Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi

Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi. Noi no. Donate all'UNRWA.

giovedì 30 agosto 2007

chi fa sempre divertire i grandi ed i piccin?

Una delle principali differenze tra la realtà e l’animazione è il topo. Il topo di cartone è istintivamente simpatico: canta, balla e si fa beffe dei grandi. Il topo vero è una bestia orrenda, un parassita e un untore. Questa differenza, che abbiamo tutti afferrato in età prescolare, è uno dei grandi misteri dell'umanità. Perché Disney, tra una varietà infinita di animali esotici e da cortile, si fissò sul topo? Perché Mickey il Topo ha fatto il botto e Felix il Gatto no? Nel Trecento i ratti sui bastimenti che venivano da Oriente portarono un’epidemia di peste che dimezzò la popolazione europea: la salvezza fu un nuovo animale domestico importato dall’Africa, il gatto. Eppure i bambini tifano per Jerry e contro Tom.

Cosa c’è nella stanza 101? (Winston del Grande Fratello)

E non i bambini di oggi, disinfettati ai limiti della sterilità, che di topi ne vedono solo sullo schermo piccolo o grande. I bambini degli anni '40 che in mezzo ai topi ci vivevano, in case con buchi nel battiscopa e rumori in cantina. Al cinema ridevano (grandi e piccoli) per il topo di cartone; poi rincasavano e controllavano le trappole. Magari il tifo per il topo era il primo accenno di ribellione del piccolo di casa: una specie di solidarietà tra le piccole creature sempre affamate. Ci saranno stati bambini che di nascosto portavano briciole al roditore. Credo che uno dei passaggi cruciali della pre-adolescenza sia quando ti accorgi che Jerry non è poi così simpatico, anzi, a ben vedere è uno stronzo, e cominci a tifare per il suo avversario frustrato. Fine della solidarietà tra le piccole creature: diventi grande, cominci ad avere paura dei germi e a sviluppare il senso della proprietà: giù le mani dalle nostre provviste, parassita!

E questo cos'è? Non ci sono già stati abbastanza cartoni con il gatto e il topo? (I manager della MGM ad Hanna e Barbera, nel 1940).

Ratatouille è un film piuttosto strano, anche per la media della Pixar. Per quanto la consociata della Disney rifugga le trame scontate, tutti i suoi film mantengono un sano contenuto morale, di quelli che si possono condensare in due righe e che mettono d’accordo grandi e bambini (i grandi devono lasciare lo scetticismo nel vestibolo, s’intende): per esempio Mosters & co. dimostra che la fantasia vince sempre sulla paura, Nemo ricorda ai genitori che i figli devono imparare a nuotare da soli, proprio perché il mondo è vasto e alieno come l’oceano; Cars insegna a grandi e piccini il valore dei rapporti umani, che trionfa sulla grande competitività universale. E così via. Anche Ratatouille ha una morale e un lieto fine, ma zoppicano. Sembrano appicicati per contratto.

Tutto ciò per dire che davanti a Ratatouille si sta a bocca aperta per l’esperienza della visione che dà, quasi travolgente. È su questa sensazione di realismo cartoonesco che poi si muove l’amore per i personaggi (Secondavisione)

Il film (che è bellissimo, se non avete la fobia dei topi, ed è andato meglio in Francia che negli USA) non è americano al 100%. L’idea è di Jan Pinkava, britannico d’origine boema, già premio Oscar per un corto. Gli uomini della Pixar devono averne apprezzato soprattutto il senso della sfida: dopo aver creato con Cars un mondo cromato e arrugginito, in cui l’automobile è Natura, i canyon hanno le sagome di vecchie cadillac e le nuvole sono strisce di pneumatici, stavolta si trattava di stravolgere uno degli archetipi dell’animazione: il Topo. Togliere al Topo il cravattino di Jerry e le braghette di Mickey. De-antropomorfizzarlo, riportarlo alla natura, alla sua condizione di scroccone purulento. E poi rimettersi nel suo punto di vista: il punto di vista di un animale braccato, per il quale anche una vecchia zia borgognona è un orco sterminatore, e la sua vecchia spingarda lancia razzi Terra-Aria.
L’altra scommessa era il cibo. L’ultima frontiera del digitale è rendere l’organico coi pixel: le croste croccanti, il verde delle muffe, il ribollire di una salsa. E dopo avere programmato cibo vero e ratti veri, farli interagire in un film per bambini. Trasformare un’orda di ratti sporchi e scrocconi nel personale di un ristorante francese: una sfida impossibile, salvo che nulla è impossibile per gli uomini della Pixar. La morale del film è la sfida stessa: non tutti hanno talento, ma se ce l’hai puoi fare qualsiasi cosa. Puro calvinismo: la fede è un dono che sposta le montagne. Rémy è il ratto aspirante chef, che per cucinare deve servirsi dello sguattero Linguini: il modo in cui impara a guidare il suo strumento umano, tirandogli i capelli per condizionarne i movimenti, è una stupenda metafora del mestiere dell’animatore (e di qualunque arte o mestiere): migliaia di tentativi e ore di lavoro, anche solo per affettare un tubero. Ma se hai talento puoi solo farcela, e infatti Rémy ce la farà. Titoli, fine.

È ingiusto, ma è normale: ai bambini piacciono gli animali piccoli, vispi e birichini.

