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mercoledì 12 agosto 2020

E la risposta è: lascia che sia

13. Let It Be (Lennon-McCartney, singolo del 1969, poi nell'album omonimo).


When I find myself in time of trouble. Mary Patricia Mohin McCartney, scomparsa nel 1956 quando Paul aveva 14 anni, è una (non)presenza più discreta di Julia Stanley Lennon. Per John la perdita della madre è un trauma di cui vediamo le tracce sin dall'inizio, nella possessività incolntrollabile di brani come You Can't Do That o Run For Your Life, negli squarci emotivi di I Call Your Name; un fondo oscuro di rabbia e angoscia che in seguito si stempera con l'identificazione consapevole di un surrogato in Yoko (Julia). Paul nel frattempo non lascia trapelare quasi nulla. Per sette anni è come se alzasse un muro: l'unica crepa che ci è data osservare è una certa difficoltà a rapportarsi con l'altro sesso una volta esaurita la tematica del corteggiamento, un'oscura consapevolezza della caducità dei rapporti umani, a volte espressa con tristezza ("While she had to go? I don't know, she wouldn't say") altre volte con una franchezza un poco disarmante ("A love that should have lasted years"!) Alla fine, quando ormai i giochi volgono al termine, Paul apre deliberatamente una breccia nel muro ed evoca Mother Mary. Come l'ultima risorsa di un conferenziere o un sacerdote che debba assolutamente farvi piangere entro la fine del discorso – ed è così, "father McCartney" doveva assolutamente farci piangere: lo richiedeva la situazione. I Beatles si scioglievano. John stava già mettendo da parte i pezzi migliori per la carriera di artista-rivoluzionario. Serviva una canzone semplice e maestosa per non far sentire l'orribile stridere delle saracinesche, gli avvocati che affilavano le stilografiche. Occorrevano parole di sapienza e di consolazione, un inno che ci strizzasse le lacrime e ce le riasciugasse, e occorreva che lo scrivesse lui. Infatti lo ha scritto. Paul non deludeva quasi mai. L'immagine della canzone regalata nel sogno qui è verbalizzata: ("I wake up to the sound of music"); la situazione è grave ("the night is cloudy") ma ogni speranza è autorizzata, sia per i cuori spezzati, sia per chi è stato diviso: there is still a chance that they will see.



L'altra cosa che si era messo da parte per l'occasione era la grande novità del pop di fine anni '60: la progressione Pachelbel. Un ciclo di otto accordi già molto apprezzato dai compositori del '700 (Mozart lo inserì nel Flauto Magico), la cui attestazione più antica è il Canone e giga in Re maggiore per tre violini e basso continuo di un compositore tedesco di fine Seicento, Johann Pachelbel. Può darsi che Pachelbel a sua volta lo avesse derivato da altri compositori che non ci hanno lasciato manoscritti: può darsi che la sua progressione in un certo senso esista in natura, basata com'è su rapporti che l'orecchio tende a trovare naturali, logici. La Pachelbel non ha confini: per restare in Italia, è una Pachelbel Albachiara di Vasco Rossi, Sally di Fabrizio De Andrè, Indietro di Tiziano Ferro, A te di Jovanotti. Considerata la sua pervasività, è abbastanza incredibile che fino al 1968 l'idea di usarla nel pop non fosse venuta quasi a nessuno. I Beatles, nella loro sfrenata sperimentazione armonica, c'erano arrivati pericolosamente vicini con I Want to Hold Your Hand; nel 1965 Percy Sledge con When a Man Loves a Woman aveva scoperto la Pachelbel partendo dal continente apparentemente più lontano, il r'n'b; poi nel 1968 la versione dell'orchestra di Jean-François Paillard ottiene in Europa un successo straordinario, per un disco di musica classica. A quel punto è solo una questione di prontezza di riflessi prima che qualcuno riesca a farne un disco pop: la gara è vinta da tre concorrenti improbabili, un gruppo di greci trapiantati a Parigi che si fanno chiamare Aphrodite's Child. Il brano s'intitola Rain and Tears e ha un successo, anche grazie alla voce particolare del solista, Demis Roussos.

