Fascisti su Modena
(rosso Comune bolscevico e traditor)
Forza Nuova, ah, sì, la vecchia merda… (Mio papà)
Parlando di Forza Nuova, un aspetto che tende a essere sottovalutato è quanto scassino i coglioni.
Voi magari credete che uno, avendo la fortuna di non lavorare al sabato mattina, si diverta, ad andare ai presìdi antifascisti. Beh, sì, ogni tanto ci si diverte. Però alla lunga stanca. E ci sarebbero tante altre cose da fare. La spesa (magari equo-solidale). Leggersi quel libro sul WTO. Un po’ di rassegna stampa sul Forum Sociale Mondiale. Il mondo è così vasto, e la settimana è così breve…
E invece no. E invece tocca venire all’ennesimo presidio antifascista. Tutto perché qualcuno – non so se il gerarchetto locale o uno dei pezzi grossi – ha deciso che una volta l’anno i camerati devono fare la comparsata a Modena.
Già, perché c’è del metodo, in questo scassamento. Non so se c’entri qualche leggenda celtica o la fase lunare, fatto sta che da tre anni in qua, a intervalli regolari, Forza Nuova si materializza a Modena, in tutto il suo splendore (in verità non si vede niente, perché è tutto coperto dagli scudi della Celere).
Due anni ci fu il grande annuncio: “apriamo una sede a Modena”. Nientemeno. A quel tempo (2 aprile) scrissi una cosa un po’ stronza, che confermo parola per parola: in quanto inquilino del Centro Storico non capisco come si possa dare a Roberto Fiore il permesso di girare in gippone dove neanch’io posso parcheggiare. La Costituzione sancisce la libertà di manifestare, non di andare in giro in gippone (scortato dalla polizia) in un Centro chiuso al traffico. Se vuole aprire una sede di Forza Nuova a Modena, può benissimo farlo a piedi, come tutti i poveri attivisti di questo mondo. Ha paura? Provi a fare dei respiri forti, magari dopo un po’ gli passa.
L’anno scorso la fecero più sporca: spacciandosi per un’associazione ambientalista noleggiarono Piazza Torre. un paio di sabati. Vennero da tutt’Italia, a farsi due foto davanti al memoriale dei partigiani: grandi pacche sulle spalle, un’“Eja Eja Alalà” davanti ai cittadini in shopping, e poi via di corsa al treno, hai visto mai che passasse qualche antifascista per caso.
Ma quest’anno le cose sembrano mature per il grande passo. La miracolosa apparizione è stata anticipata da alcuni segni premonitori, come gli sfregi sui monumenti della Resistenza (già ripuliti, però che palle): e il primo febbraio Forza Nuova ha annunciato che aprirà una sede a Modena! Nientemeno!
“Un’altra? E quella di due anni fa?”
Mah, quella fu richiusa immediatamente, non si sa bene perché. Forse il quartiere Pomposa non era proprio l’ideale, con tutti quei cinesi e quei turchi che non amano essere disturbati… Rua Pioppa è più confortevole, a portata di pub, questo incentiverà le adesioni…
Ma se si trovano male anche lì (il centro è pieno di malintenzionati), dove andranno? Non so. Magari in questura hanno un sottoscala libero. A chiedere gentilmente, chissà.
Il bello è che nessuno li ha mai minacciati (che si sappia), però loro sono fatti così. Chi ha avuto la fortuna di vederli (attraverso i plexiglas degli scudi della polizia) garantisce che sono proprio grandi e grossi, e tanti, oh, tantissimi.
Ma non si può dire che cerchino lo scontro, questo no. Loro colpiscono e fuggono. No, per la verità non colpiscono nemmeno. Hanno perfezionato la Guerra Lampo: loro fuggono e basta. Coperti dalla polizia.
E uno che lavora tutta la settimana deve anche puntar la sveglia e prendere il freddo per stanare ‘sti pagliacci. Col rischio di prenderle (dalla polizia). Mi capite quando dico che, oltre a essere un pericolo per la civile convivenza, Forza Nuova è soprattutto un grandissimo scassamento di coglioni?
Forse tra un po’ anche loro si faranno furbi, come gli americani: costruiranno un modellino del Centro Storico, con la Ghirlandina in scala, e ai giornali manderanno i fotomontaggi. Ma nel frattempo non ci resta che aderire al presidio antifascista, sabato primo febbraio 2003 in Piazza Torre alle ore dieci (del mattino). Ci saranno i partigiani dell'Alpi, dell'Anpi, della Fiap e dell'Anppia, il Forum Sociale di Modena, gli anarchici e tanti altri. Ci sarà anche Attac Modena, e, se l’ironia ha ancora permesso di soggiorno, cercheremo di intonare Fascisti su Marte. Vi ha fatto ridere, il fascista su Marte? Provate a pensare un fascista a Modena.
Cosa c'è dietro Forza Nuova?
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi
Il governo italiano ha sospeso gli aiuti ai palestinesi.
Noi no. Donate all'UNRWA.
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venerdì 31 gennaio 2003
giovedì 30 gennaio 2003
Fratelli di
Ma dico, hai presente il tipo? Dai, quel tipo di persona.
Quello tipo che se lo multano in divieto di sosta è colpa del vigile, che lo conosce bene quel vigile lì, che la multa non la paga, ah no, che quasi quasi a quel vigile lì lo denuncia;
quello che la giustizia è facciamo a chi paga di più gli avvocati;
quello che poi, quando non sa come pagare gli avvocati, li nomina ministri e senatori;
quello che ha rispetto per la magistratura finché la magistratura non gli rompe i coglioni;
quello che tutti i magistrati ce l’hanno con lui, hai presente il tipo?
Quello che sono tutti comunisti, i magistrati;
quello che il comunismo consiste nell’avercela con lui (chissà perché poi);
quello che se il Financial Times parla male di lui il Financial Times è un covo di magistrati comunisti travestiti da giornalisti inglesi (che ci vuole, del resto? Un ombrello e una bombetta);
quello che ha stima per l’arbitro finché non fischia contro di lui;
quello che se sta perdendo, e al novantesimo salta un riflettore, “è impossibile giocare in queste condizioni, tutti giù, ragazzi…”, finché non si riparte da zero a zero come vuole lui;
quello che a Milano ci sono orde di comunisti che pattugliano il palazzo di giustizia notte e dì, invece di andare a lavorare, impossibile giocare in queste condizioni, tutti giù, ragazzi;
quello che da bambino dovevi dargli ragione, sennò chiamava suo papà, che te la faceva vedere lui;
quello che è tutto un complotto, un complotto di vigili, arbitri, giornalisti travestiti, magistrati, un complotto comunista ovviamente, contro di lui. Che tutti ce l’hanno con lui perché è ricco, alto e bello, e se parcheggia in divieto di sosta è perché se lo può permettere. Hai presente quel tipo di persona… un Italiano, ecco.
Un italiano vero.
E poi hai presente quell’altro tipo di persona? Quello che sta zitto finché può, che si risparmiano cazzate?
Quello che se proprio deve parlare una volta all’anno per contratto, parla una mezz’ora e poi stacca la spina?
Quello che se gli chiedi un parere lui fa finta di niente, attacca una tirata sulle bandiere, gli inni, quant’è bello il vittoriale degli italiani… e intanto ghigna sottecchi, e tu ti chiedi, ma dove finisce l’astuzia e comincia la sclerosi?
Quello che sorride, con una manina ti dà un buffetto e con l’altra ti tiene per le palle?
Quello che alla fine della partita, tu ti volti, fai due conti è… “ma porc... il nonnino mi ha fottuto un'altra volta?” Quel tipo di persona, ce l’hai presente?
Un italiano, anche lui.
Un gran bell’italiano, in fin dei conti.
Dal Quirinale è partita così una segnalazione a Montecitorio, e l'articolo 45 è stato riformulato in modo più preciso e circostanziato: un processo penale può essere trasferito da una sede all'altra "quando gravi situazioni locali", tali da turbarne lo svolgimento e non altrimenti eliminabili, "pregiudicano la libera determinazione delle persone" che vi partecipano, "ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica", o determinano motivi di legittimo sospetto". (Massimo Giannini, la Repubblica.
Ma dico, hai presente il tipo? Dai, quel tipo di persona.
Quello tipo che se lo multano in divieto di sosta è colpa del vigile, che lo conosce bene quel vigile lì, che la multa non la paga, ah no, che quasi quasi a quel vigile lì lo denuncia;
quello che la giustizia è facciamo a chi paga di più gli avvocati;
quello che poi, quando non sa come pagare gli avvocati, li nomina ministri e senatori;
quello che ha rispetto per la magistratura finché la magistratura non gli rompe i coglioni;
quello che tutti i magistrati ce l’hanno con lui, hai presente il tipo?
Quello che sono tutti comunisti, i magistrati;
quello che il comunismo consiste nell’avercela con lui (chissà perché poi);
quello che se il Financial Times parla male di lui il Financial Times è un covo di magistrati comunisti travestiti da giornalisti inglesi (che ci vuole, del resto? Un ombrello e una bombetta);
quello che ha stima per l’arbitro finché non fischia contro di lui;
quello che se sta perdendo, e al novantesimo salta un riflettore, “è impossibile giocare in queste condizioni, tutti giù, ragazzi…”, finché non si riparte da zero a zero come vuole lui;
quello che a Milano ci sono orde di comunisti che pattugliano il palazzo di giustizia notte e dì, invece di andare a lavorare, impossibile giocare in queste condizioni, tutti giù, ragazzi;
quello che da bambino dovevi dargli ragione, sennò chiamava suo papà, che te la faceva vedere lui;
quello che è tutto un complotto, un complotto di vigili, arbitri, giornalisti travestiti, magistrati, un complotto comunista ovviamente, contro di lui. Che tutti ce l’hanno con lui perché è ricco, alto e bello, e se parcheggia in divieto di sosta è perché se lo può permettere. Hai presente quel tipo di persona… un Italiano, ecco.
