Guerra è Pace
È rimasto da anni appicicato in un angolino della mia memoria virtuale un foglietto, un post-it sgualcito, “ricordati di parlare di Disegni e Caviglia, di quanto gli hai voluto bene, di quanto sono stati importanti per la tua, boh, chiamiamola arte”. È vero, maledizione, non ne ho mai avuto una sola parola di lode per Disegni, e stanotte ne parlerò persino male. Eppure gli devo tanto: spesso se chiudo gli occhi e penso alle cose che scrivo, mi sembra di vedere i pupazzetti di Disegni, ed è un grosso complimento che faccio a me stesso.
Una volta chiesero a Charles M. Schulz se da bambino aveva mai usato il suo talento per disegnare caricature, e mi pare che lui rispose in un modo scandalizzato, che non ne sarebbe stato capace, che la sola idea di usare il disegno per prendere in giro un compagno o una maestra lo riempiva di sdegno; e parliamo della persona che ha fatto sorridere milioni di persone coi suoi disegnini. Ma non ha mai fatto una caricatura. Chiamiamola integrità artistica, o purezza di cuore, è quella cosa che lo ha fatto amare a milioni di persone in tutto il mondo: Schulz disegnava bambini buffi ma non li prendeva in giro, li amava, li rispettava, li trovava profondi e importanti. Ecco, Disegni qualche caricatura l'ha fatta, ma in generale mi piace pensare a lui come a un piccolo maestro del verbo di Schulz, uno che non ti mostra un pupazzetto col naso grosso per farti ridere del naso grosso; ti mostra un pupazzetto fatto più o meno come te e ti dice Guarda, questo è Craxi, o Andreotti, o Berlusconi: ma potresti anche essere tu. Lo avevi notato? Che c'è un po' di te in Berlusconi e viceversa? Un minimo comune d'umanità? Ecco, questo è l'unico tipo di satira che mi interessa fare. Ma è ancora satira?
La domanda diventa improvvisamente attuale nella settimana in cui Stefano Disegni s'impadronisce della direzione del supplemento satirico del Fatto, in circostanze burrascose che non ci tengo ad approfondire, dando fuori nel frattempo una paio di tavole che definire 'controverse' è un eufemismo. La seconda è un vero manifesto: Disegni vuole dar fastidio ai lettori conformisti, che abbondano dappertutto, e quindi anche al Fatto. Bisogna quanto meno concedergli che ci sta riuscendo. Ma è ancora satira? Eh, bisognerebbe prima intendersi su cosa la satira sia. Prego, accomodatevi, se ne parla da sempre, in fatto di metareferenzialità gli autori di satira danno ancora tantissimi punti ai blogger: ognuno sembra avere la sua idea ben precisa di cosa la satira sia e non sia, di cosa debba e non debba fare, e dove passino i nettissimi confini tra satira e sfottò becero, tra satira e raccontino didascalico, tra satira e propaganda. Un'idea ce l'ho anch'io, ovviamente, ed è molto meditata, ma vi risparmierò la meditazione e salterò alle brutali conclusioni: per me non c'è nessuna differenza sostanziale tra la satira, sfottò, propaganda, raccontino a tema. Sono nomi diversi con cui chiamiamo lo stesso animale: zanne, coda, orecchie, zampe. Un autore di satira è sostanzialmente un propagandista. Anche quando come Disegni non indulge nella caricatura, è pur sempre un artista che semplifica la complessità del reale per difendere il suo sistema di credenze, quello che una volta si chiamava ideologia. Questa idea dell'autore satirico che ride di tutto e di tutti, ecco, per me è un mito: non è che se ogni dieci battutacce su Berlusconi ne infili tre su Bersani diventi imparziale, non è così che funziona.
Il fatto è che io sono di quelli che non credono all'autonomia dell'Arte con la A maiuscola, figurati se credo all'autonomia dell'arte di scrivere disegnini buffi sugli inserti dei giornali. Quindi non ci trovo nulla di strano nel fatto che Disegni stia diventando didascalico: è sempre piuttosto didascalico, e mi è sempre piaciuto così (anch'io scrivo storielle didascaliche, e ho imparato da lui). Se non mi piace più è semplicemente perché abbiamo maturato idee diverse, divergenze ideologiche. Se ne potrebbe discutere – ma quando si fa satira non si discute: si difendono le proprie credenze, si semplificano le idee degli avversari, si fabbricano pupazzi di paglia. Non c'è niente di male, eh, finché restano pupazzetti negli inserti satirici: il problema è che dilagano.
Vedi la prima tavola, quella su Asor Rosa. Per difendere la sua tesi (l'anziano professore appartiene a un ceto intellettuale che ha perso il contatto con la realtà) Disegni non disdegna il repertorio frusto del gauchiste-caviar: il casale in Toscana, il paté, eccetera. Asor Rosa viene cannoneggiato dalla posizione arretrata del cosiddetto 'buon senso', per cui non puoi chiedere ai carabinieri di chiudere il parlamento. E probabilmente no, non puoi, specie se sei un professore che scrive sul Manifesto; quantomeno è difficile che i carabinieri ti diano retta. Questo sarebbe il buon senso. Ok. Il vantaggio dell'autore satirico è che il più delle volte deve semplicemente distruggere le affermazioni altrui. Ma sul finale Disegni si lascia scappare un'affermazione vagamente propositiva: e se provassimo a vincere le elezioni? Ecco: pensare di “vincere le elezioni” è ancora buon senso? Sì, perché le avremmo vinte con Prodi... ma appunto: le abbiamo già vinte (o perlomeno pareggiate): è cambiato qualcosa? Potrà mai cambiare davvero qualcosa, finché a Berlusconi e ai suoi non si sottraggono le leve della produzione del consenso, finché gli si lascia tutta intera Mediaset e qualche bel pezzo di Rai? Il guaio del buon senso: ognuno ha il suo. Il mio mi suggerisce che un'azienda di produzione del consenso, monopolista di fatto, non si arrenderà senza combattere: che sfidarla in questa situazione equivale ad andare a combattere le corazzate con la cavalleria leggera: una cosa molto nobile e rapida (ma non indolore). E a quel punto mi ritrovo molto più vicino ad Asor Rosa che a Disegni, pensa te gli scherzi che ti combina il buon senso.
Però fin qui forse non valeva nemmeno la pena di parlarne, infatti stavo quasi per cancellare il file. Poi ho letto un'altra tavola di Disegni. E mi sono ritrovato di nuovo nel 2002, quando sui blog bastava manifestare qualche sano dubbio sulle guerre di Bush per ritrovarsi accusato di voler rinfocolare lo Spirito di Monaco, regalando a Hitler la Boemia e anche un bel pezzo di Moravia e di Slovacchia. Eh? No, sul serio, giuro, per qualche mese ogni conversazione sulla in Afganistan, sull'11/9, su Al Qaeda, su Saddam Hussein doveva per forza passare per la Conferenza del 1938 (appena prima di finire, ovviamente, in vacca). Soltanto che nel 2002/3 quelli che ti circondavano e ti davano del Neville Chamberlain (Eh?) erano dei perfetti sconosciuti, oscuri correttori di bozze di house organ di centrodestra, tutti diventati improvvisamente titolari di blog con le bandiere a stelle e strisce e le vignette sugliimbelli pacifinti. Nel 2011 lo stesso paragone te lo fa Stefano Disegni, sull'inserto del Fatto Quotidiano.
Sulla Libia non ero contrario in linea di principio a un intervento, purché avesse modalità e finalità chiare, che fin qui non si son viste. Ma ne faccio una questione formale, a questo punto: non puoi tirare fuori i nazisti, tutte le volte che non sei d'accordo con un pacifista. Non puoi ogni volta mettergli davanti al naso Hitler, come se il nemico di turno fosse sempre e solo Hitler. Cioè, per carità, puoi, in fin dei conti è propaganda. Ma c'è propaganda e propaganda: quella che tira fuori Hitler ogni due per tre è pessima, per la legge di Godwin è il segno che gli argomenti a tua disposizione sono esauriti, e per l'assioma del pastorello-che-chiamava-al-lupo affermo che dovesse un giorno ritornare Adolf Hitler in carne e ossa, dovesse reincarnarsi in un clone o tornare dal Brasile o da Marte su un disco volante, deciso a rifondare quanto prima il Quarto Reich e a completare i massacri lasciati a metà, ebbene probabilmente non ci faremo più caso, tanto siamo abituati a sentire Bin Laden paragonato a Hitler, Saddam Hussein il nuovo Hitler, anche Arafat quando lo tenevano sequestrato nel suo palazzo a Ramallah e giocavano a sforacchiarglielo con le granate, anche lui in quel periodo era il nuovo Hitler; adesso invece è Ahmadinejad il nuovo Hitler, salvo quando si parla di Libia e allora il nuovo Hitler è Gheddafi, e chi non lo bombarda è Neville Chamberlain. Sempre. E comunque. Questo è il Fatto del 2011, ma era anche il Foglio del 2003: hai dei dubbi su qualsiasi guerra? Sei un complice dei nazisti. E anche questo modo di usare i bimbi ebrei, sei pacifista? Da qualche parte qualcuno grazie a te sta ammazzando un bambino ebreo, ecco, io la chiamerei speculazione sulla Shoah, se non fosse che anche il solo pensarlo probabilmente mi fa incorrere nell'odioso psicoreato di antisemitismo, e insomma, io ci tengo al mio lavoro, per cui clicco via e ripenso ai miei diciottanni, allo scrondo su Tuttirutti, a quella volta che a Lupo Solitario due ragazzi strani raccontavano la storia di Canna Bianca, che era un cane tipo Zanna Bianca ma che invece di salvare i bambini in pericolo si faceva le canne, una cosa cretina veramente e io mi misi a ridere, e non la smettevo, in effetti non ho più smesso da allora, c'è una parte di me che ci pensa e ride ancora, chissà cosa ne pensa della conferenza di Monaco, aspetta che chiedo. Ehi, Canna Bianca, sono venuti a prendermi i cattivi nazisti, corri nella bufera a chiedere aiuto, vai a grattare con le zampette sul portone di casa Churchill finché non ti aprono... ehi... Canna Bianca...
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sabato 30 aprile 2011
martedì 26 aprile 2011
Contro la Pasqua
Sapete quel che si diceva mesi fa sulla necessità di porsi dei traguardi raggiungibili, misurabili, ecco, allora io da un po' di tempo in qua mi sono posto questo raggiungibilissimo obiettivo: Abolire le vacanze di Pasqua.
E ci riuscirò. O cadrò provandoci. Sull'Unita.it. Si commenta laggiù.Fino a febbraio tutto sommato l'anno scolastico fila abbastanza liscio. Certo, riprendersi dalla lunga pausa natalizia non è semplice, ma nessuno rinuncerebbe a quelle due settimane tra Natale e Befana. I guai veri cominciano a marzo.
E ci riuscirò. O cadrò provandoci. Sull'Unita.it. Si commenta laggiù.Fino a febbraio tutto sommato l'anno scolastico fila abbastanza liscio. Certo, riprendersi dalla lunga pausa natalizia non è semplice, ma nessuno rinuncerebbe a quelle due settimane tra Natale e Befana. I guai veri cominciano a marzo.
È sempre andata così. C'è persino chi dà la colpa all'ora legale – e in effetti, quando ti trovi davanti venticinque studenti assonnati, il dubbio ti viene. Poi ci sono i malesseri di stagione, le prime allergie. Tutte cose di routine, che si ripetono ogni anno. Dovremmo saperle prevedere, eppure no. Ogni primavera, tra marzo e aprile, è come se i programmi scolastici deragliassero dai binari, in un modo sempre imprevedibile. Certi anni ci si ferma, non si riesce più a proseguire. Certi altri si va avanti anche più del dovuto. Il guaio è che sembra non ci sia un modo per saperlo prima: ogni anno è una storia a sé. Ma perché? Ho una teoria.
Secondo me è tutta colpa della Pasqua. Una festa meravigliosa, ricca di simboli religiosi e tradizionali, eccetera. Però è una festa mobile, che oscilla nel calendario in un modo che resta misterioso a chi non s'intenda di mesi lunari. Apparentemente basta dare un'occhiata al calendario all'inizio dell'anno, e il problema è risolto. E, come per il Natale, chi rinuncerebbe a quei cinque, sei giorni di pausa? Ma il fatto che ogni anno cadano in una settimana diversa rende oggettivamente difficile programmare il lavoro nelle classi. Manca del tutto quell'automatismo per cui a dicembre siamo abituati – insegnanti e studenti – a tirare al massimo fino al ventitré dicembre, e a riprenderci dopo il sei gennaio: un ritmo che si apprende alle elementari e ci si porta con sé fino al liceo e oltre. In primavera un ciclo del genere non esiste: ogni anno i nostri bioritmi si devono adattare a un ciclo diverso. Aggiungi l'ora legale, i raffreddori, le allergie, le gite, i ponti tra aprile e maggio, e la frittata è fatta. Non ci sarebbe un modo per migliorare le cose?
Io una proposta ce l'avrei, e mi è già capitato di proporla: si potrebbero sostituire le vacanze di Pasqua con una settimana di vacanze di Primavera, come quelle che si festeggianoin tante altre nazioni europee. Se poi decidessimo di celebrarla tra le feste nazionali del 25 aprile e il primo maggio, avremmo anche risolto il problema dei ponti primaverili, che certi anni portano via anche una settimana, mentre in altri anni (come questo, ahinoi) sono del tutto assenti - un altro fattore che rende ogni anno scolastico diverso dall'altro. Probabilmente sarebbe una buona cosa anche per il comparto turistico: con una settimana a disposizione, qualche famiglia in più riuscirebbe a concedersi una piccola vacanza. Il due maggio poi torneremmo tutti quanti a scuola, e avremmo quaranta giorni per la volata finale.
Prima obiezione: in questo modo molti celebreranno il 25 aprile e il primo maggio bloccati in autostrada. Questo in realtà accade già, ogni volta che i calendari scolastici o lavorativi ci propongono un ponte. Se però il ponte diventa una settimana fissa, la mentalità potrebbe cambiare: le famiglie avrebbero un po' di tempo in più per organizzare partenze e rientri in modo intelligente, invece di affrettarsi al casello per la classica gita mordi-e-fuggi.
Seconda obiezione: proporre di abolire la Pasqua è cosa da empi senzadio. In effetti non mi spingo a tanto: del resto la Pasqua cade di domenica e non pone nessun problema a chi redige i calendari scolastici. Non pone molti problemi neanche il Lunedì dell'Angelo, volgarmente detto Pasquetta, e quindi proporrei di mantenerlo in segno di rispetto alla tradizione, alla cultura, alle radici cristiane eccetera. Ma ho qualche difficoltà a credere che gli studenti cristiani (ammesso che siano ancora la maggioranza, in Italia) abbiano bisogno di una settimana di astinenza dallo studio e dal lavoro per riflettere sulla Risurrezione: i loro genitori tutto quel tempo a disposizione non ce l'hanno, di solito lavorano fino al Venerdì Santo e sono già in ufficio o in officina al martedì.
E tuttavia non vorrei farne una battaglia di laicità, col rischio di perderla (come nel caso dell'ora di religione o del crocefisso). Ammettiamo pure che la Chiesa abbia qualche diritto sul calendario scolastico statale. Però anche la Chiesa si rinnova, in certi periodi è stata addirittura un fattore di rinnovamento. Il calendario solare è uno di questi casi: è stato un Papa a riformarlo, sono stati i vescovi a sostituire le meridiane con gli orologi meccanici nei campanili. Se oggi viviamo tutti con un calendario solare al polso o in tasca, se l'unica festa lunare rimasta diventa per noi un fattore ansiogeno, la Chiesa ha la sua parte di responsabilità. http://leonardo.blogspot.com
lunedì 25 aprile 2011
Morte e Liberazione
Scava Ferruccio
Con questa vanga, che mi lasciò il povero padre, insieme a un’affittanza e due sorelle da maritare, ora tu scavi, Ferruccio.
Non sai come si fa, ma non mi dire. L’avrai ben visto un giorno un contadino. Si calca il tallone sul pedale e si taglia la terra, zac, un colpo netto, come la gola dei republicanos. Ma te neanche lo sai cos’è un republicanos, Ferruccio, vero? e allora scava.
Ché non sai niente della vita che hai fatto vivere agli altri, non sai niente della morte. Quando m’hai mandato volontario in Spagna, e avevo appena smesso i calzoncini; ad ammazzare contadini come mio padre m’hai mandato: e allora scava, adesso, Ferruccio.
Non ti far fretta, io non ne ho.
Ma t’han da venire le sfioppole alle mani. T’han da venire i calli. T’han da venire le mani da contadino, Ferruccio, che non ti son venute in quarant’anni; le mani di mio padre e di mio nonno, scava, scava. Ma le mani che mi son venute in Affrica, a scavar fosse di negri che non m’avevan fatto niente, le mani d’assassino, le vedi? Per queste non c’è sapone, non c’è sego né lisciva. Queste mani che mi pulsano di notte, quando tutto tace e loro suonano il tamburo, un problema di circolazione dice il dottore, sì, te lo dico io qual è il problema. Son le gole dei republicanos che ho vangato con la baionetta, nella Mancia, e intanto pensavo: sarò dannato, ma almeno le mie sorelle sono a posto. Pensavo, c’è Ferruccio che ci pensa. Bravo Ferruccio. Scava. Scava.