Ecco, questa è la crosta croccante del film. Quello che c’è dentro, però, è un po’ meno dolciastro: come se qualche spezia europea fosse riuscita a salvarsi anche dopo che Pinkava ha lasciato la Pixar e il progetto è passato a Brad Bird. Il retrogusto amaro si percepisce soprattutto nelle prime sequenza: più tardi, quando si avventurerà in quel mondo pieno di coltelli, carrelli e altre insidie, sarà impossibile non prendere le parti del Piccolo chef. Ma all’inizio della storia Remy non è necessariamente un personaggio simpatico. È il figlio del Capo di un branco accampato nel solaio di una casa di campagna. Il suo fiuto straordinario lo rende prezioso per la sopravvivenza della “famiglia”, grazie alla sua capacità di riconoscere il cibo avvelenato. Per il resto, il padre e i fratelli non hanno la minima considerazione per le sue capacità. Per il padre il cibo è solo carburante, ai fini dell’unica missione di vita: sopravvivere, malgrado gli umani. Di fronte a questi orchi enormi, che massacrano i ratti senza pietà, la famiglia non ha altra scelta che scappare e mangiare, mangiare e scappare, senza dividersi mai.

REMY: Prima o poi il piccolo deve lasciare il nido
IL PADRE: Noi siamo ratti! Non lasciamo il nido! Lo facciamo più grande!

È una vita che Remy non sopporta. A lui piace il mondo degli uomini: gli odori della dispensa, i programmi di cucina, i libri di ricette. Sarà la sua imprudenza a causare la fuga in città della famiglia. In città del resto la vita dei ratti non è molto diversa: la famiglia è sempre la famiglia, e il cibo è sempre carburante. Ma non per Remy. Lui passerà definitivamente dalla parte dei nemici, degli assassini, degli uomini.

Ecco la polpa europea. Remy è un migrante, come Fievel: ma se Fievel sbarca in America era l’epopea nostalgica degli emigranti europei negli USA, Ratatouille racconta l’emigrazione e l’inurbazione con tutta l’ambiguità dei problemi irrisolti di oggi. Gli emigranti hanno due vie (le hanno sempre avute): o si ghettizzano, cristallizzando i costumi e i valori della società di provenienza e isolandosi in un mondo percepito come ostile, o si integrano. Ma integrarsi significa spezzare le radici, tradire la razza. Non ci riescono tutti, e nemmeno Remy, che pure tratta i suoi simili veramente con la puzza sotto il naso. In Africa i tipi come Remy li chiamano noir blanchi, neri imbiancati: eppure anche lui preferisce non tagliarsi del tutto i ponti alle spalle: nottetempo scivola nella dispensa del ristorante che lo ha accolto, e ruba un po’ di roba buona per il fratello. La cosa gli scappa naturalmente di mano, proprio come succede quando la tua famiglia esce dal medioevo e viene a bussare nel tuo superattico per chiederti un favore: il problema di Remy è lo stesso problema di Michael Corleone, è il problema di tutti gli onorati membri della società che hanno ancora qualche legame con le Famiglie.

Ma non ci sono gatti in America! E ti regalano il formaggio! (Fievel sbarca in America)

Verso i tre quarti il film, per quanto divertente, sembra proiettato verso un finale tragico: Remy ha servito gli umani senza riuscire a integrarsi veramente, e intanto la Famiglia che fa affidamento su di lui è sempre più numerosa, sempre più affamata. Poi c’è il finale, appicicato un po’ così, che non racconto: dico solo che è incredibile la sfacciataggine con cui pretende di salvare capra e cavoli, Famiglia e carriera. Quando le cose al mondo non stanno così, decisamente: uomini e ratti non possono convivere nello stesso ristorante. È una cosa che semplicemente non succede, nella realtà.

Tutti in coro noi cantiamo viva Topolin. Topolin, Topolin, viva Topolin, (Full Metal Jacket)

D’altro canto è un cartone animato, e nei cartoni animati i topi sono simpatici e la fanno franca. Detto questo, qui propongo il mio finale: dopo decenni di clandestinità Remy riesce a imporsi come un cuoco degno del genere umano, apre un ristorante a Duisberg, e una sera tutti i suoi parenti vengono sterminati nel parcheggio da una banda di roditori concorrenti. Perché la vita è dura, se nasci ratto. Remy lo diceva già all’inizio del film. Nei film americani poi ti raccontano che anche il ratto può crescere, scoprire i suoi talenti, tradire i famigliari e poi ritrovarli, diventare famoso e apprezzato. Ma gli europei hanno abbastanza Storia da parte per concludere che non è quasi mai vero. E questo è tutto, gente.

martedì 28 agosto 2007

contiene sconvolgenti rivelazioni

Cadendo, dalle nuvole a terra

In Italia la stampa fa mediamente schifo, e si sa; i blog sono solo diari adolescenziali, e quindi uno come fa per tenersi aggiornato? Di solito ci si abbona a Internazionale. C'è il meglio della stampa estera, giornalisti che vivono nel mondo vero e non nell'isoletta di Corona e Briatore, eccetera.

Sull'ultimo numero di Internazionale ho trovato un fondo di Paul Kennedy che mi ha discretamente sconvolto. E' anche on line, così potete farvene un'idea da soli. Kennedy parla di numeri. Ammette che "i dotti editoriali pieni di statistiche invitano anche il lettore più attento a girare pagina. Ma ci sono alcuni articoli pieni di dati che a mio avviso meritano un'attenta riflessione". Kennedy ne cita due che lo hanno addirittura "turbato". Sentiamo.