Un italiano vero.
E poi hai presente quell’altro tipo di persona? Quello che sta zitto finché può, che si risparmiano cazzate?
Quello che se proprio deve parlare una volta all’anno per contratto, parla una mezz’ora e poi stacca la spina?
Quello che se gli chiedi un parere lui fa finta di niente, attacca una tirata sulle bandiere, gli inni, quant’è bello il vittoriale degli italiani… e intanto ghigna sottecchi, e tu ti chiedi, ma dove finisce l’astuzia e comincia la sclerosi?
Quello che sorride, con una manina ti dà un buffetto e con l’altra ti tiene per le palle?
Quello che alla fine della partita, tu ti volti, fai due conti è… “ma porc... il nonnino mi ha fottuto un'altra volta?” Quel tipo di persona, ce l’hai presente?
Un italiano, anche lui.
Un gran bell’italiano, in fin dei conti.
Dal Quirinale è partita così una segnalazione a Montecitorio, e l'articolo 45 è stato riformulato in modo più preciso e circostanziato: un processo penale può essere trasferito da una sede all'altra "quando gravi situazioni locali", tali da turbarne lo svolgimento e non altrimenti eliminabili, "pregiudicano la libera determinazione delle persone" che vi partecipano, "ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica", o determinano motivi di legittimo sospetto". (Massimo Giannini, la Repubblica.
mercoledì 29 gennaio 2003
Febbraio è un mese mite, a Bassora. Verso le sei, quando le ombre si allungano sul deserto, le microspie trasmettono ai satelliti il frinire delle cicale dell’Eufrate, e i sospiri di un uomo coi baffi, su un terrazzo che volge a meridione.
“Saddam, per l’ennesima volta, ti vuoi togliere da lì?”
“Bah…”
“Quante volte te l’ho detto, che c’è un satellite spia in orbita proprio sul patio? Ma tu mi ascolti quando parlo?”
“Lasciami perdere, Tareq. Per il satellite sono solo un uomo coi baffi, capirai. Apposta ho fatto crescere i baffi a tuttti gli iracheni…”
“Ma Capo, si può sapere cos’hai? Sembri distratto e scostante”.
“Ma no, è che certe volte uno si chiede: a che serve tutto questo? Non sarebbe meglio se non avessimo nemmeno cominciato?”
“Questo indubbiamente, tuttavia…”
”Sai, ieri sera ho visto qualcosa che mi ha fatto pensare… stavo guardando la tv italiana…”.
“Capo! Ma non ti vergogni? Non hai letto il Financial Times?”
“Beh, c’era un corteo a Roma, una manifestazione democratica, figurati, contro la guerra”.
“Ah, sì, ne ho sentito parlare. È una loro usanza”.
“Così pare. Beh, ho visto una cosa che mi ha fatto male, sul serio, mi ha colpito nel profondo. C’era una ragazzina – una poco di buono, hai presente il genere, capelli sciolti – con uno striscione: Saddam Vattene!"
“E te la prendi per così poco? Per lo striscione di una scostumata?”
“Lo so, ti sembrerà strano, ma… mi ha fatto pensare. Voglio dire: uno combatte la madre delle battaglie contro gli USA, per poi sentirsi dire da una qualsiasi pacifista: “Vattene”. Non è ingiusto? Io sono molto più antiamericano di tutti loro”.
“Capisco, però…”
“Per loro è comodo fare gli antiamericani. Vanno in corteo, saltano, ballano, tante grazie. Ma io? Altro che canti e balli. È da dieci anni che mando gente a morire contro gli americani. Credo che mi si dovrebbe usare più rispetto”.
“Sai com’è, questi europei…”
“Ok, d’accordo, non sono il Che, sono solo un vecchio coi baffi, ma almeno una maglietta potrebbero farmela. E invece mi fanno gli striscioni contro. Sono profondamente offeso”.
“Ma andiamo, Saddam…”
“Così sto pensando di dimettermi”.
“Eh?”
“Ma sì, sono stanco. Mollo tutto. Anzi, mi fai un favore? Mi chiami Putin è mi chiedi se è ancora valida quell’offerta per la dacia nel Caucaso…”
“Ma non vuoi pensarci su un momento?”
“Ci ho già pensato fin troppo. Quello striscione è stata l’ultima goccia. Basta. Non gioco più. Me ne vado”.
***
Perché i pacifisti italiani non scrivono anche Saddam vattene sui loro striscioni? Se lo chiedeva Adriano Sofri sulla Repubblica due domeniche fa. La proposta è rimbalzata qua e là, io qui dico la mia.
Rispetto chi vuole portare in corteo uno slogan del genere: Saddam Hussein è un pericoloso dittatore, e non ho nessuna simpatia per lui. Tuttavia.
Qui bisogna intenderci su cos’è una manifestazione. È un atto politico o è la manifestazione di un’identità?
Noi manifestiamo per cercare di cambiare le cose o soltanto per mostrare agli altri (e a noi stessi) le cose in cui crediamo?
A che serve scrivere su uno striscione “Saddam vattene?” Può uno striscione del genere influire in qualche modo sulle decisioni del dittatore iracheno? Mi sembra quantomeno improbabile.
E allora perché dovrei scrivere “Saddam vattene?” Per una questione di identità. Per annunciare agli altri (e a me stesso), che io sono anche contro di lui.
Ma in che senso sono contro? In che modo posso agire contro di lui pacificamente? Io sono solo un manifestante. La diplomazia della buonuscita – ammesso che sia una cosa seria – non spetta a me. Se Saddam Hussein si ritirerà da solo, ne sarò felice, ma il mio striscione non ha nessun potere di cambiare le cose. È cartone sprecato.
Di più. Potrebbe essere un sottile espediente per sgravarmi la coscienza. Ma io non voglio sgravarmela.
Ora che la Terza Guerra Mondiale è iniziata da un po’, certe ingenuità non sono più concesse.
Si può essere a favore della guerra, con buoni argomenti, purché ci si ricordi che di guerra si tratta: non di un intervento umanitario o chirurgico, non di polizia internazionale, non di libertà duratura: di guerra. Per liberare l’Iraq da Saddam (ottima cosa). E per accaparrarsi tutto il petrolio che c’è la sotto. Con migliaia di vittime civili. Con l’uranio impoverito. Coi valorosi combattenti che tornano a casa, impazziscono o muoiono di qualche sindrome. Chi vuole la guerra deve sapere tutto questo, e assumersene le responsabilità.
Ma anche chi vuole la pace ha responsabilità da assumersi. L’Iraq è un Paese alla fame, straziato dall’embargo che (a differenza della guerra tradizionale) fa le sue vittime tra i più deboli, tormentato da un dittatore che non sembra così ansioso di volersi disarmare. Chi ora sventola la bandiera della Pace deve sapere che difficilmente, in tempi brevi, tutto questo potrà cambiare. Che anche la Pace avrà i suoi morti.
Le opzioni sono queste, e tutti siamo liberi di scegliere.
Oppure – grazie a Dio – siamo liberi di non scegliere, e di rimanere in mezzo, coi nostri dubbi.
Quello che invece, a mio parere, non dovrebbe esserci concesso, è stare nel medesimo momento sulle due sponde del problema: manifestare allo stesso tempo contro la guerra e contro Saddam, chiedere che sia scacciato senza colpo ferire. No, non possiamo. Non è realistico. Non ha nulla a che vedere con la politica. È – ripeto – una pura manifestazione d’identità. E come tale, a me non interessa. Anche perché è banale: siamo tutti contro la guerra, siamo tutti contro i tiranni. Sai la novità. C’è bisogno di metterlo per iscritto?
Questo vale per tanti altri casi:
“Perché manifestate contro Israele e non contro Hamas?”
Perché Hamas non è nemmeno un interlocutore. Credete che a un martire di Al-Aqsa possa fregare qualcosa, se in quel momento in quel bar di Tel Aviv insieme agli israeliani c’è un manifestante italiano? Assolutamente niente. Tira la spoletta e manda tutti quanti all’inferno.
Ma Israele, se è davvero, come sostiene, l’“unica democrazia del Medio Oriente”, deve accettare che si possa manifestare pacificamente contro le sue politiche. La democrazia non è la dittatura della maggioranza: è l’assunzione collettiva della responsabilità.
Un missile su Gaza può fare le stesse vittime di un autobomba a Tel Aviv, ma mentre non ho nessuna speranza di poter fermare l’autobomba, ho ancora qualche remota (sempre più remota) speranza di non far decollare il missile. Perciò mi sento più responsabile del missile che dell’autobomba. È chiaro?
(Più chiaro di così stanotte non ce la faccio, mi dispiace).
“Saddam, per l’ennesima volta, ti vuoi togliere da lì?”
“Bah…”
“Quante volte te l’ho detto, che c’è un satellite spia in orbita proprio sul patio? Ma tu mi ascolti quando parlo?”
“Lasciami perdere, Tareq. Per il satellite sono solo un uomo coi baffi, capirai. Apposta ho fatto crescere i baffi a tuttti gli iracheni…”
“Ma Capo, si può sapere cos’hai? Sembri distratto e scostante”.
“Ma no, è che certe volte uno si chiede: a che serve tutto questo? Non sarebbe meglio se non avessimo nemmeno cominciato?”
“Questo indubbiamente, tuttavia…”
”Sai, ieri sera ho visto qualcosa che mi ha fatto pensare… stavo guardando la tv italiana…”.
“Capo! Ma non ti vergogni? Non hai letto il Financial Times?”
“Beh, c’era un corteo a Roma, una manifestazione democratica, figurati, contro la guerra”.
“Ah, sì, ne ho sentito parlare. È una loro usanza”.
