arriva e si dispera. Stamattina mi è andata male, era un ragazzo austriaco. Gentilissimo, ma in generale preferisco fare l'eroe con le signorine.
Qui ci starebbe anche una considerazione su quanto siamo provinciali voi italiani: vi è mai capitato di andare in una stazione, che so, olandese, e trovare tutto scritto esclusivamente in nederlandese? Sì? V'è capitato? Beh, ma tanto lì i treni arrivano puntuali di sicuro... no? Avete preso un treno olandese in ritardo? E vabbè, capita. I luoghi comuni sono fatti per essere smentiti, compreso il luogo comune dell'italiano provinciale. Per sfatarlo basta passare un paio d'ore notturne a Roma Tiburtina. Ci sono turisti disperati che chiedono informazioni in tutte le lingue del mondo, e ci sono gli italiani che rispondono. In quasi tutte le lingue del mondo. Del resto siamo a Roma, voglio dire, qui ci venivano i turisti quando a Londra ancora pascolavano gli ovini. Siamo ospitali e abbiamo un fattore umano pazzesco, per cui il viaggiatore straniero sa sempre che può trovare un indigeno che lo aiuta, gli spiega cosa c'è scritto sul suo biglietto, lo accompagna al binario e lo presenta al capotreno. E questo magari in Olanda non succede (anche perché non ce n'è bisogno: uno va in stazione e prende il treno, fine). Forse è il motivo per cui ci guardiamo bene da mettere indicazioni in inglese, a Roma Tiburtina e altrove: perché poi non ci sarebbe più la possibilità di dispiegare tutto questo fattore umano, questo eroismo, questa umanità. E io me ne tornerei a casa in una cuccetta qualunque, senza rivolgere una parola a nessuno.
lunedì 16 novembre 2009
Ho scritto un libro
Giovedì 19, presso la biblioteca del Teatro India a Roma, la collana Sguardomobile presenterà i suoi nuovi libri. Ci saranno Valerio Magrelli, Andrea Cortellessa, Antonio Prete. E cercherò di esserci anch'io, visto che ho scritto uno dei libri.
La mia lunga e assai tormentata storia di non-amore con l'università italiana è finita in un burrascoso giorno di primavera del 2008, con il conseguimento di un dottorato di ricerca. Vi risparmio le frustrazioni, i dubbi, le avventure, i concorsi persi male e vinti per caso, i grandi viaggi inutili ma divertenti, le lunghe notti vegliate al lume di qualcosa che all'inizio era ancora un 486 e alla fine un laptop. Tanto ormai è tutto finito.
Fu sulla soglia della fine che, compilando un modulo qualsiasi, diedi quasi inavvertitamente il consenso a pubblicare la mia tesi su internet. Mi sembrava una formalità: in generale mi piaceva l'idea di poter consultare on line le tesi di tutti e quindi anche la mia. Ero un po' scettico sul fatto che la mia facoltà avrebbe realizzato davvero una cosa del genere – finora tesi on line non ne avevo mai viste. Scoprii qualche mese più tardi, con disappunto, che finora non ne avevo mai viste perché pochi avevano avuto il fegato di dare il consenso; e che di fegato si trattava, perché grazie ai potenti ragnetti di google il mio nome-e-cognome sarebbe stato per sempre legato alla versione grezzissima della mia tesi, consegnata via cd un mese prima, ricca di refusi e ripetizioni e tutto quel che serve a far vergognare uno studioso da qui all'eternità. Più vari inserti erotici, per la gioia di vecchi e bambini (dove “bambini” sono i miei studenti che sanno guglare e “vecchi” i loro genitori).
D'altro canto, se non avessi sventatamente consentito a liberare la mia tesi nell'internet, essa non sarebbe mai piaciuta a Giulio Braccini, Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, i magnifici redattori del progetto Sguardomobile, che qualche mese più tardi mi chiesero se volevo rilavorarci sopra e pubblicarla. Non potevo non accettare un'offerta così, se non altro per riparare allo sgorbio che era stato messo on line (e ahimè, c'è ancora).
Si trattava insomma di riprendere in mano Marinetti. L'uomo che con le sue provocazioni sgrammaticate mi ha segnato la vita, dalla gita di seconda media del 1986 (mostra del Futurismo a Palazzo Grassi), attraverso la tesi di laurea, fino allo stramaledetto dottorato. Detta così, sembra che io abbia passato almeno vent'anni a studiarlo, e in un certo senso è vero; l'ho studiato nei ritagli di vent'anni, mentre facevo qualsiasi altra cosa. Sempre nella speranza di trovare qualcosa di interessante, di originale, ma soprattutto di, come dire... unificante: una formula, un trauma infantile, la soluzione di un mistero. Probabilmente avrei sofferto molto meno se mi fossi rassegnato subito: non c'è nessun mistero, i comportamenti di F. T. Marinetti sono stravaganti ma perfettamente spiegabili, e molti sono stati già spiegati da gente più acuta di te, quindi molla l'osso. Sì, ma dopo dieci anni è dura da ammettere. Comunque alla fine, da centinaia di abbozzi e piste perdute e ritrovate, è sorto il mio lavoro. Un buon lavoro, tutto sommato. E ci sono anche i siparietti erotici.
I tre redattori, dalla encomiabile pazienza, mi dissero che la tesi era piaciuta proprio perché poco accademica: nessuna sorpresa, io l'accademia non sono mai riuscito a capirla fino in fondo. Lo dico con amarezza, perché sul serio, mi sarebbe piaciuto, ma sto fuori Bologna e ho sempre altro per la testa (di solito lavorare), e anche se sembro in grado di scrivere qualsiasi cosa ve lo dico, cercare di produrre roba anche solo vagamente accademica mi è costato la fatica di tre traslochi. A un certo punto avrei donato una parte del corpo a caso per farla finita, anche la cistifellea. Sono inoltre un solitario, che ha sempre fatto fatica a rapportarsi al giudizio altrui: fortunato di aver trovato un maestro a cui piacevo così, bello ruspante. Io ero sempre sospettoso di quello che gli portavo, ma funzionerà dal punto di vista accademico? Lei cosa dice? Lui mi correggeva l'ortografia. Ho sempre avuto il sospetto di piacergli più per come scrivevo le cose: più come scrittore che come studioso. Ma nel frattempo come scrittore 'puro' non riuscivo a combinare un granché, giusto un blog dove poi si finisce sempre per parlare di politica e litigare, e quindi ho fatto il possibile per essere almeno uno studioso decente. E insomma, è andata com'è andata, il libro adesso è lì.
Non è, bisogna dirlo, quella biografia romanzata di F.T. Marinetti che ogni tanto sogno di fare (poi il sogno diventa un incubo di 500 pagine con cui soffoco G.B. Guerri e Mughini, e mi sveglio tutto sudato). È materiale un po' più specifico, scritto in un tono assai più impacciato di quello che riesco a usare qui. Un'indagine sulle follie forse meno note di FTM, come ad esempio finanziare una manciata di poeti nel 1909 e litigare con tutti loro nel 1912; andare in cerca di emozioni e tornare a casa con una sintassi fratturata come una spina dorsale sotto una bomba a mano; pensare furiosamente alla guerra in tempo di pace e poi, quando la guerra finalmente scoppia, pensare furiosamente al sesso; e a proposito di sesso, farsi teorico e propagandista di quella che oggi è l'unica abiezione imperdonabile, l'eiaculatio praecox: sì, anche in questo campo lui si vantava della sua futuristica rapidità, la elevava a sistema: e come non scrivere una tesi su qualcosa del genere? E poi la sua cultura pseudoscientifica, che lo faceva abboccare a qualsiasi leggenda urbana degli Anni Dieci: le avventure sessuali di Rasputin, “ehi, avete sentito di quella cosa che hanno scoperto i Curie, il radio? Beh, pare sia un afrodisiaco”. Oggi non si perderebbe una puntata di Voyager, FTM. In controluce la nascita del fascismo, una miscela fortuita ottenuta in laboratorio: mescoli l'amore per una patria sconosciuta e sottosviluppata con il motore a scoppio, la rotativa, qualche pizzico di Nietzsche Bergson e Sorel, e Patatrac! Cos'è successo? Forte, ci riproviamo? La spettrale coincidenza di macchina e di morte, il paradosso di un futurista che ogni volta che si arrischia a scrutare davvero il futuro ci vede solo guerre catastrofiche e regressioni alla preistoria: uno che insomma fa il gradasso letterario perché in realtà del nuovo ha una paura fottuta. Ma detto con più diplomazia, e i siparietti erotici.
Studiare Marinetti, frugarci dentro, è stato faticoso ai limiti dello strazio, ma anche molto divertente. Non so se un po' di questo divertimento traspaia dalle pagine di questo libro. Volevo cercare di essere serio, parlando di cose molto buffe. In questo in fondo simile al mio oggetto di studio, che viaggiava per i teatri del mondo, declamando i suoi tatatatatà marziale e imperturbabile sotto una pioggia di ortaggi, ogni tanto afferrandone qualcuno e morsicandolo gloriosamente. Consapevole, come il migliore Buster Keaton, che anche il comico è un ruolo da recitare con la massima serietà.
La mia lunga e assai tormentata storia di non-amore con l'università italiana è finita in un burrascoso giorno di primavera del 2008, con il conseguimento di un dottorato di ricerca. Vi risparmio le frustrazioni, i dubbi, le avventure, i concorsi persi male e vinti per caso, i grandi viaggi inutili ma divertenti, le lunghe notti vegliate al lume di qualcosa che all'inizio era ancora un 486 e alla fine un laptop. Tanto ormai è tutto finito.
Fu sulla soglia della fine che, compilando un modulo qualsiasi, diedi quasi inavvertitamente il consenso a pubblicare la mia tesi su internet. Mi sembrava una formalità: in generale mi piaceva l'idea di poter consultare on line le tesi di tutti e quindi anche la mia. Ero un po' scettico sul fatto che la mia facoltà avrebbe realizzato davvero una cosa del genere – finora tesi on line non ne avevo mai viste. Scoprii qualche mese più tardi, con disappunto, che finora non ne avevo mai viste perché pochi avevano avuto il fegato di dare il consenso; e che di fegato si trattava, perché grazie ai potenti ragnetti di google il mio nome-e-cognome sarebbe stato per sempre legato alla versione grezzissima della mia tesi, consegnata via cd un mese prima, ricca di refusi e ripetizioni e tutto quel che serve a far vergognare uno studioso da qui all'eternità. Più vari inserti erotici, per la gioia di vecchi e bambini (dove “bambini” sono i miei studenti che sanno guglare e “vecchi” i loro genitori).
D'altro canto, se non avessi sventatamente consentito a liberare la mia tesi nell'internet, essa non sarebbe mai piaciuta a Giulio Braccini, Marco Federici Solari e Lorenzo Flabbi, i magnifici redattori del progetto Sguardomobile, che qualche mese più tardi mi chiesero se volevo rilavorarci sopra e pubblicarla. Non potevo non accettare un'offerta così, se non altro per riparare allo sgorbio che era stato messo on line (e ahimè, c'è ancora).
Si trattava insomma di riprendere in mano Marinetti. L'uomo che con le sue provocazioni sgrammaticate mi ha segnato la vita, dalla gita di seconda media del 1986 (mostra del Futurismo a Palazzo Grassi), attraverso la tesi di laurea, fino allo stramaledetto dottorato. Detta così, sembra che io abbia passato almeno vent'anni a studiarlo, e in un certo senso è vero; l'ho studiato nei ritagli di vent'anni, mentre facevo qualsiasi altra cosa. Sempre nella speranza di trovare qualcosa di interessante, di originale, ma soprattutto di, come dire... unificante: una formula, un trauma infantile, la soluzione di un mistero. Probabilmente avrei sofferto molto meno se mi fossi rassegnato subito: non c'è nessun mistero, i comportamenti di F. T. Marinetti sono stravaganti ma perfettamente spiegabili, e molti sono stati già spiegati da gente più acuta di te, quindi molla l'osso. Sì, ma dopo dieci anni è dura da ammettere. Comunque alla fine, da centinaia di abbozzi e piste perdute e ritrovate, è sorto il mio lavoro. Un buon lavoro, tutto sommato. E ci sono anche i siparietti erotici.
I tre redattori, dalla encomiabile pazienza, mi dissero che la tesi era piaciuta proprio perché poco accademica: nessuna sorpresa, io l'accademia non sono mai riuscito a capirla fino in fondo. Lo dico con amarezza, perché sul serio, mi sarebbe piaciuto, ma sto fuori Bologna e ho sempre altro per la testa (di solito lavorare), e anche se sembro in grado di scrivere qualsiasi cosa ve lo dico, cercare di produrre roba anche solo vagamente accademica mi è costato la fatica di tre traslochi. A un certo punto avrei donato una parte del corpo a caso per farla finita, anche la cistifellea. Sono inoltre un solitario, che ha sempre fatto fatica a rapportarsi al giudizio altrui: fortunato di aver trovato un maestro a cui piacevo così, bello ruspante. Io ero sempre sospettoso di quello che gli portavo, ma funzionerà dal punto di vista accademico? Lei cosa dice? Lui mi correggeva l'ortografia. Ho sempre avuto il sospetto di piacergli più per come scrivevo le cose: più come scrittore che come studioso. Ma nel frattempo come scrittore 'puro' non riuscivo a combinare un granché, giusto un blog dove poi si finisce sempre per parlare di politica e litigare, e quindi ho fatto il possibile per essere almeno uno studioso decente. E insomma, è andata com'è andata, il libro adesso è lì.
Non è, bisogna dirlo, quella biografia romanzata di F.T. Marinetti che ogni tanto sogno di fare (poi il sogno diventa un incubo di 500 pagine con cui soffoco G.B. Guerri e Mughini, e mi sveglio tutto sudato). È materiale un po' più specifico, scritto in un tono assai più impacciato di quello che riesco a usare qui. Un'indagine sulle follie forse meno note di FTM, come ad esempio finanziare una manciata di poeti nel 1909 e litigare con tutti loro nel 1912; andare in cerca di emozioni e tornare a casa con una sintassi fratturata come una spina dorsale sotto una bomba a mano; pensare furiosamente alla guerra in tempo di pace e poi, quando la guerra finalmente scoppia, pensare furiosamente al sesso; e a proposito di sesso, farsi teorico e propagandista di quella che oggi è l'unica abiezione imperdonabile, l'eiaculatio praecox: sì, anche in questo campo lui si vantava della sua futuristica rapidità, la elevava a sistema: e come non scrivere una tesi su qualcosa del genere? E poi la sua cultura pseudoscientifica, che lo faceva abboccare a qualsiasi leggenda urbana degli Anni Dieci: le avventure sessuali di Rasputin, “ehi, avete sentito di quella cosa che hanno scoperto i Curie, il radio? Beh, pare sia un afrodisiaco”. Oggi non si perderebbe una puntata di Voyager, FTM. In controluce la nascita del fascismo, una miscela fortuita ottenuta in laboratorio: mescoli l'amore per una patria sconosciuta e sottosviluppata con il motore a scoppio, la rotativa, qualche pizzico di Nietzsche Bergson e Sorel, e Patatrac! Cos'è successo? Forte, ci riproviamo? La spettrale coincidenza di macchina e di morte, il paradosso di un futurista che ogni volta che si arrischia a scrutare davvero il futuro ci vede solo guerre catastrofiche e regressioni alla preistoria: uno che insomma fa il gradasso letterario perché in realtà del nuovo ha una paura fottuta. Ma detto con più diplomazia, e i siparietti erotici.
Studiare Marinetti, frugarci dentro, è stato faticoso ai limiti dello strazio, ma anche molto divertente. Non so se un po' di questo divertimento traspaia dalle pagine di questo libro. Volevo cercare di essere serio, parlando di cose molto buffe. In questo in fondo simile al mio oggetto di studio, che viaggiava per i teatri del mondo, declamando i suoi tatatatatà marziale e imperturbabile sotto una pioggia di ortaggi, ogni tanto afferrandone qualcuno e morsicandolo gloriosamente. Consapevole, come il migliore Buster Keaton, che anche il comico è un ruolo da recitare con la massima serietà.
venerdì 13 novembre 2009
Burqa is the new black
Attaccati alle parabole, Daniela
In Afganistan, se qualcuno era distratto, le elezioni non sono andate tanto bene. Sì, quelle consultazioni democratiche che hanno causato una recrudescenza dei combattimenti, quelle per cui alcuni coraggiosi elettori ci hanno rimesso il dito, e parecchi soldati sono morti ammazzati. Non sono andate bene. Dopo un mese di riconteggi e di indagini per brogli, non si riusciva a capire se avesse vinto Karzai (fratello di un agente Cia) o il suo concorrente, Abdullah. A quel punto la comunità internazionale, insomma, gli USA, hanno chiesto di rifare le elezioni. E già questo non era proprio costituzionale, ma almeno si salvava la sostanza. Poi a una settimana dalle elezioni Abdullah si è ritirato dalla gara, e a quel punto è andata al diavolo anche la sostanza: le elezioni è come se non ci fossero mai state, le dita si sono tinte per niente, i morti sono morti per niente; una commissione elettorale qualunque ha deciso che il fratello della Cia resterà presidente per altri 5 anni, e questa è la favolosa democrazia afgana, che non c'è dubbio, col tempo migliorerà. Noi comunque c'eravamo andati per cose più concrete, tipo trovare Bin Laden o levare il burqa alle signore. Bin Laden ormai si è dissolto nel suo alone leggendario, ogni tanto appare nei fotogrammi sfuocati delle prime pagine; in compenso l'altro giorno al tg vedevo un giornalista italiano che intervistava una signora di Kabul! Le posava il microfono ad altezza zanzariera, e lei parlava. Quindi oggi le donne di Kabul parlano alla stampa straniera, se non è una conquista questa... Oddio, sotto quell'affare avrebbe potuto persino essere un signore baffuto, ma bisogna avere fiducia nella primavera afgana, anche in novembre.