Il primo è un articolo del Financial Times che documenta la crescita demografica nella striscia di Gaza. "Tra il 1950 e il 2007 la popolazione di Gaza è passata da 240mila a quasi un milione e mezzo di abitanti, a causa dell'alto tasso di natalità delle famiglie palestinesi". Se gli statunitensi fossero cresciuti allo stesso ritmo, adesso sarebbero quasi un miliardo. Questo significa che "ci sono molti più giovani arabi (frustrati, arrabbiati e disoccupati) che giovani israeliani, e il loro numero sta crescendo così rapidamente da renderli incontrollabili. Se questo è vero, allora tutte le missioni di pace degli Stati Uniti o dell'Unione europea potrebbero essere inutili". Pensa un po'.

Il secondo è un pezzo del "Catholic Worker" che già nel titolo censisce la popolazione carcerata USA: "2.193.798 e continuano ad aumentare". Sono raddoppiati in meno di un decennio. Nessun Paese ha così tanta gente in carcere (nemmeno la Cina). Gli europei ne hanno sette volte in meno, in proporzione alla popolazione. Di fronte a queste cifre Kennedy ammette di rimanere confuso.

Io invece mi sono spaventato. E non tanto per la crescita demografica di Gaza, né perché gli americani stanno per avere un carcerato ogni cento abitanti. Mi sono spaventato perché Kennedy è un professore di storia di Yale, che scrive saggi di politica internazionale e ha una sua proposta per riformare l'Onu, e in questo editoriale sta lettteralmente cadendo dalle nuvole. Voglio dire, davvero là fuori c'è qualcuno che ancora non sa che la Striscia di Gaza sta scoppiando perché il tasso di crescita dei palestinesi è uno dei più grandi al mondo? Davvero un intellettuale USA può ignorare che il suo sistema economico e sociale poggia saldamente sul network di prigioni più strutturato e accogliente del mondo? Come fanno a presentare questi dati come novità sconvolgenti, come fanno a non saperle già? E se Kennedy, che sta a Yale, queste cose le ha imparate la settimana scorsa, come si spiega che io, vivendo nell'isoletta di Lele Mora e Materazzi, le so già?

Chi me le ha insegnate? Nemmeno me lo ricordo. Sono cose che mi sembra di conoscere da sempre; tanto che al limite mi aspettavo di leggere su Internazionale un pezzo che le smentisse come leggende urbane. Magari un fondo muffito di Sandro Viola sui ragazzini della prima Intifada. Magari uno di quei reportage di Marco D'Eramo dagli USA, che prendevo con le molle perché erano stampati sul Manifesto, e adesso sta a vedere che il Manifesto guardava più in là. Insomma, salta fuori che anche nell'edicola Italia ci si può fare una cultura.

Si tratta di quei semplici dati che tanti anni fa mi hanno fatto prendere una parte piuttosto che un'altra: se non sapessi che gli americani attingono dalla criminalità reclusa come da un enorme bacino di lavoro sottopagato, magari potrei essere un filoamericano anch'io. Se non sapessi che in Palestina tra qualche anno ci saranno più che palestinesi che israeliani, forse griderei forza Israele anch'io. E invece sapevo queste cose, perché le ho lette da qualche parte e non ho mai trovato nessuno che le smentisse. E non solo le sapevo, ma a un certo punto le davo persino per scontate, le consideravo banalità su cui non soffermarsi, come il due più due.

Ora mi viene il sospetto: ma quelli che mi hanno accusato, prendendosi anche sul serio, di essere antiamericano o antisemita, queste cose le sapevano? Io ero convinto di sì. Ero convinto che le sapesse anche Camillo, anche se magari non ci insisteva troppo. Eppure capita che negli USA un opinionista di area liberal le trovi sconvolgenti. Figurati i neocon, i neodem, i neolib e tutti gli altri.

Ora, qui non si tratta di sentirsi più intelligenti di un prof di Storia che sta a Yale. Per carità. L'intelligenza non c'entra molto con l'accesso alle informazioni: quello che mi schianta è che io, dei prof di Yale, degli opinionisti liberal, della grande stampa americana e internazionale, sotto sotto mi fidavo. Speravo di trovarci un centro di gravità, un brandello di oggettività nel marasma globale. E' abbastanza terrorizzante accorgersi che a volte ne sanno meno di me. Anche perché io, onestamente, non ne so molto.

Ha anche a vedere con la crisi dei trent'anni. Non importa quanto complesso stesse diventando il mondo: fin qui avevo sempre contato sull'esistenza di uomini con la barba grigia in grado di assorbire informazioni e restituire analisi di saggezza. Ma da qui in poi il rischio di imbattersi in rincoglioniti con l'aria da guru aumenta a ritmo esponenziale.

Ormai il mondo è roba nostra, ne rispondiamo noi. E' un'idea che mi spaventa, più di Gaza e Guantanamo. Mi dà le vertigini, o piuttosto l'impressione di precipitare dalle nuvole a un mondo dove ci si aspetta seriamente che io sappia quel che accade. Vien voglia di chiudersi nella stanza, rileggersi i fumetti.

domenica 26 agosto 2007

Corona è meglio di voi

Se non ci fosse lui

Cosa c'è di veramente insopportabile in un reality? Il moralismo. Spacciati come gli spettacoli più immorali sui canali in chiaro, i reality al contrario sono stati la grande operazione moralista del decennio. Poter giudicare ogni settimana il povero cristiano o il vip, mandare a casa il comico perché bestemmia o la velina perché non lava le pentole, sentirsi in generale migliore delle persone che occupano spazio in tv senza il minimo talento, che invenzione. Se vi piace il moralismo, certo. A me fa vomitare.