“Così pare. Beh, ho visto una cosa che mi ha fatto male, sul serio, mi ha colpito nel profondo. C’era una ragazzina – una poco di buono, hai presente il genere, capelli sciolti – con uno striscione: Saddam Vattene!"
“E te la prendi per così poco? Per lo striscione di una scostumata?”
“Lo so, ti sembrerà strano, ma… mi ha fatto pensare. Voglio dire: uno combatte la madre delle battaglie contro gli USA, per poi sentirsi dire da una qualsiasi pacifista: “Vattene”. Non è ingiusto? Io sono molto più antiamericano di tutti loro”.
“Capisco, però…”
“Per loro è comodo fare gli antiamericani. Vanno in corteo, saltano, ballano, tante grazie. Ma io? Altro che canti e balli. È da dieci anni che mando gente a morire contro gli americani. Credo che mi si dovrebbe usare più rispetto”.
“Sai com’è, questi europei…”
“Ok, d’accordo, non sono il Che, sono solo un vecchio coi baffi, ma almeno una maglietta potrebbero farmela. E invece mi fanno gli striscioni contro. Sono profondamente offeso”.
“Ma andiamo, Saddam…”
“Così sto pensando di dimettermi”.
“Eh?”
“Ma sì, sono stanco. Mollo tutto. Anzi, mi fai un favore? Mi chiami Putin è mi chiedi se è ancora valida quell’offerta per la dacia nel Caucaso…”
“Ma non vuoi pensarci su un momento?”
“Ci ho già pensato fin troppo. Quello striscione è stata l’ultima goccia. Basta. Non gioco più. Me ne vado”.
***
Perché i pacifisti italiani non scrivono anche Saddam vattene sui loro striscioni? Se lo chiedeva Adriano Sofri sulla Repubblica due domeniche fa. La proposta è rimbalzata qua e là, io qui dico la mia.
Rispetto chi vuole portare in corteo uno slogan del genere: Saddam Hussein è un pericoloso dittatore, e non ho nessuna simpatia per lui. Tuttavia.
Qui bisogna intenderci su cos’è una manifestazione. È un atto politico o è la manifestazione di un’identità?
Noi manifestiamo per cercare di cambiare le cose o soltanto per mostrare agli altri (e a noi stessi) le cose in cui crediamo?
A che serve scrivere su uno striscione “Saddam vattene?” Può uno striscione del genere influire in qualche modo sulle decisioni del dittatore iracheno? Mi sembra quantomeno improbabile.
E allora perché dovrei scrivere “Saddam vattene?” Per una questione di identità. Per annunciare agli altri (e a me stesso), che io sono anche contro di lui.
Ma in che senso sono contro? In che modo posso agire contro di lui pacificamente? Io sono solo un manifestante. La diplomazia della buonuscita – ammesso che sia una cosa seria – non spetta a me. Se Saddam Hussein si ritirerà da solo, ne sarò felice, ma il mio striscione non ha nessun potere di cambiare le cose. È cartone sprecato.
Di più. Potrebbe essere un sottile espediente per sgravarmi la coscienza. Ma io non voglio sgravarmela.
Ora che la Terza Guerra Mondiale è iniziata da un po’, certe ingenuità non sono più concesse.
Si può essere a favore della guerra, con buoni argomenti, purché ci si ricordi che di guerra si tratta: non di un intervento umanitario o chirurgico, non di polizia internazionale, non di libertà duratura: di guerra. Per liberare l’Iraq da Saddam (ottima cosa). E per accaparrarsi tutto il petrolio che c’è la sotto. Con migliaia di vittime civili. Con l’uranio impoverito. Coi valorosi combattenti che tornano a casa, impazziscono o muoiono di qualche sindrome. Chi vuole la guerra deve sapere tutto questo, e assumersene le responsabilità.
Ma anche chi vuole la pace ha responsabilità da assumersi. L’Iraq è un Paese alla fame, straziato dall’embargo che (a differenza della guerra tradizionale) fa le sue vittime tra i più deboli, tormentato da un dittatore che non sembra così ansioso di volersi disarmare. Chi ora sventola la bandiera della Pace deve sapere che difficilmente, in tempi brevi, tutto questo potrà cambiare. Che anche la Pace avrà i suoi morti.
Le opzioni sono queste, e tutti siamo liberi di scegliere.
Oppure – grazie a Dio – siamo liberi di non scegliere, e di rimanere in mezzo, coi nostri dubbi.
Quello che invece, a mio parere, non dovrebbe esserci concesso, è stare nel medesimo momento sulle due sponde del problema: manifestare allo stesso tempo contro la guerra e contro Saddam, chiedere che sia scacciato senza colpo ferire. No, non possiamo. Non è realistico. Non ha nulla a che vedere con la politica. È – ripeto – una pura manifestazione d’identità. E come tale, a me non interessa. Anche perché è banale: siamo tutti contro la guerra, siamo tutti contro i tiranni. Sai la novità. C’è bisogno di metterlo per iscritto?
Questo vale per tanti altri casi:
“Perché manifestate contro Israele e non contro Hamas?”
Perché Hamas non è nemmeno un interlocutore. Credete che a un martire di Al-Aqsa possa fregare qualcosa, se in quel momento in quel bar di Tel Aviv insieme agli israeliani c’è un manifestante italiano? Assolutamente niente. Tira la spoletta e manda tutti quanti all’inferno.
Ma Israele, se è davvero, come sostiene, l’“unica democrazia del Medio Oriente”, deve accettare che si possa manifestare pacificamente contro le sue politiche. La democrazia non è la dittatura della maggioranza: è l’assunzione collettiva della responsabilità.
Un missile su Gaza può fare le stesse vittime di un autobomba a Tel Aviv, ma mentre non ho nessuna speranza di poter fermare l’autobomba, ho ancora qualche remota (sempre più remota) speranza di non far decollare il missile. Perciò mi sento più responsabile del missile che dell’autobomba. È chiaro?
(Più chiaro di così stanotte non ce la faccio, mi dispiace).
martedì 28 gennaio 2003
Permettete, compio due anni e mi vanto.
Et moi, moi, qui je suis resté le plus fier,
Moi… je parle encore de moi
A questo punto, qualcuno potrebbe anche avere il diritto di chiedermi il perché, e dove voglio arrivare. Beh, non ne ho più la minima idea.
Forse è proprio questo che mi piace. Sin da piccoli, ci hanno sempre rifilato i desideri degli altri, come se dovessero per forza piacerci i vestiti usati dei fratelli maggiori. Ma davvero volevamo diventare famosi come i Beatles? Rivoluzionari come Che Guevara? Maledetti come Bukowski? Tutta qui la gloria, uno scimmiottamento di cose già sentite e risentite, un’emulazione di un’emulazione di un’emulazione?
Sempre a incidere demo, a spedire manoscritti ai concorsi, come se le rivoluzioni si facessero davanti a una giuria competente. “Salve, siamo una band di noise brianzolo, facciamo cose tipo Sonic Youth, ho detto tutto”.
“Piacere, io sono un giovane scrittore, del filone intimista padano, dovrei sfondare la prossima stagione”.
Mi fa bene tenere un sito personale? Non lo so. Qualsiasi considerazione lascia il tempo che trova, davanti alla semplice evidenza che dalla laurea in poi non c’è stato un lavoro, né un amore, né un indirizzo, né un’abitudine che mi abbia resistito tanto tempo. Due anni.
Pochi? Fate due conti:
Si discuteva del genoma umano e del processo a Napster. La New Economy aveva subito una temporanea battuta d’arresto. Amato stava pensando di candidarsi come leader dell’Ulivo. Due anni.
I negozianti di Genova speravano di fare buoni affari col G8. I soliti pacifisti rompicoglioni protestavano perché in Afghanistan le donne non potevano più mostrare il viso in pubblico. Le Twin Towers, in Italia, nessuno sapeva cosa fossero e dove. Marco Biagi era un oscuro consulente del Ministero del Lavoro.
George Bush era il nome di un ex Presidente. Berlusconi era il nome di un ex Presidente. Due anni. 24 mesi. Dove sono finiti?
Io ce li ho in archivio. Dateci un’occhiata.
Mi fa bene tenere un sito personale? Cosa ci guadagno? Che cos’ho in mente? Non lo so. Forse sono solo curioso di vedere come va a finire, il muro contro il quale andrò a sbattere. Capitemi, è la prima volta nella vita che mi ritrovo in una storia di cui non conosco il finale.
E poi, insomma, che razza di domanda è, se mi fa bene o no? Come se ve ne fregasse qualcosa della mia salute.
Il fatto è che questo sito fa bene a voi, sennò sareste in meno. Tanto piacere, quindi: qui è Leonardo, blog italiano fatto in casa e non scremato. Dal 2001 m’invento due o tre storie alla settimana, e due o tre volte al mese vi diverto e vi faccio sentire intelligenti.
Non vi ho mai chiesto un soldo, né un accesso, né un link, ma oggi volevo chiedere un regalo. Credo di meritarmelo, e poi non vi costa nulla.
Vorrei che ciascuno di voi mi segnalasse – sul forum o per posta – il post che gli è piaciuto di più. No, non farò una classifica di gradimento. Vorrei solo sapere quando vi siete divertiti e quando vi siete annoiati, e farmi lisciare un po’ il pelo, perché no.
Per capire qual è il vostro post preferito, seguite le istruzioni qui sotto:
chiudete gli occhi,
contate fino a tre,
pensate: Acc, non mi vengono in mente post originali, solo quello là banale e scontato, Lui penserà che sono un tipo superficiale...
Bene, “quello là” è il vostro post preferito. Fidatevi.
Io conosco i miei polli.