E insomma, questo burqa risulta un po' più difficile da tirar giù. Ci avevano raccontato che era un retaggio medievale; roba da retrogradi montanari, che a Kabul le donne non vedevano l'ora di toglierselo: solo dieci anni fa, le foto delle donne costrette sotto il velo integrale vincevano i premi internazionali, davano scandalo... oggi è tutto ok, vedi una signora con un lenzuolo sulla faccia che parla al giornalista e manco ci fai caso; la foto che racconta il coraggio delle donne afgane è lo stesso lenzuolo che mostra il dito viola, complimenti signora, lei sì che è una donna liberata. Il burqa sta vincendo: ormai ci sembra una cosa normale. Qualcuno inizia a vedersi anche da noi, e non abbiamo sempre una Santanchè a portata di mano.
Eppure sconfiggere il medioevo è possibile. Ce l'hanno fatta popoli su cui non avresti scommesso un soldo, per esempio... Ripesco una foto di quest'estate. È un cartellone stradale trovato in questo bel pezzo di Chamberlain. Il cartellone non vende niente: quello che pubblicizza è il diciottesimo compleanno di una ragazza. Sì, le hanno fatto una sorpresa: per il 18mo compleanno si è trovata stampata su cartelloni stradali in scala King Kong. È stata un'idea del padre. Provate a osservare la cosa un po' dall'alto: 2009, padre casertano compra enormi spazi pubblicitari sulle strade pubbliche per mostrare foto della figlia. Ventunesimo secolo. Caserta. Padre esibisce figlia 18enne in cartelloni giganti. Se avete presente un minimo quali erano i costumi campani di cinquant'anni fa, non c'è dubbio: è successo qualcosa che ha del miracoloso, che sfida tutti gli assunti della sociologia; è come se qualcuno in mezzo secolo avesse fatto sparire i meridionali chiusi e gelosi che richiudevano le figlie nelle stanze interne, sostituendoli con un popolo allegro, pescato chissà dove, che paga un servizio fotografico alla figlia illibata e poi corre a stampare gigantografie in quadricromia per farle una sorpresa. Pasolini la chiamava rivoluzione antropologica, e come dargli torto. Certo, visto da vicino l'esperimento fa un po' paura. Però, se si tratta di decidere tra burqa e gigantografia, io non mi prendo neanche venti secondi per pensarci.
Se ce l'abbiamo fatta persino noi italiani, a diventare moderni... D'accordo, sì, ci sono ancora parecchi dettagli da mettere a punto: tante esagerazioni, scollature e tacchi a spillo, nascondono situazioni ancora retrograde (ad es., in molte ridenti cittadine se ti stuprano in gruppo è tuttora colpa tua). Però sono le stesse contrade dove negli anni Cinquanta le signore giravano a occhi bassi e volto coperto: non c'è dubbio che sia successo qualcosa di radicale e definitivo. Forse è ancora presto perché succeda qualcosa di simile in Afganistan, ma si potrebbe almeno cominciare dalle nostre musulmane. È giusto chiedere che non siano più costrette a portare un velo: è soltanto assurdo imporglielo per legge. Non si farebbe che sovrapporre una costrizione a un'altra di segno opposto, mettendo ogni povera donna tra Stato e Famiglia: ovviamente vincerà la Famiglia, e dove sarà vietato portare il velo, la donna resterà reclusa in casa. Ma questa cosa la sa benissimo il più retrogrado dei leghisti: lui non intende veramente togliere il velo a nessuno, quel che vuole è soltanto una musulmana in meno per strada.
Quello che ha funzionato con noi, non dovrebbe funzionare anche con gli immigrati? Alcuni sono tra noi da più di vent'anni, eppure non si integrano così facilmente. In certi casi viceversa si radicalizzano. Cosa c'è che non va? La scuola gliela diamo. Qualche diritto – non tanti – glielo concediamo. Li curiamo. Certo, restano nella maggior parte dei casi cittadini di serie b, senza diritti politici, però non si può dire che non facciamo niente per accoglierli. Qualche signora infatti il velo se l'è tolto, qualche ragazzina non se l'è mai messo. Ma se ne vedono ancora tante. Cos'è che non funziona.
Io una risposta ce l'ho, e avverto, non è proprio politically correct. Secondo me è un problema di parabole. Sono loro che rendono difficile l'integrazione.
È un discorso che parte da un assunto banale: cosa ha reso i costumi del padre casertano 2009 così radicalmente diversi da quelli del nonno? Tanti fattori sociali ed economici, ma tra tutti uno: la televisione. La tv ha imposto uno stile di vita e ci ha insegnato una lingua comune. È entrata in tutte le case e ha mostrato una società diversa. Nei '50 l'abbiamo scoperta, nei '60 l'abbiamo imitata, nei '70 un po' messa in discussione, dagli '80 in poi e la tv che ha iniziato a copiare noi. Con risultati piuttosto preoccupanti, ma non importa. La tv ci ha reso quelli che siamo, ma la nostra tv gli immigrati non la vedono. È per quello che restano “stranieri”. Andate a vedere nelle scuole, o nelle strade. La differenza non è tra italiano e immigrato, ma tra chi parla l'italiano della tv italiana e chi non lo parla, non lo capisce, perché a casa sua c'è una finestra aperta ogni giorno su Marocco o Tunisia.
Le banlieues dove si infrange il sogno francese dell'integrazione sono foreste di parabole. Signora Santanchè, vuole fare l'integrazione con la forza? La pianti di appendersi ai burqa, salga sui tetti, cominci a segare le parabole. È una strategia ugualmente esibizionista e arrogante, ma secondo me funziona di più.
Se non fosse che nel frattempo è la stessa tv italiana che sta mettendo in discussione la sua vocazione generalista. Sono gli stessi italiani a montare parabole, a chiedere a gran voce un palinsesto personalizzato alle proprie esigenze. È un modello che ci viene dai Paesi più avanzati: tante proposte diverse per tanti settori di mercato, senza più piazze d'incontro collettive. Quando tra qualche anno tutti avremo il nostro canale personale, non ci capiremo più. Sarà come internet, ognuno svilupperà il suo idioletto nel suo circolo di amici e conoscenti. Già oggi il dialogo tra generazioni è diventato molto difficile: tra qualche anno sarà semplicemente inutile: ognuno avrà il suo notiziario, i suoi vips di riferimento, la sua comunità sparsa per il mondo e incomprensibile al vicino di casa. In un certo senso gli immigrati ci precedono. E il burqa, perché mai dovrebbe passare di moda? Viceversa, ha qualcosa di futuristico: poter passeggiare in un mondo in cui nessuno sa chi sei, completamente libera di sottrarti dal giudizio di chi non appartiene alla tua comunità... non è un'esigenza solo islamica, anzi. Chissà, tra qualche anno farà il botto anche da noi.
In Afganistan, se qualcuno era distratto, le elezioni non sono andate tanto bene. Sì, quelle consultazioni democratiche che hanno causato una recrudescenza dei combattimenti, quelle per cui alcuni coraggiosi elettori ci hanno rimesso il dito, e parecchi soldati sono morti ammazzati. Non sono andate bene. Dopo un mese di riconteggi e di indagini per brogli, non si riusciva a capire se avesse vinto Karzai (fratello di un agente Cia) o il suo concorrente, Abdullah. A quel punto la comunità internazionale, insomma, gli USA, hanno chiesto di rifare le elezioni. E già questo non era proprio costituzionale, ma almeno si salvava la sostanza. Poi a una settimana dalle elezioni Abdullah si è ritirato dalla gara, e a quel punto è andata al diavolo anche la sostanza: le elezioni è come se non ci fossero mai state, le dita si sono tinte per niente, i morti sono morti per niente; una commissione elettorale qualunque ha deciso che il fratello della Cia resterà presidente per altri 5 anni, e questa è la favolosa democrazia afgana, che non c'è dubbio, col tempo migliorerà. Noi comunque c'eravamo andati per cose più concrete, tipo trovare Bin Laden o levare il burqa alle signore. Bin Laden ormai si è dissolto nel suo alone leggendario, ogni tanto appare nei fotogrammi sfuocati delle prime pagine; in compenso l'altro giorno al tg vedevo un giornalista italiano che intervistava una signora di Kabul! Le posava il microfono ad altezza zanzariera, e lei parlava. Quindi oggi le donne di Kabul parlano alla stampa straniera, se non è una conquista questa... Oddio, sotto quell'affare avrebbe potuto persino essere un signore baffuto, ma bisogna avere fiducia nella primavera afgana, anche in novembre.
E insomma, questo burqa risulta un po' più difficile da tirar giù. Ci avevano raccontato che era un retaggio medievale; roba da retrogradi montanari, che a Kabul le donne non vedevano l'ora di toglierselo: solo dieci anni fa, le foto delle donne costrette sotto il velo integrale vincevano i premi internazionali, davano scandalo... oggi è tutto ok, vedi una signora con un lenzuolo sulla faccia che parla al giornalista e manco ci fai caso; la foto che racconta il coraggio delle donne afgane è lo stesso lenzuolo che mostra il dito viola, complimenti signora, lei sì che è una donna liberata. Il burqa sta vincendo: ormai ci sembra una cosa normale. Qualcuno inizia a vedersi anche da noi, e non abbiamo sempre una Santanchè a portata di mano.
Eppure sconfiggere il medioevo è possibile. Ce l'hanno fatta popoli su cui non avresti scommesso un soldo, per esempio... Ripesco una foto di quest'estate. È un cartellone stradale trovato in questo bel pezzo di Chamberlain. Il cartellone non vende niente: quello che pubblicizza è il diciottesimo compleanno di una ragazza. Sì, le hanno fatto una sorpresa: per il 18mo compleanno si è trovata stampata su cartelloni stradali in scala King Kong. È stata un'idea del padre. Provate a osservare la cosa un po' dall'alto: 2009, padre casertano compra enormi spazi pubblicitari sulle strade pubbliche per mostrare foto della figlia. Ventunesimo secolo. Caserta. Padre esibisce figlia 18enne in cartelloni giganti. Se avete presente un minimo quali erano i costumi campani di cinquant'anni fa, non c'è dubbio: è successo qualcosa che ha del miracoloso, che sfida tutti gli assunti della sociologia; è come se qualcuno in mezzo secolo avesse fatto sparire i meridionali chiusi e gelosi che richiudevano le figlie nelle stanze interne, sostituendoli con un popolo allegro, pescato chissà dove, che paga un servizio fotografico alla figlia illibata e poi corre a stampare gigantografie in quadricromia per farle una sorpresa. Pasolini la chiamava rivoluzione antropologica, e come dargli torto. Certo, visto da vicino l'esperimento fa un po' paura. Però, se si tratta di decidere tra burqa e gigantografia, io non mi prendo neanche venti secondi per pensarci.
Se ce l'abbiamo fatta persino noi italiani, a diventare moderni... D'accordo, sì, ci sono ancora parecchi dettagli da mettere a punto: tante esagerazioni, scollature e tacchi a spillo, nascondono situazioni ancora retrograde (ad es., in molte ridenti cittadine se ti stuprano in gruppo è tuttora colpa tua). Però sono le stesse contrade dove negli anni Cinquanta le signore giravano a occhi bassi e volto coperto: non c'è dubbio che sia successo qualcosa di radicale e definitivo. Forse è ancora presto perché succeda qualcosa di simile in Afganistan, ma si potrebbe almeno cominciare dalle nostre musulmane. È giusto chiedere che non siano più costrette a portare un velo: è soltanto assurdo imporglielo per legge. Non si farebbe che sovrapporre una costrizione a un'altra di segno opposto, mettendo ogni povera donna tra Stato e Famiglia: ovviamente vincerà la Famiglia, e dove sarà vietato portare il velo, la donna resterà reclusa in casa. Ma questa cosa la sa benissimo il più retrogrado dei leghisti: lui non intende veramente togliere il velo a nessuno, quel che vuole è soltanto una musulmana in meno per strada.
Quello che ha funzionato con noi, non dovrebbe funzionare anche con gli immigrati? Alcuni sono tra noi da più di vent'anni, eppure non si integrano così facilmente. In certi casi viceversa si radicalizzano. Cosa c'è che non va? La scuola gliela diamo. Qualche diritto – non tanti – glielo concediamo. Li curiamo. Certo, restano nella maggior parte dei casi cittadini di serie b, senza diritti politici, però non si può dire che non facciamo niente per accoglierli. Qualche signora infatti il velo se l'è tolto, qualche ragazzina non se l'è mai messo. Ma se ne vedono ancora tante. Cos'è che non funziona.
Io una risposta ce l'ho, e avverto, non è proprio politically correct. Secondo me è un problema di parabole. Sono loro che rendono difficile l'integrazione.
È un discorso che parte da un assunto banale: cosa ha reso i costumi del padre casertano 2009 così radicalmente diversi da quelli del nonno? Tanti fattori sociali ed economici, ma tra tutti uno: la televisione. La tv ha imposto uno stile di vita e ci ha insegnato una lingua comune. È entrata in tutte le case e ha mostrato una società diversa. Nei '50 l'abbiamo scoperta, nei '60 l'abbiamo imitata, nei '70 un po' messa in discussione, dagli '80 in poi e la tv che ha iniziato a copiare noi. Con risultati piuttosto preoccupanti, ma non importa. La tv ci ha reso quelli che siamo, ma la nostra tv gli immigrati non la vedono. È per quello che restano “stranieri”. Andate a vedere nelle scuole, o nelle strade. La differenza non è tra italiano e immigrato, ma tra chi parla l'italiano della tv italiana e chi non lo parla, non lo capisce, perché a casa sua c'è una finestra aperta ogni giorno su Marocco o Tunisia.
Le banlieues dove si infrange il sogno francese dell'integrazione sono foreste di parabole. Signora Santanchè, vuole fare l'integrazione con la forza? La pianti di appendersi ai burqa, salga sui tetti, cominci a segare le parabole. È una strategia ugualmente esibizionista e arrogante, ma secondo me funziona di più.
Se non fosse che nel frattempo è la stessa tv italiana che sta mettendo in discussione la sua vocazione generalista. Sono gli stessi italiani a montare parabole, a chiedere a gran voce un palinsesto personalizzato alle proprie esigenze. È un modello che ci viene dai Paesi più avanzati: tante proposte diverse per tanti settori di mercato, senza più piazze d'incontro collettive. Quando tra qualche anno tutti avremo il nostro canale personale, non ci capiremo più. Sarà come internet, ognuno svilupperà il suo idioletto nel suo circolo di amici e conoscenti. Già oggi il dialogo tra generazioni è diventato molto difficile: tra qualche anno sarà semplicemente inutile: ognuno avrà il suo notiziario, i suoi vips di riferimento, la sua comunità sparsa per il mondo e incomprensibile al vicino di casa. In un certo senso gli immigrati ci precedono. E il burqa, perché mai dovrebbe passare di moda? Viceversa, ha qualcosa di futuristico: poter passeggiare in un mondo in cui nessuno sa chi sei, completamente libera di sottrarti dal giudizio di chi non appartiene alla tua comunità... non è un'esigenza solo islamica, anzi. Chissà, tra qualche anno farà il botto anche da noi.
martedì 10 novembre 2009
Giacomo Due Diciotto
Spero di sbagliarmi
Quando litigo – più spesso che non dovrei – in rete, di solito con atei, comunisti, neocon, pacifisti, antiabortisti, sionisti, astensionisti, referendari, omosessuali, liberali, radicali, fumatori... alla fine se guardi bene, io sto sempre facendo lo stesso discorso, e sempre con lo stesso tipo di persona.
È quel processo di selezione sociale attraverso il quale ogni scrittore trova i suoi lettori: io però sono scrittore di classe infima, un fetido blog, e quel che sono riuscito a selezionare è soltanto un gruppo di persone che hanno voglia di litigare con me (e io, evidentemente, con loro).
Il litigio è sostanzialmente un equivoco tra due persone che sono convinte di dialogare ma non si intendono. Questo vale anche qui. Sempre la stessa storia: io critico un fenomeno in base alle conseguenze a cui rischia di portare, e loro vengono qui a rinfacciarmi i loro alti principi. A quel punto io rispondo che i loro principi più o meno alti non m'interessano, se non come curiosità, perché io mi permetto di giudicare soltanto i risultati: e i risultati sono quelli che vedo intorno a me, oppure quelli che prevedo in un prossimo futuro. Naturalmente non sono un indovino, e quindi a questo punto aggiungo una frase che col tempo è diventato uno stucchevole refrain: spero di sbagliarmi. Sono infatti pessimista di formazione e di inclinazione, ma questo non mi proibisce di applicare il classico ottimismo della volontà. Non so se mi sono spiegato bene: provo con gli esempi.
(2001)
Leonardo: Chi si astiene fa vincere Berlusconi. Il berlusconismo al governo devasterà il tessuto sociale italiano.
