[Premessa (si può saltare): questa è una specie di recensione di un film di Nanni Moretti, un genere letterario abbastanza diffuso e codificato. Bisogna sapere che ben prima dell'era delle piattaforme, addirittura prima che su internet si cominciassero a rivelare i finali dei film, l'umanissima necessità dei recensori di spiattellare tutta la trama di un'opera d'ingegno si riversava con particolare accanimento sui fan di Nanni Moretti, che in occasione di Venezia o più spesso Cannes venivano puntualmente bombardati di articoli in cui veniva citato ogni dettaglio del film in concorso, inizio svolgimento fine, se muore il figlio e come e dove e quando; al punto che quando si entrava finalmente in sala non solo si conosceva il finale, ma praticamente si trattava di mettere in ordine tutti i pezzi già gioiosamente raccontati dai recensori; per cui l'emozione dello spettatore coincideva con la sorpresa di scoprire che tutti quei pezzi non si combinavano nel modo previsto, anzi in molti casi non si combinavano proprio, e che il disegno che il recensore aveva ricavato unendo i puntini non era che uno dei livelli di lettura, molto spesso il più banale. In ogni caso col tempo è insorta l'abitudine di saltare paro-paro qualsiasi recensione dei film di Nanni Moretti, che al massimo si potevano recuperare in seguito, ma anche in seguito non c'era mai il tempo o la voglia. Questa premessa serve a giustificare il fatto che probabilmente qua sotto ripeterò senza saperlo cose che altri hanno già scritto. Colpa mia, che prima di guardare i film di Moretti non leggo mai le recensioni, e anche dopo mi piace più scriverle che leggerle, chiedo scusa, se tutti facessero come me probabilmente vivremmo in un'internet orribile – oddio, ora che ci penso internet è parecchio orribile ultimamente, ma voi non fate come me, voi leggete pure la mia recensione del film, che ne rivelerà pochissimi dettagli; e non scrivetene un'altra, non ce n'è bisogno, vedrete che la mia basta e avanza].
– È almeno dai tempi di Aprile (più di un quarto di secolo) che Nanni Moretti ha qualche difficoltà a fare il Nanni Moretti, sia pubblico che privato. Ce lo ha detto in tanti modi, in qualche caso ce lo ha praticamente urlato nelle orecchie: non voleva più fare il papa (Habemus Papam), non voleva più fare nemmeno il regista (Mia madre); di sicuro non voleva più fare il classico film di Nanni Moretti con la vespa, le scenate, le canzoni, i tic nervosi. Forse ripetere che non voleva era un modo per nascondere che non ci riusciva: in ogni caso era un rifiuto comprensibile, nemmeno Chaplin ha fatto il Vagabondo per così tanto tempo. Così alla fine Nanni Moretti ha fatto un film diverso e... chi l'ha visto? Io no; quindi con che faccia potrei rimproverare Nanni Moretti che si rimette a fare esattamente il film che vogliamo da lui – un film che praticamente ha già fatto (la sinossi potrebbe essere la stessa del Caimano). A un certo livello diventa una questione di sopravvivenza: se è l'unica cosa che vogliamo da lui, lui che altro può venderci? Ma è faticoso per lui e pure per noi.
– C'è un elefante sempre più grande nella sala, che non viene né dalla Francia né dalla Germania ma ha un naso sempre più ingombrante (e anche le orecchie fanno una certa impressione): Nanni Moretti non è più un efficace interprete di sé stesso. Scandisce ogni battuta con una lentezza estenuante, come se si preoccupasse soprattutto di farsi capire dai francesi – di evitare che si concentrino sui sottotitoli e si perdano la sapienza compositiva delle inquadrature? O magari è il risultato di quella decennale dipendenza da antidepressivi che butta lì a un certo punto e non sai se crederci? (non è vero, ci credi immediatamente). In ogni caso fa paura, c'è chi invecchiando appassisce o si ingobbisce o si ingiallisce: Nanni Moretti rallenta, rallenta sempre più, sembrava già un po' lento in Habemus ma adesso non è più una sensazione, adesso sembra un androide che ripete le frasi che direbbe Nanni Moretti. Non è che alla cosa non potremmo assegnare una funzionalità espressiva: è sin dal fulminante finale di Sogni d'oro che Moretti ci suggerisce che lui non è l'eroe dei suoi film, ma l'antagonista, se non proprio il mostro: che mogli e figli hanno tutti i buoni motivi per abbandonarlo, e che forse anche noi spettatori dovremmo. È una prospettiva che ci sorprende molto più oggi che negli anni Ottanta – oggi i registi ci tengono a spiegare di essere diventati protagonisti del loro cinema attraverso un apprendistato costellato di figure indimenticabili, frequentazioni eroiche – Moretti no, Moretti assume sempre più spesso lo sguardo spiritato del padre della Stanza del figlio che voleva riavvolgere il tempo, uno sguardo che urla Spettro Autistico. Moretti ci sta dicendo che i suoi tic, le sue scaramanzie, sconfinano nel morboso e dovremmo smetterla di incoraggiarlo, Moretti è almeno da Bianca che ci propone di leggere in senso maniacale le piccole ossessioni che abbiamo sempre preferito considerare stravaganze dell'amico geniale. Moretti però con questo amico geniale ci convive tutti i giorni da una vita e probabilmente è il primo a non poterne più: se fosse sua moglie avrebbe già affittato una appartamento per andarsene. Già in generale invecchiare non è il massimo, non fai che ripetere le stesse cose sempre più lentamente. Ma immagina che il tuo mestiere coincida nel ripetere le stesse cose davanti alle cineprese. Non è una cosa atroce? Non fa venir voglia di farla finita?