(Se qualcuno mi vuole segnalare il post che gli è piaciuto meno, è ugualmente benvenuto)
Et moi, moi, qui je suis resté le plus fier,
Moi… je parle encore de moi
A questo punto, qualcuno potrebbe anche avere il diritto di chiedermi il perché, e dove voglio arrivare. Beh, non ne ho più la minima idea.
Forse è proprio questo che mi piace. Sin da piccoli, ci hanno sempre rifilato i desideri degli altri, come se dovessero per forza piacerci i vestiti usati dei fratelli maggiori. Ma davvero volevamo diventare famosi come i Beatles? Rivoluzionari come Che Guevara? Maledetti come Bukowski? Tutta qui la gloria, uno scimmiottamento di cose già sentite e risentite, un’emulazione di un’emulazione di un’emulazione?
Sempre a incidere demo, a spedire manoscritti ai concorsi, come se le rivoluzioni si facessero davanti a una giuria competente. “Salve, siamo una band di noise brianzolo, facciamo cose tipo Sonic Youth, ho detto tutto”.
“Piacere, io sono un giovane scrittore, del filone intimista padano, dovrei sfondare la prossima stagione”.
Mi fa bene tenere un sito personale? Non lo so. Qualsiasi considerazione lascia il tempo che trova, davanti alla semplice evidenza che dalla laurea in poi non c’è stato un lavoro, né un amore, né un indirizzo, né un’abitudine che mi abbia resistito tanto tempo. Due anni.
Pochi? Fate due conti:
Si discuteva del genoma umano e del processo a Napster. La New Economy aveva subito una temporanea battuta d’arresto. Amato stava pensando di candidarsi come leader dell’Ulivo. Due anni.
I negozianti di Genova speravano di fare buoni affari col G8. I soliti pacifisti rompicoglioni protestavano perché in Afghanistan le donne non potevano più mostrare il viso in pubblico. Le Twin Towers, in Italia, nessuno sapeva cosa fossero e dove. Marco Biagi era un oscuro consulente del Ministero del Lavoro.
George Bush era il nome di un ex Presidente. Berlusconi era il nome di un ex Presidente. Due anni. 24 mesi. Dove sono finiti?
Io ce li ho in archivio. Dateci un’occhiata.
Mi fa bene tenere un sito personale? Cosa ci guadagno? Che cos’ho in mente? Non lo so. Forse sono solo curioso di vedere come va a finire, il muro contro il quale andrò a sbattere. Capitemi, è la prima volta nella vita che mi ritrovo in una storia di cui non conosco il finale.
E poi, insomma, che razza di domanda è, se mi fa bene o no? Come se ve ne fregasse qualcosa della mia salute.
Il fatto è che questo sito fa bene a voi, sennò sareste in meno. Tanto piacere, quindi: qui è Leonardo, blog italiano fatto in casa e non scremato. Dal 2001 m’invento due o tre storie alla settimana, e due o tre volte al mese vi diverto e vi faccio sentire intelligenti.
Non vi ho mai chiesto un soldo, né un accesso, né un link, ma oggi volevo chiedere un regalo. Credo di meritarmelo, e poi non vi costa nulla.
Vorrei che ciascuno di voi mi segnalasse – sul forum o per posta – il post che gli è piaciuto di più. No, non farò una classifica di gradimento. Vorrei solo sapere quando vi siete divertiti e quando vi siete annoiati, e farmi lisciare un po’ il pelo, perché no.
Per capire qual è il vostro post preferito, seguite le istruzioni qui sotto:
chiudete gli occhi,
contate fino a tre,
pensate: Acc, non mi vengono in mente post originali, solo quello là banale e scontato, Lui penserà che sono un tipo superficiale...
Bene, “quello là” è il vostro post preferito. Fidatevi.
Io conosco i miei polli.
(Se qualcuno mi vuole segnalare il post che gli è piaciuto meno, è ugualmente benvenuto)
sabato 25 gennaio 2003
Questo banner è stato pubblicato su questo sito il 25 gennaio 2001 – nel suo primo giorno di vita.
Sono passati due anni: due anni in cui Internet ha consentito a me e a tanti altri come me di esprimere liberamente le proprie opinioni. In questo senso il banner è stato clamorosamente smentito: l’informazione online non aveva i giorni contati.
Nei mesi successivi, PeaceLink divenne un punto di riferimento per tutti i gestori di siti personali che si sentivano minacciati dalla nuova legge sull’editoria. Per un attimo sembrò che l’aggiornare periodicamente un sito Internet potesse essere considerato un atto di “stampa clandestina”. Poi il problema passò di moda, il che non significa che sia stato risolto. Cliccando sul banner troverete le f.a.q. pubblicate da PeaceLink il 13/4/2001: per quanto mi riguarda, rappresentano l’ultima parola sulla questione. (non la definitiva).
In questi due anni mi sono chiesto spesso quale sia la mia posizione nei confronti della legge. Sono giunto alla conclusione che non si tratta di una posizione molto chiara, né al momento mi conviene cercare di chiarirla.
Io credo che Internet, e le altre tecnologie di riproduzione digitale, abbiano messo in crisi alcuni rapporti economici e sociali che sono alla base della nostra legislazione: il copyright è il caso più eclatante. Due secoli fa l’introduzione del copyright fu una conquista importante per tutti gli individui creativi: artisti, scrittori, inventori. Oggi – almeno su Internet – si tratta di un balzello inutile e odioso, difeso da una vecchia casta di distributori sempre più lontani dalla realtà.
Un altro problema sono gli Stati Nazionali: su Internet non esistono (a parte la Cina). Ammesso che io abbia mai usato questo sito per diffamare qualcuno (e sono cose che possono succedere anche per sbaglio), quel qualcuno, per ottenere l’oscuramento del mio sito, dovrebbe denunciarmi presso un tribunale degli Stati Uniti, visto che il mio server è laggiù. Così, invece di preoccuparci della nostra legge sull’editoria, forse dovrei andare a ripassarmi il Primo Emendamento…
Questa sensazione di non essere del tutto in regola con la legge, anzi, di metterla in crisi, è condiviso più o meno da tutti i frequentatori del web. Che nella maggior parte dei casi la vivono con euforia. Che bello poter scrivere tutto ciò che si vuole. Che bello poter scaricare contenuti liberamente, leggere giornali e ascoltare musica gratis. Che bello vivere nel far west, dove nessuno ti dà fastidio (finché non pesti veramente i piedi a qualcuno).
È un’euforia che io non mi sento di condividere. Non trovo nulla di divertente nel fatto che Internet sia al di sopra della legge. È un fatto. Internet è libero? Non lo so. Ma senza dubbio è un ambiente pericoloso, proprio come il far west. Nessuno ti dà fastidio, finché badi ai fatti tuoi. Altrimenti può capitarti d’inciampare e impigliarti in un cappio al collo.
Certo, qui posso esprimere le mie opinioni e diffamare chi mi pare. Ma se qualcuno diffamasse me, sarei ancora così contento della mia libertà?
Certo, qui, sento parlare fino allo sfinimento di morte dal copyright, come se fosse una conquista sociale e non una semplice conseguenza dell’evoluzione tecnologica. Gli stessi che se ne fanno portabandiera, il più delle volte, vengono a chiedermi un contributo per poter continuare le loro campagne. Mi sembra di capire che l’alternativa al copyright è la pubblica carità: il che non mi sembra, con tutto il rispetto, una grande evoluzione.
E allora? Allora non so. Non ho risposte, ho solo la sensazione che la crisi sia molto più grande di quanto non ce la immaginiamo. Non credo che nessun legislatore sia maturo per regolamentare Internet, ma nemmeno credo che l’assenza delle leggi equivalga alla libertà.
Per lo meno: alla scuola elementare (statale) mi hanno insegnato che le leggi servono per tutelare i più deboli; e benché in seguito, crescendo, mi sia reso conto che nella pratica le cose non stanno esattamente così, tuttavia per quanto riguarda la teoria io resto fedele alla mia scuola elementare (statale).
Nel frattempo ho elaborato la seguente morale provvisoria:
se su Internet non c’è una legge che ci minaccia, non c’è nemmeno una legge che ci difende;
per questo motivo, noi deboli, dobbiamo imparare a difederci da soli. Tutti insieme, naturalmente.
In questo senso il banner di 2 anni fa ha torto: l’informazione online non ha i giorni contati. Però ha continuamente su di sé svariate spade di Damocle. Sta a noi, piccoli siti aggiornati saltuariamente, individuali o collettivi, la possibilità di allungare i giorni che ci rimangono. Ed è una lotta che va fatta giorno per giorno.
Nei mesi scorsi PeaceLink – probabilmente la più antica comunità d’opinione telematica italiana – è stata citata per danni da un consulente Nato, che ha chiesto 50.000 euro di risarcimento. Se, come me, avete ancora difficoltà a misurare in euro le grandi cifre, vi confermo che si tratta di poco meno di cento milioni di lire.
Cosa ha fatto PeaceLink? Ha copiato e incollato una petizione già pubblicata sul sito di Rifondazione Comunista. In calce alla petizione compariva anche la firma di questo consulente, che non ha gradito. Perché allora non ha citato per danni gli autori della petizione? Perché ha preferito prendersela con una piccola (ma fastidiosa) associazione telematica senza scopo di lucro? Secondo voi perché?
Se ci fosse una normativa che stabilisce chiaramente quali sono le responsabilità di chi copia e incolla un documento… già, ma non c’è. Nessuno, al momento, è in grado di stabilirla. Nel frattempo io non posso che confermare la mia solidarietà a Peacelink, e invito tutti i lettori e scrittori di siti senza scopo di lucro a fare lo stesso: oggi è Peacelink, domani potrebbe essere uno qualsiasi di noi.
Ps:
tanti auguri a me.
giovedì 23 gennaio 2003
My daddy was a friendly user
(...down in New Orleans)
Mio papà, che non ne parlo mai.