Io che avevo appena smesso i calzoncini perché mi era morto il padre, e quel che mi lasciava era una vanga e due sorelle senza dote. E mi dicesti di andar via tranquillo, ché ci avrebbe pensato il fascio alle sorelle, ma che partire volontario bisognava. Ché le mie sorelle sarebbero rimaste putte sennò, per via che nessuno si voleva portare in casa le figlie di un socialista, e io non capivo, cos’era questo socialismo, una malattia? Se mio padre se l’era presa da giovane, non me l’aveva mai detto, non parlava di politica con me, non parlava di niente. Ho imparato a parlare da per me, Ferruccio, e adesso tu mi ascolti. Mentre scavi.
Quando mi dicesti che ci avrebbe pensato il fascio, che ci avresti pensato tu alla Pace e all’Evelina, Ferruccio. E la Pace ch’era del Diciotto me l’hai lasciata morire di tbc, è così che ci hai pensato. E l’Evelina intanto mi scriveva del moroso, ma che in dote la vanga di papà non gli bastava, e senti, Ferruccio, ma secondo te io non me lo son mai chiesto chi gliele scriveva quelle belle letterine all’Evelina, che non sapeva nemmeno tenere il pennino tra le dita, il parroco gliele scriveva? E al parroco chi gliele dettava? Io che dalla Spagna non ero ancora venuto a casa, e lei che mi scriveva di ripartire in Affrica volontario – l’Evelina! Che quando ero partito si faceva ancora le trecce, e ora mi scriveva del moroso che non l’avrebbe sposata, del disonore, della pancia che le cresceva, Ferruccio! Chi gliele dettava quelle belle letterine! E tu credi che non ho avuto il tempo per pensarci, mentre montavo la guardia sotto l’Ambaradam?
E quando son tornato e ho trovato Evelina zitella, che te l’eri presa in casa come serva; e la trattavi da puttana; e il bambino lo avevi dato ai preti; è stato allora che ho chiesto io di andare in Albania, perché altrimenti v’ammazzavo tutti e due con queste mani: e piuttosto sono andato ad ammazzar dei greci che non m’avevan fatto niente, neanche socialisti erano. Adesso però scavi, Ferruccio.
T’ha da venire il mal di schiena di mio padre; quello lo ha ucciso, altro che il socialismo. T’ha da gelarti il sudore in fronte mentre scavi - e mi dispiace, te lo devo dire, non aver più la forza che ho lasciato in Grecia, perché ti strozzerei, Ferruccio, ti tirerei il collo come al tacchino che sei, che è la fine che ti meriti, ti staccherei la testa a morsi dalla rabbia che m’hai fatto venire, e non sai quanti fantaccini si son presi i ceffoni che volevo dare a te; ma adesso intanto scava, che t’ho da seppellire.
Scava più a fondo, Ferruccio, che devi entrarci te e la tua casa del fascio tutta intera, col capoccione in bronzo. Sai che per quanto scavi non la farai mai grossa come quella che mi sono fatto io, dalla Mancia all’Epiro passando per il Tembien, una fossa grande mezzo mondo ho scavato, per gente che non m’aveva fatto niente, e guarda quel che m’hai fatto tu. T’ammazzassi dieci volte, non sarebbero abbastanza.
Hai scavato?
E allora adesso ascolta. Tu sei morto. Se hai documenti con te, buttali dentro. Poi prendi quella terra, e riempi la buca. Tienti per morto, Ferruccio, e seppellisciti da solo, ché di fosse io ne ho riempite già abbastanza. Hai da colmarla bene, che nessuno ha da sapere dove sei finito. Nessun bambino ha da inciamparci mentre gioca a nascondersi.
Poi prendi la sacca, arrangiati con le carte che ci son dentro. Va’ in montagna dai ribelli, di’ che sei un soldato del re, già di stanza nei Balcani. Di’ che il tuo plotone s’è sbandato a Bologna, che i repubblichini ti volevan metter la camicia nera, che ti sei rifiutato. Fagli veder le mani. Racconta che i miliziani ti volevano ammazzare, e sei scappato. Di’ quel che ti pare, hai sempre saputo raccontarle. Così quando se Dio vuole arrivan gli americani, te sei a posto. E se t’ammazzan prima, ti faranno pure il monumento, Ferruccio, il monumento al martire, ci pensi.
Ma se non t’ammazzano, come non t’ho ammazzato io, tu quando discendi con gli americani hai da tirar tuo figlio fuori dal convento; e mia sorella fuori dal bordello, che è la tua famiglia, Ferruccio, non la mia. Ché un bambino non saprei tirarlo su, son cresciuto ammazzando e solo ad ammazzare son buono ormai.
E se Evelina te lo chiede, sono morto in Albania.
(Schegge di Liberazione è una fantastica iniziativa messa in piedi da Barabba che da due anni riesce a produrre un bel libro collettivo sulla festa che ci sta più a cuore, il 25. Questo pezzo è preso dall'ebook dell'anno scorso: quello di quest'anno probabilmente è più bello, ed esiste anche nella versione cartacea. Dovevamo presentarlo a Carpi oggi, ma c'è stata una disgrazia orribile. Buona Liberazione comunque).
Con questa vanga, che mi lasciò il povero padre, insieme a un’affittanza e due sorelle da maritare, ora tu scavi, Ferruccio.
Non sai come si fa, ma non mi dire. L’avrai ben visto un giorno un contadino. Si calca il tallone sul pedale e si taglia la terra, zac, un colpo netto, come la gola dei republicanos. Ma te neanche lo sai cos’è un republicanos, Ferruccio, vero? e allora scava.
Ché non sai niente della vita che hai fatto vivere agli altri, non sai niente della morte. Quando m’hai mandato volontario in Spagna, e avevo appena smesso i calzoncini; ad ammazzare contadini come mio padre m’hai mandato: e allora scava, adesso, Ferruccio.
Non ti far fretta, io non ne ho.
Ma t’han da venire le sfioppole alle mani. T’han da venire i calli. T’han da venire le mani da contadino, Ferruccio, che non ti son venute in quarant’anni; le mani di mio padre e di mio nonno, scava, scava. Ma le mani che mi son venute in Affrica, a scavar fosse di negri che non m’avevan fatto niente, le mani d’assassino, le vedi? Per queste non c’è sapone, non c’è sego né lisciva. Queste mani che mi pulsano di notte, quando tutto tace e loro suonano il tamburo, un problema di circolazione dice il dottore, sì, te lo dico io qual è il problema. Son le gole dei republicanos che ho vangato con la baionetta, nella Mancia, e intanto pensavo: sarò dannato, ma almeno le mie sorelle sono a posto. Pensavo, c’è Ferruccio che ci pensa. Bravo Ferruccio. Scava. Scava.
Io che avevo appena smesso i calzoncini perché mi era morto il padre, e quel che mi lasciava era una vanga e due sorelle senza dote. E mi dicesti di andar via tranquillo, ché ci avrebbe pensato il fascio alle sorelle, ma che partire volontario bisognava. Ché le mie sorelle sarebbero rimaste putte sennò, per via che nessuno si voleva portare in casa le figlie di un socialista, e io non capivo, cos’era questo socialismo, una malattia? Se mio padre se l’era presa da giovane, non me l’aveva mai detto, non parlava di politica con me, non parlava di niente. Ho imparato a parlare da per me, Ferruccio, e adesso tu mi ascolti. Mentre scavi.
Quando mi dicesti che ci avrebbe pensato il fascio, che ci avresti pensato tu alla Pace e all’Evelina, Ferruccio. E la Pace ch’era del Diciotto me l’hai lasciata morire di tbc, è così che ci hai pensato. E l’Evelina intanto mi scriveva del moroso, ma che in dote la vanga di papà non gli bastava, e senti, Ferruccio, ma secondo te io non me lo son mai chiesto chi gliele scriveva quelle belle letterine all’Evelina, che non sapeva nemmeno tenere il pennino tra le dita, il parroco gliele scriveva? E al parroco chi gliele dettava? Io che dalla Spagna non ero ancora venuto a casa, e lei che mi scriveva di ripartire in Affrica volontario – l’Evelina! Che quando ero partito si faceva ancora le trecce, e ora mi scriveva del moroso che non l’avrebbe sposata, del disonore, della pancia che le cresceva, Ferruccio! Chi gliele dettava quelle belle letterine! E tu credi che non ho avuto il tempo per pensarci, mentre montavo la guardia sotto l’Ambaradam?
E quando son tornato e ho trovato Evelina zitella, che te l’eri presa in casa come serva; e la trattavi da puttana; e il bambino lo avevi dato ai preti; è stato allora che ho chiesto io di andare in Albania, perché altrimenti v’ammazzavo tutti e due con queste mani: e piuttosto sono andato ad ammazzar dei greci che non m’avevan fatto niente, neanche socialisti erano. Adesso però scavi, Ferruccio.
T’ha da venire il mal di schiena di mio padre; quello lo ha ucciso, altro che il socialismo. T’ha da gelarti il sudore in fronte mentre scavi - e mi dispiace, te lo devo dire, non aver più la forza che ho lasciato in Grecia, perché ti strozzerei, Ferruccio, ti tirerei il collo come al tacchino che sei, che è la fine che ti meriti, ti staccherei la testa a morsi dalla rabbia che m’hai fatto venire, e non sai quanti fantaccini si son presi i ceffoni che volevo dare a te; ma adesso intanto scava, che t’ho da seppellire.
Scava più a fondo, Ferruccio, che devi entrarci te e la tua casa del fascio tutta intera, col capoccione in bronzo. Sai che per quanto scavi non la farai mai grossa come quella che mi sono fatto io, dalla Mancia all’Epiro passando per il Tembien, una fossa grande mezzo mondo ho scavato, per gente che non m’aveva fatto niente, e guarda quel che m’hai fatto tu. T’ammazzassi dieci volte, non sarebbero abbastanza.
Hai scavato?
E allora adesso ascolta. Tu sei morto. Se hai documenti con te, buttali dentro. Poi prendi quella terra, e riempi la buca. Tienti per morto, Ferruccio, e seppellisciti da solo, ché di fosse io ne ho riempite già abbastanza. Hai da colmarla bene, che nessuno ha da sapere dove sei finito. Nessun bambino ha da inciamparci mentre gioca a nascondersi.
Poi prendi la sacca, arrangiati con le carte che ci son dentro. Va’ in montagna dai ribelli, di’ che sei un soldato del re, già di stanza nei Balcani. Di’ che il tuo plotone s’è sbandato a Bologna, che i repubblichini ti volevan metter la camicia nera, che ti sei rifiutato. Fagli veder le mani. Racconta che i miliziani ti volevano ammazzare, e sei scappato. Di’ quel che ti pare, hai sempre saputo raccontarle. Così quando se Dio vuole arrivan gli americani, te sei a posto. E se t’ammazzan prima, ti faranno pure il monumento, Ferruccio, il monumento al martire, ci pensi.
Ma se non t’ammazzano, come non t’ho ammazzato io, tu quando discendi con gli americani hai da tirar tuo figlio fuori dal convento; e mia sorella fuori dal bordello, che è la tua famiglia, Ferruccio, non la mia. Ché un bambino non saprei tirarlo su, son cresciuto ammazzando e solo ad ammazzare son buono ormai.
E se Evelina te lo chiede, sono morto in Albania.
(Schegge di Liberazione è una fantastica iniziativa messa in piedi da Barabba che da due anni riesce a produrre un bel libro collettivo sulla festa che ci sta più a cuore, il 25. Questo pezzo è preso dall'ebook dell'anno scorso: quello di quest'anno probabilmente è più bello, ed esiste anche nella versione cartacea. Dovevamo presentarlo a Carpi oggi, ma c'è stata una disgrazia orribile. Buona Liberazione comunque).
venerdì 22 aprile 2011
Alla fine scegliemmo il nero
Libertà è schiavitù
“Buonasera a tutti, dunque, se vi è capitato nelle ultime ore di sentire che la vostra marca hi-tech preferita spia i movimenti dei suoi clienti, ebbene, spero che non siate corsi a gettar via il vostro laptop o a bruciare il vostro telefono, perché le cose non stanno proprio così, vero Paul?”
“No, non stanno proprio così”.
“Paul è un addetto stampa della vostra marca hi-tech preferita, ed è venuto a spiegarci di cosa si tratta”.
“Beh, è presto detto. Ogni volta che un nostro dispositivo accede a una rete di telefonia mobile, esso salva le sue coordinate geografiche su un file”.
“Questo file rimane nel dispositivo”.
“Beh, se sincronizzi il dispositivo a un computer... passa al computer”.
“Ma non è che ogni tanto questo file venga inviato in automatico ai vostri server...”
“Ma no, assolutamente, eheheh”.
“Prego”.
“Scusi, oddio che imbarazzo, è che... ihihih”.
“Le scappa da ridere?”
“Sì, e non capisco perché”.
“Può darsi che si tratti del caffè che le hanno offerto i ragazzi”.
“Un caffè? Ihih. Ma non capisco”.
“Ecco, è possibile che esso contenesse una trascurabile dose di pentothal”.
“Ohoh”.
“La cosa la preoccupa?”
“Beh, sì, molto”.
“Ora, la prego, ci dica la verità: la famosa marca hitech che tutti ammiriamo e veneriamo... ci spia?”
“Beh, è chiaro che lo fa, voglio dire, chi non ci proverebbe. Avete tutti in tasca un affare che si triangola con una rete di antenne disseminate sul territorio, in pratica vi mettete in tasca una cimice, potevate arrivarci da soli”.
“Quindi lei ritiene che anche i vostri concorrenti abbiano attivato dei sistemi analoghi per tracciare i loro clienti?”
“Sì, con la solita differenza”.
“E cioè?”
“Che il nostro sistema... funziona”.
“Ma perché lo fate? Qual è il fine ultimo di tutta la faccenda?”
“Il fine ultimo... beh, mi sembra ovvio”.
“Ce lo dica, allora”.
“La conquista del mondo, ahahah”.
“La vostra società vuole conquistare il mondo?”
“No, non... io non credo che la conquista del mondo sia un obiettivo previsto dal nostro amministratore delegato o dall'assemblea degli azionisti. Tanto più che il mondo è un luogo per lo più sporco e privo di eleganza, popolato da individui squallidi che usano dispositivi abominevoli”.
“Ma allora, ci scusi, perché...”
“E tuttavia è innegabile che la nostra tecnologia renda la conquista del mondo un po' più semplice, così nel momento in cui un individuo, o un governo, o un ente intergovernativo, fossero interessati al prodotto, ecco, noi lo stiamo mettendo sul mercato”.
“Capisco. E... c'è qualcuno interessato?”
“Io non sono stato messo al corrente delle trattative, comunque...”
“Ci conferma quanto meno che qualche trattativa c'è”.
“Beh, una trattativa c'è sempre”.
“Qualcuno che vuole conquistare il mondo”.
“Magari solo un pezzo, sì”.
“Bene, Paul, lei è consapevole che questa intervista le costerà il posto”.
“Maledizione, sì”.
“Però in cuor suo dovrebbe ringraziarci, l'abbiamo resa famosa e ora grazie a lei un diabolico piano di conquista del pianeta è stato sventato”.
“Sventato? E perché?”
“Ma perché dopo aver sentito questa intervista, milioni di utenti in tutto il mondo spegneranno i loro cellulari e i loro tablet e...”
“No, non credo che lo faranno”.
“Scusi, crede che a loro piaccia essere spiati?”
“Ma certo. Lo sa cosa fanno on line, per lo più? Aggiornano il loro profilo facebook, ecco quel che fanno. Il più delle volte sono su un social network a spiegare dove sono e cosa stanno facendo. Sono tutti alla disperata ricerca di qualcuno che si interessi di loro, di qualcuno che li tracci”.
“Senta, su facebook decido io cosa rivelare e cosa no”.
“Ahahah. Mi scusi. È il pentothal”.
“...sì, va bene, forse facebook è l'esempio sbagliato, forse non è il più trasparente dei social network, però... voi avete tracciato milioni di vostri clienti in tutto il mondo! Senza avvertirli! Non la passerete liscia”.
“Beh, può anche darsi che qualcuno getti via il suo dispositivo. Non è un grosso problema, sa perché?”
“Sentiamo”.
“Ecco, io in realtà ero venuto a dirle questo. In anteprima. Sta per uscire il nuovo modello! Con dieci giga in più e tre etti in meno!”
“E non traccia più i movimenti?”
“Certo che li traccia! Con molta più precisione, infatti ora usiamo il gps!”
“E allora nessuno lo vorrà”.
“Ho qui il prototipo nella valigetta”.
“Ah sì? Possiamo dare un'occhiata?”
“Beh, non so, a questo punto forse non vale la pena”.
“Ma così, per dovere di cronaca... o mio Dio”.
“Bello, eh?”
“Quanto è sottile. Quanto è sottile”.
“Le batterie durano una mezz'ora in più. Ora non mi dica che non lo desidera”.
