Any Other Day
Noi tutti che siamo arrivati al secolo XXI partendo dai Settanta, e mangiando la più parte dei crostini negli Ottanta, siamo stati vittima di due illusioni prospettiche.
La prima – durata fino al mese di giugno del 1989 – è che ai nostri tempi non succedesse mai niente. Non perché avessimo letto Fukuyama, ma per essere stati svezzati, per così dire, a pane e scetticismo.
(Questo scetticismo non era del tutto stupido, anzi: quando ti rendi conto di vivere in un mondo in cui due superpotenze rivali hanno arsenali in grado di distruggere il tuo pianeta venti volte, e continuano ad ammassarne, quel che vuoi sentir dire da tuo papà è proprio: "Sta tranquillo, non le useranno mai").
Lo scetticismo resisteva ai blandi tentativi di stampa e tv di convincerci del contrario: ma un reattore nucleare fuso in URSS non faceva autunno atomico, un massacro in Medio Oriente non faceva genocidio, una dittatura in Sudamerica non faceva 1984. E il resto era trantran: la Juventus vinceva un campionato ogni due, il pentapartito andava in crisi ogni sei mesi, amen.
Da piazza Tienammen in poi, con sei rivoluzioni in sei mesi, e poi Desert Storm, Mani Pulite, il referendum di Segni, e ancora il Berlusconi 1… abbiamo vissuto nell'illusione opposta: che tutto debba succederci in un giorno, e giorno per giorno. Le date storiche si sono moltiplicate: 13 maggio 2001; 20 luglio 2001; 11 settembre 2001; 23 marzo 2002… fino a oggi, 2 novembre 2004. Comunque vada, un giorno che passerà alla Storia, sono tutti d'accordo.
Questa fede nella Grande Giornata, che cambia il corso delle nostre vite, suona un po' sospetta, specie quando è troppo reiterata. Ma porta anch'essa un germe di saggezza: in fondo ci stiamo auto-convincendo di essere noi gli artefici del nostro destino, che può cambiare ogni giorno (vedi l'insofferenza con cui assistiamo da lontano al testa a testa Bush-Kerry: per la prima volta sentiamo davvero ingiusto che 'altri' votino al nostro posto). È solo un'altra illusione, ma può aiutarci a vivere meglio. E andare a votare più spesso. Io stesso amo praticarla, almeno un giorno all'anno: ogni 13 maggio cerco di pensare a come sarebbe diverso il mio destino se avessi potuto convincere qualcuno ad andare a votare per… per chi? (Miodio, per Rutelli).
Negli altri 364 giorni, tuttavia, resto scettico.
È che faccio parte di un gruppo di persone che sin da piccole amavano studiare la Storia, ma non tolleravano di dover mandare a mente le date, e che crescendo, per ovviare al problema, hanno fondato una particolare corrente di pensiero.
Secondo questa corrente di pensiero, le date non sono così importanti, così come le battaglie non sono così decisive. La Storia è un avversario paziente, che ti lavora ai fianchi. Napoleone avrebbe perso anche senza Waterloo: fu il blocco navale inglese a fiaccarlo, giorno per giorno. Hitler, se non si fosse fermato a Stalingrado, si sarebbe fermato comunque un po' più in là. E così via. Fino al 2 novembre 2004, un giorno come un altro. Oggi ci sembra storico, tra un paio d'anni ci dimenticheremo di averlo atteso con tanta impazienza.
Questo non significa che la consultazione di oggi non sia un momento decisivo: ma non è nemmeno la rivoluzione che tv e giornali ci raccontano, e che noi stessi siamo ansiosi di farci raccontare. Basti pensare a cosa potrà davvero succedere nei prossimi mesi se vince Kerry: il ritiro delle truppe dall'Iraq? Una nuova politica sociale negli States? La vittoria di Kerry sarebbe senz'altro un tranquillante per i milioni di persone del mondo che si sentono offesi dall'arroganza dell'amministrazione Bush. E poco altro. Ma siamo sicuri che un tranquillante sia quello di cui abbiamo bisogno?
Dagli anni Ottanta in poi, nel mondo, abbiamo avuto modo di assistere a tanti cambi di guardia tra partiti di centrodestra e centrosinistra. Di solito è andata così: il centrodestra tagliava, il centrosinistra medicava, il centrodestra tagliava, il centrosinistra medicava. Ad libitum. E più volte abbiamo avuto la sensazione che le medicazioni del centrosinistra servissero soltanto a prolungare un'agonia, in attesa del liberatorio taglio del centrodestra. Oppure: che le medicazioni del centrosinistra servissero a calmare il dolore, ad abituarci a convivere coi moncherini che ci lasciava il centrodestra. Però, taglio dopo taglio, medicazione dopo medicazione, ne stiamo uscendo a pezzi. Vedi l'Iraq: Bush padre ha tagliato, Clinton ha medicato (con bombardamenti mirati), e ha consegnato il paziente in buono stato per i vigorosi tagli di Bush figlio. E Kerry, cosa potrà fare? Taglierà o medicherà? A questo punto, chi può dire cosa è peggio e cosa è meglio?
Un altro esempio è il Protocollo di Kyoto. Sapete, il mondo a questo punto si divide in due: quelli che non hanno la minima intenzione di ratificarlo (tra cui gli USA) e quelli progressisti, illuminati, che lo hanno ratificato da un pezzo, e non lo rispettano. Può darsi che con Kerry gli USA passino dal primo gruppo al secondo: è il caso di mettere fuori le bandiere?
Io ho vecchi amici che sono marxisti, che non mangiano bambini, ma fanno altre cose che disapprovo.
Per esempio, in situazioni del genere a volte indulgono nella logica del tanto meglio tanto peggio: il sistema è vittima delle sue stesse contraddizioni? Ebbene, che esploda! Inutile affidarlo a qualche illuminato ingegnere progressista: si rischia l'accanimento terapeutico.
Quei miei amici non vengono di sicuro a dirmelo, ma può darsi che stasera tifino George W. Bush.
E magari anch'io, chissà.
Tanto domani è un altro giorno.
(Ma intanto, come funzionano queste elezioni presidenziali benedette? Così (via Brodo)).
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