Mio papà ieri è uscito con in tasca il telecomando e ha cercato di usarlo per chiamare un cliente. Risate.
Ma riflettiamo un attimo: mio padre appartiene a una generazione eroica, per la tecnologia. Nessuna, prima o dopo, ha sperimentato tante interfacce utente diverse.
Mio padre ha dovuto acquisire familiarità con la luce elettrica, il motore a scoppio, il telefono, la mietitrebbia, (strumento per nulla user friendly), e un aggeggio caseario di cui so che ha il patentino. A vent’anni ha messo su un’autofficina, a cinquanta si è convertito in conducente di gru idrauliche; ha imparato a maneggiare svariati elettrodomestici, tutti con un’interfaccia utente diversa: la cucina economica, la lavastoviglie, il tv: in pratica è arrivato fino al micro-onde e al telefono cellulare. Mi sembra decisamente il massimo di flessibilità tecnologica che si può pretendere da un uomo.
Al suo confronto, io, il presunto giovane high-tech, cos’ho scoperto? Non ho fatto che passare da una pulsantiera all’altra, e comunque erano tutte molto simili. Mai letto un manuale d’istruzioni in vita mia, eppure sopravvivo. Tanto so già che se un giorno comprerò un dvd, sui tasti ci saranno gli stessi disegnini del registratore portatile che mi regalarono alla prima Comunione (triangolo = play; cerchio = rec; due trattini paralleli = pause).
Se ora inventeranno il cellulare che legge il pensiero, prepara il caffè, cambia la programmazione tv, io sarò molto stupito. Mio padre no. Lui non può stupirsi per così poco, dopo tutto quello che ha vissuto. Mio padre è già pronto alla prossima evoluzione, il portatile-telecomando.
E potrei seguitare con altre riflessioni molto interessanti, ma vi devo salutare. Mi sta suonando il frontalino dell’autoradio.
(...down in New Orleans)
Mio papà, che non ne parlo mai.
Mio papà ieri è uscito con in tasca il telecomando e ha cercato di usarlo per chiamare un cliente. Risate.
Ma riflettiamo un attimo: mio padre appartiene a una generazione eroica, per la tecnologia. Nessuna, prima o dopo, ha sperimentato tante interfacce utente diverse.
Mio padre ha dovuto acquisire familiarità con la luce elettrica, il motore a scoppio, il telefono, la mietitrebbia, (strumento per nulla user friendly), e un aggeggio caseario di cui so che ha il patentino. A vent’anni ha messo su un’autofficina, a cinquanta si è convertito in conducente di gru idrauliche; ha imparato a maneggiare svariati elettrodomestici, tutti con un’interfaccia utente diversa: la cucina economica, la lavastoviglie, il tv: in pratica è arrivato fino al micro-onde e al telefono cellulare. Mi sembra decisamente il massimo di flessibilità tecnologica che si può pretendere da un uomo.
Al suo confronto, io, il presunto giovane high-tech, cos’ho scoperto? Non ho fatto che passare da una pulsantiera all’altra, e comunque erano tutte molto simili. Mai letto un manuale d’istruzioni in vita mia, eppure sopravvivo. Tanto so già che se un giorno comprerò un dvd, sui tasti ci saranno gli stessi disegnini del registratore portatile che mi regalarono alla prima Comunione (triangolo = play; cerchio = rec; due trattini paralleli = pause).
Se ora inventeranno il cellulare che legge il pensiero, prepara il caffè, cambia la programmazione tv, io sarò molto stupito. Mio padre no. Lui non può stupirsi per così poco, dopo tutto quello che ha vissuto. Mio padre è già pronto alla prossima evoluzione, il portatile-telecomando.
E potrei seguitare con altre riflessioni molto interessanti, ma vi devo salutare. Mi sta suonando il frontalino dell’autoradio.
mercoledì 22 gennaio 2003
Proposta reticente
Sento che già cominciano a romperci con Sanremo, e allora pensavo di proporre alla comunità dei blog (se esiste) una modesta iniziativa.
Tranquilli. Non vi chiedo di firmare una petizione o di iscrivervi a nessuna lista. Non vi chiedo di infilare coccarde o altri aggeggi nel vostro sito personale. Se siete d’accordo, non dovete neanche rispondermi, né dire in giro che l’idea è stata mia. Per la verità, non dovete fare assolutamente niente. Più modesti di così.
Tra qualche tempo (non so neanche quanto) arriverà il festival, puntuale come l’influenza, e a noi tutti sembrerà di non poterlo ignorare. Ci sentiremo costretti a parlarne – male, ma a parlarne. A fare ironia su un cantante o una valletta. A ribadire – come se non fosse già chiaro il concetto – che la tv italiana è tutto uno schifo, e che non ci rappresenta.
E se invece facessimo finta di niente?
Succedono tante cose al mondo. La tv è un fenomeno tra tanti. Non trovate che se ne parli un po’ troppo?
Ci sono tanti media in Italia. Perché la tv dev’essere considerata la più importante?
Perché arriva al maggior numero di persone? Questo è un dato che può cambiare.
Ma non cambierà finché per radio, sui giornali, su Internet, non sentirò che parlare di quel che succede in TV. Inclusi i commenti su Sanremo. Come se la TV fosse il luogo in cui le cose accadono realmente, e gli altri media i luoghi deputati alla discussione.
Sanremo, tra Settanta e Ottanta, era spacciato: uno spettacolo di serie B, tagliato fuori dall’evoluzione della musica italiana. Come ha potuto diventare in breve quello che è oggi, la massima cerimonia della cultura nazionalpopolare?
Proprio in virtù della sua scarsa qualità. Sanremo è l’esempio più clamoroso dell’omologazione verso il basso della cultura televisiva italiana. Invece di diversificare i contenuti, cercando di soddisfare più livelli di pubblico, la tv italiana ha scelto di essere generalista, di trattare i telespettatori come una massa indistinta a cui servire la stessa sbobba.
Un pastone che naturalmente non è mai stato in grado di soddisfarci, ma che riesce ugualmente a catturarci e ipnotizzarci. Come? Semplice: alimentando il nostro senso di superiorità.
La tv italiana è piena di nani e ballerine non perché a tutti gli italiani piacciano nani e ballerine, ma proprio perché nani e ballerine ci fanno sentire più alti e più intelligenti. Ma lo siamo davvero?
Sanremo (come il palinsesto tv italiano) non è brutto per insipienza degli organizzatori: Sanremo è volutamente, necessariamente brutto. È il trionfo della filosofia del “purché se ne parli”. E se invece non ne parlassimo? Se evitassimo l’argomento?
L’ironia, in un caso come questo, non serve. È proprio grazie al nostro senso dell’ironia che la tv italiana è diventata l’”inferno” di cui si parla in giro. Forse avremmo dovuto sdegnarci veramente, spegnere, occuparci d’altro, ma era troppo divertente prendere in giro il buffone di turno. Ci sentivamo tutti dei piccoli Beniamino Placido, dei piccoli Enrico Ghezzi, dei piccoli Aldo Grasso. Mentre ci addormentavamo sul divano, esattamente come la celebre casalinga di Voghera.
Io penso che sia ora di svegliarsi, spegnere la tv, occuparsi d’altro. E ricordare anche ai nostri dirigenti che gli italiani non sono soltanto telespettatori.
Ricapitolando:
In una cittadina della riviera ligure, tra qualche settimana, una quarantina di cantanti più o meno famosi parteciperà a una competizione canora, che negli ultimi anni ha subito una forte sovraesposizione mediatica – del tutto ingiustificata, vista la qualità media delle canzoni.
Noi blog non abbiamo certo la possibilità di spegnere questo clamore mediatico, che si alimenta su sé stesso: ma possiamo almeno dare un piccolo segno, auto-imponendoci di non parlare in nessun modo dell’argomento. Non per censura, ma perché siamo stanchi di essere trascinati a discutere di un evento così poco interessante.
“Ma questo è snobismo, vergogna!”
Precisamente. Questo è sano, schietto snobismo. Un vizio di cui in Italia si sente la mancanza.
Se volete aderire all’iniziativa, non scrivetemi. Non dite niente. Verranno i giorni del festival, e noi reticenti, in silenzio, ci riconosceremo.
E poi, se ci va, senza dirlo in giro, possiamo anche guardarlo, il festival. Non casca mica il mondo.
Sento che già cominciano a romperci con Sanremo, e allora pensavo di proporre alla comunità dei blog (se esiste) una modesta iniziativa.
Tranquilli. Non vi chiedo di firmare una petizione o di iscrivervi a nessuna lista. Non vi chiedo di infilare coccarde o altri aggeggi nel vostro sito personale. Se siete d’accordo, non dovete neanche rispondermi, né dire in giro che l’idea è stata mia. Per la verità, non dovete fare assolutamente niente. Più modesti di così.
Tra qualche tempo (non so neanche quanto) arriverà il festival, puntuale come l’influenza, e a noi tutti sembrerà di non poterlo ignorare. Ci sentiremo costretti a parlarne – male, ma a parlarne. A fare ironia su un cantante o una valletta. A ribadire – come se non fosse già chiaro il concetto – che la tv italiana è tutto uno schifo, e che non ci rappresenta.
E se invece facessimo finta di niente?
Succedono tante cose al mondo. La tv è un fenomeno tra tanti. Non trovate che se ne parli un po’ troppo?
Ci sono tanti media in Italia. Perché la tv dev’essere considerata la più importante?
Perché arriva al maggior numero di persone? Questo è un dato che può cambiare.
Ma non cambierà finché per radio, sui giornali, su Internet, non sentirò che parlare di quel che succede in TV. Inclusi i commenti su Sanremo. Come se la TV fosse il luogo in cui le cose accadono realmente, e gli altri media i luoghi deputati alla discussione.