Un po' sì.
Ma poi passa.
Bisogna variare il dosaggio.
Il momento whathafuck
– Certo che lo Zeitgeist è incredibile. In teoria questo film non ha nulla di attuale, Moretti avrebbe potuto girarlo oggi o ai tempi di Aprile, più o meno con la stessa trama. Non c'è nessuna velleità di dire qualcosa di nuovo o qualcosa di sinistra o qualcosa in generale sull'attuale governo – Moretti e i suoi sceneggiatori, si capisce, sono molto più preoccupati dell'avvento delle piattaforme di streaming, descritto qui come Boris 4 come una catastrofe culturale che terrorizza molto più dei postfascisti al governo e vabbe', sono le ansietà di una categoria, vanno accettate in quanto tali. Poi ci si mette il caso, come ai tempi di Habemus Papam che era già un film assolutamente privato e fuori dall'attualità, salvo che pochi mesi dopo un papa si dimise davvero e Moretti passò per un profeta. Anche stavolta, c'è chi ha trovato nelle immagini dell'invasione sovietica dell'Ungheria un riferimento all'invasione russa dell'Ucraina: è un'interpretazione possibile, ma potrebbe anche trattarsi di una coincidenza, la questione ungherese è sempre stata una ferita aperta per militanti e fiancheggiatori del PCI. Ma addirittura a un certo punto, credo per una pura coincidenza, si menziona un orso in fuga in Trentino e la necessità contagiosa di parlarne per restare sulla cresta dell'onda. Cosa che da blogger capisco benissimo: anch'io ogni tanto mi sorprendo a pensare se per caso non ho un'opinione originale sugli orsi del Trentino, qualcosa che si possa non dico monetizzare ma socializzare. A quanto pare non ce l'ho, ma posso sempre rifarmi col nuovo film di Nanni Moretti.
– Dicevo infatti che lo Zeitgeist è incredibile, non perché esca un film in cui si parla di un orso in Trentino proprio due settimane dopo la prima vittima trentina di un orso in 150 anni, ma per esempio perché proprio il film in cui Moretti prende le distanze più che mai dal cinema 'violento', di matrice potremmo dire tarantiniana, finisce esattamente come due o tre degli ultimi film di Tarantino, ovvero con una fuga nell'ucronia: Hitler massacra gli ebrei? E allora gli ebrei sparano a Hitler. La Manson Family ammazza Sharon Tate? E noi massacriamo la Family, li sbraniamo, gli diamo fuoco. I sovietici invadono l'Ungheria? E noi strappiamo coi sovietici. Il cinema ha descritto la Storia, ma si trattava di cambiarla: non c'è riuscito, e adesso semplicemente prova a immaginarne una più bella. È il momento in cui la gente piange, l'ho notato. Non so nemmeno se Moretti li abbia guardati, i film di Tarantino (immagino di sì, con qualche fastidio), ma l'effetti è molto simile: è commovente immaginare Sharon Tate che si sveglia nel suo letto il 9 agosto, è commovente immaginare che Togliatti battezzi la via italiana al comunismo. È un po' come resuscitare Spiderman dopo che Thanos l'ha polverizzato, per dire quanto è incredibile lo Zeitgeist: persino i registi italiani di una certa età all'improvviso si mettono a ragionare in termini di multiverso, un concetto sul quale sappiamo ancora spaventosamente poco.
– Gli spettatori si commuovono oppure, nel mio caso, cercano di calcolare cosa sarebbe successo davvero se nel '56 Togliatti fosse stato forzato dalla base del partito a una svolta trotskista. Naturalmente chi è di formazione materialista tende a minimizzare questo tipo di svolte: così come tornare indietro nel tempo per sparare a Hitler non salverebbe la Germania dal nazismo (si sarebbero trovati un altro fuehrer, lo stesso Adolf Hitler sembra già raccattato tra le seconde scelte), così uno strappo nel '56 forse non avrebbe cambiato più di tanto le cose. Magari Togliatti sarebbe morto un po' prima, magari qualche membro del suo entourage gli avrebbe aperto il cranio con una piccozza o qualche altro strumento tascabile. Molti intellettuali sarebbero rimasti nel PCI, tra cui Calvino: sarebbe stato un bene per il partito, ma anche per gli intellettuali? Può persino darsi che a quel punto il Comintern avrebbe riversato le sue risorse sul PSI, dove c'era ancora una forte corrente filo-URSS, dopodiché i ruoli si sarebbero invertiti, Moro avrebbe fatto il centrosinistra con un PCI un po' più piccolo e qualche anno più tardi Craxi si sarebbe trovato leader di un partito sovietista – non dico che non sarebbe interessante riscrivere una storia così, ma insomma la Jugoslavia stava lì per mostrarci che queste terze vie non è che andassero più di tanto in là. È comunque piacevole sognarle, e il cinema serve anche a quello. E a non impiccarci, almeno non oggi: poi domani è un altro giorno, vedremo.
