(Prosegue dall'anno scorso)
Il ragazzo della via Gluck (1966, Adriano Celentano)
Questa è la storia di uno di noi. Esempio raro di canzone che a Sanremo non deve proprio niente - qualcuno si ricorda che partecipò? Del resto fu bocciata subito, e non credo che sussistano filmati dell'esibizione. Celentano avrebbe poi partecipato con molti altri suoi classici, e vinto nel 1970 con un pezzo che mi causa sofferenza anche solo a ricordarne il titolo. La via Gluck è un caso a parte, il classico miracolo che poi Celentano tentò più volte di replicare in laboratorio - una ballatona ecologista, che ci vuole? - senza riuscirci mai. In quella strofa lagnosa c'è qualcosa di arcaico, un vago sapore di cantastorie in piazza che poi nel ritornello si camuffa da gospel. Era una melodia strana, a sentirla per la prima volta. Ufficialmente l'autore della musica è proprio A. Celentano, il che avrebbe un senso (c'è qualcosa di insopprimibilmente barbarico in quella cantilena) ma alla Siae è registrato anche il nome di Detto Mariano. E poi c'è il testo (Beretta/Del Prete), che sposa perfettamente l'ambigua ingenuità della musica, chiude bruscamente con fiori e amori e inquadra boom e speculazione edilizia con la spietata lucidità dei disegni dei bambini. Potremmo dire che Celentano, proprio mentre ci offriva un saggio impressionante delle sue qualità vocali, stava inventando qualcosa di molto meno cantato e molto più moderno. Potremmo anche aggiungere che nel call and response finale il giovane divo del rock si sta già allenando al ruolo di re degli ignoranti, trasformando consapevolmente la cronaca desolata del boom in una querula lagna dal barbiere, e signora mia io non so mica dove andremo a finire ("Non lasciano l'erba! Non lasciano l'erba! Eh, no, se andiamo avanti così / chissà / come si farà"). Pochi mesi dopo Gaber scrisse una borghesissima Risposta al Ragazzo della via Gluck molto meno conosciuta, ma a suo modo ugualmente geniale.
4 marzo 1943 (1971, Lucio Dalla, testo micidiale di Paola Pallottino)
Dice ch'era un bell'uomo. Non c'è niente da fare, ogni volta che controllo mi accorgo che non vinse Sanremo, poi me ne dimentico. È una nozione che mi rifiuto di registrare. 4 marzo arrivò terza: non male per una canzone che per strada aveva perso qualche pezzo di testo ("bestemmio", "puttane") e addirittura il titolo ("Gesù Bambino"). Anche 4 marzo riprende molto alla lontana una melodia popolare - lo stornello - barattando il ritornello con un elementare fraseggio di violino che ti si conficca nel cuore. Non c'è niente di più banale del passaggio dal do al la minore, non c'è nulla di più potente. Se poi dal la minore, invece di proseguire per il solito giro, ritorni subito al do, è come se dicessi alle lacrime: statevene pure lì dove siete, questa storia squallida e triste la racconterò come una favola a lieto fine. Quattro marzo è un romanzo in tre minuti, un piccolo congegno micidiale, scritto da una signora che poi nella vita fece tutt'altro. Chi la cantava invece in seguito sarebbe diventato uno dei più grandi cantautori italiani, ma non aveva quasi ancora messo un verso su un foglio. Non stupisce che abbia vinto a Sanremo - ah, non ha vinto? E chi vinse quell'anno? Boh.
Lei verrà (1986, Mango).
Amore che non dà più sogni. Io nel 1986 ormai c'ero, nel senso che non scambiavo più Toto Cutugno per un cantautore impegnato o Vasco per un barbone. Da quel che ho capito la persistenza di personaggi come Albano e Romina sta alimentando una specie di mito del Sanremo anni Ottanta come un oggetto monolitico: non era così, era qualcosa in costante evoluzione. Nell'86 Albano e Romina non venivano da due anni e sembrava che nessuno li rimpiangesse, come se ce li fossimo già lasciati alle spalle. Il presente era Eros Ramazzotti, era Zucchero, ed era persino Mango, che a metà Ottanta si stava ritagliando un'imprevedibile egemonia. In quell'edizione firmava la sigla della Goggi, il pezzo della Bertè (che nella finale si mise un pancione finto), un pezzo per le Nuove proposte e ovviamente Lei verrà, che nell'86 non assomigliava a nulla, o meglio: assomigliava solo a Mango, originale e riconoscibile a un tempo. Credo che tutti i musicisti abbiano diritto a scrivere almeno una progressione Pachelbel nella loro carriera: credo che pochi negli ultimi quarant'anni se la siano cavati con la levità di Pino Mango, sospeso miracolosamente sulla cresta di cose che non ci piacevano più (il falsetto) o che stavano per stancarci definitivamente. Con Lei verrà Mango sembrava entrato a pieni diritto nell'olimpo della musica italiana: non so poi come andò a finire, forse ne uscì poco dopo per qualche scelta sbagliata; forse entrò un sacco di gente e smettemmo di considerarlo un olimpo.
(Lo so, ce ne sono tantissime altre, non mancheranno occasioni).
Non è vero. Celentano riuscì a riprodurre in laboratorio il miracolo: Un albero di trenta piani - https://www.youtube.com/watch?v=1enPEdns7Do , il famoso brano anti Pirellone (con quindici anni di ritardo...)
RispondiEliminaPerò concordo che La risposta al ragazzo della via Gluck è una misconosciuta chicca... "Ma quella casa, ma quella casa ora non c'è più; ma quella casa, ma quella casa ora l'han buttata giù!" (molto gaberiano)