Sanremo, tra Settanta e Ottanta, era spacciato: uno spettacolo di serie B, tagliato fuori dall’evoluzione della musica italiana. Come ha potuto diventare in breve quello che è oggi, la massima cerimonia della cultura nazionalpopolare?
Proprio in virtù della sua scarsa qualità. Sanremo è l’esempio più clamoroso dell’omologazione verso il basso della cultura televisiva italiana. Invece di diversificare i contenuti, cercando di soddisfare più livelli di pubblico, la tv italiana ha scelto di essere generalista, di trattare i telespettatori come una massa indistinta a cui servire la stessa sbobba.
Un pastone che naturalmente non è mai stato in grado di soddisfarci, ma che riesce ugualmente a catturarci e ipnotizzarci. Come? Semplice: alimentando il nostro senso di superiorità.
La tv italiana è piena di nani e ballerine non perché a tutti gli italiani piacciano nani e ballerine, ma proprio perché nani e ballerine ci fanno sentire più alti e più intelligenti. Ma lo siamo davvero?
Sanremo (come il palinsesto tv italiano) non è brutto per insipienza degli organizzatori: Sanremo è volutamente, necessariamente brutto. È il trionfo della filosofia del “purché se ne parli”. E se invece non ne parlassimo? Se evitassimo l’argomento?
L’ironia, in un caso come questo, non serve. È proprio grazie al nostro senso dell’ironia che la tv italiana è diventata l’”inferno” di cui si parla in giro. Forse avremmo dovuto sdegnarci veramente, spegnere, occuparci d’altro, ma era troppo divertente prendere in giro il buffone di turno. Ci sentivamo tutti dei piccoli Beniamino Placido, dei piccoli Enrico Ghezzi, dei piccoli Aldo Grasso. Mentre ci addormentavamo sul divano, esattamente come la celebre casalinga di Voghera.
Io penso che sia ora di svegliarsi, spegnere la tv, occuparsi d’altro. E ricordare anche ai nostri dirigenti che gli italiani non sono soltanto telespettatori.
Ricapitolando:
In una cittadina della riviera ligure, tra qualche settimana, una quarantina di cantanti più o meno famosi parteciperà a una competizione canora, che negli ultimi anni ha subito una forte sovraesposizione mediatica – del tutto ingiustificata, vista la qualità media delle canzoni.
Noi blog non abbiamo certo la possibilità di spegnere questo clamore mediatico, che si alimenta su sé stesso: ma possiamo almeno dare un piccolo segno, auto-imponendoci di non parlare in nessun modo dell’argomento. Non per censura, ma perché siamo stanchi di essere trascinati a discutere di un evento così poco interessante.
“Ma questo è snobismo, vergogna!”
Precisamente. Questo è sano, schietto snobismo. Un vizio di cui in Italia si sente la mancanza.
Se volete aderire all’iniziativa, non scrivetemi. Non dite niente. Verranno i giorni del festival, e noi reticenti, in silenzio, ci riconosceremo.
E poi, se ci va, senza dirlo in giro, possiamo anche guardarlo, il festival. Non casca mica il mondo.
martedì 21 gennaio 2003
Typewriters of the world unite
(Io non ho difficoltà ad ammetterlo: tengo un blog perché sono un giornalista mancato. Mi sfogo così. Dai, non faccio del male a nessuno).
Due giornalisti che ho sentito, venerdì sera, in tv.
Il primo era Mentana, che a Otto e Mezzo ha detto di non temere la concorrenza di Internet: “Sarebbe come temere la concorrenza di una macchina da scrivere”.
Interpreto: Internet non è che uno strumento, nelle mani del giornalista. È lui, l’Umano, il Professionista, che vaglia le notizie, le verifica, le rende presentabili. Nessuna macchina da scrivere potrebbe mai sostituirlo in questo lavoro …
Tre ore dopo ripasso, su rai1 Mollica festeggia il compleanno di Tv7 intervistando Bernabei, proprio lui!
“Qual è il principale difetto dei giornalisti, al giorno d’oggi [rispetto a quelli della Rai-di-Bernabei?]”
“Vogliono tutti fare il colpo. Non bisogna fare colpo, mai”.
Finito il servizio, rimesso Bernabei in formalina, Tv7 prosegue con un servizio sulle risse di donne pakistane. Proprio così: assisto a tre minuti di tafferuglio in una strada pakistana, tra donne di diverse età che si strappano i capelli e si tirano in testa cartelli elettorali. Sarebbe anche divertente, non fosse per il sangue (e poi le facce sui cartelli sono tutte maschili).
Ma soprattutto: nessuno mi spiega cosa sta succedendo. Nessuna voce fuori campo, nessuna didascalia, niente.
Formulo due teorie.
1. Forse hanno pensato che sono troppo stupido per capire la complessità della campagna elettorale pakistana, e hanno tagliato il testo del servizio.
2. Forse hanno pensato che, a quell’ora della notte, non ho voglia di informarmi sulla complessità della campagna elettorale pakistana, ma soltanto di eccitarmi con donne orientali che urlano scazzottandosi a sangue. Così acquistano reportage di scarto dai corrispondenti per fare concorrenza agli spot dei telefoni e r o t i ci.
Insomma, se a quell’ora della notte sto seguendo T7 (che è il più prestigioso settimanale d’informazione della rai), o sono un deficiente o sono un a r r a p a t o, o più probabilmente un misto di entrambi.
E se invece fossi onestamente curioso del perché donne di tutte le età se la davano di santa ragione in mezzo a una strada di Karachi?
Beh, l’unica cosa che potrei fare è spegnere la tv, tornare in camera e connettermi a internet.
Mmm. Se io fossi Mentana comincerei a guardarmi le spalle.
Di certe macchine da scrivere non c’è da fidarsi.
(Io non ho difficoltà ad ammetterlo: tengo un blog perché sono un giornalista mancato. Mi sfogo così. Dai, non faccio del male a nessuno).
Due giornalisti che ho sentito, venerdì sera, in tv.
Il primo era Mentana, che a Otto e Mezzo ha detto di non temere la concorrenza di Internet: “Sarebbe come temere la concorrenza di una macchina da scrivere”.
Interpreto: Internet non è che uno strumento, nelle mani del giornalista. È lui, l’Umano, il Professionista, che vaglia le notizie, le verifica, le rende presentabili. Nessuna macchina da scrivere potrebbe mai sostituirlo in questo lavoro …
Tre ore dopo ripasso, su rai1 Mollica festeggia il compleanno di Tv7 intervistando Bernabei, proprio lui!
“Qual è il principale difetto dei giornalisti, al giorno d’oggi [rispetto a quelli della Rai-di-Bernabei?]”
“Vogliono tutti fare il colpo. Non bisogna fare colpo, mai”.
Finito il servizio, rimesso Bernabei in formalina, Tv7 prosegue con un servizio sulle risse di donne pakistane. Proprio così: assisto a tre minuti di tafferuglio in una strada pakistana, tra donne di diverse età che si strappano i capelli e si tirano in testa cartelli elettorali. Sarebbe anche divertente, non fosse per il sangue (e poi le facce sui cartelli sono tutte maschili).
Ma soprattutto: nessuno mi spiega cosa sta succedendo. Nessuna voce fuori campo, nessuna didascalia, niente.
Formulo due teorie.
1. Forse hanno pensato che sono troppo stupido per capire la complessità della campagna elettorale pakistana, e hanno tagliato il testo del servizio.
2. Forse hanno pensato che, a quell’ora della notte, non ho voglia di informarmi sulla complessità della campagna elettorale pakistana, ma soltanto di eccitarmi con donne orientali che urlano scazzottandosi a sangue. Così acquistano reportage di scarto dai corrispondenti per fare concorrenza agli spot dei telefoni e r o t i ci.
Insomma, se a quell’ora della notte sto seguendo T7 (che è il più prestigioso settimanale d’informazione della rai), o sono un deficiente o sono un a r r a p a t o, o più probabilmente un misto di entrambi.
E se invece fossi onestamente curioso del perché donne di tutte le età se la davano di santa ragione in mezzo a una strada di Karachi?
Beh, l’unica cosa che potrei fare è spegnere la tv, tornare in camera e connettermi a internet.
Mmm. Se io fossi Mentana comincerei a guardarmi le spalle.
Di certe macchine da scrivere non c’è da fidarsi.
venerdì 17 gennaio 2003
Nessuno gli vuole bene 2
10 mesi dopo...(6 marzo '02)
(premessa doverosa: non l’ho visto in tv, non ho potuto. Ma ho fiducia nei virgolettati della Repubblica).
C’è una cosa di cui bisogna dare atto a D’Alema: lui non è quel tipo di persona che vuol fare il simpatico a tutti i costi, no.
I movimenti sono importanti, ma non sono un fatto epocale. Firenze? Anche a noi è capitato di stare fino all'una di notte in un'assemblea, molte volte. E nessuno ha il monopolio delle passioni.
La tesi di questo pezzo è banale: D’Alema è una persona antipatica. Mi rendo conto che il travaglio della Sinistra meriterebbe ben più acute riflessioni, ma a volte bisogna anche attentarsi a dire che il re è nudo, putacaso qualcuno non se ne fosse accorto. D’Alema non è nudo: però è antipatico. Liberissimo di esserlo. Ma forse le persone antipatiche non dovrebbero fare politica.
Qui non è in discussione il suo pensiero politico. Ma anche le idee migliori servono ben poco, in mano alla persona sbagliata. In questi giorni ho sentito dire fino alla nausea frasi che iniziavano con “Cofferati” e finivano con “cuore-della-gente”: “Cofferati sa parlare al cuore della gente”, “Cofferati sa scaldare il cuore”, ecc., un frasario da Tamaro prestata alla politica. Ora, senza dubbio l’uomo ha le sue qualità, non si diventa leader sindacali per caso. Ma io credo che a questo punto chiunque sarebbe in grado di vincere un duello di simpatia con D’Alema.