– In questi giorni ho letto molti pareri sul pronunciamento del Garante della privacy contro ChatGpt: alcuni a favore, alcuni contro; alcuni competenti, molti no. Sarò sincero: non ci ho capito quasi niente. Forse Chat Gpt mi saprebbe spiegare meglio, ma probabilmente no. In questa fase la mia principale preoccupazione è che i miei studenti cerchino di usare come motore di ricerca uno strumento che non fa che copia-incollare frasi fatte che sembra sempre abbiano un senso, anche se non ce l'hanno. Soprattutto se non ce l'hanno. Tutto un rumoreggiare di idee verdi che dormono furiosamente, sognando i nostri dati sensibili. Il linguaggio da questo punto di vista è veramente una delle invenzioni più strane che abbiamo fatto. In seguito abbiamo inventato cose più pratiche – la locomotiva, il computer – cose che perlopiù fanno quello per cui le abbiamo inventate. Il linguaggio non sembra comportarsi così (forse l'abbiamo inventato in sogno?): il linguaggio, quando assolve alla sua funzione teoricamente primaria, che è informare qualcosa di qualcuno, lo fa quasi per una pura coincidenza, e così succede con ChatGpt: quello che ci piaceva morbosamente del dialogare con lui era il fatto che ogni tanto sembrava umano, come una specie di miracolo che però si svelava subito come fallace. Istintivamente, rifuggiamo da qualsiasi cosa che finga di essere umano; altrettanto istintivamente, non resistiamo all'impulso di verificare se magari un po' di umanità c'è – se poi fosse benevola e servizievole, che bello che sarebbe (come se gli umani fossero mediamente benevoli e servizievoli). Che Omero con le Sirene alludesse a questo? È chiaro che un'intelligenza ostile utilizzerebbe proprio uno strumento come ChatGpt per soggiogarci. È persino possibile che questa intelligenza ostile sia il capitalismo.
– Contrariamente a quello che molti credono, il Garante non ha bloccato ChatGpt sul territorio italiano: ha semplicemente richiesto di spiegare come facesse ChatGpt a ottemperare a una serie di normative sul trattamento dei dati che peraltro valgono per tutta l'Unione Europea. Di fronte a queste richieste ChatGpt si è piantata come faceva talvolta, magari proprio nel momento in cui volevamo chiederle chi fosse il più grande scacchista tra i calciatori fiamminghi: tranne che stavolta non si è ripresa più. Probabilmente ChatGpt non sta ottemperando alle norme comunitarie sul trattamento dei nostri dati. Probabilmente si prende le mie informazioni sensibili (ma gliene ho date?) e le usa per allenarsi alle prossime risposte alle prossime stupide domande che gli facciamo. Magari una volta per ridere gli ho chiesto: conosci il blogger Leonardo? E siccome no, non mi conosce (del resto non 'conosce' veramente nulla) potrei avergli io raccontato qualcosa di me, di buffo o di vero o di personale, qualcosa che adesso sa e potrebbe risputare fuori in una prossima conversazione. Certo molto dipende dal fatto che continuiamo a prendere ChatGpt per un motore di ricerca – prendiamo tutto per un motore di ricerca ormai, questo è il mese delle prove Invalsi, il mese in cui puntualmente mi scontro con l'alfabetizzazione tecnologica dei miei studenti, che con l'introduzione degli smartphone è precipitata: interagiscono con i software come i bambini dei film di fantascienza anni '50 si comportavano coi robot maggiordomi, dicono Cortana fammi questo anche davanti a un Windows Vista. L'idea che un robot maggiordomo possa abusare delle confidenze del suo padrone viene gestita dalla maggior parte degli utenti come una scrollata sulle spalle, la cui versione telematica è quel clic indispettito che mettiamo ogni volta che ci troviamo davanti a un banner che ci chiede se siamo consapevoli che stiamo cedendo i nostri dati – uffa, sì, che palle. Immagino che anche il blocco di ChatGpt si risolverà così, con qualche banner in più. Nel banner si dovrebbe leggere molto bene che ChatGpt non è un motore di ricerca (come se la maggior parte degli utenti sapesse cos'è un motore di ricerca), che non è tenuto a dire la verità anche perché non la conosce: che l'unica cosa che sa fare è pasticciare con tutte le bugie che gli diciamo. E per quanto sarà grosso il banner, e onnipresente, dopo un po' non lo leggeremo più, la maggior parte di noi non lo leggerà mai. Non è così che funzioniamo. Non impariamo a stare al mondo leggendo le istruzioni.