Astensionista: Ma io sono di sinistra-sinistra! Ho dei principi! Non posso assolutamente votare Rutelli o D'Alema...
Leonardo: Non m'interessa chi sei o quello in cui credi. Spero di sbagliarmi, ma se non vai a votare aiuterai Berlusconi a devastare il tessuto sociale italiano.
(2003)
Leo: La guerra non porterà democrazia in Iraq se non in tempi lunghissimi, mentre nei tempi brevi aumenterà la tensione con l'Islam in tutto il mondo.
Neocone: Ma noi siamo democratici! Liberali! Crediamo nella democrazia! In tutto il mondo, subito! Contro l'islamofascismo!
Leo: Sì, interessante. Ma quel che combinerete nei tempi medio-brevi sarà un disastro. Spero di sbagliarmi.
(2005)
Leo: Perché volete organizzare un referendum abrogativo sulle staminali, se è praticamente sicuro che lo perderete? Spero di sbagliarmi, ma finirete per aumentare l'autorevolezza del fronte avverso.
Referendario: Sì, ma quella che è passata è una legge odiosa! Noi abbiamo dei principi! Dovranno passare sui nostri corpi...
Leo: Vabbè, e una volta che ci saranno passati?
(2007)
Leo: Cari omosessuali, c'è una parlamentare cattolica che vuole riconoscere le coppie di fatto e voi l'attaccate perché non vi dà subito il matrimonio? Con la maggioranza risicata che abbiamo e un'enorme minoranza silenziosa che vi chiama ancora culattoni? Spero di sbagliarmi, ma siete matti.
Gay: Ma io sono gay! Il riconoscimento dei miei diritti è la mia priorità!
Leo: Ma perché dovrebbe essere la mia?
(2009)
Leo: Guardate che togliendo il crocifisso nelle scuole, con questi lumi di luna, rischiamo di tatuarlo sulla pelle di una maggioranza etnica in cerca d'identità.
Laico: Ma noi siamo laici! Siamo stanchi di aspettare! Vogliamo la scuola laica adesso!
Leo: E i collegi dei gesuiti dopodomani?
Credo che sia evidente l'equivoco: da una parte c'è una persona (un po' negativa, è vero) che dice “Guardate che così finisce male”; dall'altra uno che risponde “Sì, ma io sono...” In realtà non c'è scambio: la prima persona non è interessata a chi sia il secondo; questi dal canto suo non sembra affatto preoccupato di come poi finiranno le cose. Ha fretta, vive nel presente.
Se riuscissi a chiarire questa cosa, forse potremmo in futuro evitare numerose prevedibili discussioni (ammesso che non siano poi quelle che vi portano qui). Insomma, il qui presente non vi giudica per quello in cui credete. Davvero, potete credere in qualunque cosa. Pensate che Dio non esista? Ok, è un punto di vista, basta che accettiate il fatto che non è più oggettivo degli altri. Credete che l'embrione sia un individuo dal concepimento? Ok. Mi sembra un po' forte, ma ok. A questo punto però io vi giudico dai risultati: se davvero aveste a cuore il Sig. Embrione, dovreste blindare la 194 in una placca di platino-iridio, perché è la legge che ha salvato la vita a più embrioni in assoluto, mandando in pensione le mammane. Se non lo fate siete ipocriti. Ipocriti rispetto ai vostri stessi principi, capite? Preferite gonfiarvi di principi, a scapito di quello che otterrete nella realtà.
Stesso discorso per la questione crocifisso. La sentenza di Strasburgo è probabilmente sacrosanta, ma se il risultato immediato è un'ondata di telepredicatori accesi di zelo per il santissimo crocefisso, io non la chiamo una vittoria. Tutto qui. Forse era preferibile un Cristo subliminale, che svanisse nello sfondo. Magari mi sbaglio, anzi lo spero.
Il fatto è che probabilmente ho frainteso quello che è internet per la maggior parte delle persone: un universo colorato dove ognuno può finalmente essere quello che sente di essere senza troppo impensierirsi per le conseguenze. Un'enorme Second Life senza quegli avatar ridicoli, ma con tante testuali dichiarazioni d'identità: Io sono Ateo! Io sono Liberale! Io sono Comunista! Tutta questa gente vive di compromessi più o meno come me, ma quando è davanti al monitor può finalmente gridare la sua Identità Tutta D'Un Pezzo ai quattro venti – o anche solo in calce a un pezzo mio.
A me però la tua Identità, non vorrei essere scortese, ma non è che interessi più di tanto. Per me internet è solo una lente sul mondo vero; e siccome nel mondo vero tutti questi personaggi tutti d'un pezzo non li incontro, le loro professioni di fede on line alla lunga m'infastidiscono. Non m'importa se sei comunista, ma quanto hai fatto e farai nei prossimi anni per la classe lavoratrice. Non m'importa se sei cattolico, la tua fede non m'interessa, fammi vedere le tue opere. Lettera di San Giacomo, è qui davanti a me in caratteri di platino.
Va bene, insomma, chi può aver resistito a leggere fin qua? Forse Malvino.
Domenica ha censurato il mio disinteresse per le cause perse paragonandomi a Capezzone. Malvino è persona intelligente e di smisurata cultura, e se tra tanti personaggi pragmatici e vili ha scelto proprio Capezzone, era semplicemente per farmi incazzare. Ma uno strale così ben scelto è quasi un segno d'affetto. Io non sono un indovino: mi oriento con il mio banalissimo pessimismo della ragione, e qualche volta ci azzecco. Su Capezzone fui profetico: nell'aprile del 2006 gli prevedevo già un futuro clericalmoderato. Non si era ancora formato il governo dell'Unione, quello di cui avrebbe fatto parte come brillante Presidente di Commissione Attività Produttive. Però, andiamo, ci voleva molto a capire il tipo?
A quel tempo, e ancora per due anni buoni, Capezzone ebbe la stima di Malvino. Son cose che a pensarci danno un brivido. Voglio dire, com'è possibile che persone più colte di me, più informate, più esperte della vita, caschino davanti a un Capezzone?
Gli fate un torto paragonandomi a lui. Era un giovane di belle speranze, non disdegnava affatto le cause perse. Moratoria sulla pena di morte, referendum sulle staminali... Oggi nel mondo ci sono più o meno gli stessi condannati a morte di qualche anno fa, e il Vaticano detta al governo la legge sul testamento biologico. Però Capezzone è ancora sulla breccia. Malvino mi fa un complimento accostandomi a lui: io resto nell'ombra, col solito pessimismo della ragione che mi fa dire no-no-no davanti al monitor e il solito ottimismo della volontà che mi sveglia al mattino e mi scarica a lavorare in una scuola laica. E pensare che c'è gente che vive alla grande, come fanno? Non sembra così difficile: trovano una causa persa, ci mettono su il loro faccino e la rivendono al mercato. Che posso dire: beati loro. Io non sono capace.
Quando litigo – più spesso che non dovrei – in rete, di solito con atei, comunisti, neocon, pacifisti, antiabortisti, sionisti, astensionisti, referendari, omosessuali, liberali, radicali, fumatori... alla fine se guardi bene, io sto sempre facendo lo stesso discorso, e sempre con lo stesso tipo di persona.
È quel processo di selezione sociale attraverso il quale ogni scrittore trova i suoi lettori: io però sono scrittore di classe infima, un fetido blog, e quel che sono riuscito a selezionare è soltanto un gruppo di persone che hanno voglia di litigare con me (e io, evidentemente, con loro).
Il litigio è sostanzialmente un equivoco tra due persone che sono convinte di dialogare ma non si intendono. Questo vale anche qui. Sempre la stessa storia: io critico un fenomeno in base alle conseguenze a cui rischia di portare, e loro vengono qui a rinfacciarmi i loro alti principi. A quel punto io rispondo che i loro principi più o meno alti non m'interessano, se non come curiosità, perché io mi permetto di giudicare soltanto i risultati: e i risultati sono quelli che vedo intorno a me, oppure quelli che prevedo in un prossimo futuro. Naturalmente non sono un indovino, e quindi a questo punto aggiungo una frase che col tempo è diventato uno stucchevole refrain: spero di sbagliarmi. Sono infatti pessimista di formazione e di inclinazione, ma questo non mi proibisce di applicare il classico ottimismo della volontà. Non so se mi sono spiegato bene: provo con gli esempi.
(2001)
Leonardo: Chi si astiene fa vincere Berlusconi. Il berlusconismo al governo devasterà il tessuto sociale italiano.
Astensionista: Ma io sono di sinistra-sinistra! Ho dei principi! Non posso assolutamente votare Rutelli o D'Alema...
Leonardo: Non m'interessa chi sei o quello in cui credi. Spero di sbagliarmi, ma se non vai a votare aiuterai Berlusconi a devastare il tessuto sociale italiano.
(2003)
Leo: La guerra non porterà democrazia in Iraq se non in tempi lunghissimi, mentre nei tempi brevi aumenterà la tensione con l'Islam in tutto il mondo.
Neocone: Ma noi siamo democratici! Liberali! Crediamo nella democrazia! In tutto il mondo, subito! Contro l'islamofascismo!
Leo: Sì, interessante. Ma quel che combinerete nei tempi medio-brevi sarà un disastro. Spero di sbagliarmi.
(2005)
Leo: Perché volete organizzare un referendum abrogativo sulle staminali, se è praticamente sicuro che lo perderete? Spero di sbagliarmi, ma finirete per aumentare l'autorevolezza del fronte avverso.
Referendario: Sì, ma quella che è passata è una legge odiosa! Noi abbiamo dei principi! Dovranno passare sui nostri corpi...
Leo: Vabbè, e una volta che ci saranno passati?
(2007)
Leo: Cari omosessuali, c'è una parlamentare cattolica che vuole riconoscere le coppie di fatto e voi l'attaccate perché non vi dà subito il matrimonio? Con la maggioranza risicata che abbiamo e un'enorme minoranza silenziosa che vi chiama ancora culattoni? Spero di sbagliarmi, ma siete matti.
Gay: Ma io sono gay! Il riconoscimento dei miei diritti è la mia priorità!
Leo: Ma perché dovrebbe essere la mia?
(2009)
Leo: Guardate che togliendo il crocifisso nelle scuole, con questi lumi di luna, rischiamo di tatuarlo sulla pelle di una maggioranza etnica in cerca d'identità.
Laico: Ma noi siamo laici! Siamo stanchi di aspettare! Vogliamo la scuola laica adesso!
Leo: E i collegi dei gesuiti dopodomani?
Credo che sia evidente l'equivoco: da una parte c'è una persona (un po' negativa, è vero) che dice “Guardate che così finisce male”; dall'altra uno che risponde “Sì, ma io sono...” In realtà non c'è scambio: la prima persona non è interessata a chi sia il secondo; questi dal canto suo non sembra affatto preoccupato di come poi finiranno le cose. Ha fretta, vive nel presente.
Se riuscissi a chiarire questa cosa, forse potremmo in futuro evitare numerose prevedibili discussioni (ammesso che non siano poi quelle che vi portano qui). Insomma, il qui presente non vi giudica per quello in cui credete. Davvero, potete credere in qualunque cosa. Pensate che Dio non esista? Ok, è un punto di vista, basta che accettiate il fatto che non è più oggettivo degli altri. Credete che l'embrione sia un individuo dal concepimento? Ok. Mi sembra un po' forte, ma ok. A questo punto però io vi giudico dai risultati: se davvero aveste a cuore il Sig. Embrione, dovreste blindare la 194 in una placca di platino-iridio, perché è la legge che ha salvato la vita a più embrioni in assoluto, mandando in pensione le mammane. Se non lo fate siete ipocriti. Ipocriti rispetto ai vostri stessi principi, capite? Preferite gonfiarvi di principi, a scapito di quello che otterrete nella realtà.
Stesso discorso per la questione crocifisso. La sentenza di Strasburgo è probabilmente sacrosanta, ma se il risultato immediato è un'ondata di telepredicatori accesi di zelo per il santissimo crocefisso, io non la chiamo una vittoria. Tutto qui. Forse era preferibile un Cristo subliminale, che svanisse nello sfondo. Magari mi sbaglio, anzi lo spero.
Il fatto è che probabilmente ho frainteso quello che è internet per la maggior parte delle persone: un universo colorato dove ognuno può finalmente essere quello che sente di essere senza troppo impensierirsi per le conseguenze. Un'enorme Second Life senza quegli avatar ridicoli, ma con tante testuali dichiarazioni d'identità: Io sono Ateo! Io sono Liberale! Io sono Comunista! Tutta questa gente vive di compromessi più o meno come me, ma quando è davanti al monitor può finalmente gridare la sua Identità Tutta D'Un Pezzo ai quattro venti – o anche solo in calce a un pezzo mio.
A me però la tua Identità, non vorrei essere scortese, ma non è che interessi più di tanto. Per me internet è solo una lente sul mondo vero; e siccome nel mondo vero tutti questi personaggi tutti d'un pezzo non li incontro, le loro professioni di fede on line alla lunga m'infastidiscono. Non m'importa se sei comunista, ma quanto hai fatto e farai nei prossimi anni per la classe lavoratrice. Non m'importa se sei cattolico, la tua fede non m'interessa, fammi vedere le tue opere. Lettera di San Giacomo, è qui davanti a me in caratteri di platino.
Va bene, insomma, chi può aver resistito a leggere fin qua? Forse Malvino.
Domenica ha censurato il mio disinteresse per le cause perse paragonandomi a Capezzone. Malvino è persona intelligente e di smisurata cultura, e se tra tanti personaggi pragmatici e vili ha scelto proprio Capezzone, era semplicemente per farmi incazzare. Ma uno strale così ben scelto è quasi un segno d'affetto. Io non sono un indovino: mi oriento con il mio banalissimo pessimismo della ragione, e qualche volta ci azzecco. Su Capezzone fui profetico: nell'aprile del 2006 gli prevedevo già un futuro clericalmoderato. Non si era ancora formato il governo dell'Unione, quello di cui avrebbe fatto parte come brillante Presidente di Commissione Attività Produttive. Però, andiamo, ci voleva molto a capire il tipo?
A quel tempo, e ancora per due anni buoni, Capezzone ebbe la stima di Malvino. Son cose che a pensarci danno un brivido. Voglio dire, com'è possibile che persone più colte di me, più informate, più esperte della vita, caschino davanti a un Capezzone?
Gli fate un torto paragonandomi a lui. Era un giovane di belle speranze, non disdegnava affatto le cause perse. Moratoria sulla pena di morte, referendum sulle staminali... Oggi nel mondo ci sono più o meno gli stessi condannati a morte di qualche anno fa, e il Vaticano detta al governo la legge sul testamento biologico. Però Capezzone è ancora sulla breccia. Malvino mi fa un complimento accostandomi a lui: io resto nell'ombra, col solito pessimismo della ragione che mi fa dire no-no-no davanti al monitor e il solito ottimismo della volontà che mi sveglia al mattino e mi scarica a lavorare in una scuola laica. E pensare che c'è gente che vive alla grande, come fanno? Non sembra così difficile: trovano una causa persa, ci mettono su il loro faccino e la rivendono al mercato. Che posso dire: beati loro. Io non sono capace.
lunedì 9 novembre 2009
seminator di scandalo e di scisma
Il diavolo nel ripostiglio
Nella nostra civiltà occidentale, moderna, razionale, ogni persona adulta e sana è responsabile per le azioni che commette. Possiamo essere guidati da motivazioni che non controlliamo del tutto – delusioni amorose, tracolli professionali, ci hanno toccati da bambini – ma se le invochiamo come attenuanti non siamo più adulti, o non siamo più sani di mente.
Mohammed Game era sano e adulto quando si è fatto esplodere davanti a una caserma di Milano. È interamente responsabile di tutto il male che ha procurato. Per primo a sé stesso, strappandosi una mano e i bulbi oculari. Per secondo alla sua famiglia; alla compagna italiana Giovanna, ai due figliastri Davide e Alessandro, ai due figli Islam e Omar. Di cui nessuno parla più, perché Game col suo attentato fallito non è nemmeno riuscito ad attirare più di tanto l'attenzione sul degrado in cui viveva con la sua famiglia: quattro bambini e una donna in un bilocale occupato abusivamente da sette anni, in cui non funzionano i servizi. Lavavano i bambini in una bacinella, conservavano le torte di compleanno in un armadio. In una situazione del genere, mesi fa, Game si era fatto intervistare da CronacaQui Milano: aveva messo da parte la dignità e aveva chiesto aiuto alle istituzioni. Ma ogni adulto è responsabile di quello che fa, della donna con cui si mette e dei figli che decide di avere: non è colpa del comune che non ti ha trovato una casa, dei clienti che non ti pagavano le fatture (150.000 euro non riscossi?) quando gestivi un'impresa (45 dipendenti? Sembrano numeri favolosi), dell'alcol che nessuno ti ha messo in bocca per forza.
Mohammed Game si era insomma cacciato, con tutte le sue responsabilità, in una situazione in cui molti (io tra loro) avrebbero cominciato a pensare di farla finita, anche senza tirare in ballo Allah e l'Afganistan. In questi casi può darsi che il ruolo di Allah sia essenzialmente di copertura; necessità di dare un senso finale a una vita sbagliata, anche e soprattutto nei confronti di una comunità che ricorda meglio i martiri dei falliti. Game si era riavvicinato alla religione di recente, dicono. Ma insomma anche Allah, anche l'Afganistan, sono fattori che possono aiutarci a capire ma non a perdonare: ognuno è responsabile del male che fa.