E siccome anche lui lo sa – non è uno stupido – mi chiedo come abbia potuto acconsentire a un duello del genere. Se Cofferati ha critiche da fare ai dirigenti DS, il suo avversario naturale è Fassino. D’Alema dovrebbe mantenersi al di sopra delle parti, come si conviene al Presidente del partito. Ma lui non si stanca di ripetere che la carica di Presidente serve a poco o nulla. Il che, oltre a denotare uno scarso rispetto nei confronti delle istituzioni del suo Partito, è anche scarsamente credibile, da parte sua.
Per quella poltrona di presidente, infatti, D’Alema ha brigato parecchio. Non se n’è staccato nemmeno quando, dopo il disastro elettorale, tutti i dirigenti si sono dimessi. Sempre per il motivo che “tanto il Presidente serve a poco”, e quindi se ne sobbarcava lui…
Mi dispiace che Cofferati sia in collegamento da Milano, mi sarebbe piaciuto guardarlo negli occhi. Lo so che lavora alla Pirelli, ma anche noi lavoriamo.
D’Alema forse ignora (ma come fa?) qual è la percezione che l’italiano medio ha del Parlamento: un convitto di allegri scrocconi, insaziabili, di una certa età. Non si sarà mai accorto delle voci che girano su internet e nei bar, sui mille privilegi, gli stipendi continuamente ritoccati verso l’alto, gli aerei e i cinema gratis. Non ha mai fatto caso a certe battute sulle sue barche, sui suoi cuochi, sul suo paio di scarpe da un milione.
Ha visto coi suoi occhi una buona parte dei suoi colleghi franare nelle crepe di Tangentopoli. Ha visto un imprenditore digiuno di politica metter su un partito e vincere le elezioni in quattro mesi.
Tutto questo avrebbe dovuto insegnargli qualcosa. E invece no.
Cofferati, che ha visto le stesse cose, ha avuto il buon senso di non farsi cooptare nel ceto politico, di tornare nel mondo del lavoro, almeno simbolicamente. Diciamo la verità, da Cincinnato avrà fatto sì e no un mese: ma gli è bastato per conquistarsi una popolarità e un credito notevoli.
Io non credo che non ci sia un solo lavoratore italiano, che, alle nove di sera, sentendo D’Alema dire “anche noi lavoriamo” non abbia sentito dalle sue viscere nascere un pensiero: “ma quale lavoro, D’Alema, se non hai mai fatto un cazzo in tutta la tua vita”. Concetto discutibile, ma alle viscere non si comanda. Per l’ennesima volta: ma come si fa a dire cose del genere? O meglio: come si fa a dire cose del genere e nel frattempo considerarsi un grande comunicatore politico? Mistero (doloroso).
Sottovaluti il nostro mondo, non siamo burocrati. E nel vecchio Pci è capitato tante volte che un dirigente scaldasse il cuore, facesse piangere la gente con un discorso, ma non per questo sono diventati segretari del partito.
In questa frase ci sono tre gravi errori politici. Riuscite a trovarli?
1) Al giorno d’oggi non è educato dichiararsi nostalgici del “vecchio Pci”. (Soprattutto da parte di chi si è dato da fare per metterlo in pensione).
2) Continuiamo pure a parlare della “gente”, la povera “gente” che ama “scaldarsi il cuore” e “piangere” per un discorso. Lamentiamoci poi se la stessa gente ci considera dei freddi burocrati…
3) Chi è che vuole diventare segretario del parito? Cofferati? Ne ha mai parlato? A metter troppo avanti le mani si rischia di cadere.
“Sì, magari non sarà un grande comunicatore, ma ha altre doti: è un fine stratega, per esempio”.
Dissento. Mi pare che pochi politici italiani, messi alla prova, abbiano commesso tanti errori di strategia. Dalla Cosa2, alla Bicamerale, all’idea sciagurata di sostituire Prodi, alle sue sconcertanti scommesse con Berlusconi: “se tu fai meno voti di me alle amministrative ti dimetti da Presidente del Consiglio, ok?” “Ok!”
Se io, se noi avessimo fatto sul nostro posto di lavoro la metà degli errori tattici commessi da D’Alema, oggi saremmo a casa, con o senza l’articolo 18. Perché D’Alema è ancora lì?
Semplice: perché lui chiede scusa. Ogni tanto rilascia un’intervista e dice: quella volta mi sono sbagliato. Quell’errore non lo ripeterò.
Nessuno osa spiegargli che, a un certo livello di professionalità, non dovrebbero esistere seconde possibilità. Che la politica è un mestiere disumano, dove ci si gioca la faccia a ogni gradino. Almeno, per gli altri è così. Ma per lui?
Quando ebbe la brillante idea di rifondare il PDS, a 5 anni dalla nascita, D’Alema sapeva che in quella rifondazione si giocava la faccia; che in caso di fallimento avrebbe pagato in prima persona. E invece no. Il PDS è abortito nei DS: il vertice si è rimpastato, la base non ha capito, un flop conclamato. Colpa di D’Alema? No. Colpa dei colleghi invidiosi che non lo hanno compreso.
Quando ebbe l’idea balzana di farsi nominare segretario della Bicamerale, D’Alema sapeva di correre due grossi rischi: svendere la Costituzione a Berlusconi, o partorire un altro bel nulla. Sapeva che, in entrambi i casi, era in gioco la sua credibilità. Com’è andata a finire? Un disastro.
A quel punto chiunque altro si sarebbe pre-pensionato. Lui no. È ancora lì che parla di riforme. Che importa se Berlusconi non è credibile, spiega, anche l’Ulivo deve fare le sue proposte. Come spiegargli che, a questo punto, lui stesso non è molto più credibile di Berlusconi?
Infine, i fatti parlano: dal suo governo in poi, i DS hanno perso quasi tutte le elezioni. Sono ai minimi storici.
Ma D’Alema, sulla “Repubblica” di domenica, spiega che le elezioni, lui, non le ha nemmeno perse, perché a Gallipoli ha fatto un ottimo score: Io, Fassino, gli altri esponenti della maggioranza saremmo i perdenti! Ma i perdenti sono i Folena, i Mussi, candidato a Milano, mentre io facevo una durissima campagna elettorale a Gallipoli!
Ecco un’altra frase a cui non mi riuscirebbe di replicare civilmente. Per quanto mi sforzi di trovare argomenti educati (il problema non è a Gallipoli, ma il dato nazionale, le responsabilità dei vertici del partito e del governo, ecc.), c’è qualcosa in me che finisce per sbottare: ma perché allora non ti trovi un bell’ufficio da assessore a Gallipoli e non ti cavi fuori dai coglioni?
Mi rendo conto di scadere nel qualunquismo, e me ne scuso, ma credo anche che il qualunquismo di una nazione sia direttamente proporzionale all’antipatia della classe dirigente.
E lo dico perché ho sempre avuto la sensazione che in Italia, se ci fu una rivoluzione, fu una rivoluzione qualunquista, che dieci anni fa culminò con un assedio al grand hotel che era la residenza invernale di Bettino Craxi. Ora, Craxi ne aveva fatte di cotte e di crude. Ma se si fosse trattato solo di qualche conto in Svizzera, lo avremmo sopportato. No. Quello che ci fece sbottare fu l’antipatia. Bettino Craxi era un politico intelligente, ma arrogante, supponente, antipatico.
Morì in esilio, indignato e incredulo di aver pagato per tutti. Senza capire quale gran disgrazia sia, per un politico, l’antipatia.
Credo che il suo caso avrebbe dovuto insegnare qualcosa a qualcuno. Ma no, no, niente, mai niente, è inutile.
10 mesi dopo...(6 marzo '02)
(premessa doverosa: non l’ho visto in tv, non ho potuto. Ma ho fiducia nei virgolettati della Repubblica).
C’è una cosa di cui bisogna dare atto a D’Alema: lui non è quel tipo di persona che vuol fare il simpatico a tutti i costi, no.
I movimenti sono importanti, ma non sono un fatto epocale. Firenze? Anche a noi è capitato di stare fino all'una di notte in un'assemblea, molte volte. E nessuno ha il monopolio delle passioni.
La tesi di questo pezzo è banale: D’Alema è una persona antipatica. Mi rendo conto che il travaglio della Sinistra meriterebbe ben più acute riflessioni, ma a volte bisogna anche attentarsi a dire che il re è nudo, putacaso qualcuno non se ne fosse accorto. D’Alema non è nudo: però è antipatico. Liberissimo di esserlo. Ma forse le persone antipatiche non dovrebbero fare politica.
Qui non è in discussione il suo pensiero politico. Ma anche le idee migliori servono ben poco, in mano alla persona sbagliata. In questi giorni ho sentito dire fino alla nausea frasi che iniziavano con “Cofferati” e finivano con “cuore-della-gente”: “Cofferati sa parlare al cuore della gente”, “Cofferati sa scaldare il cuore”, ecc., un frasario da Tamaro prestata alla politica. Ora, senza dubbio l’uomo ha le sue qualità, non si diventa leader sindacali per caso. Ma io credo che a questo punto chiunque sarebbe in grado di vincere un duello di simpatia con D’Alema.
E siccome anche lui lo sa – non è uno stupido – mi chiedo come abbia potuto acconsentire a un duello del genere. Se Cofferati ha critiche da fare ai dirigenti DS, il suo avversario naturale è Fassino. D’Alema dovrebbe mantenersi al di sopra delle parti, come si conviene al Presidente del partito. Ma lui non si stanca di ripetere che la carica di Presidente serve a poco o nulla. Il che, oltre a denotare uno scarso rispetto nei confronti delle istituzioni del suo Partito, è anche scarsamente credibile, da parte sua.