– Una volta lessi un libro (una volta, sapete, ero capace). Questo libro affrontava la crisi della scuola, che esisteva già allora, in un modo un po' diverso, ponendosi il problema: ma se stessimo sbagliando tutto? Nel senso che noi a scuola insegniamo appunto una serie di istruzioni molto vaghe, generali, che di solito non servono a nessun compito specifico. C'è una serie di motivi storici per cui facciamo così, ad esempio fino a qualche generazione fa la scuola era concepita soltanto per la classe dirigente, che appunto doveva dirigere, non svolgere mansioni specifiche. Ma anche in seguito, insegnare cose troppo tecniche rischiava di essere una perdita di tempo perché non si sa mai poi nella vita cosa uno si trova a fare, e quindi la scuola preferiva darti un quadro generale che magari in certi casi era utile davvero. Per questo motivo la scuola aveva inventato ad esempio la grammatica (sì, l'hanno inventata i maestri) che se uno ci pensa è un tentativo di lingua universale, che non esiste e forse nemmeno funziona, però mette assieme fenomeni che esistono in tantissime lingue. Ad esempio il complemento oggetto esiste in tutte le lingue che conosco (sei o sette le conosco), in alcune se non lo conosci sei fuori alla prima frase, in altre puoi placidamente ignorarlo per tutta la vita senza che nessun parlante se ne accorga, però indubbiamente ha un senso insegnare a tutti quelli che parlano lingue indeuropee il complemento oggetto. In linea teorica, se insegni benissimo a qualcuno tutta la sintassi di una lingua indeuropea, lui poi avrebbe uno strumento che gli consentirebbe di imparare molto bene qualsiasi altra lingua indeuropea in breve. Questo in linea teorica. In pratica nessuno impara le lingue così, nemmeno al liceo classico. Si imparano chiacchierando, ascoltando la gente parlare e cercando di rispondere, facendo errori e correggendosi: persino a scuola ormai abbiamo accettato che le lingue vive si imparano così, da più di cinquant'anni. Tutto si impara così. La letteratura si impara leggendo tanto, la danza ballando tanto, la guerra combattendo tanto; non è che la teoria non aiuti ma ha un ruolo, quando ce l'ha, ancillare. Anche ChatGpt, se ho capito bene, ha imparato a parlare così: ha letto tantissimo testo e non è concettualmente diversissimo da qualsiasi software che cerca di immaginare la parola che stai scrivendo o la seguente; la differenza è che il software che completa il tuo messaggino trova una parola alla volta, mentre ChatGpt può andare avanti per molti paragrafi. Dietro non c'è nessuna "intelligenza" nel senso italiano del termine (in inglese "intelligence" ha una sfumatura più pratica, meno filosofica), non c'è nessuna Skynet che possa o voglia ribellarsi all'uomo; non c'è coscienza, solo più efficienza nel mettere insieme tonnellate di testo: qualcosa che fino a pochi mesi fa consideravamo l'ultima frontiera dell'umanità, ciò che solo noi nell'universo eravamo in grado di fare. Ma siamo sempre noi: abbiamo solo trovato, come sempre facciamo, un modo più efficiente di produrre lenzuolate di testo che credevamo dovessero rimanere un patrimonio artigianale. Testi ridondanti, testi ovvi, luoghi comuni, nozioni completamente sballate: tutta roba che sapevamo già fare prima, la differenza è che ora anche queste stronzate possiamo produrle con la pressione di un tasto. Una cosa in cui ChatGpt sembrava già molto efficiente in italiano era, mi dicono, la produzione di progetti didattici.
– Mi è già capitato di scriverlo: sono sempre stato convinto che la letteratura sia un disagio linguistico. Non dico che non esistano scrittori che funzionano proprio come ChatGpt, qualcuno gli dice: fammi un giallo middlebrow, loro si mettono alla tastiera e tictic, in due settimane è pronto ed è pure bello. Io onestamente li invidio quegli scrittori lì, anche se di rado li leggo (forse proprio per l'invidia). Immagino che abbiano imparato a scrivere gialli leggendone tanti, magari di nascosto in classe mentre un povero insegnante cercava di introdurli ai rudimenti della narratologia. Gli scrittori che mi dicono davvero qualcosa sono in linea di massima scrittori che non riuscivano veramente a dire quello che volevano dire: ci provavano, ma qualcosa non funzionava. Scrittori spesso disgrafici, che si trovavano male nella lingua in cui dovevano comunicare; scrittori che tentavano di dire qualcosa di nuovo e nella maggior parte dei casi fallivano. Suppongo che ChatGpt possa imitare anche il loro stile, ma appunto: sarà sempre un'imitazione. Potremo chiederle, ehi ChatGpt, finiscimi l'Amerika di Kafka, e ChatGpt ci risponderà: sei sicuro? Ora so che leggi Kafka, acconsenti al trattamento di questo dato? Uffa sì ChatGpt, ma adesso dicci come finisce l'Amerika di Kafka. Non posso dirti come finisce, perché Kafka non ha voluto finirlo e anzi desiderava che fosse distrutto; quel che posso fare è una congettura, basata sui primi capitoli che... sì, sì, ho capito, ma adesso scrivi. E clic-clic, suppongo che già ora ChatGpt potrebbe completare l'Amerika di Kafka. Ma non possiamo dirle: scrivici un libro sull'ansia di vivere in Europa nel 2023. Ovvero, possiamo. Ma sarebbe un libro pieno di frasi fatte e sciocchezze senza senso, e a editarlo si farebbe più fatica che a scriverlo daccapo. Un po' mi dispiace, perché nemmeno io ne sono capace, il che dimostra al massimo che non sono un'intelligenza artificiale. Ma non significa che io sia un'intelligenza, o che io sia naturale. Questo è il tipo di battutina con cui di solito finisce questa tipologia di testi, quindi ciao.
Nell'estate del 1968 "Franco Battiato" è un nome ormai ricorrente nei cartelloni delle balere milanesi: in classifica però non lo ha ancora visto nessuno. Dopo la deludente esperienza con la Jolly Records, è un'etichetta della Philips, la Polydor, a interessarsi alle sue proposte. Con la Polydor Battiato accantonerà i toni 'esistenzialisti' dei singoli Jolly e cercherà di accreditarsi come cantante confidenziale. È una scelta che ottiene subito un buon risultato (almeno il primo singolo, È l'amore, finalmente porta Battiato in radio) ma di cui in seguito si vergognerà profondamente – dovranno passare almeno trent'anni perché Battiato ritorni con Fleurs al genere confidenziale, accettando un passato da cui fino a quel momento si era ritratto con esibito fastidio. Anche in seguito, nessun brano del periodo Polydor è stato riabilitato, reinciso o interpretato dal vivo: al punto che si ha la sensazione, riascoltando queste canzonette, di fargli un torto. A imbarazzarlo, più che le canzoni in sé, doveva essere stata la posa da chansonnier che gli era capitato di assumere: una "maschera inutile" che gli aveva consentito di rimanere un po' sulla breccia, ma che col senno del poi andava liquidata come una perdita di tempo.