“Con tutta l'anima... eh, no, aspetti, non ha senso. È un aggeggio diabolico, praticamente può dirvi in qualsiasi momento dove mi trovo sulla terra”.
“E non ha ancora visto il modello nero”.
“Ah, lo fate anche nero?”
“Sì, è più virile”.
“Ma insomma! Non ha senso! Ne ho comprato uno sei mesi fa!”
“Uno vecchio, intende”.
“Già”.
“Perché adesso è vecchio, capisce? Basta dare un'occhiata a questo per rendersene conto. Quello era tutto spigoli”.
“Sei mesi fa andavano gli spigoli”.
“Questo invece, guardi com'è liscio”.
“Uff, è proprio liscio liscio... però mi spia...”
“E che sarà mai...”
“Insomma, per chi m'ha preso? Crede che io sia un bambino? Crede che siamo tutti bambini, che sia sufficiente qualche variazione nel design per farci rinunciare alla nostra privacy? Non comprerò mai più un vostro prodotto”.
“Dimenticavo, ha il tracciamento oculare”.
“E cosa sarebbe il tracciamento...”
“Non c'è più bisogno di toccarlo. Può spostare il cursore col movimento delle sue pupille”.
“Non ci credo”.
“Guardi qui un attimo...”
“Ouch”.
“Ecco fatto. Adesso apra il browser”.
“Come diavolo faccio ad aprire il browser se ce l'ha in mano lei... O mio Dio”.
“Vede? Semplice e intuitivo”.
“Sto... sto navigando con la forza del pensiero!”
“Non proprio. Non ancora, perlomeno. Comunque con le ciglia può azionare un sistema di riconoscimento che identifica i dieci siti più visitati con dieci movimenti delle palpebre. È molto più difficile spiegarlo che usarlo, come sempre. In pratica lei fa l'occhiolino e apre la sua posta. Guarda in basso e scrolla la pagina. Eccetera”.
“Incredibile. Ahi!”
“Ha sentito una fitta alle tempie?”
“Sì”.
“Non si preoccupi, ci si fa l'abitudine, è il log cerebrale”.
“Eh?”
“In pratica il dispositivo sta scansionando le sue sinapsi, è una cosa che fa quando si connette, e poi di tanto in tanto”.
“Ma è legale?”
“Beh, sarà scritto un po' in piccolo nella pagina del contratto”.
“Anche questo è funzionale alla conquista del mondo, immagino”.
“In senso lato. Probabilmente dopo aver mappato un bel po' di reti neuronali avremo a disposizione un'enorme mole di informazioni sul cervello umano che potremo usare per realizzare dispositivi sempre più potenti”.
“Ahi”.
“Sente? Lo ha rifatto. Inoltre riusciamo già da ora a condizionare i nostri utenti, mediante una serie di impulsi che vanno dal doloroso al piacevole”.
“Ahi”.
“Non pensi troppo veloce, è peggio”.
“Ma c'è un modo di spegnere... ahi!”
“Sì, c'è un modo, ma il solo pensarci diventa doloroso. Pensi a delle cose belle”.
“Ah”.
“Va già meglio, vede? Ha già deciso come lo vuole? Bianco o nero?”
“Io... non saprei. Bianco è più pulito”.
“Giusto”.
“Una volta facevate cose più bianche”.
“Il nero però è più virile”.
“Decisamente”.
(L'immagine è rubata da qui)
“Buonasera a tutti, dunque, se vi è capitato nelle ultime ore di sentire che la vostra marca hi-tech preferita spia i movimenti dei suoi clienti, ebbene, spero che non siate corsi a gettar via il vostro laptop o a bruciare il vostro telefono, perché le cose non stanno proprio così, vero Paul?”
“No, non stanno proprio così”.
“Paul è un addetto stampa della vostra marca hi-tech preferita, ed è venuto a spiegarci di cosa si tratta”.
“Beh, è presto detto. Ogni volta che un nostro dispositivo accede a una rete di telefonia mobile, esso salva le sue coordinate geografiche su un file”.
“Questo file rimane nel dispositivo”.
“Beh, se sincronizzi il dispositivo a un computer... passa al computer”.
“Ma non è che ogni tanto questo file venga inviato in automatico ai vostri server...”
“Ma no, assolutamente, eheheh”.
“Prego”.
“Scusi, oddio che imbarazzo, è che... ihihih”.
“Le scappa da ridere?”
“Sì, e non capisco perché”.
“Può darsi che si tratti del caffè che le hanno offerto i ragazzi”.
“Un caffè? Ihih. Ma non capisco”.
“Ecco, è possibile che esso contenesse una trascurabile dose di pentothal”.
“Ohoh”.
“La cosa la preoccupa?”
“Beh, sì, molto”.
“Ora, la prego, ci dica la verità: la famosa marca hitech che tutti ammiriamo e veneriamo... ci spia?”
“Beh, è chiaro che lo fa, voglio dire, chi non ci proverebbe. Avete tutti in tasca un affare che si triangola con una rete di antenne disseminate sul territorio, in pratica vi mettete in tasca una cimice, potevate arrivarci da soli”.
“Quindi lei ritiene che anche i vostri concorrenti abbiano attivato dei sistemi analoghi per tracciare i loro clienti?”
“Sì, con la solita differenza”.
“E cioè?”
“Che il nostro sistema... funziona”.
“Ma perché lo fate? Qual è il fine ultimo di tutta la faccenda?”
“Il fine ultimo... beh, mi sembra ovvio”.
“Ce lo dica, allora”.
“La conquista del mondo, ahahah”.
“La vostra società vuole conquistare il mondo?”
“No, non... io non credo che la conquista del mondo sia un obiettivo previsto dal nostro amministratore delegato o dall'assemblea degli azionisti. Tanto più che il mondo è un luogo per lo più sporco e privo di eleganza, popolato da individui squallidi che usano dispositivi abominevoli”.
“Ma allora, ci scusi, perché...”
“E tuttavia è innegabile che la nostra tecnologia renda la conquista del mondo un po' più semplice, così nel momento in cui un individuo, o un governo, o un ente intergovernativo, fossero interessati al prodotto, ecco, noi lo stiamo mettendo sul mercato”.
“Capisco. E... c'è qualcuno interessato?”
“Io non sono stato messo al corrente delle trattative, comunque...”
“Ci conferma quanto meno che qualche trattativa c'è”.
“Beh, una trattativa c'è sempre”.
“Qualcuno che vuole conquistare il mondo”.
“Magari solo un pezzo, sì”.
“Bene, Paul, lei è consapevole che questa intervista le costerà il posto”.
“Maledizione, sì”.
“Però in cuor suo dovrebbe ringraziarci, l'abbiamo resa famosa e ora grazie a lei un diabolico piano di conquista del pianeta è stato sventato”.
“Sventato? E perché?”
“Ma perché dopo aver sentito questa intervista, milioni di utenti in tutto il mondo spegneranno i loro cellulari e i loro tablet e...”
“No, non credo che lo faranno”.
“Scusi, crede che a loro piaccia essere spiati?”
“Ma certo. Lo sa cosa fanno on line, per lo più? Aggiornano il loro profilo facebook, ecco quel che fanno. Il più delle volte sono su un social network a spiegare dove sono e cosa stanno facendo. Sono tutti alla disperata ricerca di qualcuno che si interessi di loro, di qualcuno che li tracci”.
“Senta, su facebook decido io cosa rivelare e cosa no”.
“Ahahah. Mi scusi. È il pentothal”.
“...sì, va bene, forse facebook è l'esempio sbagliato, forse non è il più trasparente dei social network, però... voi avete tracciato milioni di vostri clienti in tutto il mondo! Senza avvertirli! Non la passerete liscia”.
“Beh, può anche darsi che qualcuno getti via il suo dispositivo. Non è un grosso problema, sa perché?”
“Sentiamo”.
“Ecco, io in realtà ero venuto a dirle questo. In anteprima. Sta per uscire il nuovo modello! Con dieci giga in più e tre etti in meno!”
“E non traccia più i movimenti?”
“Certo che li traccia! Con molta più precisione, infatti ora usiamo il gps!”
“E allora nessuno lo vorrà”.
“Ho qui il prototipo nella valigetta”.
“Ah sì? Possiamo dare un'occhiata?”
“Beh, non so, a questo punto forse non vale la pena”.
“Ma così, per dovere di cronaca... o mio Dio”.
“Bello, eh?”
“Quanto è sottile. Quanto è sottile”.
“Le batterie durano una mezz'ora in più. Ora non mi dica che non lo desidera”.
“Con tutta l'anima... eh, no, aspetti, non ha senso. È un aggeggio diabolico, praticamente può dirvi in qualsiasi momento dove mi trovo sulla terra”.
“E non ha ancora visto il modello nero”.
“Ah, lo fate anche nero?”
“Sì, è più virile”.
“Ma insomma! Non ha senso! Ne ho comprato uno sei mesi fa!”
“Uno vecchio, intende”.
“Già”.
“Perché adesso è vecchio, capisce? Basta dare un'occhiata a questo per rendersene conto. Quello era tutto spigoli”.
“Sei mesi fa andavano gli spigoli”.
“Questo invece, guardi com'è liscio”.
“Uff, è proprio liscio liscio... però mi spia...”
“E che sarà mai...”
“Insomma, per chi m'ha preso? Crede che io sia un bambino? Crede che siamo tutti bambini, che sia sufficiente qualche variazione nel design per farci rinunciare alla nostra privacy? Non comprerò mai più un vostro prodotto”.
“Dimenticavo, ha il tracciamento oculare”.
“E cosa sarebbe il tracciamento...”
“Non c'è più bisogno di toccarlo. Può spostare il cursore col movimento delle sue pupille”.
“Non ci credo”.
“Guardi qui un attimo...”
“Ouch”.
“Ecco fatto. Adesso apra il browser”.
“Come diavolo faccio ad aprire il browser se ce l'ha in mano lei... O mio Dio”.
“Vede? Semplice e intuitivo”.
“Sto... sto navigando con la forza del pensiero!”
“Non proprio. Non ancora, perlomeno. Comunque con le ciglia può azionare un sistema di riconoscimento che identifica i dieci siti più visitati con dieci movimenti delle palpebre. È molto più difficile spiegarlo che usarlo, come sempre. In pratica lei fa l'occhiolino e apre la sua posta. Guarda in basso e scrolla la pagina. Eccetera”.
“Incredibile. Ahi!”
“Ha sentito una fitta alle tempie?”
“Sì”.
“Non si preoccupi, ci si fa l'abitudine, è il log cerebrale”.
“Eh?”
“In pratica il dispositivo sta scansionando le sue sinapsi, è una cosa che fa quando si connette, e poi di tanto in tanto”.
“Ma è legale?”
“Beh, sarà scritto un po' in piccolo nella pagina del contratto”.
“Anche questo è funzionale alla conquista del mondo, immagino”.
“In senso lato. Probabilmente dopo aver mappato un bel po' di reti neuronali avremo a disposizione un'enorme mole di informazioni sul cervello umano che potremo usare per realizzare dispositivi sempre più potenti”.
“Ahi”.
“Sente? Lo ha rifatto. Inoltre riusciamo già da ora a condizionare i nostri utenti, mediante una serie di impulsi che vanno dal doloroso al piacevole”.
“Ahi”.
“Non pensi troppo veloce, è peggio”.
“Ma c'è un modo di spegnere... ahi!”
“Sì, c'è un modo, ma il solo pensarci diventa doloroso. Pensi a delle cose belle”.
“Ah”.
“Va già meglio, vede? Ha già deciso come lo vuole? Bianco o nero?”
“Io... non saprei. Bianco è più pulito”.
“Giusto”.
“Una volta facevate cose più bianche”.
“Il nero però è più virile”.
“Decisamente”.
(L'immagine è rubata da qui)
mercoledì 20 aprile 2011
La Città dei Vecchietti
Che Boris sarebbe stato un flop avremmo potuto capirlo già entrando nella sala vuota, rischiarata dall'argento delle chiome dei rari spettatori. C'è da dire che il sabato in prima serata da noi è davvero solo roba da vecchietti. Sarà colpa del precariato, dei siti russi pirati, dello strascicamento dell'aperitivo. Si rifaranno con la seconda proiezione, pensavamo. Dai dai dai. Ho passato un'ora e mezza a chiedermi se ai vecchietti sarebbe piaciuto, se ci avrebbero capito qualcosa. Non vanno sottovalutati, i vecchietti; magari non capiscono al volo, ma hanno molta esperienza e pazienza. Che poi non era mica un film difficile. Dai che magari gli piace. Dai che parte il tam tam della bocciofila. Dai.
Non è andata. Boris è stato meta anche nel suo essere un flop: un metaflop. Il film che racconta quanto sia difficile inventarsi qualcosa di nuovo quando il tuo pubblico è composto per lo più da vecchietti, è stato dai vecchietti sostanzialmente snobbato. Amen. La settimana dopo siamo tornati per il film di Moretti. Stesse teste canute. Qualche risata in più. Del resto era più facile seguire, rispetto al Caimano Moretti ha rallentato in un modo impressionante. I personaggi sono anziani, spesso stranieri, e parlano lentamente. Moretti pure parla lentamente; molte battute le ripete più volte, con la manifesta preoccupazione di farsi capire. Anche alcune scene vengono riprese due volte (il balcone in diretta e in tv). Dopo un po', sarà anche perché c'è Piccoli, mi vengono in mente certi film d'Oliveira, ma è un sospetto che caccio come una zanzara. Qualche scena dopo i personaggi si ritrovano in bocca le battute di Cechov, roba da Divina Comedia, ma vuoi vedere che Moretti si sta oliveirizzando sul serio? Voglio dire, consapevolmente?
Adesso scrivo che è un bel film, così non si offende nessuno. Aggiungo anche che non sono un esperto, metti caso che qualcuno mi scambi per uno che dà le stelline, non è davvero il mio mestiere. M'intriga soltanto questo dettaglio, magari banale, magari fuorviante: negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti ha fatto un film di vecchietti. Tante grazie direte voi, son cardinali. Ma sono davvero cardinali? Li avete presenti i cardinali veri? Confrontate anche soltanto gli amabili giocatori di scopone di Moretti con quegli uomini di potere che in questi giorni si stanno scagliando contro di lui: volete mettere? Non è che Moretti abbia voluto darci una versione edulcorata di un conclave: a lui proprio un conclave vero non interessava, il suo è tutta un'altra cosa, una metafora, un pretesto. Il tutto si denuncia da solo in quel balletto iniziale in cui tutti si mettono a pregare “Non scegliere me Signore”: ecco, mettere in scena un consesso di uomini di potere tutti improvvisamente refrattari alla più umana delle pulsioni – l'ambizione – è surrealismo puro: ceci n'est pas un conclave. Malvino: “Il Papa e il Vaticano c’entrano poco o niente: si offrono come espedienti, e vengono trattati con la delicatezza di chi vuole riconsegnarli intatti dopo l’uso”.
Certo, volendo mettere in scena un Rifiuto, gli sceneggiatori non potevano trovarne uno più grande. La Coppola per raccontarci la sua formazione occupa Versailles o il Chateau Marmont, Moretti per descriverci un esaurimento nervoso noleggia Palazzo Farnese. Il Vaticano ricostruito a Cinecittà è un po' come l'Altare della Patria dell'Ora di religione di Bellocchio, un feticcio da profanare per questioni sostanzialmente private. È un intimismo kolossal che un po' ti disorienta, ci vuole un bel polso per maneggiare una cosa pesante come la Chiesa Cattolica con un tocco così lieve, riducendola alla quinta di un dramma interiore. Quindi, insomma, non è di Ratzinger che si parla (ma neanche di Papa Luciani). E quindi di chi. Potrebbe davvero trattarsi di Nanni Moretti? Ne avrebbe diritto, per carità. Ma anche lui sembra un po' evasivo. Non vuole fare un film sulla Chiesa, ma neanche sulla psicoanalisi (che sembra anch'essa poco più di un pretesto). A un certo punto poteva diventare un film sulla recitazione: ho avuto i brividi mentre Piccoli diceva alla Buy che di mestiere era un attore, sta' a vedere che crolla la quarta parete... no, niente, falso allarme, anche la recitazione rimane un po' ai margini. Niente, è proprio un film sul rifiuto. Quando tutti vogliono che tu faccia una cosa e tu non la vuoi fare.
E non è neanche il primo. Si fa un po' fatica a unire i puntini, c'è sempre tantissimo spazio bianco tra un'apparizione di Moretti e l'altra; però la sensazione è che da più di dieci anni, almeno da Aprile in poi, ci stia dicendo: Non Voglio Fare Quello Che Mi Volete Far Fare. Non voglio fare il documentario sui leghisti, voglio andare al bar. Non voglio fare il solito film di nannimoretti, voglio parlare di un lutto privato senza regalarvi nessun fulminante tormentone. Non voglio fare un film su Berlusconi, mi avete incastrato con quella cosa dei girotondi, ma fino agli ultimi dieci minuti il mio film non parlerà di Berlusconi. Non voglio dirigere, voglio stare su una panchina e guardare il mondo scorrermi ai lati. Non voglio essere il più bravo, non voglio darvi a ogni mio film lo stato dell'arte sull'etnologia della sinistra italiana, non voglio fare film a tema, non voglio puntellare analisi sociologiche di critici e blogger dopolavoristi, non voglio, non voglio. Giusto. Hai ragione. Però nel frattempo cosa vuoi fare? Cosa fai? Un film di vecchietti. Un meraviglioso film di fantastici vecchietti che fanno smorfie superbe, ti viene quasi voglia di iscriverti alla loro bocciofila. Vecchietti dolenti, vecchietti rintronati, vecchietti drogati, vecchietti che giocano alla palla, e Moretti arbitra. Più o meno il sogno erotico di Fabio Fazio.