Due settimane prima di farsi saltare in aria, Mohammed Game incontrava Daniela Santanchè (lei stessa lo ha riconosciuto tra i suoi oppositori più arrabbiati). Era venuta alla festa di fine Ramadam, con la scorta, e pare che cercasse di strappare il velo alle donne presenti. Dico “pare” perché ognuno ha visto una cosa un po' diversa: secondo alcuni la Santanchè ha aggredito e non è stata aggredita; secondo lei è stata picchiata da un uomo che aveva un braccio ingessato; un altro voleva usarle contro un pezzo di segnaletica stradale. “Mi hanno detto che sono una puttana, che domani sarò morta, che faccio schifo”. Al pronto soccorso le riscontrano contusioni toraciche estese con una prognosi di venti giorni.
Anche Daniela Santanchè è adulta, sana e responsabile. Benché abbia avuto un'infanzia non semplice. Il padre, dice, “le ha rovinato la vita”. La madre la riempiva di sberle, le tirava i capelli (“mi stupisco ancora di averne tanti”). C'è un dettaglio in particolare, che può spiegare (non scusare) lo zelo con cui cerca di liberare le donne come lei dalle costrizioni famigliari: uno sgabuzzino in cui ha passato, da bambina, interminabili ore:
Ci finivo se rispondevo male, se non rispettavo apposta gli orari che mi davano, se non raccoglievo le cose da terra. Io ci morivo, ma non facevo un plissè, una piega, e tanto meno urlavo “aprite”. Mai! Stavo lì, con tutti quegli scaffali pieni di scarpe, che non so più quante volte ho contato. E infatti erano sempre i miei fratelli che intervenivano per farmi uscire. Mia sorella, che è molto più buona di me, una santa, andava da mia mamma a dire: non sentiamo più Daniela, mamma falla uscire, Daniela poi non lo fa più. Alla fine mi aprivano, ma intanto io là dentro ero morta di paura, con il buio, le scarpe che diventavano fantasmi, e i rumori, per cui mi turavo le orecchie per non sentire nulla. E ancora adesso, per quelle cose, ho paura a restare chiusa negli ascensori
A scuola viene espulsa per essersi gettata a terra all'improvviso. Lo stesso gesto – coincidenza – descritto dagli islamici a cui ha rovinato la festa... Basta così. Certo è affascinante, il gioco delle cause e degli effetti. Una famiglia in bolletta perde gli occhi e la mano del padre, perché? Perché il padre si è fatto esplodere contro una caserma, perché? Aveva visto una rappresentante politica italiana trattare la sua comunità con prepotenza, perché? la politica in questione ha subito traumi infantili, i genitori la chiudevano in uno sgabuzzino, perché?... Già, chissà quali frustrazioni stavano sfogando in quel momento i genitori, chissà quali traumi a loro volta... no. Noi, in occidente, abbiamo deciso che la giustizia non funziona così. Forse l'Occidente è nato proprio in quel momento: quando abbiamo stabilito che è ognuno è responsabile del suo singolo segmento di azioni. La madre di Daniela Santanchè è responsabile di averle tirato i capelli. Mohammed Game è responsabile del male che ha fatto a sé stesso e ai suoi. E Daniela Santanchè, di cosa è responsabile?
Ci pensavo oggi, mentre guardavo il siparietto pro-crocefisso organizzato su Domenica Cinque, all'ora in cui le brave donne italiane sparecchiano, e il resto della famiglia si butta sul divano a digerire. Appena in tempo per scoprire dalla bocca della Santanchè la verità sul profeta Maometto: “per la nostra cultura era pedofilo” (evidentemente “la nostra cultura” è retroattiva). Non si sono fatti mancare niente: Sgarbi che sogghigna e tace, tanto è lì solo a mo' di bollino (se c'è Sgarbi è roba di cultura); l'enorme crocione sul maxischermo; il musulmano arrabbiato che se non lo tengono la mena, stavolta senza gesso ma con un copricapo molto caratteristico, complimenti al casting; la D'Urso che profitta del lancio pubblicitario per esprimere una profonda verità: “il crocefisso non dà segno di alcuna discriminazione, il crocefisso tace”. Ci mancherebbe anche che parlasse – a pensarci bene taceva anche il fascio littorio... e la svastica? Parlava? No, quindi neanche lei dava segni di discriminazione, riflettiamoci bene...
La storia della sposa bambina di Maometto su internet è moneta corrente. Ma piazzata su Domenica Cinque la domenica alle tre è puro tritolo – no, fertilizzante. Ne parleranno i bambini alle elementari, domani: se sanno cos'è un pedofilo lo andranno a dire al compagno musulmano: ehi, ma è vero che il tuo profeta è un pedofilo? Il compagno musulmano tornerà a casa e farà qualche domanda a mamma o papà. Ma da lì in poi si torna tra adulti, e gli adulti sono responsabili: se qualche madre o padre si farà esplodere, sarà esclusivamente colpa sua. Non possiamo dare la colpa alla Santanchè. Lei in fondo non è che l'incarnazione estrema della fregola che ci sta prendendo tutti: liberare gli altri con la forza. Porti il burqa? Te lo togliamo o ti mettiamo in galera. L'obiezione più banale (per evitare la galera le donne non usciranno più di casa) non interessa più. Evidentemente il problema è il burqa che vediamo per strada, non l'effettiva libertà della persona che ci sta sotto.
In questo modo trasferiamo all'autorità problemi che fino a qualche anno fa riguardavano la coscienza. Non ci passa più nemmeno per la testa che il problema è convincere una donna (e soprattutto un uomo) che quell'indumento è sbagliato. No, nessuna opera di convincimento: via il burqa o chiamiamo i carabinieri. E in fondo la stessa cosa dovrebbe succedere per il crocefisso: perché perdere tempo a convincere la maggioranza degli italiani che non va esposto nei luoghi pubblici? Ci pensino i giudici, noi siamo stanchi di parlare alle coscienze. Non c'interessa più convincere qualcuno, vogliamo solo la rimozione del simbolo fisico, e poi saremo contenti. Se poi l'effetto collaterale fosse un irrigidimento della comunità cattolica, e l'aumento d'iscrizioni alla scuola confessionale, tanto peggio: meno baciapile tra le scatole. Eppure una scuola laica è l'unico luogo dove uno studente di famiglia cattolica può crescere mettendo in dubbio la fede dei genitori. Eppure la strada è l'unico luogo dove una donna in burqa, davanti a una vetrina o al parco, può scegliere autonomamente di toglierselo: non perché una signora arrabbiata glielo strappa via, ma perché lo ha deciso lei, con la sua coscienza. Ma la coscienza ha tempi troppo lunghi, noi vogliamo giustizia subito, con tutta la forza necessaria.
No, Daniela Santanchè non è colpevole degli attentati che ci sono stati e di quelli che ci saranno. Non secondo la nostra cultura moderna e occidentale. Però io non sono del tutto moderno e occidentale, e in un fotogramma di questo video ho visto il diavolo. È un istante così breve che non riesco neanche a fermare l'immagine: verso il 1:12 il volto un po' bambolottesco di Daniela Santanchè ha un guizzo di felicità curioso, visto le cose gravi che sta dicendo. Potrebbe trattarsi semplicemente di un'esitazione nel copione imparato a memoria, la tentazione di buttarla in ridere, tutte spiegazioni razionali: ma io non sono del tutto razionale, io lì ci vedo il diavolo che esce un attimo dal volto di Daniela Santanchè e si compiace del suo capolavoro. Il diavolo che forse la piccola Daniela incontrò in quel ripostiglio buio, che le entrò negli occhi che non volevano piangere, e che poi ha covato per tutti questi anni. È un'idea un po' romantica, un po' medievale. Del resto, se fossimo nel medioevo io non avrei dubbi sulla responsabilità, anzi, la colpa, no, ancora meglio, il peccato di Daniela Santanchè: addirittura potrei già formulare predizioni attendibili sul suo destino nell'aldilà, consultando il manuale di Dante Alighieri: Inferno, ottavo cerchio (fraudolenti), nona bolgia (seminatori di odio): sì, esattamente lo stesso indirizzo di Maometto. A lui, e al cugino Alì, un diavolo con un enorme bisturi strazia le carni, che si ricompongono poco dopo pronte per essere di nuovo dilaniate. Suona molto sinistro e familiare, l'inferno. Come se non ci aspettasse più, come se fosse già qui tra noi.
Nella nostra civiltà occidentale, moderna, razionale, ogni persona adulta e sana è responsabile per le azioni che commette. Possiamo essere guidati da motivazioni che non controlliamo del tutto – delusioni amorose, tracolli professionali, ci hanno toccati da bambini – ma se le invochiamo come attenuanti non siamo più adulti, o non siamo più sani di mente.
Mohammed Game era sano e adulto quando si è fatto esplodere davanti a una caserma di Milano. È interamente responsabile di tutto il male che ha procurato. Per primo a sé stesso, strappandosi una mano e i bulbi oculari. Per secondo alla sua famiglia; alla compagna italiana Giovanna, ai due figliastri Davide e Alessandro, ai due figli Islam e Omar. Di cui nessuno parla più, perché Game col suo attentato fallito non è nemmeno riuscito ad attirare più di tanto l'attenzione sul degrado in cui viveva con la sua famiglia: quattro bambini e una donna in un bilocale occupato abusivamente da sette anni, in cui non funzionano i servizi. Lavavano i bambini in una bacinella, conservavano le torte di compleanno in un armadio. In una situazione del genere, mesi fa, Game si era fatto intervistare da CronacaQui Milano: aveva messo da parte la dignità e aveva chiesto aiuto alle istituzioni. Ma ogni adulto è responsabile di quello che fa, della donna con cui si mette e dei figli che decide di avere: non è colpa del comune che non ti ha trovato una casa, dei clienti che non ti pagavano le fatture (150.000 euro non riscossi?) quando gestivi un'impresa (45 dipendenti? Sembrano numeri favolosi), dell'alcol che nessuno ti ha messo in bocca per forza.
Mohammed Game si era insomma cacciato, con tutte le sue responsabilità, in una situazione in cui molti (io tra loro) avrebbero cominciato a pensare di farla finita, anche senza tirare in ballo Allah e l'Afganistan. In questi casi può darsi che il ruolo di Allah sia essenzialmente di copertura; necessità di dare un senso finale a una vita sbagliata, anche e soprattutto nei confronti di una comunità che ricorda meglio i martiri dei falliti. Game si era riavvicinato alla religione di recente, dicono. Ma insomma anche Allah, anche l'Afganistan, sono fattori che possono aiutarci a capire ma non a perdonare: ognuno è responsabile del male che fa.
Due settimane prima di farsi saltare in aria, Mohammed Game incontrava Daniela Santanchè (lei stessa lo ha riconosciuto tra i suoi oppositori più arrabbiati). Era venuta alla festa di fine Ramadam, con la scorta, e pare che cercasse di strappare il velo alle donne presenti. Dico “pare” perché ognuno ha visto una cosa un po' diversa: secondo alcuni la Santanchè ha aggredito e non è stata aggredita; secondo lei è stata picchiata da un uomo che aveva un braccio ingessato; un altro voleva usarle contro un pezzo di segnaletica stradale. “Mi hanno detto che sono una puttana, che domani sarò morta, che faccio schifo”. Al pronto soccorso le riscontrano contusioni toraciche estese con una prognosi di venti giorni.
Anche Daniela Santanchè è adulta, sana e responsabile. Benché abbia avuto un'infanzia non semplice. Il padre, dice, “le ha rovinato la vita”. La madre la riempiva di sberle, le tirava i capelli (“mi stupisco ancora di averne tanti”). C'è un dettaglio in particolare, che può spiegare (non scusare) lo zelo con cui cerca di liberare le donne come lei dalle costrizioni famigliari: uno sgabuzzino in cui ha passato, da bambina, interminabili ore:
Ci finivo se rispondevo male, se non rispettavo apposta gli orari che mi davano, se non raccoglievo le cose da terra. Io ci morivo, ma non facevo un plissè, una piega, e tanto meno urlavo “aprite”. Mai! Stavo lì, con tutti quegli scaffali pieni di scarpe, che non so più quante volte ho contato. E infatti erano sempre i miei fratelli che intervenivano per farmi uscire. Mia sorella, che è molto più buona di me, una santa, andava da mia mamma a dire: non sentiamo più Daniela, mamma falla uscire, Daniela poi non lo fa più. Alla fine mi aprivano, ma intanto io là dentro ero morta di paura, con il buio, le scarpe che diventavano fantasmi, e i rumori, per cui mi turavo le orecchie per non sentire nulla. E ancora adesso, per quelle cose, ho paura a restare chiusa negli ascensori
A scuola viene espulsa per essersi gettata a terra all'improvviso. Lo stesso gesto – coincidenza – descritto dagli islamici a cui ha rovinato la festa... Basta così. Certo è affascinante, il gioco delle cause e degli effetti. Una famiglia in bolletta perde gli occhi e la mano del padre, perché? Perché il padre si è fatto esplodere contro una caserma, perché? Aveva visto una rappresentante politica italiana trattare la sua comunità con prepotenza, perché? la politica in questione ha subito traumi infantili, i genitori la chiudevano in uno sgabuzzino, perché?... Già, chissà quali frustrazioni stavano sfogando in quel momento i genitori, chissà quali traumi a loro volta... no. Noi, in occidente, abbiamo deciso che la giustizia non funziona così. Forse l'Occidente è nato proprio in quel momento: quando abbiamo stabilito che è ognuno è responsabile del suo singolo segmento di azioni. La madre di Daniela Santanchè è responsabile di averle tirato i capelli. Mohammed Game è responsabile del male che ha fatto a sé stesso e ai suoi. E Daniela Santanchè, di cosa è responsabile?
Ci pensavo oggi, mentre guardavo il siparietto pro-crocefisso organizzato su Domenica Cinque, all'ora in cui le brave donne italiane sparecchiano, e il resto della famiglia si butta sul divano a digerire. Appena in tempo per scoprire dalla bocca della Santanchè la verità sul profeta Maometto: “per la nostra cultura era pedofilo” (evidentemente “la nostra cultura” è retroattiva). Non si sono fatti mancare niente: Sgarbi che sogghigna e tace, tanto è lì solo a mo' di bollino (se c'è Sgarbi è roba di cultura); l'enorme crocione sul maxischermo; il musulmano arrabbiato che se non lo tengono la mena, stavolta senza gesso ma con un copricapo molto caratteristico, complimenti al casting; la D'Urso che profitta del lancio pubblicitario per esprimere una profonda verità: “il crocefisso non dà segno di alcuna discriminazione, il crocefisso tace”. Ci mancherebbe anche che parlasse – a pensarci bene taceva anche il fascio littorio... e la svastica? Parlava? No, quindi neanche lei dava segni di discriminazione, riflettiamoci bene...
La storia della sposa bambina di Maometto su internet è moneta corrente. Ma piazzata su Domenica Cinque la domenica alle tre è puro tritolo – no, fertilizzante. Ne parleranno i bambini alle elementari, domani: se sanno cos'è un pedofilo lo andranno a dire al compagno musulmano: ehi, ma è vero che il tuo profeta è un pedofilo? Il compagno musulmano tornerà a casa e farà qualche domanda a mamma o papà. Ma da lì in poi si torna tra adulti, e gli adulti sono responsabili: se qualche madre o padre si farà esplodere, sarà esclusivamente colpa sua. Non possiamo dare la colpa alla Santanchè. Lei in fondo non è che l'incarnazione estrema della fregola che ci sta prendendo tutti: liberare gli altri con la forza. Porti il burqa? Te lo togliamo o ti mettiamo in galera. L'obiezione più banale (per evitare la galera le donne non usciranno più di casa) non interessa più. Evidentemente il problema è il burqa che vediamo per strada, non l'effettiva libertà della persona che ci sta sotto.
In questo modo trasferiamo all'autorità problemi che fino a qualche anno fa riguardavano la coscienza. Non ci passa più nemmeno per la testa che il problema è convincere una donna (e soprattutto un uomo) che quell'indumento è sbagliato. No, nessuna opera di convincimento: via il burqa o chiamiamo i carabinieri. E in fondo la stessa cosa dovrebbe succedere per il crocefisso: perché perdere tempo a convincere la maggioranza degli italiani che non va esposto nei luoghi pubblici? Ci pensino i giudici, noi siamo stanchi di parlare alle coscienze. Non c'interessa più convincere qualcuno, vogliamo solo la rimozione del simbolo fisico, e poi saremo contenti. Se poi l'effetto collaterale fosse un irrigidimento della comunità cattolica, e l'aumento d'iscrizioni alla scuola confessionale, tanto peggio: meno baciapile tra le scatole. Eppure una scuola laica è l'unico luogo dove uno studente di famiglia cattolica può crescere mettendo in dubbio la fede dei genitori. Eppure la strada è l'unico luogo dove una donna in burqa, davanti a una vetrina o al parco, può scegliere autonomamente di toglierselo: non perché una signora arrabbiata glielo strappa via, ma perché lo ha deciso lei, con la sua coscienza. Ma la coscienza ha tempi troppo lunghi, noi vogliamo giustizia subito, con tutta la forza necessaria.