Il problema è che non puoi parlare male dei reality, dal momento che i reality servono esattamente a parlarne male. Se critichi i personaggi, stai semplicemente accettando le regole del gioco, pronto a prendere il tuo posto nella platea dei moralisti; magari ti metteranno tra i più forbiti, ma non è una gran consolazione. Vien quasi da prendere le parti di tronisti e veline, che perlomeno si giocano la faccia. Perché, ricordiamo, c'è molto di peggio di una Yespica o di un Costantino: c'è in giro gente che si costruisce una carriera moraleggiando sulla Yespica o su Costantino. C'è gente che ci riempie una colonna al giorno, parlandone male. Sempre rigorosamente male. Però ne parla. Non parla d'altro. E prosegue. Se non fosse per tutti questi forbiti moralisti contemporanei io manco saprei chi è, Costantino, perché tutto sommato bastava evitare il palinsesto pomeridiano di Canale5 per evitarlo. Ma l'esigenza di parlarne male era tropo forte. Dovevano per forza mostrarmelo in un tg, in un approfondimento. Dovevano per forza criticarlo, esibire la propria superiorità. E che dire, bravi. Voi sì che avete dei valori. Non siete semplicemente dei guardoni morbosi, no. Voi giudicate, quindi siete.

Lo stesso vale più o meno con Corona, che sembra uscito da un reality e prima o poi ci entrerà: che ci fa a Garlasco? Quello che stanno facendo tanti altri giornalisti nello stesso posto e nello stesso momento: nulla di utile né di interessante. Gironzolano in attesa di una storia che per ora non c'è, esibiscono la propria professionalità torchiando i passanti, spremono le rape in cerca della più minima traccia di sangue. Lo fanno tutti: ma se lo fa Corona, tutti addosso a Corona. Che gran consolazione poter puntare il dito su di lui e dire: è peggio di me. Avercene, di Corona. Corona è indispensabile all'infotainment quotidiano. Senza di lui, i soloni dei telegiornali avrebbero già esaurito gli argomenti.

Prendi Riotta. L'altra sera intervistava Feltri e la Rodotà, probabilmente appena rincasati dalle vacanze e privi del minimo spunto interessante. Per cui, insomma, si faceva salotto su una ragazza morta ammazzata, e a parte un paio di battutine caustiche su Corona non c'era veramente molto da dire. Bisognava trovare qualche altro fantoccio su cui puntare il dito, e così si sono trovati tutti e tre ad auspicare che il delitto di Garlasco non diventasse un argomento "per quei programmi in cui fanno il plastico della casa". Ecco, nell'assoluta mancanza di argomenti si può sempre criticare Vespa, che è ancora in vacanza e non può difendersi. Eppure Vespa, per quanto insopportabile, almeno fa il plastico, almeno prova a mettere in scena gli indizi, i pochi fatti che ha. E soprattutto Vespa è un avvoltoio senza ipocrisie, senza moralismi: la gente si ammazza e lui ci fa tot serate. Riotta a fare il plastico non ci prova nemmeno: gli basta fare la morale preventiva e passa già per opinionista intelligente, quando è solo un avvoltoio al quadrato.

Dopo Corona, dopo Vespa, c'erano altri 15 minuti da riempire. Non restava che Internet. Riotta ha preso un po' dei fotomontaggi delle due gemelle matte e li ha fatti vedere agli italiani. Anzi, li ha centellinati: li aveva già annunciati al tg delle venti, e prima dell'esibizione ha persino mandato la pubblicità. Insomma, il pezzo forte del suo dibattito erano una manciata di fotomontaggi anonimi pubblicati su Internet, una cosa da blogger di quinta categoria (la mia, probabilmente). Il primo grande scoop del TG1 di Riotta: le sorelle con Bin Laden, le sorelle con Darth Vader, le sorelle con la Franzoni. Il tutto condito con quell'aggettivo, "postmoderno", che negli anni '90 si grattugiava su qualsiasi argomento, e che adesso da una strana sensazione di muffito. 'Feltri, non le pare terribile che su internet chiunque possa fare una cosa del genere?' "Mah, sì, mi fa impressione la facilità con cui si può avere accesso a internet", ma non ci possiamo fare niente'. Eh, già.

Allora viene voglia di chiuderla davvero, quest'internet. Non solo, ma di proibire per decreto legge i reality show. E d'imprigionare Corona vita natural durante in un bunker sull'isola del Giglio. E togliere anche i plastici a Bruno Vespa. Tutto solo per la curiosità di vedere di cosa parlerebbero a quel punto, come perderebbero il loro tempo Riotta, Feltri, la Rodotà e tutta la compagnia moraleggiante. Dei fatti? Possibile? Ma ne sarebbero capaci?

giovedì 23 agosto 2007

la pistola sbagliata

La castrazione linguistica

Sarkozy dice che non dobbiamo avere paura a parlarne, e allora coraggio, parliamone: se scrivo la parola castrazione, qual è la prima cosa che vi viene in mente?

A me, le forbici. O un coltello. O una tenaglia da norcino. Senza insistere oltre, insomma, nel mio vocabolario interiore “castrazione” è una parola irrevocabilmente associata a un concetto chiaro: mutilazione. Mi conforta in questo anche il De Mauro Paravia: castrare significa “asportare o far atrofizzare gli organi della riproduzione di un animale”. Asportati o atrofizzati che siano, si dà per scontato che quegli organi siano irrecuperabili. Anche l’accostamento immediato con “chimica”, una bella parola moderna, asettica, non cambia molto il risultato; una mutilazione è una mutilazione anche se al posto della lama di coltello è praticata mediante capsule colorate. Sempre legge del taglione è, e la legge del taglione la pensavo abolita, non già grazie a Beccaria, ma addirittura da Rotari re dei Longobardi. E la discussione potrebbe finire qui: grazie Monsieur le President, ma l’alto medioevo non c’interessa, neanche nella versione chimica. A questo punto di solito interviene qualcuno con l’argomento “il medioevo non ti piace perché non hanno ancora toccato i tuoi bambini”, e la discussione prosegue all’infinito, senza peraltro offrire più nessuno spunto di interesse.