Di sicuro mi sbaglio, però Fazio mi è sempre sembrato il ragazzino che cresce coi nonni, in un contesto di bocciofila, e che una volta adulto continua istintivamente a circondarsi di persone anziane e rassicuranti. Ma per Fazio la capacità di trovarsi a proprio agio con gli anziani si è rivelata un vero e proprio vantaggio evolutivo: in una RAI e in una società italiana in rapido invecchiamento, è riuscito a proporsi come intermediario tra i Titani del passato e precari del presente. Gli diedero Sanremo, lui si portò Dulbecco. Prima che arrivasse Saviano ad abbassarla un po', l'età media degli ospiti di una puntata di Che tempo che fa poteva benissimo oltrepassare gli ottanta. Più sono anziani, più l'eterno ragazzino è a suo agio con loro. Questo rende magari Fazio il conduttore del futuro (un futuro di dinosauri in dismissione). Ma Nanni Moretti?
Lui non è cresciuto tra nonni rassicuranti; tutta la sua filmografia contiene atti d'accusa nei confronti di una generazione di genitori distratti che quando piangeva non accorrevano ad allattarlo. Qualcuno ha fatto il conto di quante volte Michele Apicella mette le mani addosso ai genitori? Nella Messa è finita, in particolare, il prete d'assalto spintona con violenza un padre in crisi di mezz'età, che si è messo con una ragazzina ma pietisce l'assoluzione. C'è stata, fino a un certo punto, una questione generazionale anche in Moretti.
E può darsi che ci sia ancora, anche se in fase di risoluzione – che questi mirabili vecchietti siano l'ombra dei nobili padri, dei venerabili maestri coi quali volente e nolente Moretti ha dovuto misurarsi fin qui. Ora però se ne stanno andando, per una mera questione anagrafica, e il regista li segue con affetto, li accompagna con allegria verso il nulla, dosando con sapienza gli antidepressivi. Non è più tempo di condurre, ma di essere condotti, già, e da chi? Non si sa, ma nel frattempo chi organizza il tempo libero è il regista. Paradossalmente, ha smesso di dare troppa importanza a quel deficit di accudimento che lo ha tormentato per tutta la vita. Lo riconosce per quello che è: una formuletta per tranquillizzare gli anziani. Adesso tocca a loro fare le scenate in pubblico, rompere le tazzine, regredire a quello stato di grazia in cui si gioca a pallone e si canta tutti assieme la canzoncina. Habemus Papam sarebbe il film in cui il Padre accetta non già di morire, ma di farsi mettere a riposo. E dopo di lui chi si affaccerà al balcone? Dopo il Padre toccherebbe al figlio, ma il figlio non vuole, lo si nota di più se non viene. In fondo nel film precedente l'attore-Moretti non faceva che nicchiare per tutto il film davanti a un pubblico che lo implorava Dai Facci Berlusconi. Alla fine cedeva (e l'unica cosa che tutti si ricordano è quel finale, mi pare). Stavolta no, il pubblico non avrà nessuna soddisfazione, la messa è finita davvero, andate a casa.
O no? Magari è ancora un po' presto per accettare un pontificato; però Moretti qualche tentazione ecumenica ce l'ha. Rallenta il ritmo, consapevole che il pubblico invecchia e ha bisogno di essere preso per mano e guidato al finale; che i guizzi di follia di Sogni d'oro o Palombella Rossa non sono più praticabili. I vecchietti forse non comandano più, ma sono ancora la maggioranza di quella minoranza che entra nelle sale, e Moretti lo sa. Ma è un problema? Oliveira dovrebbe aver compiuto centodue anni, e ancora macina film, porta a casa statuette. Negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti si prende cura dei suoi vecchietti. O dovrebbe buttarsi sul 3d?
Secondo me sì. Moretti 3d, che fa le scenate e ti getta le tazzine addosso, figata. No, dai, scherzo.
Non è andata. Boris è stato meta anche nel suo essere un flop: un metaflop. Il film che racconta quanto sia difficile inventarsi qualcosa di nuovo quando il tuo pubblico è composto per lo più da vecchietti, è stato dai vecchietti sostanzialmente snobbato. Amen. La settimana dopo siamo tornati per il film di Moretti. Stesse teste canute. Qualche risata in più. Del resto era più facile seguire, rispetto al Caimano Moretti ha rallentato in un modo impressionante. I personaggi sono anziani, spesso stranieri, e parlano lentamente. Moretti pure parla lentamente; molte battute le ripete più volte, con la manifesta preoccupazione di farsi capire. Anche alcune scene vengono riprese due volte (il balcone in diretta e in tv). Dopo un po', sarà anche perché c'è Piccoli, mi vengono in mente certi film d'Oliveira, ma è un sospetto che caccio come una zanzara. Qualche scena dopo i personaggi si ritrovano in bocca le battute di Cechov, roba da Divina Comedia, ma vuoi vedere che Moretti si sta oliveirizzando sul serio? Voglio dire, consapevolmente?
Adesso scrivo che è un bel film, così non si offende nessuno. Aggiungo anche che non sono un esperto, metti caso che qualcuno mi scambi per uno che dà le stelline, non è davvero il mio mestiere. M'intriga soltanto questo dettaglio, magari banale, magari fuorviante: negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti ha fatto un film di vecchietti. Tante grazie direte voi, son cardinali. Ma sono davvero cardinali? Li avete presenti i cardinali veri? Confrontate anche soltanto gli amabili giocatori di scopone di Moretti con quegli uomini di potere che in questi giorni si stanno scagliando contro di lui: volete mettere? Non è che Moretti abbia voluto darci una versione edulcorata di un conclave: a lui proprio un conclave vero non interessava, il suo è tutta un'altra cosa, una metafora, un pretesto. Il tutto si denuncia da solo in quel balletto iniziale in cui tutti si mettono a pregare “Non scegliere me Signore”: ecco, mettere in scena un consesso di uomini di potere tutti improvvisamente refrattari alla più umana delle pulsioni – l'ambizione – è surrealismo puro: ceci n'est pas un conclave. Malvino: “Il Papa e il Vaticano c’entrano poco o niente: si offrono come espedienti, e vengono trattati con la delicatezza di chi vuole riconsegnarli intatti dopo l’uso”.
Certo, volendo mettere in scena un Rifiuto, gli sceneggiatori non potevano trovarne uno più grande. La Coppola per raccontarci la sua formazione occupa Versailles o il Chateau Marmont, Moretti per descriverci un esaurimento nervoso noleggia Palazzo Farnese. Il Vaticano ricostruito a Cinecittà è un po' come l'Altare della Patria dell'Ora di religione di Bellocchio, un feticcio da profanare per questioni sostanzialmente private. È un intimismo kolossal che un po' ti disorienta, ci vuole un bel polso per maneggiare una cosa pesante come la Chiesa Cattolica con un tocco così lieve, riducendola alla quinta di un dramma interiore. Quindi, insomma, non è di Ratzinger che si parla (ma neanche di Papa Luciani). E quindi di chi. Potrebbe davvero trattarsi di Nanni Moretti? Ne avrebbe diritto, per carità. Ma anche lui sembra un po' evasivo. Non vuole fare un film sulla Chiesa, ma neanche sulla psicoanalisi (che sembra anch'essa poco più di un pretesto). A un certo punto poteva diventare un film sulla recitazione: ho avuto i brividi mentre Piccoli diceva alla Buy che di mestiere era un attore, sta' a vedere che crolla la quarta parete... no, niente, falso allarme, anche la recitazione rimane un po' ai margini. Niente, è proprio un film sul rifiuto. Quando tutti vogliono che tu faccia una cosa e tu non la vuoi fare.
E non è neanche il primo. Si fa un po' fatica a unire i puntini, c'è sempre tantissimo spazio bianco tra un'apparizione di Moretti e l'altra; però la sensazione è che da più di dieci anni, almeno da Aprile in poi, ci stia dicendo: Non Voglio Fare Quello Che Mi Volete Far Fare. Non voglio fare il documentario sui leghisti, voglio andare al bar. Non voglio fare il solito film di nannimoretti, voglio parlare di un lutto privato senza regalarvi nessun fulminante tormentone. Non voglio fare un film su Berlusconi, mi avete incastrato con quella cosa dei girotondi, ma fino agli ultimi dieci minuti il mio film non parlerà di Berlusconi. Non voglio dirigere, voglio stare su una panchina e guardare il mondo scorrermi ai lati. Non voglio essere il più bravo, non voglio darvi a ogni mio film lo stato dell'arte sull'etnologia della sinistra italiana, non voglio fare film a tema, non voglio puntellare analisi sociologiche di critici e blogger dopolavoristi, non voglio, non voglio. Giusto. Hai ragione. Però nel frattempo cosa vuoi fare? Cosa fai? Un film di vecchietti. Un meraviglioso film di fantastici vecchietti che fanno smorfie superbe, ti viene quasi voglia di iscriverti alla loro bocciofila. Vecchietti dolenti, vecchietti rintronati, vecchietti drogati, vecchietti che giocano alla palla, e Moretti arbitra. Più o meno il sogno erotico di Fabio Fazio.
Di sicuro mi sbaglio, però Fazio mi è sempre sembrato il ragazzino che cresce coi nonni, in un contesto di bocciofila, e che una volta adulto continua istintivamente a circondarsi di persone anziane e rassicuranti. Ma per Fazio la capacità di trovarsi a proprio agio con gli anziani si è rivelata un vero e proprio vantaggio evolutivo: in una RAI e in una società italiana in rapido invecchiamento, è riuscito a proporsi come intermediario tra i Titani del passato e precari del presente. Gli diedero Sanremo, lui si portò Dulbecco. Prima che arrivasse Saviano ad abbassarla un po', l'età media degli ospiti di una puntata di Che tempo che fa poteva benissimo oltrepassare gli ottanta. Più sono anziani, più l'eterno ragazzino è a suo agio con loro. Questo rende magari Fazio il conduttore del futuro (un futuro di dinosauri in dismissione). Ma Nanni Moretti?
Lui non è cresciuto tra nonni rassicuranti; tutta la sua filmografia contiene atti d'accusa nei confronti di una generazione di genitori distratti che quando piangeva non accorrevano ad allattarlo. Qualcuno ha fatto il conto di quante volte Michele Apicella mette le mani addosso ai genitori? Nella Messa è finita, in particolare, il prete d'assalto spintona con violenza un padre in crisi di mezz'età, che si è messo con una ragazzina ma pietisce l'assoluzione. C'è stata, fino a un certo punto, una questione generazionale anche in Moretti.
E può darsi che ci sia ancora, anche se in fase di risoluzione – che questi mirabili vecchietti siano l'ombra dei nobili padri, dei venerabili maestri coi quali volente e nolente Moretti ha dovuto misurarsi fin qui. Ora però se ne stanno andando, per una mera questione anagrafica, e il regista li segue con affetto, li accompagna con allegria verso il nulla, dosando con sapienza gli antidepressivi. Non è più tempo di condurre, ma di essere condotti, già, e da chi? Non si sa, ma nel frattempo chi organizza il tempo libero è il regista. Paradossalmente, ha smesso di dare troppa importanza a quel deficit di accudimento che lo ha tormentato per tutta la vita. Lo riconosce per quello che è: una formuletta per tranquillizzare gli anziani. Adesso tocca a loro fare le scenate in pubblico, rompere le tazzine, regredire a quello stato di grazia in cui si gioca a pallone e si canta tutti assieme la canzoncina. Habemus Papam sarebbe il film in cui il Padre accetta non già di morire, ma di farsi mettere a riposo. E dopo di lui chi si affaccerà al balcone? Dopo il Padre toccherebbe al figlio, ma il figlio non vuole, lo si nota di più se non viene. In fondo nel film precedente l'attore-Moretti non faceva che nicchiare per tutto il film davanti a un pubblico che lo implorava Dai Facci Berlusconi. Alla fine cedeva (e l'unica cosa che tutti si ricordano è quel finale, mi pare). Stavolta no, il pubblico non avrà nessuna soddisfazione, la messa è finita davvero, andate a casa.
O no? Magari è ancora un po' presto per accettare un pontificato; però Moretti qualche tentazione ecumenica ce l'ha. Rallenta il ritmo, consapevole che il pubblico invecchia e ha bisogno di essere preso per mano e guidato al finale; che i guizzi di follia di Sogni d'oro o Palombella Rossa non sono più praticabili. I vecchietti forse non comandano più, ma sono ancora la maggioranza di quella minoranza che entra nelle sale, e Moretti lo sa. Ma è un problema? Oliveira dovrebbe aver compiuto centodue anni, e ancora macina film, porta a casa statuette. Negli anni in cui le sale si riempiono coi vecchietti (o col 3d), Moretti si prende cura dei suoi vecchietti. O dovrebbe buttarsi sul 3d?
Secondo me sì. Moretti 3d, che fa le scenate e ti getta le tazzine addosso, figata. No, dai, scherzo.
lunedì 18 aprile 2011
L'Inquisizione è bipartisan
Come sapete, noi insegnanti siamo di nuovo nel mirino. I politici continuano ad accusarci di inculcare gli studenti, a mettere in dubbio la nostra professionalità, a delegittimarci nei confronti dei genitori... no, beh, scusate, sto generalizzando anch'io. Non tutti i politici. Solo alcuni. Per esempio:
Ops.
Anche il PD si dà alla caccia al prof? Scopritelo sull'Unita.it e commentatelo laggiù.
Ma voi ci credete che gli insegnanti statali, invece di svolgere i programmi, passino le ore di lezione a indottrinare gli studenti? Silvio Berlusconi ci crede, ma questa non mi sembra una gran notizia. Il problema è che sembra crederci anche Roberto Della Seta, senatore del Partito Democratico.
Ops.
Anche il PD si dà alla caccia al prof? Scopritelo sull'Unita.it e commentatelo laggiù.
Ma voi ci credete che gli insegnanti statali, invece di svolgere i programmi, passino le ore di lezione a indottrinare gli studenti? Silvio Berlusconi ci crede, ma questa non mi sembra una gran notizia. Il problema è che sembra crederci anche Roberto Della Seta, senatore del Partito Democratico.
Qualche giorno fa il senatore Della Seta ha letto su "Repubblica" che in un Liceo di Milano insegnava una prof “autrice di un blog dai contenuti chiaramente antisemiti e negazionisti”. Una di quelle insomma che negano che i nazisti abbiano sterminato gli ebrei. Della Seta ci tiene a ricordare che lui comunque è contrario all'introduzione del reato di negazionismo. Però che i negazionisti insegnino nei licei, eh beh, questo è troppo anche per lui, così ha scritto alla Gelmini “di adottare tutte le misure disciplinari possibili per evitare che gli alunni siano costretti ad apprendere la storia e la filosofia da una persona di tal genere”.
Per la verità di questa letterina (e di una, analoga, da parte di esponenti di Sinistra e Libertà) non ci sarebbe stato bisogno: la Gelmini aveva letto lo stesso giornale e aveva già deciso di mandare gli ispettori a verificare il negazionismo dell'insegnante in questione. Però, insomma, la Gelmini la conosciamo, e il suo comportamento non ci stupisce più di tanto. Ma il senatore Della Seta? Gli è bastato leggere un articolo per muovere accuse gravissime nei confronti di un impiegato statale. Non poteva documentarsi un po' di più? Una breve ricerca su internet lo avrebbe portato nel blog incriminato, Agoràdicloro, dove almeno avrebbe potuto ascoltare l'altra campana. L'autrice del blog, Cloro, sostiene di non essere antisemita, di non avere mai negato lo sterminio degli ebrei, e di essere vittima di un vero e proprio stalkingda parte di un giornalista (il cui articolo è stato ampiamente ripreso dal Tg5, il che non sorprende). Ha ragione lei? O ha ragione il giornalista di Repubblica che mettendo insieme un po' di citazioni ha prodotto lo scoop della “prof negazionista”? Penso che possiate tutti farvene un'idea risalendo alle fonti – io tra una prof filopalestinese che scrive su un blog e un giornalista che la accusa virgolettando qua e là non posso che parteggiare per la prima, ma la mia opinione conta quanto la vostra.
Vorrei però sottolineare una cosa: né il giornalista di Repubblica, né Della Seta, arrivano ad affermare che Cloro abbia portato il suo supposto negazionismo in classe. Il giornalista, sibillino, scriveva: “Chissà se alcuni di questi concetti riescano a insinuarsi nelle sue lezioni”. Chissà? A dire il vero sarebbe stato sufficiente fare qualche intervista a studenti o colleghi: se un'insegnante nega la Shoah in una lezione di liceo, qualche testimone lo si dovrebbe pur trovare. Altrimenti resta un'illazione – più che sufficiente per rovinarti una reputazione e una carriera, ma pur sempre un'illazione.