No, Daniela Santanchè non è colpevole degli attentati che ci sono stati e di quelli che ci saranno. Non secondo la nostra cultura moderna e occidentale. Però io non sono del tutto moderno e occidentale, e in un fotogramma di questo video ho visto il diavolo. È un istante così breve che non riesco neanche a fermare l'immagine: verso il 1:12 il volto un po' bambolottesco di Daniela Santanchè ha un guizzo di felicità curioso, visto le cose gravi che sta dicendo. Potrebbe trattarsi semplicemente di un'esitazione nel copione imparato a memoria, la tentazione di buttarla in ridere, tutte spiegazioni razionali: ma io non sono del tutto razionale, io lì ci vedo il diavolo che esce un attimo dal volto di Daniela Santanchè e si compiace del suo capolavoro. Il diavolo che forse la piccola Daniela incontrò in quel ripostiglio buio, che le entrò negli occhi che non volevano piangere, e che poi ha covato per tutti questi anni. È un'idea un po' romantica, un po' medievale. Del resto, se fossimo nel medioevo io non avrei dubbi sulla responsabilità, anzi, la colpa, no, ancora meglio, il peccato di Daniela Santanchè: addirittura potrei già formulare predizioni attendibili sul suo destino nell'aldilà, consultando il manuale di Dante Alighieri: Inferno, ottavo cerchio (fraudolenti), nona bolgia (seminatori di odio): sì, esattamente lo stesso indirizzo di Maometto. A lui, e al cugino Alì, un diavolo con un enorme bisturi strazia le carni, che si ricompongono poco dopo pronte per essere di nuovo dilaniate. Suona molto sinistro e familiare, l'inferno. Come se non ci aspettasse più, come se fosse già qui tra noi.
giovedì 5 novembre 2009
In hoc signo perdes
Per quel segno sul muro
È buffo che molti (quasi tutti atei) abbiano preso il mio pezzo di ieri per una critica alla sentenza di Strasburgo. È buffo perché il pezzo aveva come protagonisti un insegnante che aveva appena deposto un crocefisso e un Gesù che diceva “Toglietemi immediatamente”. Più di così.
Il pezzo ironizzava, è vero, con quei sadducei moderni che ritengono pericolosa l'esposizione dei figli a un legnetto. Detto questo, io la sentenza di Strasburgo non mi metto neanche a leggerla: mi fido. Sono convinto che sia ponderata, ragionevole, e che lasci scarsi margini a un appello. La logica è stringente: se in Italia non c'è una religione di Stato, esporre il simbolo di una sola fede è evidentemente una prevaricazione. Radicata nella consuetudine bla bla bla, ma resta una prevaricazione.
E allora perché non gioisco per la vittoria laica? Beh, per il semplice motivo che non è una vittoria. Facciamo che sia la presa della Bastiglia: bene, ma si tratta di capire chi la spunterà a Waterloo. Quando tra qualche mese o anno sarà tutto finito, in Italia ci saranno più o meno cristi alle pareti? E se anche fossero spariti, siete sicuri che si sarà trattato di una vittoria laica? Le guerre, oltre a cominciarle, bisogna anche saperle vincere. Sennò si fa il gioco del nemico.
Ripeto: non discuto la sentenza. Ma l'idea che la parola di un giudice chiuda la questione mi sembra indizio di un razionalismo piuttosto ingenuo. Se si trattasse di una società di robot asimoviani, potremmo procedere a togliere dalle pareti i crocefissi anche domani mattina: sentenza razionale dice x, robot razionale rispetta sentenza. Viceversa, ho la sensazione che molti genitori e studenti che fino a ieri non ci facevano caso cominceranno a lamentarsi da domani: perché il cristo non c'è più? Si è rotto? E chi l'ha rotto? e se fosse stato il compagno musulmano?
Passare dal razionalismo al pragmatismo per me significa accettare di vivere nella società degli uomini, che non essendo robot non hanno sempre comportamenti razionali. Per esempio: hanno paura. Un meccanismo non teme di essere spento o riprogrammato. Invece un uomo reagisce spesso col rifiuto a chi mette in discussione le sue abitudini. Anche se, da un punto di vista razionale, sono sbagliate. E non basta dirgli: stai sbagliando, correggiti. A volte in questo modo ottieni solo il risultato di farlo impuntare.
Mi sembra esattamente quello che sta succedendo in queste ore: quello che fino a ieri era un pezzetto di legno inoffensivo sta diventando il simbolo di un popolo, di una civiltà, e quant'altro. È sciocco, però succede. Ed era abbastanza prevedibile, visto il Paese in cui viviamo.
Io non so in che Italia viviate, ma nella mia anche il partito che fino a qualche anno fa ostentava un'identità 'celtica' e paganeggiante è sempre più in prima fila nel baciare le pile ai vescovi. Nella mia, tre ore dopo la sentenza di Strasburgo il pluripeccatore Berlusconi era già stato davanti ai fotografi con un crocione in mano. Nella mia, il discorso “li lasciamo venire qui e loro pretendono di toglierci la croce” lo fanno anche i bambini di undici anni: li ho sentiti con le mie orecchie. Fino a ieri il pezzettino di legno era buono nel cassetto, oggi è già diventato un simbolo di identità. Che serve poi a fomentare lo scontro tra chi lo vuole e chi no. È questa la guerra che desiderate? A me non piace. E poi secondo me la perderete. Quante divisioni corazzate avete? Gli altri hanno il numero, la forza dell'interesse, l'inerzia della tradizione e il fantasma dell'identità. Voi cosa avete? La sentenza di una corte europea. Non dico che sia poco, eh.
Ma non è abbastanza. Qualcuno ha evocato Rosa Parks. Quella a dire il vero mi sembra una lotta più concreta: non per un simbolo, ma per la stanchezza di una signora. Comunque Rosa Parks non vinse in tribunale. Le battaglie che cambiano i costumi non si combattono in procura, ma nell'agone politico. Quando un giudice impose all'università dell'Alabama di ammettere studenti neri, Kennedy dovette nazionalizzare la Guardia Nazionale dello Stato, perché finché prendeva ordini dal Governatore non sarebbero mai entrati. L'Alabama era uno Stato razzista in una federazione di cinquanta che credevano (quasi tutti, ormai) nell'uguaglianza; l'Italia è piccola e confusa, e per quanto mi sforzi non riesco a vedere, nei prossimi anni, un Kennedy italiano che mandi i carabinieri a deporre i crocefissi.
Mi riesce più verosimile il seguente scenario: la Gelmini andrà in appello, lo perderà. A quel punto però il governo si sarà esposto. Nel frattempo CEI e il Vaticano continueranno a lamentare l'insidiosa e strisciante campagna cristianofoba. È la cosa che gli riesce meglio, il chiagn-e-fotti. Il crocefisso verrà saldamente piantato nella piattaforma programmatica di PDL, Lega e UDC: tanto più che non costa niente, non bisogna neanche appenderlo, è già lì sulle pareti (il sogno bagnato di ogni politico, una promessa realizzabile a costo zero).
Non sarebbe la prima volta che il parlamento manda avanti una leggina in palese violazione di una sentenza: un bel lodo-Pilato, et voilà, avremo la prima legge nella Storia d'Italia che mette nero su bianco quello che prima era una semplice consuetudine: crocefissi nelle classi. Il bello è che in tante aule non c'è più da un pezzo: quando cade nessuno lo raccoglie. Io ho insegnato in una dove credo non ci sia mai stato: bene, ce lo metteranno.
E se scattasse una procedura di infrazione? Ne scattano tante: pagheremo, addirittura saremo fieri di farlo, ne va delle nostre radici cristiane... oppure no, forse alla fine la spunterà Strasburgo. Magari alla fine li toglieremo davvero, i dannati pezzi di legno. Ma siete sicuri che quello sarà un bel giorno per la causa laica? Avrete solo ottenuto il risultato di riunire una maggioranza silenziosa dietro a un simbolo confessionale. E di innervosirla. Certo, a quel punto magari la Uaar avrà qualche migliaio di tesserati in più.
Io credo che faccia benissimo Bersani a tentare di disinnescare la questione: non solo perché parla a nome di un partito che ha origini cattoliche. Un laureato in Storia del Cristianesimo credo sappia benissimo che a fare la guerra contro i simboli perdi sempre. A meno che tu non ne abbia di più potenti da proporre, e non è questo il caso. A dire il vero lo sanno anche i vecchi comunisti: a proposito, quand'è che il PCI divenne un partito di massa? Quando bisognava sparare agli stranieri che ci venivano in casa. La gente andava in montagna e lì ci trovava formazioni organizzate con la stella nel berretto. Alcuni quel berretto non se lo sono più tolto. Non avevano mai letto Marx e non lo lessero mai, ma nel momento del pericolo si sono impossessati di un simbolo. Io non vorrei che i nostri figli s'impadronissero della croce nello stesso modo: non vorrei che diventasse per loro un giorno la cifra di un'identità italiana, bianca, latina. Ma è quello che vedo succedere progressivamente davanti ai miei occhi, giorno dopo giorno. E non mi piace.
Ultima cosa. Io gli italiani cerco di vederli per quel che sono, ma questo non significa che non abbia rinunciato a cambiarli. Io tutti i giorni penso all'Italia, come dice Fibra; e non è uno scherzo, è proprio così: a volte mi sveglio che ci sto già pensando, e vado a letto che ancora l'ho in mente. Tutti i santi giorni provo a cambiarla, per il poco che posso: sul posto di lavoro, qui, dovunque ci sia un margine io mi ci misuro. E quando dico che togliere i crocefissi non è la strategia giusta in questo momento, vorrei che voi credeste, se non alla mia piccola esperienza, almeno alla buona fede. Atei o agnostici che siate, avete tutti frequentato almeno una scuola che esponeva una croce: coraggio, se ce l'avete fatta voi, possono farcela anche i vostri figli. Non dico che sia giusto, tecnicamente non lo è: però nella società degli uomini la giustizia è un punto di arrivo, non un diritto acquisito.
È buffo che molti (quasi tutti atei) abbiano preso il mio pezzo di ieri per una critica alla sentenza di Strasburgo. È buffo perché il pezzo aveva come protagonisti un insegnante che aveva appena deposto un crocefisso e un Gesù che diceva “Toglietemi immediatamente”. Più di così.
Il pezzo ironizzava, è vero, con quei sadducei moderni che ritengono pericolosa l'esposizione dei figli a un legnetto. Detto questo, io la sentenza di Strasburgo non mi metto neanche a leggerla: mi fido. Sono convinto che sia ponderata, ragionevole, e che lasci scarsi margini a un appello. La logica è stringente: se in Italia non c'è una religione di Stato, esporre il simbolo di una sola fede è evidentemente una prevaricazione. Radicata nella consuetudine bla bla bla, ma resta una prevaricazione.
E allora perché non gioisco per la vittoria laica? Beh, per il semplice motivo che non è una vittoria. Facciamo che sia la presa della Bastiglia: bene, ma si tratta di capire chi la spunterà a Waterloo. Quando tra qualche mese o anno sarà tutto finito, in Italia ci saranno più o meno cristi alle pareti? E se anche fossero spariti, siete sicuri che si sarà trattato di una vittoria laica? Le guerre, oltre a cominciarle, bisogna anche saperle vincere. Sennò si fa il gioco del nemico.
Ripeto: non discuto la sentenza. Ma l'idea che la parola di un giudice chiuda la questione mi sembra indizio di un razionalismo piuttosto ingenuo. Se si trattasse di una società di robot asimoviani, potremmo procedere a togliere dalle pareti i crocefissi anche domani mattina: sentenza razionale dice x, robot razionale rispetta sentenza. Viceversa, ho la sensazione che molti genitori e studenti che fino a ieri non ci facevano caso cominceranno a lamentarsi da domani: perché il cristo non c'è più? Si è rotto? E chi l'ha rotto? e se fosse stato il compagno musulmano?
Passare dal razionalismo al pragmatismo per me significa accettare di vivere nella società degli uomini, che non essendo robot non hanno sempre comportamenti razionali. Per esempio: hanno paura. Un meccanismo non teme di essere spento o riprogrammato. Invece un uomo reagisce spesso col rifiuto a chi mette in discussione le sue abitudini. Anche se, da un punto di vista razionale, sono sbagliate. E non basta dirgli: stai sbagliando, correggiti. A volte in questo modo ottieni solo il risultato di farlo impuntare.
Mi sembra esattamente quello che sta succedendo in queste ore: quello che fino a ieri era un pezzetto di legno inoffensivo sta diventando il simbolo di un popolo, di una civiltà, e quant'altro. È sciocco, però succede. Ed era abbastanza prevedibile, visto il Paese in cui viviamo.
Stato laico un cazzo. La costituzione scritta dalle zecche comuniste non ha alcun valore e presto sarà cambiata. L’Italia è uno Stato Cristiano per tradizione ultra-millenaria. Chi tocca il Crocefisso (ma anche solo chi mette in discussione la cosa), Polonio-210 subito. La cagna finlandese è e RESTA finlandese: altro aspetto della costituzione che verrà cambiato. Non è con un timbro che si diventa Italiani. Blut und Boden! gli islamici c’entrano sempre.Si tratta di un Paese in crisi economica, che per sfogarsi va in crisi d'identità. Si trova pencolante sul confine tra Nord e Sud: confine incerto e percorso da milioni di persone che fa sempre più fatica ad assorbire. Di solito un Paese del genere è il brodo di cultura ideale per xenofobie e razzismi. In una situazione del genere, anche un pezzo di legno può essere utile per rafforzare un sentimento identitario che finora non è mai stato molto ben definito. Dopodiché, La Russa resta un meschino rimestatore: purtroppo è un rimestatore che dà ordini ai generali e intercetta applausi da una base sempre più estesa.
Io non so in che Italia viviate, ma nella mia anche il partito che fino a qualche anno fa ostentava un'identità 'celtica' e paganeggiante è sempre più in prima fila nel baciare le pile ai vescovi. Nella mia, tre ore dopo la sentenza di Strasburgo il pluripeccatore Berlusconi era già stato davanti ai fotografi con un crocione in mano. Nella mia, il discorso “li lasciamo venire qui e loro pretendono di toglierci la croce” lo fanno anche i bambini di undici anni: li ho sentiti con le mie orecchie. Fino a ieri il pezzettino di legno era buono nel cassetto, oggi è già diventato un simbolo di identità. Che serve poi a fomentare lo scontro tra chi lo vuole e chi no. È questa la guerra che desiderate? A me non piace. E poi secondo me la perderete. Quante divisioni corazzate avete? Gli altri hanno il numero, la forza dell'interesse, l'inerzia della tradizione e il fantasma dell'identità. Voi cosa avete? La sentenza di una corte europea. Non dico che sia poco, eh.
Ma non è abbastanza. Qualcuno ha evocato Rosa Parks. Quella a dire il vero mi sembra una lotta più concreta: non per un simbolo, ma per la stanchezza di una signora. Comunque Rosa Parks non vinse in tribunale. Le battaglie che cambiano i costumi non si combattono in procura, ma nell'agone politico. Quando un giudice impose all'università dell'Alabama di ammettere studenti neri, Kennedy dovette nazionalizzare la Guardia Nazionale dello Stato, perché finché prendeva ordini dal Governatore non sarebbero mai entrati. L'Alabama era uno Stato razzista in una federazione di cinquanta che credevano (quasi tutti, ormai) nell'uguaglianza; l'Italia è piccola e confusa, e per quanto mi sforzi non riesco a vedere, nei prossimi anni, un Kennedy italiano che mandi i carabinieri a deporre i crocefissi.
Mi riesce più verosimile il seguente scenario: la Gelmini andrà in appello, lo perderà. A quel punto però il governo si sarà esposto. Nel frattempo CEI e il Vaticano continueranno a lamentare l'insidiosa e strisciante campagna cristianofoba. È la cosa che gli riesce meglio, il chiagn-e-fotti. Il crocefisso verrà saldamente piantato nella piattaforma programmatica di PDL, Lega e UDC: tanto più che non costa niente, non bisogna neanche appenderlo, è già lì sulle pareti (il sogno bagnato di ogni politico, una promessa realizzabile a costo zero).
Non sarebbe la prima volta che il parlamento manda avanti una leggina in palese violazione di una sentenza: un bel lodo-Pilato, et voilà, avremo la prima legge nella Storia d'Italia che mette nero su bianco quello che prima era una semplice consuetudine: crocefissi nelle classi. Il bello è che in tante aule non c'è più da un pezzo: quando cade nessuno lo raccoglie. Io ho insegnato in una dove credo non ci sia mai stato: bene, ce lo metteranno.
E se scattasse una procedura di infrazione? Ne scattano tante: pagheremo, addirittura saremo fieri di farlo, ne va delle nostre radici cristiane... oppure no, forse alla fine la spunterà Strasburgo. Magari alla fine li toglieremo davvero, i dannati pezzi di legno. Ma siete sicuri che quello sarà un bel giorno per la causa laica? Avrete solo ottenuto il risultato di riunire una maggioranza silenziosa dietro a un simbolo confessionale. E di innervosirla. Certo, a quel punto magari la Uaar avrà qualche migliaio di tesserati in più.