In effetti gli esordi compositivi di Battiato (finalmente iscritto alla Siae) sono più frustranti di quelli di altri autori, che sin dalle prime prove dimostrano la propria identità: si fa davvero molta fatica a trovare Battiato in È l'amore o Sembrava una serata come tante. È come se nel 1968 Battiato non esistesse ancora: le canzoni che scrive col chitarrista Giorgio Logiri sono completamente funzionali al contesto in cui si è ritrovato. Sono scritte per passare alla radio o per essere suonate in balera. Per cercare l'autore Battiato dobbiamo ridurci a far caso agli inciampi, ai motivi per cui dopo il primo singolo gli altri brani in effetti in radio non passavano (e magari in balera facevano il vuoto); l'ingenuità dei testi, i vezzi stilistici (quei ritornelli rallentati), le incursioni rock di Logiri, che sogna il rock inglese ma deve anche suonare le mazurke.
1968: È l'amore (#244)
Guarda le sere che passo se non sei con me. Di fronte a È l'amore bisogna avere pazienza e ricordare che se in seguito abbiamo potuto godere di Battiato, del privilegio di ascoltarlo e di invecchiarci un po' assieme, lo dobbiamo anche a questa canzonetta senza visibili pretese, con la fisarmonica nel ritornello addirittura, e notate che era il 1968, il maggio parigino, le pantere nere alle Olimpiadi mostravano il pugno e Battiato cantava È l'amore su una base di fisarmonica, nella vita può capitare anche questo. È l'unico singolo che riuscì a mandare in classifica negli anni Sessanta (si parla di "centomila copia vendute"), sono numeri che oggi sembrano impossibili ma al tempo forse no. È quello che gli permise di tenere insieme un complesso, "il suo complesso", e andare avanti con le serate. Non è neanche una canzone così terribile, e tradisce già uno dei temi ossessivi che FB porterà con sé per tutta la carriera, l'associazione dell'amore alla stagionalità. Forse Battiato aveva già dimostrato di avere qualcosa da dire più interessante di "è l’amore che mi prende piano piano per la mano", però "mentre l’acqua dietro ai vetri già discende lentamente" prometteva bene. Il brano fu coverizzato sia in francese (Formidable) che in inglese (Winter Love).
1968: Fumo di una sigaretta (Battiato/Logiri, #245)
L'amore? È meglio se lo sognerai in cucina, l'amore. Il lato B di È l'amore mette a fuoco l'ambiguità della coppia Battiato/Logiri: il primo è ancora un cantante deciso a sfondare nell'ambito sentimentale (l'unico in cui sia immaginabile sfondare in Italia anche in quel 1968); il secondo è un chitarrista infatuato di Jimi Hendrix: una passione che sul lato A si deve per forza contenere, ma esplode poi nel lato B creando quest'ibrido abbastanza peculiare tra Sanremo e il rhythm'n'blues, struggimento d'amore e assoli distorti. Battiato è un ex innamorato deluso dell'amore che rifiuta le avances di una ragazzina – per la verità non le ha proprio rifiutate del tutto, un bacetto c'è stato ma è poca roba, non ti credere, torna a casa bimba, non hai idea. La chitarra dovrebbe sottolineare questo messaggio virile: l'amore è roba da adulti, ti devasta, stanne fuori. È difficile non riderci sopra, oggi, soprattutto pensando a quanto poco si sarebbero adattate ai Battiati successivi le pose sentimentali o machiste. E comunque la canzone non è che giri tantissimo, è una strana chimera che non poteva andare lontano. Ma ci voleva del coraggio, della disponibilità a sperimentare, e Battiato ce l'aveva.
1969: Bella ragazza (Battiato/Logiri, #242)
Bella ragazza / Occhi d'or è il 45 giri con cui Battiato e Logiri dilapidano il capitale di credibilità acquisito con È l'amore. Accade qui per la prima volta quello che si ripeterà poi in diverse situazioni (ad esempio con Aries o L'arca di Noè): appena FB capisce di aver trovato una formula che piace al pubblico, la butta via. In questo caso la dilapidazione avviene su due fronti: su quello testuale, Battiato riparte con la solita tritissima retorica degli amori stagionali – stavolta lui è al mare e lei non c'è, chiamiamola posizione dell'Azzurro rovesciato – e la porta avanti fino all'autoparodia: piove, lui è triste, pensa a lei e non riesce a divertirsi, ma poi nella seconda strofa finisce di piovere e lui ha già smesso di essere triste, insomma credevate che fosse amore ed era meteoropatia. Sul fronte degli arrangiamenti, Bella ragazza è un esempio tipico di cosa succede quando lasciate dei ragazzi volonterosi ma inesperti con un medio budget e un registratore otto piste: un'orgia sonora. Si parte con chitarre, violini e batteria (e un clap di mani riverberato) e si arriva coi fiati e sul finale c'è persino una specie di assolo di tastiera che ha già qualcosa di Fetus. Al centro compare quel vezzo compositivo che compromette ulteriormente la potenzialità commerciale del brano: Battiato rallenta il ritmo nel ritornello. Succederà anche in Vento caldo e non ha molto senso: ma forse è il primo tentativo di realizzare quella sospensione ritmica che riascolteremo poi in Summer On a Solitary Beach o nel Vento caldo dell'estate.