Comunque a Della Seta non servono prove. Per ritenere una prof non idonea all'insegnamento, gli basta che questa prof sia negazionista sul blog che scrive nel suo tempo libero, per un pubblico di qualche centinaio di lettori. Eppure per Della Seta il negazionismo non è un reato. Quindi – anche qualora il suo supposto negazionismo fosse provato (secondo me non lo è) – questa insegnante non sarebbe colpevole di niente. Però non dovrebbe insegnare la Storia e la filosofia. Perché?
Spero di sbagliarmi, ma credo che Della Seta (proprio come Berlusconi) sia convinto che insegnare Storia e filosofia significhi inculcare, propagandare le proprie idee; quindi quello che in casa propria e sul proprio blog non corrisponde a reato diventa inammissibile in un'aula di liceo. Ma allora perché prendersela con Berlusconi? Lui non fa che porsi lo stesso problema. Certo, a Berlusconi danno fastidio i prof rossi, a Della Seta quelli negazionisti, ma entrambi sono convinti che i prof non siano capaci di lasciare le proprie convinzioni politiche a casa. Le porteranno sicuramente a scuola, per cui... bisogna prevenire il problema. Mandando i figli alle private, propone Berlusconi (coi buoni scuola che paghiamo noi, ma vabbe'). Della Seta invece è di sinistra, così preferisce espellere il funzionario colpevole di non ortodossia. Voi chi preferite? Io, davvero, oggi sono un po' più incerto del solito.
Daccapo. Voi ci credete che gli insegnanti – rossi o negazionisti che siano – passino il tempo a propagandare le loro idee agli studenti? Io no. Per un semplice motivo: non gli conviene. La maggior parte dei prof non ha nessuna ideologia da propagandare. Chi ce l'ha, di solito se la tiene ben stretta: il prof italiano è costantemente sotto osservazione. Studenti e genitori lo giudicano molto prima che lui abbia il diritto di giudicare loro. Inoltre, spesso non c'è niente di meglio di un maestro fascista per ottenere un allievo antifascista (e viceversa, purtroppo). In fondo la generazione che ha fatto la Resistenza e ci ha lasciato la Costituzione era quasi tutta passata attraverso l'asfissiante scuola del Ventennio.
Insomma, la scuola italiana – con tutti i suoi difetti, che sono tantissimi – mi sembra per sua natura refrattaria alla propaganda, perlomeno a quella dell'insegnante, che non è mai stato presentato come un maestro di vita da imitare. Questo anche grazie ai nostri politici, di sinistra o di destra, che una scusa per metterci in discussione lo trovano sempre. Se necessario, sono disposti anche a leggerci i blog (attenti a quel che scrivete...) http://leonardo.blogspot.com
giovedì 14 aprile 2011
I diabolici Agit-Prof
È probabile che, dopo tante battaglie vinte e pareggiate, ormai l'anonimato on line abbia perso la guerra. E siccome la Storia la scriveranno i vincitori, diranno cose terribili di noi ex-anonimi. In sostanza, eravamo un esercito di rosiconi in pigiama che usavano internet per infamare le persone normali. E alcuni di noi erano veramente così. Però. Vi va di ascoltare l'altra campana, per una volta? Potrebbe essere l'ultima.
Il motivo per cui ho cercato per tanti anni di restare anonimo, lo trovavate ieri in homepage sulla Repubblica. No, non ci sono io (grazie al cielo): però avrei potuto benissimo essere io, mi è andata bene. Invece c'è un'altra persona, con un nome e un cognome, che insegna in una scuola e ha il torto imperdonabile di scrivere le proprie opinioni su un blog. E siccome questo non costituisce ancora reato, il giornalista Marco Pasqua calca la mano, e si inventa che questa persona sia una negazionista, una che non crede allo sterminio degli ebrei. Non che sia vero. Basta leggere il suo blog. Ma Pasqua il blog non lo linca: virgoletta un sacco di citazioni, ma non rimanda alla fonte. Chi ha davvero voglia di verificare, cercherà. Per tutti gli altri Barbara Albertoni resterà una negazionista. C'è scritto in homepage sulla Repubblica, “La prof negazionista del Manzoni”, sarà vero, no? Perché nel pezzo si legge che tiene lezioni negazioniste al liceo Manzoni, no?
No. Nel pezzo c'è solo un mosaico di citazioni prese da un blog (e nessuna di queste nega l'evidenza dello sterminio degli ebrei). Nessun riferimento alle lezioni della professoressa Albertoni. Soltanto, verso la fine del pezzo, un “chissà”:
“E chissà se alcuni di questi concetti riescano a insinuarsi nelle sue lezioni”.
Già, chissà se si insinuano. Non lo sapremo mai.
Perché per saperlo ci servirebbe un giornalista vero. Uno che muova il culo e vada a intervistare gli studenti: è vero che la vostra prof è negazionista? Che discorsi vi fa? Sapete che ha un blog? Lo leggete? Eh, ma sarebbe faticoso.Virgolettare frasi qua e là da un blog è molto più semplice. Accusare un nome e cognome di negazionismo, facilissimo. Rovinare la reputazione a un dipendente pubblico: come fare due più due. Ho trovato sul blog che scrivi nel tempo libero delle frasette che non condivido. Questo mi fa pensare che tu non sappia fare il tuo mestiere. Lo scriverò su un quotidiano ad ampia diffusione nazionale...
L'Albertoni l'ha presa bene, buon per lei: non so come avrei reagito al suo posto. Quel che è sicuro è che avrei benissimo potuto essere al suo posto. Non importa ora quali opinioni abbia in comune con lei e quali no. Un bel giorno qualcuno decide che sono un negazionista, o un terrorista, o un pedofilo, e lo scrive sul giornale. Non è vero? Al limite qualche mese dopo ci sarà un trafiletto di rettifica a pagina trenta. Nel frattempo toccherà a me giustificarmi. Col dirigente, coi ragazzi, coi genitori, con gli ispettori del Ministero, con quelli del Comune: me la sbriglio io, del resto è colpa mia. Ho osato avere opinioni personali e scriverle, nel mio tempo libero, su un blog pubblico. Non si fa. Le opinioni vanno lasciate a quelli che sono pagati per scriverle. Hanno un albo, hanno l'assistenza legale, hanno uno stipendio, hanno un nome e un cognome. Possono permetterselo, loro. La libertà di opinione è roba per loro.
Non per noi. Oltre a non poter avere opinioni a scuola, sarebbe meglio che non ne manifestassimo nemmeno nel tempo libero. Perché, c'è differenza? Alla fine anche Pasqua, come l'onorevole Innominabile e gli amici della sua commissione anti-libri-di-testo-comunisti, sembra persuaso che la scuola sia una formidabile macchina di propaganda. Ma da quand'è che tutti questi signori non mettono il loro vero piede in una vera scuola? Fingiamo per un istante che sia tutto vero: che i libri di testo siano tutti approvati da una commissione congiunta Hamas - Quarta Internazionale, e che gli insegnanti di ogni ordine siano tutti affiliati a questa organizzazione comunista antisemita clandestina: anche in questo caso, non meriteremmo di essere giudicati per i risultati? E vi risulta che stiamo producendo una generazione di comunisti filopalestinesi? Forse varrebbe la pena di tenerci così, faziosi come siamo.
Però, davvero, secondo voi la scuola funziona così? Cioè: credete davvero che abbiamo tutto questo tempo per parlare di Intifada, di camere a gas, di Togliatti e Berlusconi? Avete mai dato un'occhiata agli orari, ai programmi? Avete un'idea di quante classi arrivano davvero a leggiucchiare le ultime cento pagine del testo di Storia? Ma lo avete capito che tutte quelle faziosissime frasi su Berlusconi e Togliatti non le leggerà nessuno; che quei capitoli arriveranno intonsi al macero; che ha già del miracoloso se un ragazzino di terza liceo è in grado di trovarla su una carta, la Palestina?
Ma mettiamo anche il caso estremo di un insegnante che decide di affrontare proprio quegli argomenti, e di affrontarli nel modo più fazioso possibile. L'avete mai conosciuto, un insegnante così? E vi ha mai convinto di qualcosa? Io non credo che l'Albertoni faccia propaganda antisemita nelle sue classi; ma penso che qualora cominciasse a farla, molti suoi studenti si convertirebbero all'ebraismo semplicemente per contraddirla. La scuola italiana è refrattaria alla propaganda: l'insegnante medio lo sa, e non ha davvero nessun interesse a mescolare le sue opinioni col suo mestiere.
Certo, ci saranno anche insegnanti faziosi e poco professionali. Ma non li si riconosce dai blog. Chi apre un blog molto spesso sta cercando proprio una valvola di sfogo, un posto confortevole dove gestire le proprie opinioni, lontano dalla classe e dal mestiere quotidiano: che non è quello di catechizzare classi di discepoli adoranti.
Le opinioni sono cose personali. Chi le esprime, si scopre. I ragazzi lo sanno, e ci provano sempre, a chiederti per chi tifi o per chi voti. Non è che siamo tutti delle cime, noi insegnanti, ma non siamo nemmeno tutti così fessi da scoprirci davanti a venticinque ragazzi che non vedono l'ora di metterti in discussione. È una banale questione di sopravvivenza: chi fa questo mestiere di solito conosce la differenza tra un'informazione e un'opinione. Non si può dire la stessa cosa di tanti giornalisti.
Poscritto. Mentre cercavo di buttar giù questa paginetta senza mandare al diavolo un'intera categoria di nomi-cognomi, ho appreso che Vittorio Arrigoni è stato rapito. Arrigoni è ben più di un “blogger”: ma quando i giornalisti se ne sono andati da Gaza, lui è rimasto là, e aveva un blog. Sono sempre i migliori che si ficcano nei guai. Mi unisco alla preghiera dei palestinesi che lo vogliono vivo e libero.
Il motivo per cui ho cercato per tanti anni di restare anonimo, lo trovavate ieri in homepage sulla Repubblica. No, non ci sono io (grazie al cielo): però avrei potuto benissimo essere io, mi è andata bene. Invece c'è un'altra persona, con un nome e un cognome, che insegna in una scuola e ha il torto imperdonabile di scrivere le proprie opinioni su un blog. E siccome questo non costituisce ancora reato, il giornalista Marco Pasqua calca la mano, e si inventa che questa persona sia una negazionista, una che non crede allo sterminio degli ebrei. Non che sia vero. Basta leggere il suo blog. Ma Pasqua il blog non lo linca: virgoletta un sacco di citazioni, ma non rimanda alla fonte. Chi ha davvero voglia di verificare, cercherà. Per tutti gli altri Barbara Albertoni resterà una negazionista. C'è scritto in homepage sulla Repubblica, “La prof negazionista del Manzoni”, sarà vero, no? Perché nel pezzo si legge che tiene lezioni negazioniste al liceo Manzoni, no?
No. Nel pezzo c'è solo un mosaico di citazioni prese da un blog (e nessuna di queste nega l'evidenza dello sterminio degli ebrei). Nessun riferimento alle lezioni della professoressa Albertoni. Soltanto, verso la fine del pezzo, un “chissà”:
“E chissà se alcuni di questi concetti riescano a insinuarsi nelle sue lezioni”.
Già, chissà se si insinuano. Non lo sapremo mai.
Perché per saperlo ci servirebbe un giornalista vero. Uno che muova il culo e vada a intervistare gli studenti: è vero che la vostra prof è negazionista? Che discorsi vi fa? Sapete che ha un blog? Lo leggete? Eh, ma sarebbe faticoso.Virgolettare frasi qua e là da un blog è molto più semplice. Accusare un nome e cognome di negazionismo, facilissimo. Rovinare la reputazione a un dipendente pubblico: come fare due più due. Ho trovato sul blog che scrivi nel tempo libero delle frasette che non condivido. Questo mi fa pensare che tu non sappia fare il tuo mestiere. Lo scriverò su un quotidiano ad ampia diffusione nazionale...
L'Albertoni l'ha presa bene, buon per lei: non so come avrei reagito al suo posto. Quel che è sicuro è che avrei benissimo potuto essere al suo posto. Non importa ora quali opinioni abbia in comune con lei e quali no. Un bel giorno qualcuno decide che sono un negazionista, o un terrorista, o un pedofilo, e lo scrive sul giornale. Non è vero? Al limite qualche mese dopo ci sarà un trafiletto di rettifica a pagina trenta. Nel frattempo toccherà a me giustificarmi. Col dirigente, coi ragazzi, coi genitori, con gli ispettori del Ministero, con quelli del Comune: me la sbriglio io, del resto è colpa mia. Ho osato avere opinioni personali e scriverle, nel mio tempo libero, su un blog pubblico. Non si fa. Le opinioni vanno lasciate a quelli che sono pagati per scriverle. Hanno un albo, hanno l'assistenza legale, hanno uno stipendio, hanno un nome e un cognome. Possono permetterselo, loro. La libertà di opinione è roba per loro.
Non per noi. Oltre a non poter avere opinioni a scuola, sarebbe meglio che non ne manifestassimo nemmeno nel tempo libero. Perché, c'è differenza? Alla fine anche Pasqua, come l'onorevole Innominabile e gli amici della sua commissione anti-libri-di-testo-comunisti, sembra persuaso che la scuola sia una formidabile macchina di propaganda. Ma da quand'è che tutti questi signori non mettono il loro vero piede in una vera scuola? Fingiamo per un istante che sia tutto vero: che i libri di testo siano tutti approvati da una commissione congiunta Hamas - Quarta Internazionale, e che gli insegnanti di ogni ordine siano tutti affiliati a questa organizzazione comunista antisemita clandestina: anche in questo caso, non meriteremmo di essere giudicati per i risultati? E vi risulta che stiamo producendo una generazione di comunisti filopalestinesi? Forse varrebbe la pena di tenerci così, faziosi come siamo.
Però, davvero, secondo voi la scuola funziona così? Cioè: credete davvero che abbiamo tutto questo tempo per parlare di Intifada, di camere a gas, di Togliatti e Berlusconi? Avete mai dato un'occhiata agli orari, ai programmi? Avete un'idea di quante classi arrivano davvero a leggiucchiare le ultime cento pagine del testo di Storia? Ma lo avete capito che tutte quelle faziosissime frasi su Berlusconi e Togliatti non le leggerà nessuno; che quei capitoli arriveranno intonsi al macero; che ha già del miracoloso se un ragazzino di terza liceo è in grado di trovarla su una carta, la Palestina?
Ma mettiamo anche il caso estremo di un insegnante che decide di affrontare proprio quegli argomenti, e di affrontarli nel modo più fazioso possibile. L'avete mai conosciuto, un insegnante così? E vi ha mai convinto di qualcosa? Io non credo che l'Albertoni faccia propaganda antisemita nelle sue classi; ma penso che qualora cominciasse a farla, molti suoi studenti si convertirebbero all'ebraismo semplicemente per contraddirla. La scuola italiana è refrattaria alla propaganda: l'insegnante medio lo sa, e non ha davvero nessun interesse a mescolare le sue opinioni col suo mestiere.
Certo, ci saranno anche insegnanti faziosi e poco professionali. Ma non li si riconosce dai blog. Chi apre un blog molto spesso sta cercando proprio una valvola di sfogo, un posto confortevole dove gestire le proprie opinioni, lontano dalla classe e dal mestiere quotidiano: che non è quello di catechizzare classi di discepoli adoranti.
Le opinioni sono cose personali. Chi le esprime, si scopre. I ragazzi lo sanno, e ci provano sempre, a chiederti per chi tifi o per chi voti. Non è che siamo tutti delle cime, noi insegnanti, ma non siamo nemmeno tutti così fessi da scoprirci davanti a venticinque ragazzi che non vedono l'ora di metterti in discussione. È una banale questione di sopravvivenza: chi fa questo mestiere di solito conosce la differenza tra un'informazione e un'opinione. Non si può dire la stessa cosa di tanti giornalisti.
Poscritto. Mentre cercavo di buttar giù questa paginetta senza mandare al diavolo un'intera categoria di nomi-cognomi, ho appreso che Vittorio Arrigoni è stato rapito. Arrigoni è ben più di un “blogger”: ma quando i giornalisti se ne sono andati da Gaza, lui è rimasto là, e aveva un blog. Sono sempre i migliori che si ficcano nei guai. Mi unisco alla preghiera dei palestinesi che lo vogliono vivo e libero.
mercoledì 13 aprile 2011
Television. Serious Business.
Majority Report
Siccome quando non lavoro o dormo sono spesso qui davanti a cercare di scrivere cose decenti, mi perdo facilmente alla tv le cose di cui tutti parlano, ad esempio la puntata di Report di domenica sera, della quale (vorrei rassicurarvi) non parlerò. Riassumerò solo la cosa per sommi capi, ok? Il programma cominciava con un lungo servizio su una serie di argomenti legati a internet, con un approccio che molti internauti hanno trovato allarmista e superficiale. Va bene così? La Gabanelli si è giustificata spiegando che Report è un programma con un pubblico molto vasto, che costringe a semplificare argomenti complessi e compositi. Insomma, la redazione di Report ha usato il solito alibi delle grandi trasmissioni generaliste. Ma quindi Report è diventato mainstream? E d'ora in poi semplificherà gli argomenti, invece di approfondirli?