Io credo che faccia benissimo Bersani a tentare di disinnescare la questione: non solo perché parla a nome di un partito che ha origini cattoliche. Un laureato in Storia del Cristianesimo credo sappia benissimo che a fare la guerra contro i simboli perdi sempre. A meno che tu non ne abbia di più potenti da proporre, e non è questo il caso. A dire il vero lo sanno anche i vecchi comunisti: a proposito, quand'è che il PCI divenne un partito di massa? Quando bisognava sparare agli stranieri che ci venivano in casa. La gente andava in montagna e lì ci trovava formazioni organizzate con la stella nel berretto. Alcuni quel berretto non se lo sono più tolto. Non avevano mai letto Marx e non lo lessero mai, ma nel momento del pericolo si sono impossessati di un simbolo. Io non vorrei che i nostri figli s'impadronissero della croce nello stesso modo: non vorrei che diventasse per loro un giorno la cifra di un'identità italiana, bianca, latina. Ma è quello che vedo succedere progressivamente davanti ai miei occhi, giorno dopo giorno. E non mi piace.
Ultima cosa. Io gli italiani cerco di vederli per quel che sono, ma questo non significa che non abbia rinunciato a cambiarli. Io tutti i giorni penso all'Italia, come dice Fibra; e non è uno scherzo, è proprio così: a volte mi sveglio che ci sto già pensando, e vado a letto che ancora l'ho in mente. Tutti i santi giorni provo a cambiarla, per il poco che posso: sul posto di lavoro, qui, dovunque ci sia un margine io mi ci misuro. E quando dico che togliere i crocefissi non è la strategia giusta in questo momento, vorrei che voi credeste, se non alla mia piccola esperienza, almeno alla buona fede. Atei o agnostici che siate, avete tutti frequentato almeno una scuola che esponeva una croce: coraggio, se ce l'avete fatta voi, possono farcela anche i vostri figli. Non dico che sia giusto, tecnicamente non lo è: però nella società degli uomini la giustizia è un punto di arrivo, non un diritto acquisito.
mercoledì 4 novembre 2009
Croce e delizia
Il Calvario quotidiano
Io un crocefisso l'ho già tolto.
Due settimane fa, nell'intervallo. Stavo dando un'occhiata ai traffici loschi in zona distributore di merendine, quando vengono in due a dirmi che in Seconda è caduto Gesù. Mi reco immediatamente sul luogo del misfatto e interrogo i testimoni oculari. Chi è stato? Silenzio. Proiettili, elastici, palline di carta? Negano tutti, del resto non mi pare l'abbiano mai considerato un bersaglio; hanno una certa soggezione. Forse una vibrazione del pavimento, qualcuno che saltella o che va a sbattere contro la parete, una porta chiusa di scatto: sia come sia, sembra caduto da solo. Ne traggo auspici non buoni.
Ma in quanto insegnante ostento razionalità e pragmatismo. Do un'occhiata al Cristo in questione: è caduto per l'ultima volta. Frattura completa del polso sinistro, il destro era già partito mesi fa. O anni fa. Anche il chiodino sotto i piedi è sparito da molto. A questo punto mi spiace, ma finché qualcuno (chi?) non stanzia nuovi fondi, il crocefisso se ne resta nel cassetto in fondo.
Oggi l'ho rivisto in corridoio, però a grandezza naturale. Sanguinava copioso. Subito ho pensato a una rissa in IIC, poi mi sono accorto della corona di spine e della croce che portava in spalla, quindi, insomma, era Lui.
“Domine, quo vadis?”
“E non parlare latino, che tu sappia io ho mai saputo il latino?”
“No, che io sappia no”.
“Mi dà anche un po' ai nervi”.
“In effetti è comprensibile. Ma insomma, Signore, dove vai?”
“Dove vado, dove vuoi che vada. A farmi crocifiggere un'altra volta, vado”.
“Ma no, dai, Maestro...”
“...visto che la prima non è bastata”.
“Non te la prendere, ti prego. A scuola succede, le cose cadono, si rompono... ho dovuto metterti nel cassetto, ma ti giuro che...”
“Ma non ce l'ho con te, cosa c'entri te. Sei anche tu un povero cristo”.
“Grazie, Maestro”.
“Ce l'ho con i farisei, per prima cosa”.
“Aaah, i farisei”.
“Hai capito, no?”
“Beh, magari un aiutino...”
“Quelli che mi hanno preso per un simbolo della cultura, della tradizione. Una bandierina, praticamente. Aho', ma stiamo a scherzare?”
“Però anche la tradizione ha la sua importanza...”
“Cioè secondo voi io mi sono fatto inchiodare mani e piedi per rappresentare una tradizione? Cioè, siamo a questo? Babbo Natale, la Befana e Cristo in Croce? Magari vi aspettate che vi porti anche i regali?”
“Ma no, non dico questo, però...”
“Però niente. Li vedi questi chiodi qua? Li vedi?”
“Ehm, sì”.
“Sono autentici, va bene? Non sono un simbolo, sono una rappresentazione realistica. Duemila anni fa i ribelli li uccidevano così. Li esponevano su un trespolo finché non morivano soffocati. Perché fossero da esempio. Tutto molto razionale, ma anche molto teatrale, ma anche violentissimo, Dio Me! Io rappresento questo, va bene? Rappresento un supplizio capitale! Rappresento la crudeltà dell'uomo e la ribellione dell'uomo! Rappresento la Morte! Rappresento il...”
“Ehm, Maestro... forse sarebbe meglio abbassare un po' la voce”.
“Il Martirio!”
“Ssssssssssssh!”
“Cos'è, hai paura?”
“Maestro, in effetti sì. Siamo nel 2009, è pieno di bambini musulmani qui, e quella parola...”
“Quella parola è italiana, ha radici nel latino che ti piace tanto, è il fondamento della tua cosiddetta tradizione, sepolcro imbiancato che non sei altro”.
“Sì, sì, Maestro, è vero... d'altronde...”
“D'altronde?”
“Non puoi negare che suoni po', come dire... scandalosa”.
“E che m'interessa a me? Guarda che io non sono mica un santone indiano peace and love! Io non sono venuto a portare la pace, ma la spada”.
“Matteo Dieci Trentaquattro”.
“Appunto. Io sono lo Scandalo! Sono pornografia, non so se è chiaro! Un uomo trafitto da chiodi che grida dai vostri muri, che chiama al combattimento per la salvezza! Io sono questo, mica l'albero di Natale”.
“Ecco, Maestro, in effetti, se mi ci fai pensare, sì. Tu sei molto scandaloso. Molto più di quanto io quotidianamente possa sopportare”.
“Tuo problema, non mio”.
“Però succede un po' come con tutti gli spettacoli disgustosi... all'inizio non riesci a guardarli, ma se ti abitui a darci un'occhiata tutti i giorni, dopo un po' non ci fai più caso... diventi parte di uno sfondo familiare”.
“Ah, dici che è così? Va bene, allora toglietemi immediatamente”.
“Ma poi i Vescovi...”
“Tiratemi fuori solo ogni tanto, quando i fedeli meno se lo aspettano. Io non voglio passare sullo sfondo, io voglio spaventarvi”.
“Se la metti così...”
“E aggiungo una cosa. È proprio sulla mia consistenza di carne e sangue e ossa e chiodi che è fondato il realismo europeo, è chiaro? Se avete avuto Giotto Caravaggio e Mapplethorpe lo dovete solo a me! Esclusivamente a me!”
“Adesso, Mapplethorpe...”
“Adesso niente. Rileggiti Auerbach. Che se era per gli ebrei o per Maometto, con le loro menate filosofiche sulla non rappresentabilità del divino, a quest'ora eravate ancora lì a eccitarvi sui triangoli e gli ottagoni. Dario Argento deve tutto a me. Che dico. Tinto Brass...”
“Piano, Gesù, piano!”
“E adesso salta fuori che sono solo una tradizione. Il mandolino è una tradizione. La pizza è una tradizione. Appendete i mandolini e non rompete, io sono Gesù Cristo morto in croce, non ci credi?, vuoi toccare?”
“No, no, no, mi fido”.
“No, ma guarda, tocca”.
“Maestro, sul serio, io...”
“No, tu adesso tocchi. Il cristianesimo si tocca, va bene? Non è una menata filosofica: è carne e sangue, pane e vino. E i farisei lo sai che fine fanno. Finiscono in vomito”.
“Apocalisse Tre Quindici”.
“Precisamente. E poi ce l'ho anche coi Sadducei”.
“I sadducei”.
“Hai capito, no?”
“Ehm”.
“Ma perché perdo tempo con te. Matteo Ventidue Ventitré”.
“Quelli che non credono nella resurrezione”.
“Ecco. Non ci vogliono credere? Va bene. Che problema c'è? Nessun problema. Voi non ci credete, io non vi risorgo. Non esisto nemmeno, per voi. Facciamo che sono un pezzo di legno”.
“Quindi?”
“Quindi cos'è questa storia che mi denunciate a Strasburgo? Cosa posso aver fatto, se sono un pezzo di legno?”
“Dunque, se ho ben capito la sentenza, la tua presenza sul muro, in quanto pezzo di legno... impedirebbe ai loro figli di crescere secondo i principi dei genitori”.
“Vabbè, siamo alle comiche. Ma che principi hanno questi genitori, si può sapere?”
“Beh, presumo che si tratti dell'illuminismo, del razionalismo...”
“Non conosco, ma dev'essere un pensiero molto debole, se si cancella appena fissi un pezzo di legno. Cos'è, sono un totem, adesso? Se mi fissi ti faccio dimenticare la lezione? Mi volto un attimo e mi tornate all'età della pietra?”
“Maestro, ci vuole tolleranza...”
“Ma tolleranza di che. È come quelli che si sbattezzano. In teoria non credono nel battesimo. In pratica però hanno paura di restare segnati per sempre da uno schizzo d'acqua. Va bene, allora a questo punto chiamiamo Wanna Marchi che vi fa le carte e vi vende i numeri del lotto, a proposito, di che segno sei?”
“Maestro, ci vuole rispetto...”.
“Che poi, spiegami. Il genitore ha il diritto che il figlio sia educato secondo i suoi principi? Non suona un po' totalitario? E quindi ti cresci un piccolo a tua immagine e somiglianza, che creda solamente nelle cose in cui credi in te, e poi la prima volta che lo lasci libero nel mondo, lui vede due legnetti appesi al muro che non corrispondono al suo sistema di credenze e va in confusione? Corte dei diritti dell'uomo, intervieni immediatamente! Il pezzetto di legno sta fissando il mio bambino! Ma come li tirate su questi ragazzi?”
“Facciamo quel che possiamo”.
“Il mondo è pieno di cose. Per dire, ci sono i semafori e non sempre segnano verde. I bambini lo devono sapere. Ci sono persone nel parco che offrono caramelle e non sono tutti buoni. Poi ci sono i pezzetti di legno e non tutti corrispondono alle cose a cui crede mamma o papà. Vogliamo abolirli a scuola? E quando li incontreranno nella vita, come si comporteranno?”
“Quindi Maestro, in conclusione, dobbiamo riappenderti o no?”
“Ma fate quel che vi pare, tanto comunque sia non avete capito. Mi sembra tutto così poco serio. Il fariseo che mi pianta come una bandierina, il sadduceo che vede la bandierina e si sente leso nei suoi diritti umani, è l'umanità? Sembra un pollaio. Non ci sono cose più serie? A scuola, poi. Che io nelle scuole ci vado, lo so quali sono i veri problemi”.
“Eh, immagino”.
“No, non puoi neanche immaginare, fidati. Sai quante non sono a norma? Sai quante non rispettano la 626? Sai quanto costerebbe metterle tutte in sicurezza?”
“Ecco, Maestro, questi sono effettivamente problemi seri...”
“Sai che mancano i sostegni? I corsi di recupero? Sai che la scuola assomiglia sempre meno un luogo educativo e sempre più a una casa di detenzione? Parliamo di questo!”
“No, Maestro, appunto. Proprio perché sono problemi seri, è meglio non parlarne”.
“E perché?”
“Perché, perché... perché a parlarne non si risolvono, e allora ci si deprime soltanto. Siamo in crisi, tutti vorrebbero scuole più belle, ma votano il primo che gli promette una tassa in meno, quindi...”
“Vi consolate chiacchierando di bandierine”.
“Sì. I problemi veri sono deprimenti. I problemi identitari invece, come dire, sono sexy. Tutti possono dire la loro senza impegno... ieri le bandierine, domani i dialetti...”
“Oggi i Cristi in croce...”
“Maestro, sì. Ma non devi prendertela”.
“No, no, non me la prendo. Adesso però vado. Mi aspettano in sala mensa”.
Io un crocefisso l'ho già tolto.
Due settimane fa, nell'intervallo. Stavo dando un'occhiata ai traffici loschi in zona distributore di merendine, quando vengono in due a dirmi che in Seconda è caduto Gesù. Mi reco immediatamente sul luogo del misfatto e interrogo i testimoni oculari. Chi è stato? Silenzio. Proiettili, elastici, palline di carta? Negano tutti, del resto non mi pare l'abbiano mai considerato un bersaglio; hanno una certa soggezione. Forse una vibrazione del pavimento, qualcuno che saltella o che va a sbattere contro la parete, una porta chiusa di scatto: sia come sia, sembra caduto da solo. Ne traggo auspici non buoni.
Ma in quanto insegnante ostento razionalità e pragmatismo. Do un'occhiata al Cristo in questione: è caduto per l'ultima volta. Frattura completa del polso sinistro, il destro era già partito mesi fa. O anni fa. Anche il chiodino sotto i piedi è sparito da molto. A questo punto mi spiace, ma finché qualcuno (chi?) non stanzia nuovi fondi, il crocefisso se ne resta nel cassetto in fondo.
Oggi l'ho rivisto in corridoio, però a grandezza naturale. Sanguinava copioso. Subito ho pensato a una rissa in IIC, poi mi sono accorto della corona di spine e della croce che portava in spalla, quindi, insomma, era Lui.
“Domine, quo vadis?”
“E non parlare latino, che tu sappia io ho mai saputo il latino?”
“No, che io sappia no”.
“Mi dà anche un po' ai nervi”.
“In effetti è comprensibile. Ma insomma, Signore, dove vai?”
“Dove vado, dove vuoi che vada. A farmi crocifiggere un'altra volta, vado”.
“Ma no, dai, Maestro...”
“...visto che la prima non è bastata”.
“Non te la prendere, ti prego. A scuola succede, le cose cadono, si rompono... ho dovuto metterti nel cassetto, ma ti giuro che...”
“Ma non ce l'ho con te, cosa c'entri te. Sei anche tu un povero cristo”.
“Grazie, Maestro”.
“Ce l'ho con i farisei, per prima cosa”.
“Aaah, i farisei”.
“Hai capito, no?”
“Beh, magari un aiutino...”
“Quelli che mi hanno preso per un simbolo della cultura, della tradizione. Una bandierina, praticamente. Aho', ma stiamo a scherzare?”
“Però anche la tradizione ha la sua importanza...”
“Cioè secondo voi io mi sono fatto inchiodare mani e piedi per rappresentare una tradizione? Cioè, siamo a questo? Babbo Natale, la Befana e Cristo in Croce? Magari vi aspettate che vi porti anche i regali?”
“Ma no, non dico questo, però...”
“Però niente. Li vedi questi chiodi qua? Li vedi?”
“Ehm, sì”.
“Sono autentici, va bene? Non sono un simbolo, sono una rappresentazione realistica. Duemila anni fa i ribelli li uccidevano così. Li esponevano su un trespolo finché non morivano soffocati. Perché fossero da esempio. Tutto molto razionale, ma anche molto teatrale, ma anche violentissimo, Dio Me! Io rappresento questo, va bene? Rappresento un supplizio capitale! Rappresento la crudeltà dell'uomo e la ribellione dell'uomo! Rappresento la Morte! Rappresento il...”
“Ehm, Maestro... forse sarebbe meglio abbassare un po' la voce”.
“Il Martirio!”
“Ssssssssssssh!”
“Cos'è, hai paura?”
“Maestro, in effetti sì. Siamo nel 2009, è pieno di bambini musulmani qui, e quella parola...”
“Quella parola è italiana, ha radici nel latino che ti piace tanto, è il fondamento della tua cosiddetta tradizione, sepolcro imbiancato che non sei altro”.
“Sì, sì, Maestro, è vero... d'altronde...”
“D'altronde?”
“Non puoi negare che suoni po', come dire... scandalosa”.
“E che m'interessa a me? Guarda che io non sono mica un santone indiano peace and love! Io non sono venuto a portare la pace, ma la spada”.
“Matteo Dieci Trentaquattro”.
“Appunto. Io sono lo Scandalo! Sono pornografia, non so se è chiaro! Un uomo trafitto da chiodi che grida dai vostri muri, che chiama al combattimento per la salvezza! Io sono questo, mica l'albero di Natale”.
“Ecco, Maestro, in effetti, se mi ci fai pensare, sì. Tu sei molto scandaloso. Molto più di quanto io quotidianamente possa sopportare”.
“Tuo problema, non mio”.
“Però succede un po' come con tutti gli spettacoli disgustosi... all'inizio non riesci a guardarli, ma se ti abitui a darci un'occhiata tutti i giorni, dopo un po' non ci fai più caso... diventi parte di uno sfondo familiare”.
“Ah, dici che è così? Va bene, allora toglietemi immediatamente”.
“Ma poi i Vescovi...”
“Tiratemi fuori solo ogni tanto, quando i fedeli meno se lo aspettano. Io non voglio passare sullo sfondo, io voglio spaventarvi”.
“Se la metti così...”