Perché in realtà non stiamo parlando di niente. La “castrazione chimica” proposta da Sarkozy, sperimentata in qualche Paese europeo, e praticata allegramente in qualche Stato Usa nell’imbarazzo di giuristi e medici, non è una misura definitiva. Quindi, a rigor logico e linguistico, non è una castrazione. La cosa funziona così: se il colpevole di reati a sfondo sessuale è recidivo (e spesso purtroppo lo è), il giudice, sovrapponendosi bizzarramente al medico, gli commina una “cura” di ormoni che lo rende sessualmente impotente. Finché prende gli ormoni: se smette, in teoria potrebbe tornare sessualmente attivo. In teoria. I medici si lamentano che la cura abbia effetti collaterali, questi sì, definitivi. Ma facciamo finta che della salute di un maniaco sessuale non c’interessi nulla, facciamo finta che una giuria moderna possa considerare un cancro come parte della pena. Poniamoci un solo problema: la cosiddetta castrazione è efficace o no?

Un maniaco sessuale è una persona sessualmente frustrata. Renderlo impotente significa renderlo ancora più frustrato (peraltro alcuni maniaci sessuali sono già impotenti). Magari qualche volta funzionerà, ma in altri casi rischia di essere controproducente: d’altronde, siccome in tutto il continente i castrati chimici non superano ancora il centinaio, è un po’ presto per le conclusioni statistiche. In America, dove ne hanno castrati un po’ di più, hanno notato che la castrazione chimica “rende il soggetto più aggressivo”. Rendere un maniaco sessuale più aggressivo non mi sembra un buon risultato, anche alla luce di un semplice fatto: il pene non è mai l’unica arma a disposizione. Da solo un pene può fare ben poco: per commettere violenza ha sempre bisogno di un supporto: pugni, calci, coltelli, pistole. Atrofizzare un pene e lasciare le pistole a portata d’armeria mi sembra un’ipocrisia enorme. Questo è il motivo per cui sarei contrario alla castrazione chimica… se fosse una cosa seria. Ma non lo è. Semplicemente non lo è.

La castrazione chimica è una cosa che non esiste. È un nome feroce, che evoca lame arrugginite e barbare mutilazioni, appioppato a una banale cura ormonale senza effetti definitivi. Come andare dal barbiere a “decapitarsi” barba e capelli. O dal dentista affinché ci “amputi” un dente cariato. Allo stesso modo, da qualche anno in alcuni Paese europei (sicuramente Germania o Svezia) il condannato per reati sessuali può chiedere di essere “castrato” chimicamente per usufruire di uno sconto di pena. È chiaro? In cambio di un po’ di pilloline tornano fuori prima. E una volta fuori, chi di voi madri e padri premurosi sarà in grado di accertare che il maniaco continui ad assumere la pillolina?

Aveva ragione Orwell: chi controlla il significato delle parole, controlla il Potere. Allo stesso tempo aveva torto: lui pensava che il Potere avrebbe chiamato “libertà” la dittatura, “amore” le torture; per ora le cose vanno in modo diverso. C’è in circolazione una cura (per la verità ancora non molto sicura), per i maniaci sessuali, e il Potere decide di chiamarla “castrazione”, per darsi un tono. Sarkozy non è un boia che si atteggia a damerino, ma l’esatto contrario. Per rimanere popolare deve fare il gradasso. Certo, se proponesse ai francesi la libertà anticipata ai pedofili in cambio di una cura ormonale senza effetti definitivi, sarebbe sommerso di fischi. Ma è proprio quello che sta facendo: salvo che la cura ormonale ha questo nome formidabile, “castration chimique”. Senti che suono che fa, senti come ti riempie la bocca. E tanto meglio se nel frattempo ti svuota anche le galere, con quel che costa un carcerato.

E funziona? Dipende dai punti di vista. Probabilmente non salva nessun bambino dalle insidie dei pedofili, anzi. Ma come arma mediatica è fenomenale: vuoi mettere quant’è liberatorio e popolare poter affacciarsi al balcone e gridare “castration chimique”, ogni volta che un bambino ci va di mezzo? Tanto più che se si trovasse qualcosa di realmente efficace contro la pedofilia, il mondo si svuoterebbe di bambini abusati e genitori impauriti, e a quel punto gridare al balcone non servirebbe più, bisognerebbe inventarsi qualcos’altro. Ma finché c’è un problema vero, e uno slogan efficace, non c’è nessuna necessità di risolvere il problema. No, neanche quello dei vostri bambini, mi spiace.

Forse allora aveva ragione Pasolini, in una sequenza di quel film orribile. Perché mai il Potere dovrebbe mutilare realmente le sue vittime, quando può mettere in scena la mutilazione all’infinito? “Imbecille, non lo sai che vorremmo ucciderti mille volte fino all’infinità possibile prima di ucciderti per davvero?”

martedì 21 agosto 2007

rettifica

E a Bruxelles lo aspettano ancora

Il pezzo di ieri conteneva una notevole imprecisione. Umberto Bossi, detto il Senatùr perché fu per un intera legislatura l'unico leghista approdato in parlamento, non è più Senatore da un pezzo, i soldi da Roma tecnicamente non li piglia più.