Ora semplificherò anch'io. Invece di studiare la cosa da vicino, invertirò le lenti e la guarderò da molto più lontano. Nel 2011, in un Paese chiamato Italia, la più autorevole delle trasmissioni di approfondimento ha parlato di Internet, e siccome l'argomento era ignoto a una buona parte del suo pubblico, ha dovuto semplificare il più possibile i contenuti. Ecco. Riuscite a trovare l'errore? È davvero una cosa tanto aliena, Internet, nel 2011, in Italia? Eppure negli ultimi due anni è successo qualcosa che facciamo ancora fatica ad accettare. Siamo andati tutti su Facebook. Tutti. Anche la zia che non si fidava della posta elettronica, adesso ti fa gli auguri di compleanno e ti manda le sue foto dalla settimana bianca. Non importa quanta banda sia stata requisita per il digitale terrestre, quanto bizantine e poliziesche siano tuttora le restrizioni per il wifi: ce l'abbiamo fatta lo stesso, Internet è diventato di massa. Ma la televisione non se n'è accorta. O (più probabile) fa finta di niente.
Non è solo il problema di Report. Anzi, il servizio di Report è un sintomo. Chi lo ha curato ha cercato di metterci dentro un sacco di cose (Assange, Facebook, la censura...) che avrebbero meritato, ciascuna, un servizio a sé. Ma quei servizi non li fa nessuno. Di internet, in tv, si parla sempre meno. Si usa molto, nel senso che ormai non c'è un telegiornale che non attinga a youtube per la rubrica delle buffonate; così come non c'è giornalista d'assalto pochi istanti dopo un fatto di sangue non vada subito a cercare su Facebook le foto della vittima e i filmini dell'assassino. C'è sempre più gente che nei salotti tv viene salutata come “blogger”, probabilmente in mancanza di definizioni migliori: ma (grazie al cielo) non parlano più di blog: parlano di cucina, di moda, di cinema, di tutto e niente. Di Internet, sempre meno. Non è più un argomento. Forse perché è diventato, finalmente, una parte del paesaggio. Non fa più paura, e grosso modo abbiamo capito come si fa a usare. Così c'è meno urgenza di parlarne.
Penso agli anni '90. Per gran parte di quel decennio non ho avuto internet. Eppure avevo un'idea abbastanza chiara di cosa fosse e a cosa mi sarebbe potuto servire: al punto che il giorno in cui me la sono trovata finalmente davanti, questa Internet, non ho avuto grosse difficoltà a usarla. Perché di Internet avevo già sentito parlare fino alla noia. Dove? Al cinema, per esempio, sin da Wargames e forse anche prima. Ma soprattutto in tv. C'erano quei programmi come Mediamente, che ti prendevano di peso e ti trascinavano nel futuro prossimo. Ti davano l'impressione che un sacco di cose fantastiche ti stessero per succedere, per esempio il frigo avrebbe fatto la spesa da solo, eccetera. Ora, può darsi che tutti questi programmi ci siano ancora da qualche parte nel palinsesto, ma io ho la sensazione che quella finestra si sia progressivamente richiusa, man mano che Internet diventava un elettrodomestico di uso comune. Ora col digitale terrestre in tv vedo solo cuochi e maggiordomi, maggiordomi e cuochi. È da anni che non sento più parlare degli hacker. Fino a qualche anno fa avevo studenti che scrivevano i virus e poi li mandavano agli amici, begli amici. Adesso vogliono tutti fare i cuochi, l'alberghiero ha un boom di iscrizioni. I ragazzi. Le ragazze vogliono diventare Organizzatrici di Eventi.
Insomma, la tv si difende. È comprensibile. Parlava volentieri di Internet quando era ancora una frontiera, il meraviglioso cyberspazio in cui prima o poi saremmo tutti andati a fare sesso virtuale (il successo mediatico di Second Life, qualche anno fa, è dipeso probabilmente dalla somiglianza di quel network con una certa vecchia idea televisiva della Rete). Adesso che Internet è diventata una seria concorrente, la tv te ne parla in modo sempre più sfuocato e superficiale. Proprio nel momento in cui il cyberspazio è diventato una piazza vera, in cui ti scambi gli auguri con la zia. Probabilmente non dovremmo prendercela più di tanto. Forse è il momento di invertire i paradigmi, e cominciare a usare la rete per fare buon approfondimento sulla tv.
Siccome quando non lavoro o dormo sono spesso qui davanti a cercare di scrivere cose decenti, mi perdo facilmente alla tv le cose di cui tutti parlano, ad esempio la puntata di Report di domenica sera, della quale (vorrei rassicurarvi) non parlerò. Riassumerò solo la cosa per sommi capi, ok? Il programma cominciava con un lungo servizio su una serie di argomenti legati a internet, con un approccio che molti internauti hanno trovato allarmista e superficiale. Va bene così? La Gabanelli si è giustificata spiegando che Report è un programma con un pubblico molto vasto, che costringe a semplificare argomenti complessi e compositi. Insomma, la redazione di Report ha usato il solito alibi delle grandi trasmissioni generaliste. Ma quindi Report è diventato mainstream? E d'ora in poi semplificherà gli argomenti, invece di approfondirli?
Ora semplificherò anch'io. Invece di studiare la cosa da vicino, invertirò le lenti e la guarderò da molto più lontano. Nel 2011, in un Paese chiamato Italia, la più autorevole delle trasmissioni di approfondimento ha parlato di Internet, e siccome l'argomento era ignoto a una buona parte del suo pubblico, ha dovuto semplificare il più possibile i contenuti. Ecco. Riuscite a trovare l'errore? È davvero una cosa tanto aliena, Internet, nel 2011, in Italia? Eppure negli ultimi due anni è successo qualcosa che facciamo ancora fatica ad accettare. Siamo andati tutti su Facebook. Tutti. Anche la zia che non si fidava della posta elettronica, adesso ti fa gli auguri di compleanno e ti manda le sue foto dalla settimana bianca. Non importa quanta banda sia stata requisita per il digitale terrestre, quanto bizantine e poliziesche siano tuttora le restrizioni per il wifi: ce l'abbiamo fatta lo stesso, Internet è diventato di massa. Ma la televisione non se n'è accorta. O (più probabile) fa finta di niente.
Non è solo il problema di Report. Anzi, il servizio di Report è un sintomo. Chi lo ha curato ha cercato di metterci dentro un sacco di cose (Assange, Facebook, la censura...) che avrebbero meritato, ciascuna, un servizio a sé. Ma quei servizi non li fa nessuno. Di internet, in tv, si parla sempre meno. Si usa molto, nel senso che ormai non c'è un telegiornale che non attinga a youtube per la rubrica delle buffonate; così come non c'è giornalista d'assalto pochi istanti dopo un fatto di sangue non vada subito a cercare su Facebook le foto della vittima e i filmini dell'assassino. C'è sempre più gente che nei salotti tv viene salutata come “blogger”, probabilmente in mancanza di definizioni migliori: ma (grazie al cielo) non parlano più di blog: parlano di cucina, di moda, di cinema, di tutto e niente. Di Internet, sempre meno. Non è più un argomento. Forse perché è diventato, finalmente, una parte del paesaggio. Non fa più paura, e grosso modo abbiamo capito come si fa a usare. Così c'è meno urgenza di parlarne.
Penso agli anni '90. Per gran parte di quel decennio non ho avuto internet. Eppure avevo un'idea abbastanza chiara di cosa fosse e a cosa mi sarebbe potuto servire: al punto che il giorno in cui me la sono trovata finalmente davanti, questa Internet, non ho avuto grosse difficoltà a usarla. Perché di Internet avevo già sentito parlare fino alla noia. Dove? Al cinema, per esempio, sin da Wargames e forse anche prima. Ma soprattutto in tv. C'erano quei programmi come Mediamente, che ti prendevano di peso e ti trascinavano nel futuro prossimo. Ti davano l'impressione che un sacco di cose fantastiche ti stessero per succedere, per esempio il frigo avrebbe fatto la spesa da solo, eccetera. Ora, può darsi che tutti questi programmi ci siano ancora da qualche parte nel palinsesto, ma io ho la sensazione che quella finestra si sia progressivamente richiusa, man mano che Internet diventava un elettrodomestico di uso comune. Ora col digitale terrestre in tv vedo solo cuochi e maggiordomi, maggiordomi e cuochi. È da anni che non sento più parlare degli hacker. Fino a qualche anno fa avevo studenti che scrivevano i virus e poi li mandavano agli amici, begli amici. Adesso vogliono tutti fare i cuochi, l'alberghiero ha un boom di iscrizioni. I ragazzi. Le ragazze vogliono diventare Organizzatrici di Eventi.
Insomma, la tv si difende. È comprensibile. Parlava volentieri di Internet quando era ancora una frontiera, il meraviglioso cyberspazio in cui prima o poi saremmo tutti andati a fare sesso virtuale (il successo mediatico di Second Life, qualche anno fa, è dipeso probabilmente dalla somiglianza di quel network con una certa vecchia idea televisiva della Rete). Adesso che Internet è diventata una seria concorrente, la tv te ne parla in modo sempre più sfuocato e superficiale. Proprio nel momento in cui il cyberspazio è diventato una piazza vera, in cui ti scambi gli auguri con la zia. Probabilmente non dovremmo prendercela più di tanto. Forse è il momento di invertire i paradigmi, e cominciare a usare la rete per fare buon approfondimento sulla tv.
lunedì 11 aprile 2011
Free Dolomizia Now!
La prima volta che senti parlare di Guardie Regionali pensi: Ok, ci siamo, è ricominciata la stagione delle puttanate leghiste, così presto? Dobbiamo fare il cambio armadi...
La seconda volta che ne senti parlare ti dici: Beh, in effetti stanno semplicemente cercando di creare posti di lavoro - un po' come i forestali in Calabria - è il nuovo assistenzialismo settentrionale. Non se ne farà niente, ma non è mal pensata.
La terza volta ci rifletti bene. Ehi, questi comandano in Regione e vogliono l'esercito. Ma per farne cosa? Per difendersi da chi? Ma dall'autonomismo provinciale, ovvio.
La Prima Guerra delle Dolomiti (H1T#70) si combatte sull'Unita.it e si commenta laggiù.
Il processo di disgregazione della Repubblica Italiana entra nella fase finale con la prima guerra dolomitica (2029-30). Da decenni, del resto, le Dolomiti erano considerate la “polveriera del Triveneto”: si trattava soltanto di capire quando e come il conflitto sarebbe scoppiato. Le prime rivendicazioni di autonomia sono addirittura precedenti all'istituzione della Guardia Regionale Veneta (poi Guardia Serenissima). Sin dal 2007 alcuni comuni, tra i quali Cortina d'Ampezzo, avevano indetto referendum per l'annessione al Trentino Alto Adige: data al 2010 la prima raccolta firme per il passaggio dell'intera provincia alla ricca regione confinante. Negli anni successivi la questione dolomitica si estremizza, mentre cresce nel governo centrale di Venezia la consapevolezza che anche un minimo cedimento territoriale avrebbe segnato la fine dell'entità regionale (erano del resto gli anni della sanguinosa guerra di Secessione Emiliano-romagnola). D'altro canto la politica di chiusura doganale e autarchia, portata avanti da Venezia nel tentativo di salvare la farraginosa industria del Nordest, frustrava la vocazione turistica del bellunese, che guardava con invidia alle autonomie delle regioni confinanti.
La seconda volta che ne senti parlare ti dici: Beh, in effetti stanno semplicemente cercando di creare posti di lavoro - un po' come i forestali in Calabria - è il nuovo assistenzialismo settentrionale. Non se ne farà niente, ma non è mal pensata.
La terza volta ci rifletti bene. Ehi, questi comandano in Regione e vogliono l'esercito. Ma per farne cosa? Per difendersi da chi? Ma dall'autonomismo provinciale, ovvio.
La Prima Guerra delle Dolomiti (H1T#70) si combatte sull'Unita.it e si commenta laggiù.
Il processo di disgregazione della Repubblica Italiana entra nella fase finale con la prima guerra dolomitica (2029-30). Da decenni, del resto, le Dolomiti erano considerate la “polveriera del Triveneto”: si trattava soltanto di capire quando e come il conflitto sarebbe scoppiato. Le prime rivendicazioni di autonomia sono addirittura precedenti all'istituzione della Guardia Regionale Veneta (poi Guardia Serenissima). Sin dal 2007 alcuni comuni, tra i quali Cortina d'Ampezzo, avevano indetto referendum per l'annessione al Trentino Alto Adige: data al 2010 la prima raccolta firme per il passaggio dell'intera provincia alla ricca regione confinante. Negli anni successivi la questione dolomitica si estremizza, mentre cresce nel governo centrale di Venezia la consapevolezza che anche un minimo cedimento territoriale avrebbe segnato la fine dell'entità regionale (erano del resto gli anni della sanguinosa guerra di Secessione Emiliano-romagnola). D'altro canto la politica di chiusura doganale e autarchia, portata avanti da Venezia nel tentativo di salvare la farraginosa industria del Nordest, frustrava la vocazione turistica del bellunese, che guardava con invidia alle autonomie delle regioni confinanti.
Fu un'ordinanza del Governatore Ivan Abu Galan a ufficializzare, verso la metà degli anni Venti, l'occupazione militare dell'intera area dolomitica, nel tentativo di sopprimere una guerriglia endemica e il fiorente mercato del contrabbando sui valichi. Galan, volendo evitare che gli effettivi della Serenissima Guardia simpatizzassero con gli abitanti, dislocò sul territorio i reparti della Legione X Rovigotta, oltre ai famigerati Incursori del Polesine, che si erano fatti le ossa durante il lungo conflitto emiliano-romagnolo, ma che si sarebbero rivelati del tutto inadeguati a fronteggiare una resistenza alpina. La guerriglia assunse anche connotati etnici: una buona parte della Legione X era infatti costituita da volontari slavi e nordafricani, che in cambio di un fermo di cinque anni ottenevano l'ambita cittadinanza veneta. Come ebbe a verificare molti anni più tardi una commissione d'inchiesta interregionale, questi legionari non si abbandonarono a furti e violenze sulla popolazione locale in misura maggiore dei legionari autoctoni: ciononostante il Movimento Autonomista Dolomitico (MAD) ebbe buon gioco a lanciare l'insurrezione “contro i nuovi Mori de Venezia che stuprano e rubano”. Il catastrofico autunno del 2029 fu decisivo: i legionari dovettero accantonare le mitragliette e imbracciare il badile, per far fronte alle piene assolutamente imprevedibili del Bacchiglione e del Brenta. Nel frattempo (dicembre del '29) Cortina d'Ampezzo si autoproclamava capitale della Nuova Repubblica Dolomitica: un mese dopo il MAD liberava Belluno. La nuova Repubblica fu immediatamente riconosciuta da Friuli, Romagna, Gallura e Valtellina, mentre forte era l'imbarazzo del parlamento di Bolzano, che aveva a lungo auspicato un'annessione pacifica di Belluno alla federazione del Grande Tirolo.
A quel punto Abu Galan chiese aiuto a Roma: quella di Cortina era infatti una vera e propria dichiarazione d'indipendenza, un affronto inaudito all'antica Costituzione del 1948. Ma Roma non avrebbe potuto aiutare gli unionisti veneti, nemmeno se avesse voluto: quello che restava dell'Esercito italiano, ormai soppiantato sul territorio dalle più dinamiche Guardie Regionali, era quasi del tutto impiegato oltremare in operazioni di peace-keeping. E comunque per accedere al Veneto l'esercito italiano avrebbe dovuto passare dal crinale tosco-emiliano, devastato dalla guerriglia del Fronte di Liberazione della Garfagnana (FroLiGarf) nonché dall'infinito conflitto tra Emilia Estense ed Emilia Lunense.
Probabilmente Abu Galan non arrivò a chiedere – come tuttora sostengono alcuni storici imperiali – il bombardamento aereo delle Dolomiti. In ogni caso il presidente della Repubblica Omar Caltagirone si limitò a deprecare solennemente gli avvenimenti e auspicare un intervento alla Nato (che aveva chiuso le sue basi venete dieci anni prima, per trasferirsi sui nuovi fronti 'caldi' dell'Europa Orientale e dell'Africa centrale). Quando la Nato confermò il suo sostanziale disinteresse per gli affari interni italiani, Abu Galan si risolse a chiedere aiuto all'Unione Europea. Benché l'Italia fosse uscita dall'Unione ormai da vent'anni, la UE manteneva forti interessi commerciali, soprattutto nella Valle padana, dove molte multinazionali, attirate dalla lira debole e dall'enorme serbatoio di manodopera sottopagata, avevano trasferito gli impianti produttivi. Verso la fine degli anni Venti tuttavia questa fase stava per concludersi: lo stato di guerriglia permanente allontanava gli investitori e manteneva bassi i consumi.
