2 luglio: San Bernardino Realino (Carpi 1530 – Lecce 1616), poeta pentito e gesuita
Bernardino Realino è nato a Carpi, ma non è il patrono di Carpi: quest'ultimo è Bernardino da Siena, che nel Quattrocento forse passò per il borgo (del resto non stava fermo un attimo). Non solo i carpigiani lo invocano, soprattutto in caso di pestilenze, carestie o alluvioni, ma talvolta battezzano i loro figli bernardini, e così era destino che prima o poi un santo omonimo spuntasse da qui. A Carpi, come si vedrà, Realino non ha fatto in tempo a fare nulla di santo; in compenso è patrono di Lecce, per acclamazione. Le agiografie raccontano volentieri che quando era in fin di ricevette una delegazione della cittadinanza leccese, che gli chiese ufficialmente di diventare santo patrono di Lecce. In quel momento Bernardino non solo non era stato ancora canonizzato da nessuna corte ecclesiastica, ma nemmeno beatificato, e soprattutto – condizione non sufficiente ma necessaria – non era ancora morto; e però tanto erano apprezzate le sue opere di carità e lodato il suo trentennale apostolato tra i leccesi, che tutti questi passaggi ormai i concittadini li davano per scontati e l'unica cosa che volevano sapere era se lui fosse d'accordo: poteva Bernardino non essere d'accordo? Diede il suo assenso, commettendo un veniale e comprensibile peccato di superbia, probabilmente per non contrariare la cittadinanza che sembrava tenerci molto. Non è che puoi sempre fare il muso e dichiararti un peccatore indegno di partecipare alla Tua mensa.
Di Bernardino Realino nessuna agiografia riporta invece il fondamentale peccato di gioventù, che non furono gli scritti e gli studi letterari – e capirai, a quel tempo se da giovane non avevi scritto neanche una corona di sonetti eri un analfabeta – ma qualcosa di un filo più grave, ovvero: mentre i leccesi si proponevano di canonizzarlo da vivo, forse Bernardino era ancora alle prese col senso di colpa per avere ucciso un uomo a vent'anni. Di questo si parla poco, e del resto non è nemmeno chiaro se la cosa sia successa o no (è un giallo? Ma sì, dai, è un giallo). Lo scrive per esempio Silvana Menchi nel Dizionario Biografico degli italiani Treccani: "fu costretto a lasciare gli Stati estensi per aver ucciso in duello un altro gentiluomo (così il Tiraboschi; secondo altri per aver semplicemente ferito la stessa persona, ma aggredendola per vendicarsi d'un torto ricevuto)"; e però lo stesso Tiraboschi nella Biblioteca modenese o Notizie della vita e delle opere degli scrittori natii degli stati del serenessimo signor duca di Modena non parla di un duello ma di una lite con un magistrato in seguito a una discussione su un arbitrato che al giovane Bernardino non era piaciuto; e non di un morto ma di un ferito grave: "ſendo in tempo delle autunnali vacanze tornato a Carpi, abbattutoſi a caſo nel detto arbitro, e venuto a parlar con lui dell’affare, nel diſcorſo ſi acceſe per modo, che dato di mano a un pugnale ferillo in fronte". Il delitto era troppo palese, scrive Tiraboschi, "perchè poteſſe andare impunito; e perciò Bernardino ne ebbe in pena non già l'eſilio, come diceſi nella Vita, ma la condanna al taglio della mano, e una multa di 200 lire". Che si applicasse ancora la legge del taglione a Modena verso il 1550 è cosa che onestamente non sapevo, ma forse era un sistema come un altro per comminare l'esilio: ovvero Bernardino, che era già sulla buona strada per diventare un cortigiano a Ferrara, a quel punto lasciò gli Stati Estensi e non lo videro mai più.
Per prima cosa andò a Bologna a completare gli studi in giurisprudenza che aveva interrotto. È possibile che Realino non si sentisse veramente tagliato per il diritto: la sua intenzione iniziale era diventare medico. A convincerlo a studiare legge era stata la donna amata: "eſſendoſi allora acceſo di caldo amore per una cotal Cloride giovane non ſolo per la bellezza del corpo, ma anche per le rare virtù, che ne adornavano l’animo, degna di eſſere amata da chi gli foſſe in ſaviezza e in virtù ſomigliante, a inſinuazione di eſſa applicoſſi in vece alla Giuriſprudenza". Come mai questa Cloride ritenesse la carriera dell'avvocato più savia e virtuosa di quella del medico non ci è dato sapere, ma non ha così importanza perché Cloride sarebbe morta giovane, come si conviene alle ragazze che ispirano le poesie, salvo che di poesie su di lei non ce ne sono rimaste perché Bernardino, una volta entrato nei gesuiti, distrusse tutto o quasi. I contemporanei che avevano fatto in tempo a leggere avevano parole di apprezzamento, ma si sa che i letterati tra loro tendono a capolavorarsi ogni due per tre, non ci si può fidare. Magari ci siamo persi un grande poeta del Cinquecento, ma i leccesi starebbero ancora cercando il loro santo protettore, chi può dirlo.
Dopo la laurea Bernardino, tramite il padre, trovò subito lavoro nell'amministrazione nei vasti possedimenti del governatorato spagnolo di Milano, segnalandosi dal Piemonte all'Abruzzo come funzionario capace e onesto; di quell'onestà che sconfina talvolta nella dabbenaggine, perché trovandosi sempre più spesso in province gravate da carestie, invece di mettere qualcosa da parte finiva per offrire del suo, al punto che quando a 34 anni a Napoli entrò nei gesuiti, in dote portava più debiti che altro. Gli stessi gesuiti continuarono ad adoperarlo come i datori di lavoro precedenti, mandandolo nei posti difficili dove nessun altro voleva andare: nel suo caso a Lecce, dove la Compagnia aveva appena ereditato un lascito con la clausola di dover aprire una "casa professa", ovvero una filiale in loco. Queste clausole erano spesso una fregatura: i gesuiti non sono mendicanti, le case professe spesso costano più dei lasciti stanziati. Bernardino, col suo curriculum di amministratore, sembrava l'uomo giusto per capire se conveniva davvero aprire o no; ma anche a Lecce Bernardino finì per mettere l'ottimismo della volontà davanti al cubismo del budget, attirandosi qualche rimprovero dai superiori ma l'amore incondizionato dei leccesi, che quarant'anni dopo volevano metterlo nel calendario ancor prima che salisse in cielo.
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