1969: Occhi d'or (testo di Paolo Farnetti; musica di Federico Mompellio e Giorgio Logiri, #252)
Laggiù, tra deserti d'or, ho lasciato il cuor. La canzone più folle del Battiato anni '60 – l'unica che lascia presagire le bizzarrie del decennio successivo. Invece nulla di quanto aveva fatto fino a quel momento poteva preparare l'incauto ascoltatore a Occhi d'or, infida già dal titolo – chi sospetterebbe mai, voltando il 45 giri di una canzoncina orecchiabile come Bella ragazza,di incappare sul lato B in una deriva psichedelica del genere, un kolossal in technicolor? È incredibile pensare che Battiato non ne abbia scritto né testo né musica – ma per metterci la faccia e la voce ci voleva comunque un certo coraggio. A questo punto della sua traiettoria, FB è un cantante di medio successo (unicamente grazie al singolo È l'amore) ma soprattutto un onesto artigiano della canzonetta: le scrive, riesce a piazzarle anche all'estero (Bella ragazza avrà una traduzione in inglese, in francese e fiammingo), collabora con Gaber, Maurizio Arcieri, Daniela Ghibli. È il momento in cui forse puoi cominciare ad allargarti un po', a mostrare quello che saresti in grado di fare se non fossi incatenato al formato dei tre minuti. Questo tipo di sperimentazioni erano ammesse soltanto sui lati B, e in Occhi d'or Battiato e il compare Logiri sembrano voler condensare in un solo lato B decine di esperimenti. C'è una varietà di strumenti mai sentita prima (un gong?), un orientalismo che è ancora posticcio ma col senno di poi sappiamo quanto sia anticipatore; il coraggio già progressive di cambiare completamente ritmo a due minuti dall'inizio; e poi, due minuti dopo, cambiare tutto di nuovo con una coda che è copiata di pacca da Hey Jude. Che viaggio.
L'album perduto
Nell'aprile del 1969, pochi giorni dopo aver completato il singolo Bella ragazza / Occhi d'or, Battiato e Logiri entrano nella sala di registrazione della Philips in piazza Cavour a Milano per registrare un intero 33 giri con un'orchestra. Si tratta di un investimento inusuale per il mercato discografico del tempo, tanto che il dirigente che aveva dato il via libera (Maso Biggero) raccontò di essere stato rimproverato dai superiori per i soldi buttati via. Se fosse uscito, sarebbe stato uno dei primi 33 giri italiani a non essere concepiti come una semplice raccolta di singoli (anche se i brani sui due già incisi erano compresi), e avrebbe illuminato di una luce diversa gli esordi di Battiato, dimostrando che anche nel periodo più canzonettistico Battiato non aveva rinunciato alla sperimentazione. Potrebbe persino trattarsi del primo concept album italiano, se le canzoni – come sembra di poter dedurre dalla scaletta dei titoli – raccontano una storia, ovviamente d'amore. L'album però fu bocciato: a decidere che Battiato, dopo il successo non clamoroso di un unico singolo, non valesse l'investimento di un LP, fu Alain Trossat, il boss Philips del tempo: questo almeno a detta di Biggero. Il disco non è propriamente un incompiuto: i brani furono tutti registrati, ma mai incisi su LP. Lo stesso Logiri non li riascoltò mai. Non sappiamo nemmeno quale dovesse essere il titolo. Secondo il fonico Bruno Malasoma avrebbe potuto intitolarsi Mesopotamia o Iloponitnatsoc: due titoli veramente improbabili per il mercato discografico del tempo.
Conservati nei forzieri della Philips, in seguito rilevata dalla Universal, i nastri furono ritrovati nel 2003 da Franco Zanetti, che sperava di poterli pubblicare in un cofanetto antologico: un progetto contro il quale Battiato si sarebbe opposto "fieramente". La circostanza è raccontata dallo stesso Zanetti in appendice al volume di Carla Spessato, Franco Battiato, Giunti 2021. Dell'album dunque conosciamo solo i brani che in seguito furono pubblicati su 45 giri o altre raccolte. Zanetti ha trovato diverse scalette e dà la sensazione di aver ascoltato tutte le canzoni tranne una misteriosa, Ciao Marlene, che in un primo momento avrebbe dovuto essere la traccia finale del lato B, ma "nessuno dei partecipanti ai lavori se ne ricorda". Potrebbe trattarsi semplicemente di un titolo provvisorio per Marciapiede, che in un'altra scaletta era intitolata La battona.