E tuttavia Bruxelles non sembrava considerare così urgente la questione dolomitica. Il rischio era sempre quello di ritrovarsi una massa di profughi ai valichi con l'Austria o la Slovenia. Furono le immagini delle stragi di Lamone e di Lavaredo a cambiare la percezione dell'opinione pubblica europea nei confronti di Abu Galan e del suo luogotenente, il famigerato Sharif Gentilini, contro i quali furono persino spiccati mandati di cattura internazionali. Ma anche i governanti dell'UE non avrebbe mai consentito il bombardamento di un patrimonio Unesco. Mentre comunque tra Bruxelles e Strasburgo se ne discuteva, una primavera precoce aveva riportato la Guardia Serenissima in quota: il venti febbraio la giunta del MAD aveva dovuto abbandonare Belluno in direzione Ponte delle Alpi; il dieci marzo cadeva Longarone; due settimane più tardi capitolava anche Pieve di Cadore, aprendo la strada verso Cortina. Fu a quel punto che quello che restava del MAD si risolse a un gesto che avrebbe cambiato per sempre la Storia europea, votando un solenne atto di sottomissione a Damir Ibrahimovic von Habsburg, presidente della Croazia, nonché titolare di quattro alberghi e un impianto sciistico nel bellunese. Lontano parente di una delle più antiche famiglie dell'aristocrazia europea, Ibrahimovic non esitò a intervenire per salvare le sue proprietà. Mentre la piccola flotta croata bloccava indisturbata i porti veneti (la Serenissima non aveva nessun tipo di marina militare), un contingente di “osservatori” sbarcava il primo aprile a Jesolo, facendosi strada senza colpo ferire fino a Mestre. Fu probabilmente la generosità di Ibrahimovic il segreto del suo rapido successo: invece di arrestare Abu Galan e consegnarlo al Tribunale dell'Aja, il Presidente croato riconobbe al governatore serenissimo l'autonomia sulla laguna veneta e su parte del territorio di Padova e Treviso. Il resto del Veneto, martoriato dalle imprevedibili alluvioni e dalla guerriglia autonomista, fu occupato dai croati, ai quali subentrarono ben presto gli legionari dell'ex Guardia Serenissima, riconvertita da Ibrahimovic von Habsburg in esercito privato. Quest'ultimo in effetti non intendeva annettere i territori veneti alla Croazia, quanto piuttosto creare un suo feudo personale sull'altra sponda dell'Adriatico. La gente era abbastanza stanca di guerre per le autonomie ed era disposta ad appoggiare qualsiasi signorotto garantisse una relativa serenità. I veneti accolsero quindi con entusiasmo le liberali concessioni di Ibrahimovic, che in cambio dell'atto di sottomissione concesse ai comuni più popolati il diritto di battere moneta, riscuotere tasse e gabelle e stabilire i guidrigildi.
E tuttavia Bruxelles non sembrava considerare così urgente la questione dolomitica. Il rischio era sempre quello di ritrovarsi una massa di profughi ai valichi con l'Austria o la Slovenia. Furono le immagini delle stragi di Lamone e di Lavaredo a cambiare la percezione dell'opinione pubblica europea nei confronti di Abu Galan e del suo luogotenente, il famigerato Sharif Gentilini, contro i quali furono persino spiccati mandati di cattura internazionali. Ma anche i governanti dell'UE non avrebbe mai consentito il bombardamento di un patrimonio Unesco. Mentre comunque tra Bruxelles e Strasburgo se ne discuteva, una primavera precoce aveva riportato la Guardia Serenissima in quota: il venti febbraio la giunta del MAD aveva dovuto abbandonare Belluno in direzione Ponte delle Alpi; il dieci marzo cadeva Longarone; due settimane più tardi capitolava anche Pieve di Cadore, aprendo la strada verso Cortina. Fu a quel punto che quello che restava del MAD si risolse a un gesto che avrebbe cambiato per sempre la Storia europea, votando un solenne atto di sottomissione a Damir Ibrahimovic von Habsburg, presidente della Croazia, nonché titolare di quattro alberghi e un impianto sciistico nel bellunese. Lontano parente di una delle più antiche famiglie dell'aristocrazia europea, Ibrahimovic non esitò a intervenire per salvare le sue proprietà. Mentre la piccola flotta croata bloccava indisturbata i porti veneti (la Serenissima non aveva nessun tipo di marina militare), un contingente di “osservatori” sbarcava il primo aprile a Jesolo, facendosi strada senza colpo ferire fino a Mestre. Fu probabilmente la generosità di Ibrahimovic il segreto del suo rapido successo: invece di arrestare Abu Galan e consegnarlo al Tribunale dell'Aja, il Presidente croato riconobbe al governatore serenissimo l'autonomia sulla laguna veneta e su parte del territorio di Padova e Treviso. Il resto del Veneto, martoriato dalle imprevedibili alluvioni e dalla guerriglia autonomista, fu occupato dai croati, ai quali subentrarono ben presto gli legionari dell'ex Guardia Serenissima, riconvertita da Ibrahimovic von Habsburg in esercito privato. Quest'ultimo in effetti non intendeva annettere i territori veneti alla Croazia, quanto piuttosto creare un suo feudo personale sull'altra sponda dell'Adriatico. La gente era abbastanza stanca di guerre per le autonomie ed era disposta ad appoggiare qualsiasi signorotto garantisse una relativa serenità. I veneti accolsero quindi con entusiasmo le liberali concessioni di Ibrahimovic, che in cambio dell'atto di sottomissione concesse ai comuni più popolati il diritto di battere moneta, riscuotere tasse e gabelle e stabilire i guidrigildi.
Il suo disegno avrebbe preso forma più compiuta una trentina d'anni più tardi. A quel punto il figlio di Ibrahimovic, Mustapha II Habsburg, aveva già unito al titolo di Margravio delle Dolomiti le corone di Croazia e Montenegro, riunitesi con un plebiscito in una monarchia ereditaria. Fu Papa Giovanni Mohammed III, scacciato da Roma durante i moti indipendentisti ciociari, a chiedere il suo intervento nell'Italia centrale. Sconfitti i ribelli nella battaglia di Zagarolo, Mustapha fu ricompensato dal pontefice con quel titolo di Sacro Romano Imperatore, che – dopo duecentottant'anni – tornava finalmente alla casata Asburgo. L'Impero era risorto: il medioevo era finito. http://leonardo.blogspot.com
venerdì 8 aprile 2011
Uomini e talpe
Gli ultimi giorni dell'umanità
- Io credo che chiunque abbia gli occhi per vedere, e non per piagnucolare, possa valutare da solo che uomini sono questi Bossi, questi Maroni, che di fronte a un'emergenza umanitaria gridano foera di ball, fanno portare cucine da campo a Lampedusa ma non le montano, aspettano che una folla affamata distrugga tutto e poi portano spazzini e telecamere per mostrare al loro elettorato che siamo alle invasioni barbariche; lasciano una ventina di marinai a pattugliare un enorme braccio di mare e poi stringono le spalle di fronte a una tragedia evitabile; tanto in mezzo c'è sempre una Malta o una Francia su cui puntare il dito, come lo punta sul compagno il bambino sorpreso dalla maestra. Non sono criminali, questi bambini che sventolando fazzoletti verdi sono arrivati a responsabilità di governo e ora giocano con la vita dei loro simili? Fino a che punto il proprio tornaconto elettorale li giustifica di fronte all'orrore, quanto costa esattamente in vite umane vincere le elezioni in Brianza? Chiunque ha occhi per vedere e non per piagnucolare può vedere quanto siano criminali, e quanto assassina sia la loro negligenza.
Eppure odiarli è difficile. Sono un po' troppo banali, questi amministratori locali del male; non fanno che incarnare i nostri difetti, trarli alle estreme conseguenze. La paura per lo straniero non l'hanno inventata loro; loro non hanno fatto che aprirci la loro piccola impresa, la loro fabbrichetta, trent'anni fa. Col senno del poi fu un ottimo investimento: da allora il sud del mondo ha quasi raddoppiato le bocche da sfamare, mentre il nord alzava le barricate; il nodo prima o poi doveva venire al pettine. Chiunque può calcolare quanto abbiamo perso in umanità, negli ultimi vent'anni di sbarchi: quanto rapidamente si è spenta quella solidarietà genuina che mostravamo per i primi albanesi e i cossovari, appena abbiamo capito che non erano piccoli fuochi, ma le prime scintille di un incendio mondiale. I nostri governanti non fanno che interpretare al meglio quello che siamo diventati: animali tutto sommato mansueti che quando li si preme ai confini hanno ancora qualche energia per mostrare i denti.
Ma gli intellettuali? Non devono mica farsi eleggere. Nessuno pretende che si facciano interpreti dei nostri istinti più bassi. Anzi, dovrebbero mirare un po' più in alto per definizione; nell'eclissi della nostra coscienza, conservare per noi il ricordo della luce, e ricordarci sommessamente che potremmo essere migliori di così, potremmo essere uomini e non bestie. E invece guarda che bel servizio ci rende Ceronetti, col suo temino xenofobo che nessuno gli aveva chiesto, ma che molte bestie apprezzeranno. “Non ho prove provabili”, scrive, “ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali”. Ed è tutto quello che gli serve per tenere la sua concione: l'istinto animale del pericolo. La sua “pulce nell'orecchio” non è un dato preciso, né un'informazione verificabile, nulla. Ceronetti ha il senso di ragno di Peter Parker, sente un complotto islamico dietro le spalle e ci vuole tenere informati, grazie Ceronetti, ma avrebbe potuto dircelo qualsiasi boccalone al bar. Sì, però vuoi mettere con uno che al bar ti cita Kafka e il cavallo di Troia? Ed eccolo qui, il più bell'argomento contro la cultura: se dai da leggere Kafka a una capra, ne brucherà le pagine e resterà capra; se lo dai a un scimpanzè rischi che te lo tiri in testa: lo hai dato a Ceronetti, guarda cosa ne fa.
La questione israeliana. Ma io qui credo che ci sia un refuso. Avranno tutti copiato e incollato male, andiamo, non è possibile che un pregiato scrittore lasci sulle colonne di un quotidiano questa frase, nel 2011: “Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro”. Si possono dire cose molto brutte su Israele, ma ci vive già più di un milione di arabi con diritto di cittadinanza. Voglio dire che lo sanno anche le talpe. O non lo sanno? E di cosa hanno discusso, per tutti questi anni, le talpe, sul giornale?
"In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano… Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco".
Il Novecento è davvero la nuova Bibbia. Messo di fronte a un fatto nuovo, l'intellettuale cosa fa? Va a controllare se rientra nella casistica dei Sacri testi. C'è una folla di profughi? Andiamo a sfogliare il Libro dei Profughi del Novecento, dunque... ecco, ci sono soprattutto donne, bambini, vecchi che si trascinano. Invece nelle foto a colori del giornale, qui, sono baldi giovanotti, e allora fermi tutti: l'intellettuale ha scoperto un'impostura, un complotto. “ Il mio non è che un sospetto fondato”. Fondato sul suo senso di ragno, che gli anni hanno reso acutissimo.
Per fortuna che noi animali europei abbiamo ancora un forte istinto, lo si vede dalle bandiere ai balconi. “Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?” Meno male che Ceronetti comprende. Lui è collegato con l'anima profonda, ne sa interpretare i gridi silenziosi, per esempio quell'arcano, intraducibile “Foera di ball”, finalmente trova in lui il fine esegeta, il traduttore. Abbiamo bisogno di più gente come lui, che metta in belle parole i nostri istinti, che suoni il suo tamburino istoriato con fregi Novecento mentre noi scaviamo i fossati e alziamo i recinti.
“Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.”
Parole desuete, parole buffe, il consueto bric-à-brac letterario che ha sempre il suo mercato, per dire cosa? Niente, è destino di ogni temino poco ispirato risolversi in tautologia. Ceronetti aveva rivendicato nella prima riga il suo istinto del pericolo, “comune agli animali”; nell'ultima riga si lascia sfuggire che soluzioni umane al problema non ce ne sono. Insomma l'umanità è un lusso, grazie Ceronetti, ma a quel punto perché Kafka, perché Omero, perché le canzoni di gesta, perché pagarti un vitalizio? Non sarebbero soldi meglio spesi in barricate, filo spinato, alta tensione?
Ma forse no. Anche quando saremo lupi - e il giorno non è così lontano - avremo sempre bisogno di un lupo anziano e un po' più ispirato che ululi alla luna. Com'è da millenni, e la luna resta luna. E i cani restano cani. I più bravi, i più brillanti, se gli tiri Kafka te lo riportano.
- Io credo che chiunque abbia gli occhi per vedere, e non per piagnucolare, possa valutare da solo che uomini sono questi Bossi, questi Maroni, che di fronte a un'emergenza umanitaria gridano foera di ball, fanno portare cucine da campo a Lampedusa ma non le montano, aspettano che una folla affamata distrugga tutto e poi portano spazzini e telecamere per mostrare al loro elettorato che siamo alle invasioni barbariche; lasciano una ventina di marinai a pattugliare un enorme braccio di mare e poi stringono le spalle di fronte a una tragedia evitabile; tanto in mezzo c'è sempre una Malta o una Francia su cui puntare il dito, come lo punta sul compagno il bambino sorpreso dalla maestra. Non sono criminali, questi bambini che sventolando fazzoletti verdi sono arrivati a responsabilità di governo e ora giocano con la vita dei loro simili? Fino a che punto il proprio tornaconto elettorale li giustifica di fronte all'orrore, quanto costa esattamente in vite umane vincere le elezioni in Brianza? Chiunque ha occhi per vedere e non per piagnucolare può vedere quanto siano criminali, e quanto assassina sia la loro negligenza.
Eppure odiarli è difficile. Sono un po' troppo banali, questi amministratori locali del male; non fanno che incarnare i nostri difetti, trarli alle estreme conseguenze. La paura per lo straniero non l'hanno inventata loro; loro non hanno fatto che aprirci la loro piccola impresa, la loro fabbrichetta, trent'anni fa. Col senno del poi fu un ottimo investimento: da allora il sud del mondo ha quasi raddoppiato le bocche da sfamare, mentre il nord alzava le barricate; il nodo prima o poi doveva venire al pettine. Chiunque può calcolare quanto abbiamo perso in umanità, negli ultimi vent'anni di sbarchi: quanto rapidamente si è spenta quella solidarietà genuina che mostravamo per i primi albanesi e i cossovari, appena abbiamo capito che non erano piccoli fuochi, ma le prime scintille di un incendio mondiale. I nostri governanti non fanno che interpretare al meglio quello che siamo diventati: animali tutto sommato mansueti che quando li si preme ai confini hanno ancora qualche energia per mostrare i denti.
Ma gli intellettuali? Non devono mica farsi eleggere. Nessuno pretende che si facciano interpreti dei nostri istinti più bassi. Anzi, dovrebbero mirare un po' più in alto per definizione; nell'eclissi della nostra coscienza, conservare per noi il ricordo della luce, e ricordarci sommessamente che potremmo essere migliori di così, potremmo essere uomini e non bestie. E invece guarda che bel servizio ci rende Ceronetti, col suo temino xenofobo che nessuno gli aveva chiesto, ma che molte bestie apprezzeranno. “Non ho prove provabili”, scrive, “ma ho il senso del pericolo, in comune con tutti gli animali”. Ed è tutto quello che gli serve per tenere la sua concione: l'istinto animale del pericolo. La sua “pulce nell'orecchio” non è un dato preciso, né un'informazione verificabile, nulla. Ceronetti ha il senso di ragno di Peter Parker, sente un complotto islamico dietro le spalle e ci vuole tenere informati, grazie Ceronetti, ma avrebbe potuto dircelo qualsiasi boccalone al bar. Sì, però vuoi mettere con uno che al bar ti cita Kafka e il cavallo di Troia? Ed eccolo qui, il più bell'argomento contro la cultura: se dai da leggere Kafka a una capra, ne brucherà le pagine e resterà capra; se lo dai a un scimpanzè rischi che te lo tiri in testa: lo hai dato a Ceronetti, guarda cosa ne fa.
La questione israeliana. Ma io qui credo che ci sia un refuso. Avranno tutti copiato e incollato male, andiamo, non è possibile che un pregiato scrittore lasci sulle colonne di un quotidiano questa frase, nel 2011: “Se Israele accogliesse tre o quattromila palestinesi, Gerusalemme, il supremo esito del 1967, sarebbe subito, com’è già in parte, casa loro”. Si possono dire cose molto brutte su Israele, ma ci vive già più di un milione di arabi con diritto di cittadinanza. Voglio dire che lo sanno anche le talpe. O non lo sanno? E di cosa hanno discusso, per tutti questi anni, le talpe, sul giornale?
"In qualità di profughi da guerre, lo scenario di guerra è da trovare. Le folle di veri profughi le conosciamo: prevalgono le donne e i bambini, ci sono immagini strazianti di vecchi che si trascinano… Qui l’anomalia è sbadigliante: di vecchi neanche l’ombra, e di aneliti a trovare lavoro non ce n’è spreco".