Li piglia da Bruxelles, in quanto europarlamentare. Da laggiù arrivano buste mensili di 12.750 euro anche per il fratello Fausto e il figlio Riccardo, assunti come assistenti accreditati - se quanto riportava il Corriere a fine 2004 è ancora valido. Sennò rettificherò pure questo.

Umberto poi sarebbe stato eletto alla Camera l'anno scorso, ma ha rifiutato il posto per restare nell'europarlamento, dove a dire il vero non sembra che si stia spezzando la schiena per il duro lavoro: nel sito ufficiale il suo nome è associato soltanto a un'interrogazione parlamentare sullo stoccaggio di gas sotterraneo presso Rivara (MO). Ora che ci penso non credo di avere mai visto una sua foto a Bruxelles, a Strasburgo, o anche solo più a nord di Como-Chiasso, ma forse è anche esagerato pretendere tutti questi viaggi da una persona malata. E lasciategli pigliare il suo stipendio in pace, no?

Non solo, ma il seggio a Montecitorio e il congruo compenso che gli sarebbero toccati sono invece stati generosamente destinati a qualche altro leghista sconosciuto ai più, che la volontà popolare non aveva designato neanche di sguincio, o sbaglio?

Scusate la scarsa precisione, è che non sono tanto bravo a fare il populista. Ci vuole più impegno e dedizione di quanto sembri, e uno stomaco d'acciaio e teflon. A me ogni tanto viene ancora la nausea, mi sa che tra un po' cambio argomenti.

lunedì 20 agosto 2007

evadere Bossi

Bossi non paga Roma, perché Roma pagare Bossi?

Bossi di lavoro che fa? Parla. Ogni tanto va a Palazzo Madama e intasca il gettone presenza. Oppure non ci va e prende lo stipendio lo stesso. Che altro ha fatto nella sua vita? Non molto. Professione Senatùr. Bene, bravo.

Bossi per restare Senatùr cosa fa? Parla. Perché si parli di lui, perché la gente si ricordi che giù a Roma c’è lui a difenderli, ogni tanto si fa vivo, e spara una palla. Secessione, federalismo, pallottole, stavolta ha chiesto ai padani di non pagare le tasse a Roma. Che sarebbe forse apologia di reato, ma non sottilizziamo. Tanto sono solo boutades di fine agosto, strizzate d’occhio agli elettori che il loro sciopero fiscale se lo fanno già in privato da anni. Cosa facciamo, vogliamo mettere un bavaglio ai senatori eletti dal popolo? Si rischia di passare per populisti, o nemici della democrazia, e questo non è bello.

Io semplicemente gli congelerei lo stipendio. Fine. In busta gli lascerei un biglietto: ue pirla, ti ricordi in agosto che parlavi di sciopero al Brambilla? Beh, la tua mesata se l’è tenuta il Brambilla. E giustamente. Chi semina merda raccoglie stronzi, se avessi lavorato un giorno solo della tua vita lo sapresti, sennò lo impari oggi e fa l’istess. In gamba, eh!

E se gli venisse un altro ictus, tutta la nostra solidarietà, e ricoverarlo in un ospedale con l’organico bruscamente ridotto, per via dei tagli alla Sanità.

Tutto questo, nella mia più bieca fantasia, si concreta in una leggina piccola, semplice, che non sono riuscito a scrivere meglio di così:

ART. 1
Sarà congelato, con decorrenza immediata, lo stipendio di qualsiasi rappresentante eletto del popolo (Senatore, Deputato o Consigliere regionale, provinciale e comunale, ecc.) che abbia giustificato pubblicamente l’evasione fiscale a mezzo stampa, tv o altri. Il blocco sarà esteso a tutti i rappresentanti politici che abbiano pubblicamente solidarizzato con il primo dichiarante. Il blocco dello stipendio verrà annullato soltanto in seguito a una pubblica ritrattazione da parte del politico stesso, che dovrà avere lo stesso risalto delle dichiarazioni originarie.

Populismo, lo so. Ma secondo me Bossi va contrastato a questi livelli. Scandalizzarsi, come fa Veltroni, secondo me gli fa giuoco (anche perché Veltroni al momento è un po’ troppo abbronzato per sdegnarsi in modo credibile). Mi sarebbe piaciuto che lui e gli altri candidati leader avessero risposto così: Bossi inneggia allo sciopero fiscale? Benissimo, i soldi che perde l’erario li recuperiamo congelando i finanziamenti alla Lega. Fine del discorso.

O magari insistere un po’ di più sul fatto che Bossi è uno degli esempi migliori di politico sanguisuga, uno che da vent’anni non fa altro che intascare soldi a Roma per sparare scemenze contro Roma. La perfetta nemesi del Nord operoso, un cialtrone senza arte né parte che uno Stato civile schiaccerebbe col calcagno.

giovedì 16 agosto 2007

centro Europa

Crocevia di culture

Rotterdam, a dirlo sembra un'astrazione, ma è al centro dell'Europa per davvero. E l'Europa non è centrifuga come l'America, l'Europa è centripeta, e quindi al centro ci trovi di tutto.

Per esempio, e generalizzando molto: se parcheggi intorno al centro di Oslo, e ti mancano le monetine per la macchinetta, l'ombra del vigile ti farà una certa paura.