Nello stesso periodo, durante le sessioni del Disco Bianco, Paul comincia a combinare gli accordi che poi diventeranno Let It Be. Paul però non può limitarsi a riprendere la progressione di una canzone in voga. Il metodo è quello già adottato con successo con Hey Jude: Paul si lascia tentare da maestose strutture barocche, preoccupandosi però di semplificarle, di renderle più basilari ed emotivamente potenti. Ne è prova in Let It Be la cadenza che segue il ritornello, una scala di note ostentatamente banale che gli strumenti ripetono a turno, come se stessero punteggiando una cerimonia religiosa. In effetti è articolata sulla cadenza plagale, l'intervallo tra IV e I che gli inglesi devoti sono così abituati a sentire durante la Messa da definirla “the Amen cadence”, la cadenza su cui si canta “Amen”. Amen significa: così sia. Let it be, let it be.

Perfezionata durante le difficili sessioni di Twickenham, Let It Be diventa presto il brano di punta del progetto Get Back; ed è proprio durante la lavorazione di Let It Be che il progetto di un disco registrato dal vivo, senza sovraincisioni, comincia a rivelare le sue contraddizioni: c'è il rischio di sprecare un brano dalle potenzialità commerciali enormi. A un certo punto la cinepresa immortala John mentre chiede a Paul: dobbiamo ridacchiare durante l'assolo? (“Are we supposed to giggle in the solo?”) In un altro momento, John accusa bonariamente qualcuno di barare: probabilmente Paul e George stavano già pensando all'idea di sovrapporre l'assolo di chitarra. Il brano viene provato e riprovato per tutto il gennaio del 1969, prima ai Twickenham Studios, poi a Abbey Road e sul tetto della Apple Corps. Viene tenuto in serbo per tutto il resto del 1969 e ritoccato nell'ultimissima sessione del 4 gennaio 1970 (Lennon non c'era più) con l'aggiunta dei fiati e di un coro in cui, per la prima e l'unica volta, Linda McCartney canta in una canzone dei Beatles. Harrison suona un nuovo assolo, più drammatico, che forse per un certo periodo immagina di far dialogare col precedente registrato in aprile. Per il singolo George Martin esegue un mix molto sobrio, scegliendo il primo assolo (in sottofondo si sente quello della traccia originale).



Rimane la pratica del film, col quale i Beatles devono onorare il loro contratto con la United Artists; e della colonna sonora, che Allen Klein affida a Phil Spector. Sono passati pochi giorni ma la situazione è cambiata: ora è Paul ad essersi allontanato dal gruppo rifiutandosi di firmare le carte di Klein, mentre John si è temporaneamente riaccostato agli altri due. Spector alza il volume dell'accompagnamento orchestrale; aggiunge riverbero ai charleston di Ringo; sceglie il secondo assolo, più impetuoso; inserisce all'inizio e in coda al brano due inserti in funzione profanatrice, due veri e propri 'fuori onda', Dig It e Maggie Mae, per suggerire all'ascoltatore l'impressione che John stia ormai ridendo degli sforzi di Paul di tenere insieme il gruppo. Quando ascolta la versione già pronta per essere stampata, Paul va su tutte le furie, ma è troppo tardi. Invece di alzare le spalle e ripetersi "Let it be", continuerà a battere sul punto finché nel 2003, non sarà ripubblicata una versione della colonna sonora de-spectorizzata, Let It Be (Naked). Devo dire che per quel che mi riguarda l'ultima cosa che mi viene in mente di fare quando ascolto Let It Be è preoccuparmi di che versione è. Sarà che cerco di ascoltarla di rado. Ma una versione beatle di Let It Be che non mi commuova, se ci penso, non l'ho ancora sentita. Spector con il riverbero aveva dato più rilievo al lavoro di Ringo; anche quest'ultimo però dopo aver sentito la versione despectorizzata l'ha trovata nettamente migliore. "Paul si è sempre opposto a Phil... Ora mi toccherà sentirgli dire: vedi? te l'avevo detto". Lascia che sia, Ringo, lascia che sia.

4 commenti:

  1. chissà perchè il maestro cattomunista Leonardo si dimentica che AMEN viene dall'ebraico. Vuole forse cancellare la memoria degli ebrei, come tutti gli antisemiti?
    eh, EH, EHHHHHHH?
    Il bifolco della Samaria

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