Il Novecento è davvero la nuova Bibbia. Messo di fronte a un fatto nuovo, l'intellettuale cosa fa? Va a controllare se rientra nella casistica dei Sacri testi. C'è una folla di profughi? Andiamo a sfogliare il Libro dei Profughi del Novecento, dunque... ecco, ci sono soprattutto donne, bambini, vecchi che si trascinano. Invece nelle foto a colori del giornale, qui, sono baldi giovanotti, e allora fermi tutti: l'intellettuale ha scoperto un'impostura, un complotto. “ Il mio non è che un sospetto fondato”. Fondato sul suo senso di ragno, che gli anni hanno reso acutissimo.
Per fortuna che noi animali europei abbiamo ancora un forte istinto, lo si vede dalle bandiere ai balconi. “Un senso di inconscio risveglio dell’istinto difensivo mi pare di leggerlo in questa perdurante spontanea esposizione del tricolore. C’è come un grido silenzioso dell’anima profonda. Queste bandiere non celebrano un passato, ma sono talpa che non vuole diventare casa loro e grida aiuto. Ma a chi, se nessuno comprende?” Meno male che Ceronetti comprende. Lui è collegato con l'anima profonda, ne sa interpretare i gridi silenziosi, per esempio quell'arcano, intraducibile “Foera di ball”, finalmente trova in lui il fine esegeta, il traduttore. Abbiamo bisogno di più gente come lui, che metta in belle parole i nostri istinti, che suoni il suo tamburino istoriato con fregi Novecento mentre noi scaviamo i fossati e alziamo i recinti.
“Difficile, più che mai, capire; ma intelligere è essenziale. E una volta compreso prendere decisioni giuste è difficilissimo. Volerle giuste e umane, e insieme battere un nemico oscuro, un’armata disarmata, che ha per unica micidiale arma il numero, è una canzone di gesta.”
Parole desuete, parole buffe, il consueto bric-à-brac letterario che ha sempre il suo mercato, per dire cosa? Niente, è destino di ogni temino poco ispirato risolversi in tautologia. Ceronetti aveva rivendicato nella prima riga il suo istinto del pericolo, “comune agli animali”; nell'ultima riga si lascia sfuggire che soluzioni umane al problema non ce ne sono. Insomma l'umanità è un lusso, grazie Ceronetti, ma a quel punto perché Kafka, perché Omero, perché le canzoni di gesta, perché pagarti un vitalizio? Non sarebbero soldi meglio spesi in barricate, filo spinato, alta tensione?
Ma forse no. Anche quando saremo lupi - e il giorno non è così lontano - avremo sempre bisogno di un lupo anziano e un po' più ispirato che ululi alla luna. Com'è da millenni, e la luna resta luna. E i cani restano cani. I più bravi, i più brillanti, se gli tiri Kafka te lo riportano.
mercoledì 6 aprile 2011
Cosa portare a casa
Dai dai dai
- Comincio con una cosa che non c'entra niente con Boris. Ma niente davvero.
Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un antico film italiano – ci sono film degli anni Cinquanta che sono ancora attualissimi, questo invece è a colori del 1970 ma davvero sembra un reperto di un'era geologicamente lontana, si chiama Lettera aperta a un giornale della sera e racconta le vicissitudini di un élite di intellettuali romani di sinistra, oggi li chiameremmo radical chic ma sbaglieremmo, in realtà sarebbero l'intelligentsia organica del PCI, hanno fatto pure la Resistenza, ma adesso stanno cominciando a fare qualche soldo nell'industria culturale e non sanno se vergognarsene; per il resto il PCI di Longo non sa bene cosa fare di loro, così tirano tardi sui terrazzini, seducono le studentesse (senza comprendere bene tutta la frenesia sessantottarda), restaurano automobili d'epoca, firmano i comunicati. Ecco, una sera mentre sono lì su un terrazzino che discutono di Lacan, telefona il Paese Sera che vuole un intervento sui recenti fatti del Vietnam (c'era stata una strage nel Vietnam), e questi un po' per scherzo un po' per dar senso alla serata scrivono un comunicato durissimo in cui in sostanza dicono basta coi comunicati e coi terrazzini, è ora di agire, chiediamo pubblicamente di formare un battaglione volontario di intellettuali e andare a sparare agli americani sul Mekong. Il Paese Sera ovviamente non glielo pubblica, però dopo un po' la lettera esce sull'Espresso, e a quel punto a tutti questi signori ben sistemati crolla il mondo in testa. Dopo un po' di riunioni e convulsioni e autocritiche che si seguono con una certa fatica (è un film molto parlato ma la traccia audio si è sbiadita, come conviene ai reperti archeologici), alla fine il gruppetto decide di dire addio alla dolce vita e partire sul serio. Si radunano, ovviamente, in un casolare in Toscana, aspettando che passi a prenderli un compagno che ha i permessi. Il compagno arriva, li abbraccia, ma i permessi non li ha: all'ultimo momento l'esercito di liberazione Vietkong ha deciso di rifiutare la generosa offerta. E i nostri eroi restano lì, in mezzo allo stradone, senza più arte ne parte, per terra c'è una lattina e uno di loro senza pensarci la calcia via. Qualcun altro gliela ribatte. Nel giro di pochi secondi l'intelligentsia di sinistra comincia a tirare colpi furiosi a una lattina in mezzo alla strada, e questa scena finale, che vale tutto il film, al tempo pare che fu molto criticata: Maselli fu accusato di strizzare l'occhio alla commedia all'Italiana (oggi questo sarebbe un complimento, ma appunto, stiamo parlando di un'era arcaica).
Io vado più in là: il calcetto rabbioso, disperato, che chiude questo film, è la profezia di vent'anni di cinema italiano bruttino: ci si leggono in nuce tutte le partitelle dei film degli anni Zero, degli anni Novanta, forse anche degli anni Ottanta, la poetica dell'infanzia protratta oltre qualsiasi plausibilità, anche ai bordi dei teatri di guerra. Quanto siamo immaturi, ma quanto siamo simpatici, ma quanto siamo immaturi. Però simpatici. Però immaturi. Sempre così. E all'estero forse piacciamo così, per dire col calcetto di guerra Salvatores ci ha anche vinto un Oscar.
Mi chiedo invece se sia un film comprensibile all'estero, Boris; se il malessere che disseziona senza pietà sia commerciabile al di fuori della nostra nicchia angusta, magari anche dopo che ce ne saremo andati e la traccia audio comincerà a sbiadire. Non so neanche se augurarmelo, forse l'oblio sarebbe più pietoso nei nostri confronti, e allo stesso tempo mi piacerebbe che i nostri nipoti capissero come ci sentivamo, ai nostri tempi, quei tempi in ci siamo messi tutti messi a dire: Dai, dai, dai. Cosa significava dunque essere italiani nel 2011, lavorare in Italia nel crepuscolo di Berlusconi? Questa sensazione di galleggiare sul marcio, senza pretese di essere migliori, anzi, accettando i compromessi, finché non te li trovi praticamente infilati nel retto a forza, i compromessi, e allora ti ribelli: non è per politica, politica hai smesso di farla, a un certo livello è semplicemente un riflesso condizionato, potrebbe essere qualsiasi cosa, una luce troppo smarmellata, un ralenty ridicolo, a un certo punto abbiamo detto di no. Però non ce ne siamo andati, andare dove? Alla nostra età? E poi ormai c'è la crisi dappertutto, così siamo rimasti lì, aspettando che un altro riflesso condizionato ci rimettesse in carreggiata, che un'altra voce nella nostra testa ricominciasse a dire Dai. Dai. Dai che stavolta ce la possiamo fare. Dai che stavolta la portiamo a casa. Perché sarà diverso, stavolta. Non ci faremo andare bene tutto. Sapremo dire di no, anche agli amici se necessario. Stavolta faremo un buon lavoro.
Infatti non è che abbiamo tutte queste ambizioni. Forse sta lì il problema? Noi non siamo i roberto saviano di niente, noi nella vita vorremmo soltanto fare un buon lavoro, un lavoro serio. Qualunque cosa, anche un ristorantino, perché no, diteci soltanto cosa si può fare di serio in Italia e noi ci proveremo. Poi, quando tutto ricomincia ad andare a rotoli, non abbiamo neanche la forza per mandare tutto a fanculo; ci resta il sospetto di essere noi stessi il problema, noi che tolleriamo tutto quello che ci scorre intorno finché non ci sovrasta, noi che siamo sempre disposti al compromesso, anche col demonio, anche col proctologo del demonio, ma sappiamo veramente cosa vogliamo? Se a un certo punto, a furia di restringere le nostre ambizioni, a circoscriverle, le ridurremo a un punto - cosa ci sarà in quel punto? Dai dai dai, ma dai dai cosa? Cos'è che vogliamo veramente portare a casa?
Non lo so se Boris sia un buon film. So che Pannofino è un grande attore; dal momento in cui mi sono seduto mi sono ritrovato dentro al suo René Ferretti, e tutto quello che volevo era uscirne con dignità, finire un film decente, fare qualcosa di serio. E alla fine, dai dai dai [spoiler] mi sono ritrovato infilato a forza un cinepanettone. Così è l'Italia e purtroppo così sono anche io.
Mi è piaciuto, mi sono sentito male esattamente come volevo sentirmi, grazie. Temo solo che pochi al di fuori di noi possano capirlo; che il nostro malessere sia oltre un certo limite incomunicabile; e forse un po' ci spero anche. Forse alla fine avrei osato di più, avrei smarmellato più grottesco, è una spezia che non mi stanca mai. La scena in cui sono tutti al cinema a rimirare il loro stesso orrore, ecco, lì avrei calcato più la mano. Prima li avrei mostrati impassibili, tristi, mentre visionano scoregge. Poi lentamente avrei cominciato a farli ridere; risate nervose all'inizio, poi sempre più sforzate, sempre più tignose, col risucchio a scoreggia. Grandi risate tragiche, mentre la sala diventa buia. Li avrei fatti ridere fino a morirne, con la stessa energia disperata con cui gli intellettuali di Maselli infuriavano su una povera lattina, in un antico film di quaranta anni fa. Quanto siamo simpatici; però, riflettendoci bene, quanto schifo facciamo.
- Comincio con una cosa che non c'entra niente con Boris. Ma niente davvero.
Qualche tempo fa mi è capitato di vedere un antico film italiano – ci sono film degli anni Cinquanta che sono ancora attualissimi, questo invece è a colori del 1970 ma davvero sembra un reperto di un'era geologicamente lontana, si chiama Lettera aperta a un giornale della sera e racconta le vicissitudini di un élite di intellettuali romani di sinistra, oggi li chiameremmo radical chic ma sbaglieremmo, in realtà sarebbero l'intelligentsia organica del PCI, hanno fatto pure la Resistenza, ma adesso stanno cominciando a fare qualche soldo nell'industria culturale e non sanno se vergognarsene; per il resto il PCI di Longo non sa bene cosa fare di loro, così tirano tardi sui terrazzini, seducono le studentesse (senza comprendere bene tutta la frenesia sessantottarda), restaurano automobili d'epoca, firmano i comunicati. Ecco, una sera mentre sono lì su un terrazzino che discutono di Lacan, telefona il Paese Sera che vuole un intervento sui recenti fatti del Vietnam (c'era stata una strage nel Vietnam), e questi un po' per scherzo un po' per dar senso alla serata scrivono un comunicato durissimo in cui in sostanza dicono basta coi comunicati e coi terrazzini, è ora di agire, chiediamo pubblicamente di formare un battaglione volontario di intellettuali e andare a sparare agli americani sul Mekong. Il Paese Sera ovviamente non glielo pubblica, però dopo un po' la lettera esce sull'Espresso, e a quel punto a tutti questi signori ben sistemati crolla il mondo in testa. Dopo un po' di riunioni e convulsioni e autocritiche che si seguono con una certa fatica (è un film molto parlato ma la traccia audio si è sbiadita, come conviene ai reperti archeologici), alla fine il gruppetto decide di dire addio alla dolce vita e partire sul serio. Si radunano, ovviamente, in un casolare in Toscana, aspettando che passi a prenderli un compagno che ha i permessi. Il compagno arriva, li abbraccia, ma i permessi non li ha: all'ultimo momento l'esercito di liberazione Vietkong ha deciso di rifiutare la generosa offerta. E i nostri eroi restano lì, in mezzo allo stradone, senza più arte ne parte, per terra c'è una lattina e uno di loro senza pensarci la calcia via. Qualcun altro gliela ribatte. Nel giro di pochi secondi l'intelligentsia di sinistra comincia a tirare colpi furiosi a una lattina in mezzo alla strada, e questa scena finale, che vale tutto il film, al tempo pare che fu molto criticata: Maselli fu accusato di strizzare l'occhio alla commedia all'Italiana (oggi questo sarebbe un complimento, ma appunto, stiamo parlando di un'era arcaica).
Io vado più in là: il calcetto rabbioso, disperato, che chiude questo film, è la profezia di vent'anni di cinema italiano bruttino: ci si leggono in nuce tutte le partitelle dei film degli anni Zero, degli anni Novanta, forse anche degli anni Ottanta, la poetica dell'infanzia protratta oltre qualsiasi plausibilità, anche ai bordi dei teatri di guerra. Quanto siamo immaturi, ma quanto siamo simpatici, ma quanto siamo immaturi. Però simpatici. Però immaturi. Sempre così. E all'estero forse piacciamo così, per dire col calcetto di guerra Salvatores ci ha anche vinto un Oscar.
Mi chiedo invece se sia un film comprensibile all'estero, Boris; se il malessere che disseziona senza pietà sia commerciabile al di fuori della nostra nicchia angusta, magari anche dopo che ce ne saremo andati e la traccia audio comincerà a sbiadire. Non so neanche se augurarmelo, forse l'oblio sarebbe più pietoso nei nostri confronti, e allo stesso tempo mi piacerebbe che i nostri nipoti capissero come ci sentivamo, ai nostri tempi, quei tempi in ci siamo messi tutti messi a dire: Dai, dai, dai. Cosa significava dunque essere italiani nel 2011, lavorare in Italia nel crepuscolo di Berlusconi? Questa sensazione di galleggiare sul marcio, senza pretese di essere migliori, anzi, accettando i compromessi, finché non te li trovi praticamente infilati nel retto a forza, i compromessi, e allora ti ribelli: non è per politica, politica hai smesso di farla, a un certo livello è semplicemente un riflesso condizionato, potrebbe essere qualsiasi cosa, una luce troppo smarmellata, un ralenty ridicolo, a un certo punto abbiamo detto di no. Però non ce ne siamo andati, andare dove? Alla nostra età? E poi ormai c'è la crisi dappertutto, così siamo rimasti lì, aspettando che un altro riflesso condizionato ci rimettesse in carreggiata, che un'altra voce nella nostra testa ricominciasse a dire Dai. Dai. Dai che stavolta ce la possiamo fare. Dai che stavolta la portiamo a casa. Perché sarà diverso, stavolta. Non ci faremo andare bene tutto. Sapremo dire di no, anche agli amici se necessario. Stavolta faremo un buon lavoro.
Infatti non è che abbiamo tutte queste ambizioni. Forse sta lì il problema? Noi non siamo i roberto saviano di niente, noi nella vita vorremmo soltanto fare un buon lavoro, un lavoro serio. Qualunque cosa, anche un ristorantino, perché no, diteci soltanto cosa si può fare di serio in Italia e noi ci proveremo. Poi, quando tutto ricomincia ad andare a rotoli, non abbiamo neanche la forza per mandare tutto a fanculo; ci resta il sospetto di essere noi stessi il problema, noi che tolleriamo tutto quello che ci scorre intorno finché non ci sovrasta, noi che siamo sempre disposti al compromesso, anche col demonio, anche col proctologo del demonio, ma sappiamo veramente cosa vogliamo? Se a un certo punto, a furia di restringere le nostre ambizioni, a circoscriverle, le ridurremo a un punto - cosa ci sarà in quel punto? Dai dai dai, ma dai dai cosa? Cos'è che vogliamo veramente portare a casa?
Non lo so se Boris sia un buon film. So che Pannofino è un grande attore; dal momento in cui mi sono seduto mi sono ritrovato dentro al suo René Ferretti, e tutto quello che volevo era uscirne con dignità, finire un film decente, fare qualcosa di serio. E alla fine, dai dai dai [spoiler] mi sono ritrovato infilato a forza un cinepanettone. Così è l'Italia e purtroppo così sono anche io.
Mi è piaciuto, mi sono sentito male esattamente come volevo sentirmi, grazie. Temo solo che pochi al di fuori di noi possano capirlo; che il nostro malessere sia oltre un certo limite incomunicabile; e forse un po' ci spero anche. Forse alla fine avrei osato di più, avrei smarmellato più grottesco, è una spezia che non mi stanca mai. La scena in cui sono tutti al cinema a rimirare il loro stesso orrore, ecco, lì avrei calcato più la mano. Prima li avrei mostrati impassibili, tristi, mentre visionano scoregge. Poi lentamente avrei cominciato a farli ridere; risate nervose all'inizio, poi sempre più sforzate, sempre più tignose, col risucchio a scoreggia. Grandi risate tragiche, mentre la sala diventa buia. Li avrei fatti ridere fino a morirne, con la stessa energia disperata con cui gli intellettuali di Maselli infuriavano su una povera lattina, in un antico film di quaranta anni fa. Quanto siamo simpatici; però, riflettendoci bene, quanto schifo facciamo.
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