È facile immaginare che la bocciatura del progetto sia stato uno dei motivi per cui Battiato nel 1969 decide di stracciare il contratto con la Polydor: da lui volevano soltanto dei singoli e a lui tutti questi singoli di successo non stavano riuscendo. In realtà lo strappo sarebbe avvenuto qualche mese dopo, magari in seguito all'insuccesso di Sembrava una serata come tante
1969: Gente (Bonoldi/Logiri, #246)
Una battuta forse involontaria che ho trovato su Youtube è "Gente è Iloponitnatsoc registrata al contrario", ok, è una battuta per battiatofili spinti; diciamo che Iloponitnatsoc – un frammento di Gente inciso al contrario – rischia davvero di essere relativamente più famoso di Gente, uno dei brani più anonimi che Battiato abbia inciso. La melodia era tutta di Logiri e Battiato stavolta si astenne anche dal partecipare con il testo. Quest'ultimo potrebbe essere il prodotto di un generatore di canzoni d'amore triste: le frasi che Giovanni Bonoldi mette assieme sono di una banalità che sconfina nel nonsense ("Quante notti da solo aspettando l’aurora: fino a domani estate sarà") Battiato le canta senza crederci troppo, suggerendo qua e là una sensazione di autosabotaggio. Il brano sarebbe poi finito sul lato B di Sembrava una serata come tante.
1969: Lume di candela (Battiato/Logiri)
Diverse canzoni dell'album perduto non possiamo semplicemente ascoltarle: non solo Battiato si è opposto fieramente alla pubblicazione, ma non sono state depositate alla Siae. Lume di candela però era depositata, perché già incisa da Daniela Ghibli, ex valletta di Settevoci, che malgrado il cognome evochi subito dune e venti del deserto così cari all'immaginario battiatesco, è nata a Velezzo Lomellina. La versione battiatesca invece fu pubblicata già negli anni Ottanta in un'antologia dell'Armando Curcio Editore. A orecchio non sembra un provino per la Ghibli, ma anzi suona arrangiata o almeno prodotta un po' meglio: segno che davvero per qualche giorno Battiato nella sala Cavour aveva potuto disporre di un budget di tutto rispetto. L'avesse incisa lui, sarebbe stata facilmente il suo migliore singolo del periodo Polydor: un bel pezzo italiano ma con qualche reminiscenza di Procol Harum, che in quel 1969 era il punto di arrivo di chi dal rock cercava di gettare il ponte verso qualcosa di più melodico. Insomma questo Logiri le canzoni stava imparando a scriverle, forse avrebbe dovuto continuare; e lo stesso Battiato qualche passo avanti con le parole lo stava facendo.
1969: Iloponitnatsoc (Battiato/Logiri)
Il titolo è "Costantinopoli" al contrario, e la canzone è un frammento di Gente incisa al contrario. Tutto qui, e ben tre anni dopo che Napoleon XIV aveva pubblicato aaaH-aH ,yawA eM ekaT ot gnimoC er 'yehT. Niente di pionieristico, insomma; però qualcosa di decisamente diverso da quanto Battiato avesse fatto fino a quel momento, e di più simile a quello che farà dal '72 in poi. Probabilmente si trattava di poco più di uno scherzo per aumentare il minutaggio del disco: secondo Logiri peraltro l'idea fu sua, non di Battiato. Il quale Battiato comunque non avrebbe più smesso di pasticciare coi nastri rovesciati. Il brano finì pubblicato, per ragioni imponderabili, su un'antologia della Philips, Hit Parade Vol. 2, una cosa che cominciava con gli Aphrodite's Child, passava per Israelites di Desmond Dekker e finiva con Oh Happy Day, per cui persino un Battiato rovesciato tutto sommato poteva starci.
1969: Lacrime e pioggia (Pachelbel/Pallavicini/Papathanassiou)
Lacrime e pioggia è una cover di Rain and Tears degli Aphrodite's Child, il brano con cui la progressione Pachelbel entra ufficialmente a far parte della musica pop europea – il debito è talmente evidente che l'oscuro compositore è incluso nei credits accanto a Vangelis Papathanassiou. Quando Battiato ci si cimenta, erano probabilmente già nei negozi di dischi un paio di cover italiane con lo stesso testo di Pallavicini. Rispetto ai Trolls e ai Quelli, Battiato ha l'impudenza di dare maggior risalto alla sua prestazione vocale, ovvero di sfidare Demis Roussos nel suo campo! E pur essendo un confronto impari, non ne esce malaccio (forse è più ispirato dalla cover italiana di Dalida che da Roussos). Registrata probabilmente durante la lavorazione dell'album perduto, Lacrime e pioggia non compare però in nessuna delle scalette dell'album – segno che Battiato e Logiri pensavano a un disco organico, senza cover. Fu pubblicata per la prima volta nella raccolta pubblicata dalla Armando Curcio Editore nel 1982, quando il nome "Battiato" avrebbe venduto qualsiasi cosa. Nel 2008 poi Battiato si ricorderà degli Aphrodite's Child riprendendo It's Five O'Clock, neanche a farlo apposta un'altra Pachelbel. Ma era meglio questa.