Se invece parcheggi dalle parti di Bari vecchia, con o senza monetine, non sarà del vigile che avrai paura, quanto del furtivo estrattore di autoradio.

Se parcheggi a Rotterdam, invece, capita che ti succedano entrambe le cose: da un lato cercano di forzarti la serratura (senza riuscirci), dall'altro ti fanno pure la multa. Questa è Rotterdam, e adesso torniamo a casa.

domenica 12 agosto 2007

non è un pranzo di gala, ma quasi

Dipingere chiese vuote

Adesso sono a Rotterdam, in un albergo a 4 stelle che su booking.com non costava quasi nulla, e questa mi sembra che sia la risposta migliore sia per Pierangelo Buttafuoco che per Elton John.
Sì, perché rileggendo Mantellini ho scoperto che se fosse per il grande pianista e la giovane promessa del giornalismo italiano internet si potrebbe anche chiudere domani, ed effettivamente non fa una grinza. Perché se domani e dopodomani internet resta aperta, non solo nessuno sentirà più la discutibile esigenza di comprarsi il Foglio o l’ennesimo Greatest Hits, ma va a finire che in vacanza Elton o Buttafuoco si ritrovano nello stesso albergo dove sto io, pagando il triplo; e tutto perché non riescono a usare nemmeno un sito come booking com, che non è neanche internet 2.0, al limite sarà 1.5 o boh, non è che me ne intenda tanto neanche io. Posso capire la loro stizza. Però non c’è niente da fare.

Basta chiudere gli occhi e immaginare: dove sarei io, oggi, senza internet? In coda sull'adriatica, presumibilmente.

Questo non è un pezzo in difesa di internet o dei blog, non c’è più niente da difendere. Non c’è neanche da dire “abbiamo vinto”, perché in effetti non c’era niente da vincere, nemmeno una bambolina. C’è stata una rivoluzione e c’eravamo noi, fine. Magari ve l’aspettavate più drammatica, la rivoluzione. O più divertente. Ma le rivoluzioni sono fenomeni imprevisti, per definizione. Non sai mai cosa potrà accadere, finché accade.

Il modo migliore di entrare in Olanda è passare dal Belgio, una vera anticamera. A un certo punto non sono più francesi, ma continuano a parlare francese e a decorare le chiese. A Gand smettono di parlare francese, ma hanno ancora chiese molto decorate. A Breda cominciano a farti pagare il biglietto, poi quando entri ti viene da chiedere i soldi indietro, perché non c’è niente! I protestanti hanno dato il bianco su tutto, maledetti! Il custode stringe le spalle: “Questo non è un edificio di culto, è un museo. La chiesa cattolica è in un altro quartiere”.

In Francia nel 1789 decapitarono le statue. Non esistevano più Santi, non esistevano più eroi, basta: rivoluzione. Potete immaginare qualcosa di più rivoluzionario di segar via la testa alla statua di un Santo che è rimasto lì per mille anni? Ma in Olanda c’erano arrivati già nel Cinquecento: via tutte le immagini dalle chiese, e impariamo a leggere. La cosa interessante è che i pittori a quel punto si convertirono tutti al mercato laico, buttandosi sul realismo più sfrenato, e fecero il botto. È curioso perché con l’Islam, che era ugualmente iconoclasta, non successe la stessa cosa. Lì invece i pittori si diedero all’astrattismo, e divennero decoratori e inventori di geometrie incredibilmente raffinate. Per dire che nessuno sa, esattamente, dove può portare una rivoluzione. Lo stesso comandamento (“Non ti farai effigi del tuo Dio!”) può portare un artista islamico a dipingere solo arabeschi e un artista fiammingo a dipingere quarti di bue.

La Riforma l’ha fatta Gutenberg. Se possiamo stampare Bibbie a ripetizione, se diamo una Bibbia a tutti i contadini, non avranno più bisogno di venire in chiesa a imparare la Genesi sui muri, è chiaro? Ma non è la fine della pittura, anzi, il contadino che studia l’alfabeto e legge la Bibbia prima o poi metterà da parte qualche soldo per appendere un quadro al muro. Nel quadro cosa vorrà vedere? Un quarto di bue, un paesaggio, un ritratto di papà, oppure anche l’interno della chiesa più grande della città. Ecco, questo è curioso: una specialità dei pittori fiamminghi, dopo la Riforma, erano gli interni delle chiese. Interni vuoti, perché le chiese non avevano più immagini. Invece la chiesa vuota, la chiesa bianca, era un’immagine apprezzata. Le rivoluzioni non cancellano necessariamente il passato, ma lo pervertono. Lo trasformano in qualcosa di diverso. Un secondo dopo la rivoluzione la chiesa non è già più chiesa, è solo un museo. Così strano, così inutile, così bello da vedere. Lo si può dire anche di Buttafuoco, presumo.

Sono per la calma e mi piacciono gli odori, i sapori, vedere e toccare quel che mi serve. Tutte queste diavolerie impoveriscono i sensi.

Io non dico che Buttafuoco scomparirà, lui e il suo giornalino piuttosto inutile. Buttafuoco è già qualcosa di diverso da quello che si crede d’essere (un giornalista). Se al giorno d’oggi qualcuno ha bisogno veramente di un’informazione, Buttafuoco è nell’ultimo posto dove la cercherà. Il giornalino in cui scrive è già un post-giornalino, che cerca di fare qualcosa d’altro perché al ritmo dell’informazione, sui giornali, non si riesce più a fare. Si fa opinione. Come a dire: si fa concorrenza ai blogger. Senza avere gli alibi dei blogger, la leggerezza dei blogger, e allo stesso tempo la ferrea dinamica dei blogger che si controllano a vicenda. Può funzionare? Può funzionare in qualche provincia remota e dimenticata dalla rivoluzione, come il centro Italia.