“E aggiungo una cosa. È proprio sulla mia consistenza di carne e sangue e ossa e chiodi che è fondato il realismo europeo, è chiaro? Se avete avuto Giotto Caravaggio e Mapplethorpe lo dovete solo a me! Esclusivamente a me!”
“Adesso, Mapplethorpe...”
“Adesso niente. Rileggiti Auerbach. Che se era per gli ebrei o per Maometto, con le loro menate filosofiche sulla non rappresentabilità del divino, a quest'ora eravate ancora lì a eccitarvi sui triangoli e gli ottagoni. Dario Argento deve tutto a me. Che dico. Tinto Brass...”
“Piano, Gesù, piano!”
“E adesso salta fuori che sono solo una tradizione. Il mandolino è una tradizione. La pizza è una tradizione. Appendete i mandolini e non rompete, io sono Gesù Cristo morto in croce, non ci credi?, vuoi toccare?”
“No, no, no, mi fido”.
“No, ma guarda, tocca”.
“Maestro, sul serio, io...”
“No, tu adesso tocchi. Il cristianesimo si tocca, va bene? Non è una menata filosofica: è carne e sangue, pane e vino. E i farisei lo sai che fine fanno. Finiscono in vomito”.
“Apocalisse Tre Quindici”.
“Precisamente. E poi ce l'ho anche coi Sadducei”.
“I sadducei”.
“Hai capito, no?”
“Ehm”.
“Ma perché perdo tempo con te. Matteo Ventidue Ventitré”.
“Quelli che non credono nella resurrezione”.
“Ecco. Non ci vogliono credere? Va bene. Che problema c'è? Nessun problema. Voi non ci credete, io non vi risorgo. Non esisto nemmeno, per voi. Facciamo che sono un pezzo di legno”.
“Quindi?”
“Quindi cos'è questa storia che mi denunciate a Strasburgo? Cosa posso aver fatto, se sono un pezzo di legno?”
“Dunque, se ho ben capito la sentenza, la tua presenza sul muro, in quanto pezzo di legno... impedirebbe ai loro figli di crescere secondo i principi dei genitori”.
“Vabbè, siamo alle comiche. Ma che principi hanno questi genitori, si può sapere?”
“Beh, presumo che si tratti dell'illuminismo, del razionalismo...”
“Non conosco, ma dev'essere un pensiero molto debole, se si cancella appena fissi un pezzo di legno. Cos'è, sono un totem, adesso? Se mi fissi ti faccio dimenticare la lezione? Mi volto un attimo e mi tornate all'età della pietra?”
“Maestro, ci vuole tolleranza...”
“Ma tolleranza di che. È come quelli che si sbattezzano. In teoria non credono nel battesimo. In pratica però hanno paura di restare segnati per sempre da uno schizzo d'acqua. Va bene, allora a questo punto chiamiamo Wanna Marchi che vi fa le carte e vi vende i numeri del lotto, a proposito, di che segno sei?”
“Maestro, ci vuole rispetto...”.
“Che poi, spiegami. Il genitore ha il diritto che il figlio sia educato secondo i suoi principi? Non suona un po' totalitario? E quindi ti cresci un piccolo a tua immagine e somiglianza, che creda solamente nelle cose in cui credi in te, e poi la prima volta che lo lasci libero nel mondo, lui vede due legnetti appesi al muro che non corrispondono al suo sistema di credenze e va in confusione? Corte dei diritti dell'uomo, intervieni immediatamente! Il pezzetto di legno sta fissando il mio bambino! Ma come li tirate su questi ragazzi?”
“Facciamo quel che possiamo”.
“Il mondo è pieno di cose. Per dire, ci sono i semafori e non sempre segnano verde. I bambini lo devono sapere. Ci sono persone nel parco che offrono caramelle e non sono tutti buoni. Poi ci sono i pezzetti di legno e non tutti corrispondono alle cose a cui crede mamma o papà. Vogliamo abolirli a scuola? E quando li incontreranno nella vita, come si comporteranno?”
“Quindi Maestro, in conclusione, dobbiamo riappenderti o no?”
“Ma fate quel che vi pare, tanto comunque sia non avete capito. Mi sembra tutto così poco serio. Il fariseo che mi pianta come una bandierina, il sadduceo che vede la bandierina e si sente leso nei suoi diritti umani, è l'umanità? Sembra un pollaio. Non ci sono cose più serie? A scuola, poi. Che io nelle scuole ci vado, lo so quali sono i veri problemi”.
“Eh, immagino”.
“No, non puoi neanche immaginare, fidati. Sai quante non sono a norma? Sai quante non rispettano la 626? Sai quanto costerebbe metterle tutte in sicurezza?”
“Ecco, Maestro, questi sono effettivamente problemi seri...”
“Sai che mancano i sostegni? I corsi di recupero? Sai che la scuola assomiglia sempre meno un luogo educativo e sempre più a una casa di detenzione? Parliamo di questo!”
“No, Maestro, appunto. Proprio perché sono problemi seri, è meglio non parlarne”.
“E perché?”
“Perché, perché... perché a parlarne non si risolvono, e allora ci si deprime soltanto. Siamo in crisi, tutti vorrebbero scuole più belle, ma votano il primo che gli promette una tassa in meno, quindi...”
“Vi consolate chiacchierando di bandierine”.
“Sì. I problemi veri sono deprimenti. I problemi identitari invece, come dire, sono sexy. Tutti possono dire la loro senza impegno... ieri le bandierine, domani i dialetti...”
“Oggi i Cristi in croce...”
“Maestro, sì. Ma non devi prendertela”.
“No, no, non me la prendo. Adesso però vado. Mi aspettano in sala mensa”.
lunedì 2 novembre 2009
2onorevoli 1blogger
Un giorno alla Rai
Sono stati tutti molto gentili.
Mi mandano un'auto alla stazione, non la trovo, allora mi pagano un taxi; mi offrono un lauto pranzo alla mensa Rai, in un momento in cui grazie al cielo non c'è folla (sono già passati i “lanzichenecchi”, quelli della Prova del Cuoco). Senza che io glielo domandi (e forse ne avrei avuto pudore) mi regalano anche il classico giro degli studios: la Prova del Cuoco no, pare che l'odore alla fine della trasmissione sia insostenibile, ma quello dello spezzone domenicale di Baudo, indovinate un po': in tv sembrava più grande. L'arena di Annozero mette perfino ansia, è piccolina e a fari accesi tutta grigia.
Fanno di tutto per farmi sentire a mio agio. Io faccio di tutto per sembrare a mio agio. Non sono a mio agio.
Devo parlare in televisione. Mal che vada nessuno se ne accorgerà; è un programma che va all'una di notte.
Rappresento, me lo dicono, tutti gli insegnanti anche più sfigati di me che non hanno mai voce in capitolo. Stavolta in teoria la voce ce l'ho, un cinque minuti su mezz'ora di trasmissione forse mi spettano, ma se m'incanto? Se m'impapero? Se mi sbaglio?
Non la persona più telegenica al mondo: allo stesso tempo credo di potermela giocare. Come oratore sono un po' incostante: so cavarmela, a volte regalo persino, ma ho bisogno di scaldarmi un po'. Non ci sarà tempo per scaldarsi: 40 minuti e sarà tutto finito. Se fossi in un'aula, davanti ai ragazzini, potrei dare il massimo. Ma non ci sono ragazzini qui: sono seduto tra l'Onorevole Aprea e la Senatrice Garavaglia.
L'On. Aprea me la sono studiata.
È la firmataria di una proposta di legge che, sepolta da qualche parte tra Palazzo Madama e Montecitorio, a tempo debito farà esplodere la scuola pubblica italiana. L'ho letta. In pratica ci si propone di trasformare le scuole in fondazioni. Le fondazioni ovviamente saranno libere di finanziarsi a modo loro. Questo tipo di scuole una quota del 30% di stranieri non avrà nemmeno bisogno di fissarla. Ecco una domanda che vorrei farle, ma ne avrò il tempo? Le domande mica devo farle io. Mi dicono di sì, che posso interrompere, se ho qualcosa di concreto. L'idea è che io rappresento la scuola concreta, contro gli alti papaveri. Però io so che l'On. Aprea è stata dirigente scolastica a Rozzano, mica Cambridge. Va a finire che è un mastino, l'On. Aprea. Non devo farmi intimorire, ma in realtà sono già intimorito. Se mi blocco, se faccio una papera, è tutto il corpo docente che s'impapera con me.
La Garavaglia è una sorpresa, lo scopro un paio d'ore prima di andare in onda. Appena penso a lei mi torna in mente un pezzo che le ho dedicato, in cui le proponevo di bruciare nottetempo le scuole cattoliche. La Garavaglia è del '47, potrebbe essere mia madre. Ecco un altro problema. Queste persone importanti, che masticano legislatura mentre io faccio fatica a tenere un registro, sono anche due signore. Queste due signore hanno anche una certa età. Possono anche essere il Nemico, se ci rifletto io so che sono il Nemico, però oggettivamente sono seduto tra due signore di una certa età. Devo interromperle? Essere sgarbato? Io, quando La Russa interrompe le signore in tv, gli tirerei le orecchie. Non voglio finire così. Nemmeno voglio fare tappezzeria.
Non ho neanche il tempo di pensarci che siamo già seduti. Cerco di tenere la schiena dritta – mi sento una scopa in c. - non devo voltare la testa – mentre ci penso la sto già voltando. Le due signore sono molto più tranquille, e poi si conoscono. Hanno fretta, ché c'è un aereo da prendere; da quel che ho capito lo prenderanno insieme. Ci sarà un convegno da qualche parte. Il dialogo seguente ovviamente è di fantasia.
ONOREVOLE: “Che bella spilla, a forma di farfalla”.
SENATRICE: “Vero? È stato mio marito a iniziare a regalarmele, quando ho finito il ministero... mi ha detto è una liberazione più per me che per te”.
ONOREVOLE: “Certo che le farfalline... in questo periodo”.
SENATRICE: “Eh, lo so... c'è un altro che le regala”.
È probabilmente la mia fantasia malata che mi fa immaginare due parlamentari d'opposta fazione intente a ironizzare sui cadeaux del Presidente del Consiglio. Ma insomma, le due signore vanno d'amore e d'accordo. Lodano le trasmissioni di RaiEdu, si lamentano perché vanno sempre in onda troppo tardi, “dovremmo fare qualcosa”. Io annuisco, vorrei essere gentile e allo stesso tempo so che se sarò troppo gentile poi non riuscirò più a essere cattivo.
ONOREVOLE: “Quant'è riposante l'orologio Rai, vero?”
LEONARDO: “Eh?”
In effetti oltre la scenografia c'è un monitor in bianco e nero, con l'orologio in grafica anni '80 che manda l'ora esatta dell'Istituto G. Ferraris.
LEO: “Ma già, è vero... è da tanti anni che non lo vedo...”
ON: “Mi dà pace... è un po' come...”
LEO: “Le pecore”.
ON: “Le pecore, è vero, che bello che era l'Intervallo di una volta”.
Mi sento un uomo all'incrocio dei mondi, delle generazioni. Quanti come me conoscono Fabri Fibra e la Toccata In La Per Arpa Sola di Pier Domenico Paradisi, soundtrack immortale dell'Intervallo Con Le Pecore. Tra qualche anno, se il generational divide va avanti così, mi faranno fare l'interprete ufficiale: il rappresentante dei teenager chiede qualcosa (“le bottigliette d'acqua della macchinetta sono troppo piccole per farsi”, Leonardo traduce, il rappresentante degli adulti risponde “ma se introducessimo bottiglie da 1500 ml. voi potreste usarle come corpi contundenti”, Leonardo traduce).
È cominciata la trasmissione. Le immagini di Luzzara mi fanno sentire a casa, anche se io a Luzzara non ci sono mai stato; però i miei studenti hanno quel colore lì, gli indiani hanno quel buffo codino in cima alla testa, coperto con un fazzoletto, e lineamenti gentili che a volte ci fanno prendere maschi per femmine.
Mentre la conduttrice, Valeria Coiante, chiede qualcosa alle signore, io comincio a friggere. Per quanto equilibrato, il filmato suggerisce l'idea che il futuro di Luzzara sia indù. Non è così: i bambini italiani ci sono. Ma si sono iscritti alla scuola parrocchiale, che di alunni stranieri ne ha accettati soltanto otto. Per me l'ingiustizia è tutta qui: fissare delle quote nelle scuole pubbliche e lasciare che le scuole private accettino solo chi vogliono. In fondo è l'unica cosa che devo dire: poi posso anche tornarmene a casa.
Tocca a me. Stabilisco un punto: io gli stranieri in classe ormai non li conto più, perché cosa vuole dire “straniero”? Ce ne sono di perfettamente integrati, più di altri italiani. Dietro di me ho un foglietto ripiegato, il tema di un mio studente, che dice le stesse cose. Potrei tirarlo fuori, ma mi sembra troppo presto. Ovviamente l'occasione non si ripeterà.
Comunque, se proprio devo contarli, ne ho parecchi. Sono fuori quota: ma nella mia stessa scuola ci sono classi che quasi non ne hanno. Qui però la Garavaglia si intromette, ha già capito come stanno le cose: è colpa del Preside. Io metto chilometri di mani avanti, primo perché non voglio litigare col mio Preside; secondo perché non è vero che è colpa sua: è il Piano dell'Offerta Formativa, è la possibilità che hanno i genitori di scegliere le classi ai loro frugoletti... ma nel momento in cui getto sul piatto della discussione le parole “Piano dell'Offerta Formativa”, il ritmo sprofonda, e perdo la parola.
Domanda a bruciapelo: gli stranieri rallentano o no? Dico di sì, inutile essere ipocriti, e poi cerco di recuperare. Le classi dove va la maggior parte degli stranieri sono le classi meno ambite, vale a dire quelle dove si concentrano anche gli studenti italiani delle famiglie più... mi viene la parola “sfigate” ma non posso dirla. E allora fornisco questa garbata perifrasi: “anche gli italiani sono... italiani che... possono provenire da situazioni... non semplici”. Peggiore eufemismo 2009.
A questo punto sono carne per la Garavaglia. Che regala un bel quadretto anni Sessanta, quando il Preside metteva gli insegnanti bravi nel corso A, quelli meno bravi nel B, i supplenti nel C... io dico no, scrollo la testa, ma è inutile. La palla passa all'Aprea, che comincia a spiegare la necessità di mettere una quota al 30%. E a quel punto io la interrompo, sì: mando al diavolo la nostra solidarietà di antichi ammiratori di pecorelle Rai e miro al mio obbiettivo. Non so se faccio centro, ma non devo essere arrivato lontano. In sostanza dico questo: quote 30%? Va bene, ma anche nelle scuole paritarie. E qui la Garavaglia interviene di nuovo: non si può, finché le paritarie non saranno finanziate come le pubbliche. Ma qui è lei che s'accartoccia un po', la risposta non è convincente (anche perché tratteggia, senza volere, una rivoluzione: soldi a tutte le scuole, private o no).
Un altro filmato, stavolta su Bolzano. Nella penombra del fuori-onda, concordiamo in tre che Bolzano non è proprio la realtà più significativa. Poi gli insegnanti bolzanini cominciano a dire qualche strafalcione, e la Garavaglia s'adonta. Lo farà anche notare in onda.
Riparte il dibattito. Mi chiedono cosa penso delle classi Ponte. Io, ma qui è colpa mia, rallento la discussione. Pauso troppo. Dico che le classi ponte andrebbero bene in certi casi: ma dove sono tutti questi casi? Dove sono tutti questi paesini col 90% di studenti stranieri? Prendi quello del primo filmato, Luzzara: non è vero che ci sono solo studenti stranieri; c'è una scuola del parroco che ha scelto di non prenderli. Ci sono regole che valgono solo per lo Stato e non per i dirigenti di scuole paritarie. È fatta, l'ho detto. Spero di averlo detto bene, ma credo di sì. Posso anche andare a casa.
La discussione però prende una piaga curiosa: la Garavaglia, che prima aveva dato tutta la colpa ai presidi, ha capito che la colpa è dei genitori. Così, ha cambiato idea in cinque minuti: dai presidi generatori di apartheid ai genitori xenofobi. Mi tocca intervenire (scusandomi, e promettendo di non interrompere più) in difesa dei poveracci che a settembre non conoscono ancora i compagni dei loro figli, ma leggono solo uno strano cognome sull'appello: non è nulla di clamoroso, la xenofobia, è la paura dell'ignoto. Ma ho capito che la Garavaglia è una così: è una che ti fa la morale. I presidi non dovrebbero fare certe classi, i bolzanini dovrebbero parlare un italiano perfetto, i genitori non dovrebbero avere paura dell'ignoto. La Garavaglia giudica il mondo per quello che dovrebbe essere; e se non è così si lamenta dei suoi stessi elettori. Per carità, anch'io vorrei migliorare un po' il mondo che mi trovo attorno, però prima devo capire perché funziona in un certo modo; non è che appena le cose non vanno secondo il mio modello mi metto a fare la morale. Se lei fosse di sinistra direi che la sinistra perde anche per questo motivo. Ma preferisco dire che è per questo motivo che vince la destra, anche senza dire niente. In effetti l'Aprea dice poco o nulla. In mezzo a quel poco o nulla c'è anche una garbata autocritica al governo, ma garbata garbata, all'una di notte, non se ne accorgerà nessuno. In compenso l'Aprea non chiede all'italiano medio di non aver paura dell'unheimliche, che è un po' come chiedere alla zanzara di non pungere, o al mandrillo di non copulare, o a Berlusconi di non fare il mandrillo.