1969: Sembrava una serata come tante (Battiato/Logiri, #254)
Non ti avrei detto sì: chiudiamola qui. Di Sembrava una serata su Youtube resiste la versione cantata dal vivo con l'orchestra alla "Mostra Internazionale di Musica Leggera di Venezia" che non doveva essere proprio un festival di secondo piano, visto che sul palco si aggirava Mike Bongiorno. Dovrebbe trattarsi della "sfortunata esibizione televisiva" citata da Fabio Zuffanti (2020) con "l'orchestra che sbaglia clamorosamente la tonalità", episodio che "spingerà il nostro a serie decisioni sul suo futuro musicale". Quel che è certo è che non c'è esattamente sintonia tra l'orchestra e il giovane cantante con basette e occhialoni alla Nicola Di Bari, così poco soddisfatto della sua esibizione da scappare dal palco proprio subito dopo aver cantato "chiudiamola qui", senza aspettare gli applausi. Sarebbe stato di parola: Sembrava una serata come tante è il suo ultimo tentativo di sfondare come cantante confidenziale (l'ultimissimo singolo per la Philips, Vento caldo, sarebbe uscito a contratto già stracciato). È l'episodio più simil-francese di questa sua prima carriera, ma è anche una dimostrazione del fatto che Battiato questi francesi li ammirava senza capirli bene: la canzone che gioca sulla disillusione dell'innamorato che si scopre tradito è un classico della linea Brel-Aznavour, richiede un approccio teatrale, il cantante deve trasformarsi in un patetico oggetto di derisione e Battiato questo non era proprio in grado di farlo, né nel 1969 né in seguito. Lo spiega proprio qui: "Se non avessi avuto l'orgoglio che c'è in me": appunto, per fare canzoni del genere bisogna rinnegare l'orgoglio.
Dalla nostra distanza è facile capire che Battiato si stava infilando in un vicolo cieco: insomma, era già il 1969, l'anno di Woodstock, Tommy e Abbey Road, e Battiato si ritrovava in abito scuro davanti a un'orchestra a cantare di splendide serate finite male, un chansonnier fuori tempo massimo, con questa mania di rallentare i ritornelli per dare rilievo a un'interpretazione enfatica che la sua voce non sempre riusciva a sostenere dal vivo – sul serio, vien da pensare: chiudiamola qui. Non fosse che.
Non fosse che in quello stesso 1969, in un altro festival della musica leggera, un ragazzo similmente riccioluto e non del tutto a suo agio con l'orchestra porta una canzone scritta da lui, con cambi di tempo e interpretazione un po' enfatica: la canzone era Un'avventura, non a tutti piacque, ma oggi nessuno pensa che Lucio Battisti avrebbe fatto meglio a chiuderla lì e a buttarsi sull'elettronica.
1968:Vento caldo(#256)
Tra 1965 e 1968 Battiato le prova un po' tutte, accodandosi a più di una tendenza musicale. Vento caldo è il suo tentativo proto-prog, ed è uno dei mille brani che in quel periodo risentono del successo di A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum tentando di imitarne la formula: l'inserimento di melodie classiche nei brani pop. Se i Procol si erano limitati a ispirarsi a Bach, l'anno dopo gli Aphrodite's Child avevano fatto il botto copiando di pacca il Canone Pachelbel ed evidenziando i vantaggi economici del procedimento: i compositori classici non ti possono denunciare, non possono prendersi i diritti, non sono neanche iscritti alla Siae e incidentalmente hanno scritto un sacco di riff orecchiabili: bisogna essere fessi per non provare a scopiazzare qualcosa. Battiato fesso non è, ma ha comunque idee strane: è la prima volta che arrangia un brano e non vuole rispettare i 4/4 che per l'hit parade italiana sono ancora molto importanti e forse è ossessionato da un brano non così facilmente canzonettabile come il Concerto n.1 per pianoforte e orchestra di Ciaikovskij. Lo ritroveremo trent'anni più tardi in un brano di Ferro Battuto, ancora abbastanza incongruo – ma nel frattempo lo avremo memorizzato a causa di caroselli e pubblicità. Il testo è l'ennesima variazione su un tema che perseguitava ben più ossessivamente gli ascoltatori di canzonette: l'estate sta finendo. Anche Battiato in seguito ci regalerà variazioni esistenziali e metafisiche sul tema, ma qui siamo ancora al grado zero: l'estate sta finendo e ti devo lasciare. È anche un involontario commiato di FB alla Polydor, che lo fece uscire solo nel 1971 quando l'artista era ormai assorbito da altre avventure musicali.
1969: Marciapiede (#251)
Quando ti ho conosciuta, un anno fa, solo per poche lire davi te: ora sei una signora, già si sa: eri sul marciapiede e sei con me. Con Marciapiede finisce, abbastanza ingloriosamente, l'avventura canzonettistica di Battiato: è il lato B del suo ultimo singolo (Vento caldo) ed è anche la prima canzone completamente firmata da lui. I lati B com'è noto servivano a sperimentare cose un po' meno formalizzate; qui invece la musica è abbastanza semplice, in compenso l'argomento è per i tempi piuttosto scandaloso: la storia di un amore che dovrebbe redimere una prostituta di strada – ma Battiato essendo già Battiato, l'amore è destinato a finire e la ragazza a tornare sul marciapiede. Un soggetto da cui Brel o Brassens avrebbero potuto trarre romanze in dieci strofe, purtroppo viene affrontato dal giovane paroliere con espressioni di una banalità sconfortante. Battiato, che nei dischi della maturità abbandonerà la metrica tradizionale, qui vi si muove impettito come in un colletto troppo inamidato, limitandosi alle rime tronche ("sa/già, te/me"). Sembra veramente crederci poco: e del resto racconta la storia dalla parte dell'innamorato che non ci crede più, nel momento in cui la passione cede il passo alla repulsione. Il disco non arrivò nemmeno nei negozi: Battiato aveva già rescisso il contratto con la Polygram, ne furono pubblicate soltanto copie promozionali per la stampa. Lui ci aveva anche provato, a innamorarsi della Canzonetta, ma troppo spesso aveva visto la Canzonetta baciare qualcun altro per continuare a illudersi sulla di lei moralità.