Nel resto del mondo l’informazione viaggia su internet, i giornalisti di opinione si trasformano in blogger senza grandi patemi, e Buttafuoco resta appeso al bianco muro di Google, come ritratto di giornalista quaquaraquà che nel 2007 sosteneva di consultare solo “archivi cartacei dei giornali”. Seh, come no. Mi sembra di vederlo, Pierangelo, che si stira al mattino con calma, sella il mulo, attacca il biroccio, e si reca in città per consultare l'archivio cartaceo del quotidiano. Mi sembra di sentire i rumori (cloppete cloppete), gli odori (ah, quegli stronzi di mulo calpestati di fresco), i sapori. Che odori, che sapori, che cosa pittoresca è l'Italia, vista da Rotterdam.

martedì 7 agosto 2007

i soldi non puzzano, voi sì.

Mostri sacri (ma mostri comunque)

Mentre in Belgio connettersi è insospettabilmente complesso, appena si passa la frontiera francofona il wireless te lo regalano. Ora sono in un motel a Dunkerque e un poco mi dispiace non aver seguito il dibattito su Pannella. Un poco, eh.

A mo' di bilancio della stagione 2006/07, posso dire di avere identificato almeno tre mostri sacri, tre personaggi di cui non è consigliabile parlare male: Kate Moss, Leonida re di Sparta e Giacinto Pannella detto Marco. Le conclusioni traetele voi, io per quanto provi a unire i puntini non ci capisco niente (Ah, invece di Giovanni Lindo Ferretti si possono dire le cose più oscene e false, e tutti ti fanno i complimenti, ti offrono da bere, ti urlano vai così, è una figata).

Io non so nemmeno se Pannella sia ancora candidato al Pd o no. Vorrei chiarire una cosa, che evidentemente non s'è capita. Diverse persone se la sono presa perché ho osato ridurre la candidatura di Pannella ai "soldi", che sono una cosa sporca, evidentemente, di cui non si deve parlare. Ecco, attenzione: per me invece i soldi sono una cosa molto importante, di cui parlare a voce alta. Forse abbiamo fatto scuole diverse.

Magari il vostro primo approccio alla politica è consistito in un'assemblea dove si alzavano le mani per votare un documento che regolava il sistema di votazione per alzate di mano eccetera eccetera all'infinito. E' capitato anche a me di partecipare ad assemblee di questo tipo, ma quando penso alla politica non penso a questo. Le persone che ho visto crescere nella politica (anche più giovani di me! Sissignore! Esistono!), le ho sempre viste alle prese con un budget da spendere. La politica questo è: decidere dove spendere i soldi. E non c'è niente di sporco. I soldi non puzzano. Puzzano se li getti nella fogna, questo sì. Se li prendi al contribuente e li versi a un pappone, puzzano. E non è colpa né del contribuente né del pappone, sia chiaro: è colpa tua. Ma non è il caso di Pannella.

Io non credo proprio che Pannella sia un venale (neanche Mussolini in senso stretto lo era). Mi spingo a credere che non abbia mai rubato in vita sua. Però è un politico. Un politico di razza, che ha sempre campato di fundraising, dimostrando nel settore un'inventiva inesauribile e spesso anticipando i tempi, ma che ultimamente è in attesa di occupazione. Non è un mistero che abbia una voglia matta di tornare in Senato, e candidarsi alle primarie del Pd è un espediente semplice e originale per farlo. Ma dove voi vedete un problema di astratta democrazia (ha diritto o no di farsi votare?), io ci vedo prima di tutto i soldi: Marco Pannella vale la spesa? Secondo me no. E' vero che rappresenta un pezzo glorioso di storia d'Italia. E' anche vero che negli ultimi anni Pannella ha campato un po' di nobili ideali e un po' di espedienti. In un certo senso è riuscito a trasformare i nobili ideali in espedienti, e viceversa. Tutto questo è affascinante e anche ammirevole, però io non comprerei da lui una macchina, né usata né nuova. E' geniale, è storico, è nobile, è tutto quel che volete, ma non è affidabile. Ha appena festeggiato lo scioglimento di un partito che era stato fondato l'anno scorso, all'insegna del nobile ideale del Laicismo. Perché il Pd dovrebbe investire voti e risorse in un personaggio così notoriamente inquieto?

Perché bisognava fare il Pd? Per trasformare un gruppo di partiti e di personalità in qualcosa di più compatto. Ora, non c'è nessuna garanzia che Pannella, una volta eletto, si sottoponga alla disciplina di Partito. C'è il solito articolo 67 della Costituzione (un vecchio pallino dei radicali) che lo protegge: una volta eletto, il parlamentare non ha vincolo di mandato. Già. Una volta eletto. Ma eleggerlo ha un costo, e io quel costo non lo sosterrei, tutto qui.

All'obiezione più scontata (ci sono nell'Ulivo persone meno affidabili di lui, che valgono la spesa anche meno di lui), rispondo che sì, forse ci sono, se ne può parlare; ma si può parlare anche di Marco Pannella detto Giacinto, senza che caschi il mondo. Inoltre Kate Moss è una gruccia che sotto il profumo puzza di morto e Leonida un gay represso, intesi? Senza offesa per i gay, che sono maledettamente permalosi. Nyeah, nyeah, nyeah.

Altri pezzi