In un attimo è già finita. “Siamo andati bene, no?” mi chiedono le signore. Dicono “andati”, quindi parlano anche di me. “Abbiamo detto quel che c'è da dire”. Io addirittura chiedo scusa all'Onorevole per averla interrotta, lei sorride, anzi ho fatto bene, dice, in televisione serve a dare vivacità. Si avviano all'uscita, praticamente a braccetto. Io chiedo un po' in giro, com'è andata? Dicono tutti: bene. Anche a me sembra così. Le due cose che mi premeva dire le ho dette. Peccato per il tema che non ho letto, d'altronde... telefono a casa: dai, è andata bene. Posso avvertire tutti. Lo scrivo su Facebook, lo metto sul blog.
Venerdì notte, mentre aspetto che cominci il programma, do un'occhiata alla posta. C'è Valeria in persona che mi scrive. Ahi. Mi dice che avevamo sforato di 8 minuti, e che hanno tagliato tutti in parti uguali. Ahi ahi.
Comincio a guardare. Uf. La solita schiena storta, il solito accento, gli occhi che ballano, gli ehm eccessivi. Vabbè, dovevo scaldarmi. Vedrai che quando interrompo l'Aprea...
Non la interrompo più. Manca anche il punto dove tiro in ballo la scuola parrocchiale di Luzzara. In pratica, mancano le uniche due cose che mi sembrava di aver detto bene. Chissà se poi le avevo dette così bene. Ora faccio la figura del professorino tanto calmo che, l'unica volta che s'intromette, chiede persino scusa: quello che non accusa i presidi, non se la prende coi genitori, gli vanno bene le classi ponte e le quote... insomma: fatemi di tutto.
Avrà ragione Valeria, dovevo essere più diretto. Qualcosa tipo: voi volete che i ricchi vadano alle private e gli sfigati alla pubblica. Invece io insisto sempre per ficcare della complessità dappertutto.
In tv, con cinque minuti, non è il caso. La trasmissione è andata bene, ottimi ascolti rispetto alla media.
Sarà. Alla fine quello che mi lascia l'amaro in bocca è la performance. Non è stata una frana, ma io potevo essere più bravo di così. Comunicare fa parte del mio mestiere, sono convinto di saperlo fare meglio. Avrei dovuto prepararmi – ma no, mi ero preparato, ma non nel modo giusto. Negli uffici, per concentrarmi, recitavo l'articolo 3 a memoria: hai visto mai che mi servisse al volo ("È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli...") Non è servito.
Ringrazio ancora tutta la redazione; quelli che hanno aspettato l'una di notte e quelli che hanno provato a guardarla oggi. Meritavate tutti di meglio.
La trasmissione è qui. Chiudo i commenti, così andate a commentarla laggiù.
Sono stati tutti molto gentili.
Mi mandano un'auto alla stazione, non la trovo, allora mi pagano un taxi; mi offrono un lauto pranzo alla mensa Rai, in un momento in cui grazie al cielo non c'è folla (sono già passati i “lanzichenecchi”, quelli della Prova del Cuoco). Senza che io glielo domandi (e forse ne avrei avuto pudore) mi regalano anche il classico giro degli studios: la Prova del Cuoco no, pare che l'odore alla fine della trasmissione sia insostenibile, ma quello dello spezzone domenicale di Baudo, indovinate un po': in tv sembrava più grande. L'arena di Annozero mette perfino ansia, è piccolina e a fari accesi tutta grigia.
Fanno di tutto per farmi sentire a mio agio. Io faccio di tutto per sembrare a mio agio. Non sono a mio agio.
Devo parlare in televisione. Mal che vada nessuno se ne accorgerà; è un programma che va all'una di notte.
Rappresento, me lo dicono, tutti gli insegnanti anche più sfigati di me che non hanno mai voce in capitolo. Stavolta in teoria la voce ce l'ho, un cinque minuti su mezz'ora di trasmissione forse mi spettano, ma se m'incanto? Se m'impapero? Se mi sbaglio?
Non la persona più telegenica al mondo: allo stesso tempo credo di potermela giocare. Come oratore sono un po' incostante: so cavarmela, a volte regalo persino, ma ho bisogno di scaldarmi un po'. Non ci sarà tempo per scaldarsi: 40 minuti e sarà tutto finito. Se fossi in un'aula, davanti ai ragazzini, potrei dare il massimo. Ma non ci sono ragazzini qui: sono seduto tra l'Onorevole Aprea e la Senatrice Garavaglia.
L'On. Aprea me la sono studiata.
È la firmataria di una proposta di legge che, sepolta da qualche parte tra Palazzo Madama e Montecitorio, a tempo debito farà esplodere la scuola pubblica italiana. L'ho letta. In pratica ci si propone di trasformare le scuole in fondazioni. Le fondazioni ovviamente saranno libere di finanziarsi a modo loro. Questo tipo di scuole una quota del 30% di stranieri non avrà nemmeno bisogno di fissarla. Ecco una domanda che vorrei farle, ma ne avrò il tempo? Le domande mica devo farle io. Mi dicono di sì, che posso interrompere, se ho qualcosa di concreto. L'idea è che io rappresento la scuola concreta, contro gli alti papaveri. Però io so che l'On. Aprea è stata dirigente scolastica a Rozzano, mica Cambridge. Va a finire che è un mastino, l'On. Aprea. Non devo farmi intimorire, ma in realtà sono già intimorito. Se mi blocco, se faccio una papera, è tutto il corpo docente che s'impapera con me.
La Garavaglia è una sorpresa, lo scopro un paio d'ore prima di andare in onda. Appena penso a lei mi torna in mente un pezzo che le ho dedicato, in cui le proponevo di bruciare nottetempo le scuole cattoliche. La Garavaglia è del '47, potrebbe essere mia madre. Ecco un altro problema. Queste persone importanti, che masticano legislatura mentre io faccio fatica a tenere un registro, sono anche due signore. Queste due signore hanno anche una certa età. Possono anche essere il Nemico, se ci rifletto io so che sono il Nemico, però oggettivamente sono seduto tra due signore di una certa età. Devo interromperle? Essere sgarbato? Io, quando La Russa interrompe le signore in tv, gli tirerei le orecchie. Non voglio finire così. Nemmeno voglio fare tappezzeria.
Non ho neanche il tempo di pensarci che siamo già seduti. Cerco di tenere la schiena dritta – mi sento una scopa in c. - non devo voltare la testa – mentre ci penso la sto già voltando. Le due signore sono molto più tranquille, e poi si conoscono. Hanno fretta, ché c'è un aereo da prendere; da quel che ho capito lo prenderanno insieme. Ci sarà un convegno da qualche parte. Il dialogo seguente ovviamente è di fantasia.
ONOREVOLE: “Che bella spilla, a forma di farfalla”.
SENATRICE: “Vero? È stato mio marito a iniziare a regalarmele, quando ho finito il ministero... mi ha detto è una liberazione più per me che per te”.
ONOREVOLE: “Certo che le farfalline... in questo periodo”.
SENATRICE: “Eh, lo so... c'è un altro che le regala”.
È probabilmente la mia fantasia malata che mi fa immaginare due parlamentari d'opposta fazione intente a ironizzare sui cadeaux del Presidente del Consiglio. Ma insomma, le due signore vanno d'amore e d'accordo. Lodano le trasmissioni di RaiEdu, si lamentano perché vanno sempre in onda troppo tardi, “dovremmo fare qualcosa”. Io annuisco, vorrei essere gentile e allo stesso tempo so che se sarò troppo gentile poi non riuscirò più a essere cattivo.
ONOREVOLE: “Quant'è riposante l'orologio Rai, vero?”
LEONARDO: “Eh?”
In effetti oltre la scenografia c'è un monitor in bianco e nero, con l'orologio in grafica anni '80 che manda l'ora esatta dell'Istituto G. Ferraris.
LEO: “Ma già, è vero... è da tanti anni che non lo vedo...”
ON: “Mi dà pace... è un po' come...”
LEO: “Le pecore”.
ON: “Le pecore, è vero, che bello che era l'Intervallo di una volta”.
Mi sento un uomo all'incrocio dei mondi, delle generazioni. Quanti come me conoscono Fabri Fibra e la Toccata In La Per Arpa Sola di Pier Domenico Paradisi, soundtrack immortale dell'Intervallo Con Le Pecore. Tra qualche anno, se il generational divide va avanti così, mi faranno fare l'interprete ufficiale: il rappresentante dei teenager chiede qualcosa (“le bottigliette d'acqua della macchinetta sono troppo piccole per farsi”, Leonardo traduce, il rappresentante degli adulti risponde “ma se introducessimo bottiglie da 1500 ml. voi potreste usarle come corpi contundenti”, Leonardo traduce).
È cominciata la trasmissione. Le immagini di Luzzara mi fanno sentire a casa, anche se io a Luzzara non ci sono mai stato; però i miei studenti hanno quel colore lì, gli indiani hanno quel buffo codino in cima alla testa, coperto con un fazzoletto, e lineamenti gentili che a volte ci fanno prendere maschi per femmine.
Mentre la conduttrice, Valeria Coiante, chiede qualcosa alle signore, io comincio a friggere. Per quanto equilibrato, il filmato suggerisce l'idea che il futuro di Luzzara sia indù. Non è così: i bambini italiani ci sono. Ma si sono iscritti alla scuola parrocchiale, che di alunni stranieri ne ha accettati soltanto otto. Per me l'ingiustizia è tutta qui: fissare delle quote nelle scuole pubbliche e lasciare che le scuole private accettino solo chi vogliono. In fondo è l'unica cosa che devo dire: poi posso anche tornarmene a casa.
Tocca a me. Stabilisco un punto: io gli stranieri in classe ormai non li conto più, perché cosa vuole dire “straniero”? Ce ne sono di perfettamente integrati, più di altri italiani. Dietro di me ho un foglietto ripiegato, il tema di un mio studente, che dice le stesse cose. Potrei tirarlo fuori, ma mi sembra troppo presto. Ovviamente l'occasione non si ripeterà.
Comunque, se proprio devo contarli, ne ho parecchi. Sono fuori quota: ma nella mia stessa scuola ci sono classi che quasi non ne hanno. Qui però la Garavaglia si intromette, ha già capito come stanno le cose: è colpa del Preside. Io metto chilometri di mani avanti, primo perché non voglio litigare col mio Preside; secondo perché non è vero che è colpa sua: è il Piano dell'Offerta Formativa, è la possibilità che hanno i genitori di scegliere le classi ai loro frugoletti... ma nel momento in cui getto sul piatto della discussione le parole “Piano dell'Offerta Formativa”, il ritmo sprofonda, e perdo la parola.
Domanda a bruciapelo: gli stranieri rallentano o no? Dico di sì, inutile essere ipocriti, e poi cerco di recuperare. Le classi dove va la maggior parte degli stranieri sono le classi meno ambite, vale a dire quelle dove si concentrano anche gli studenti italiani delle famiglie più... mi viene la parola “sfigate” ma non posso dirla. E allora fornisco questa garbata perifrasi: “anche gli italiani sono... italiani che... possono provenire da situazioni... non semplici”. Peggiore eufemismo 2009.
A questo punto sono carne per la Garavaglia. Che regala un bel quadretto anni Sessanta, quando il Preside metteva gli insegnanti bravi nel corso A, quelli meno bravi nel B, i supplenti nel C... io dico no, scrollo la testa, ma è inutile. La palla passa all'Aprea, che comincia a spiegare la necessità di mettere una quota al 30%. E a quel punto io la interrompo, sì: mando al diavolo la nostra solidarietà di antichi ammiratori di pecorelle Rai e miro al mio obbiettivo. Non so se faccio centro, ma non devo essere arrivato lontano. In sostanza dico questo: quote 30%? Va bene, ma anche nelle scuole paritarie. E qui la Garavaglia interviene di nuovo: non si può, finché le paritarie non saranno finanziate come le pubbliche. Ma qui è lei che s'accartoccia un po', la risposta non è convincente (anche perché tratteggia, senza volere, una rivoluzione: soldi a tutte le scuole, private o no).
Un altro filmato, stavolta su Bolzano. Nella penombra del fuori-onda, concordiamo in tre che Bolzano non è proprio la realtà più significativa. Poi gli insegnanti bolzanini cominciano a dire qualche strafalcione, e la Garavaglia s'adonta. Lo farà anche notare in onda.
Riparte il dibattito. Mi chiedono cosa penso delle classi Ponte. Io, ma qui è colpa mia, rallento la discussione. Pauso troppo. Dico che le classi ponte andrebbero bene in certi casi: ma dove sono tutti questi casi? Dove sono tutti questi paesini col 90% di studenti stranieri? Prendi quello del primo filmato, Luzzara: non è vero che ci sono solo studenti stranieri; c'è una scuola del parroco che ha scelto di non prenderli. Ci sono regole che valgono solo per lo Stato e non per i dirigenti di scuole paritarie. È fatta, l'ho detto. Spero di averlo detto bene, ma credo di sì. Posso anche andare a casa.
La discussione però prende una piaga curiosa: la Garavaglia, che prima aveva dato tutta la colpa ai presidi, ha capito che la colpa è dei genitori. Così, ha cambiato idea in cinque minuti: dai presidi generatori di apartheid ai genitori xenofobi. Mi tocca intervenire (scusandomi, e promettendo di non interrompere più) in difesa dei poveracci che a settembre non conoscono ancora i compagni dei loro figli, ma leggono solo uno strano cognome sull'appello: non è nulla di clamoroso, la xenofobia, è la paura dell'ignoto. Ma ho capito che la Garavaglia è una così: è una che ti fa la morale. I presidi non dovrebbero fare certe classi, i bolzanini dovrebbero parlare un italiano perfetto, i genitori non dovrebbero avere paura dell'ignoto. La Garavaglia giudica il mondo per quello che dovrebbe essere; e se non è così si lamenta dei suoi stessi elettori. Per carità, anch'io vorrei migliorare un po' il mondo che mi trovo attorno, però prima devo capire perché funziona in un certo modo; non è che appena le cose non vanno secondo il mio modello mi metto a fare la morale. Se lei fosse di sinistra direi che la sinistra perde anche per questo motivo. Ma preferisco dire che è per questo motivo che vince la destra, anche senza dire niente. In effetti l'Aprea dice poco o nulla. In mezzo a quel poco o nulla c'è anche una garbata autocritica al governo, ma garbata garbata, all'una di notte, non se ne accorgerà nessuno. In compenso l'Aprea non chiede all'italiano medio di non aver paura dell'unheimliche, che è un po' come chiedere alla zanzara di non pungere, o al mandrillo di non copulare, o a Berlusconi di non fare il mandrillo.
In un attimo è già finita. “Siamo andati bene, no?” mi chiedono le signore. Dicono “andati”, quindi parlano anche di me. “Abbiamo detto quel che c'è da dire”. Io addirittura chiedo scusa all'Onorevole per averla interrotta, lei sorride, anzi ho fatto bene, dice, in televisione serve a dare vivacità. Si avviano all'uscita, praticamente a braccetto. Io chiedo un po' in giro, com'è andata? Dicono tutti: bene. Anche a me sembra così. Le due cose che mi premeva dire le ho dette. Peccato per il tema che non ho letto, d'altronde... telefono a casa: dai, è andata bene. Posso avvertire tutti. Lo scrivo su Facebook, lo metto sul blog.
Venerdì notte, mentre aspetto che cominci il programma, do un'occhiata alla posta. C'è Valeria in persona che mi scrive. Ahi. Mi dice che avevamo sforato di 8 minuti, e che hanno tagliato tutti in parti uguali. Ahi ahi.
Comincio a guardare. Uf. La solita schiena storta, il solito accento, gli occhi che ballano, gli ehm eccessivi. Vabbè, dovevo scaldarmi. Vedrai che quando interrompo l'Aprea...
Non la interrompo più. Manca anche il punto dove tiro in ballo la scuola parrocchiale di Luzzara. In pratica, mancano le uniche due cose che mi sembrava di aver detto bene. Chissà se poi le avevo dette così bene. Ora faccio la figura del professorino tanto calmo che, l'unica volta che s'intromette, chiede persino scusa: quello che non accusa i presidi, non se la prende coi genitori, gli vanno bene le classi ponte e le quote... insomma: fatemi di tutto.
Avrà ragione Valeria, dovevo essere più diretto. Qualcosa tipo: voi volete che i ricchi vadano alle private e gli sfigati alla pubblica. Invece io insisto sempre per ficcare della complessità dappertutto.
In tv, con cinque minuti, non è il caso. La trasmissione è andata bene, ottimi ascolti rispetto alla media.
Sarà. Alla fine quello che mi lascia l'amaro in bocca è la performance. Non è stata una frana, ma io potevo essere più bravo di così. Comunicare fa parte del mio mestiere, sono convinto di saperlo fare meglio. Avrei dovuto prepararmi – ma no, mi ero preparato, ma non nel modo giusto. Negli uffici, per concentrarmi, recitavo l'articolo 3 a memoria: hai visto mai che mi servisse al volo ("È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli...") Non è servito.
Ringrazio ancora tutta la redazione; quelli che hanno aspettato l'una di notte e quelli che hanno provato a guardarla oggi. Meritavate tutti di meglio.
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