Per quella poltrona di presidente, infatti, D’Alema ha brigato parecchio. Non se n’è staccato nemmeno quando, dopo il disastro elettorale, tutti i dirigenti si sono dimessi. Sempre per il motivo che “tanto il Presidente serve a poco”, e quindi se ne sobbarcava lui…
Mi dispiace che Cofferati sia in collegamento da Milano, mi sarebbe piaciuto guardarlo negli occhi. Lo so che lavora alla Pirelli, ma anche noi lavoriamo.
D’Alema forse ignora (ma come fa?) qual è la percezione che l’italiano medio ha del Parlamento: un convitto di allegri scrocconi, insaziabili, di una certa età. Non si sarà mai accorto delle voci che girano su internet e nei bar, sui mille privilegi, gli stipendi continuamente ritoccati verso l’alto, gli aerei e i cinema gratis. Non ha mai fatto caso a certe battute sulle sue barche, sui suoi cuochi, sul suo paio di scarpe da un milione.
Ha visto coi suoi occhi una buona parte dei suoi colleghi franare nelle crepe di Tangentopoli. Ha visto un imprenditore digiuno di politica metter su un partito e vincere le elezioni in quattro mesi.
Tutto questo avrebbe dovuto insegnargli qualcosa. E invece no.
Cofferati, che ha visto le stesse cose, ha avuto il buon senso di non farsi cooptare nel ceto politico, di tornare nel mondo del lavoro, almeno simbolicamente. Diciamo la verità, da Cincinnato avrà fatto sì e no un mese: ma gli è bastato per conquistarsi una popolarità e un credito notevoli.
Io non credo che non ci sia un solo lavoratore italiano, che, alle nove di sera, sentendo D’Alema dire “anche noi lavoriamo” non abbia sentito dalle sue viscere nascere un pensiero: “ma quale lavoro, D’Alema, se non hai mai fatto un cazzo in tutta la tua vita”. Concetto discutibile, ma alle viscere non si comanda. Per l’ennesima volta: ma come si fa a dire cose del genere? O meglio: come si fa a dire cose del genere e nel frattempo considerarsi un grande comunicatore politico? Mistero (doloroso).
Sottovaluti il nostro mondo, non siamo burocrati. E nel vecchio Pci è capitato tante volte che un dirigente scaldasse il cuore, facesse piangere la gente con un discorso, ma non per questo sono diventati segretari del partito.
In questa frase ci sono tre gravi errori politici. Riuscite a trovarli?
1) Al giorno d’oggi non è educato dichiararsi nostalgici del “vecchio Pci”. (Soprattutto da parte di chi si è dato da fare per metterlo in pensione).
2) Continuiamo pure a parlare della “gente”, la povera “gente” che ama “scaldarsi il cuore” e “piangere” per un discorso. Lamentiamoci poi se la stessa gente ci considera dei freddi burocrati…
3) Chi è che vuole diventare segretario del parito? Cofferati? Ne ha mai parlato? A metter troppo avanti le mani si rischia di cadere.
“Sì, magari non sarà un grande comunicatore, ma ha altre doti: è un fine stratega, per esempio”.
Dissento. Mi pare che pochi politici italiani, messi alla prova, abbiano commesso tanti errori di strategia. Dalla Cosa2, alla Bicamerale, all’idea sciagurata di sostituire Prodi, alle sue sconcertanti scommesse con Berlusconi: “se tu fai meno voti di me alle amministrative ti dimetti da Presidente del Consiglio, ok?” “Ok!”
Se io, se noi avessimo fatto sul nostro posto di lavoro la metà degli errori tattici commessi da D’Alema, oggi saremmo a casa, con o senza l’articolo 18. Perché D’Alema è ancora lì?
Semplice: perché lui chiede scusa. Ogni tanto rilascia un’intervista e dice: quella volta mi sono sbagliato. Quell’errore non lo ripeterò.
Nessuno osa spiegargli che, a un certo livello di professionalità, non dovrebbero esistere seconde possibilità. Che la politica è un mestiere disumano, dove ci si gioca la faccia a ogni gradino. Almeno, per gli altri è così. Ma per lui?
Quando ebbe la brillante idea di rifondare il PDS, a 5 anni dalla nascita, D’Alema sapeva che in quella rifondazione si giocava la faccia; che in caso di fallimento avrebbe pagato in prima persona. E invece no. Il PDS è abortito nei DS: il vertice si è rimpastato, la base non ha capito, un flop conclamato. Colpa di D’Alema? No. Colpa dei colleghi invidiosi che non lo hanno compreso.
Quando ebbe l’idea balzana di farsi nominare segretario della Bicamerale, D’Alema sapeva di correre due grossi rischi: svendere la Costituzione a Berlusconi, o partorire un altro bel nulla. Sapeva che, in entrambi i casi, era in gioco la sua credibilità. Com’è andata a finire? Un disastro.
A quel punto chiunque altro si sarebbe pre-pensionato. Lui no. È ancora lì che parla di riforme. Che importa se Berlusconi non è credibile, spiega, anche l’Ulivo deve fare le sue proposte. Come spiegargli che, a questo punto, lui stesso non è molto più credibile di Berlusconi?
Infine, i fatti parlano: dal suo governo in poi, i DS hanno perso quasi tutte le elezioni. Sono ai minimi storici.
Ma D’Alema, sulla “Repubblica” di domenica, spiega che le elezioni, lui, non le ha nemmeno perse, perché a Gallipoli ha fatto un ottimo score: Io, Fassino, gli altri esponenti della maggioranza saremmo i perdenti! Ma i perdenti sono i Folena, i Mussi, candidato a Milano, mentre io facevo una durissima campagna elettorale a Gallipoli!
Ecco un’altra frase a cui non mi riuscirebbe di replicare civilmente. Per quanto mi sforzi di trovare argomenti educati (il problema non è a Gallipoli, ma il dato nazionale, le responsabilità dei vertici del partito e del governo, ecc.), c’è qualcosa in me che finisce per sbottare: ma perché allora non ti trovi un bell’ufficio da assessore a Gallipoli e non ti cavi fuori dai coglioni?
Mi rendo conto di scadere nel qualunquismo, e me ne scuso, ma credo anche che il qualunquismo di una nazione sia direttamente proporzionale all’antipatia della classe dirigente.
E lo dico perché ho sempre avuto la sensazione che in Italia, se ci fu una rivoluzione, fu una rivoluzione qualunquista, che dieci anni fa culminò con un assedio al grand hotel che era la residenza invernale di Bettino Craxi. Ora, Craxi ne aveva fatte di cotte e di crude. Ma se si fosse trattato solo di qualche conto in Svizzera, lo avremmo sopportato. No. Quello che ci fece sbottare fu l’antipatia. Bettino Craxi era un politico intelligente, ma arrogante, supponente, antipatico.
Morì in esilio, indignato e incredulo di aver pagato per tutti. Senza capire quale gran disgrazia sia, per un politico, l’antipatia.
Credo che il suo caso avrebbe dovuto insegnare qualcosa a qualcuno. Ma no, no, niente, mai niente, è inutile.
mercoledì 15 gennaio 2003
Maestri di vita (5):
La stanchezza di Rosa Parks
There comes a time that people get tired (M. L. King)
La sera del primo dicembre 1955 Rosa Parks era stanca.
Tornava a casa dal lavoro (sarta in un grande magazzino a Montgomery, Alabama). Sull’autobus che aveva preso non c’erano posti a sedere per lei. Ma Rosa era molto stanca, e aveva deciso di sedersi ugualmente: sui sedili riservati ai bianchi.
Magari non era la prima volta. Magari aveva messo in conto qualche occhiataccia dei passeggeri. Ma alla fermata successiva, quando il conducente (una vecchia conoscenza) le chiese di alzarsi e lasciare il suo posto ai bianchi, Rosa rispose che era stanca, e che non si sarebbe alzata.
La stanchezza non le passò quando il conducente minacciò di fermare il bus e chiamare la polizia.
("Well, I'm going to have you arrested"
"You may go on and do so.")
Così Rosa Parks fu arrestata, il primo dicembre del 1955. Il resto è Storia. L’associazione nazionale per il progresso dei cittadini di colore organizzò un tipo di protesta del tutto nuova, destinata a un insperato successo: il boicottaggio dei trasporti pubblici di Montgomery, che per due terzi erano utilizzati dai neri.
Non fu una passeggiata: il boicottaggio durò 382 giorni. Uno dei promotori, il reverendo battista Martin Luther King, fu arrestato; la sua famiglia subì un attentato. Ma proprio nei giorni del processo la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionali le leggi segregazioniste dell’Alabama. Così, a un anno dal suo arresto, il 21 dicembre 1956, Rosa Parks salì di nuovo su un autobus, ma dalla porta posteriore, fino a quel giorno riservata ai bianchi. Da quel giorno Rosa è diventata un’icona delle lotte per i diritti civili. E un simbolo di quanta forza ci possa essere nella stanchezza.
***
Se ho un rilievo da fare, a me, e in genere a tutto il Movimento, non è l’energia che mettiamo in quello che facciamo, che è benedetta, finché c’è.
Ma ho la sensazione che tanti di noi diano troppo affidamento alle proprie capacità. Ci dicono tutti: siete instancabili, voi attivisti. Ce lo diciamo anche noi. E – quel che è peggio – ci crediamo.
Finché un giorno non succede quello che non sarebbe mai dovuto succedere: ci stanchiamo. Prendiamo sonno alle assemblee. Marchiamo visita alle riunioni. Fin lì è ordinaria amministrazione. Poi cominciamo a dar buca agli appuntamenti, anche quelli fissati da noi: pessimo segno. Oppure nulla di tutto questo: continuiamo imperterriti finché non ci scontriamo coi limiti strutturali del nostro corpo: gastriti, emicranie, esaurimenti.
A quel punto, forse dovremmo chiedere scusa. E invece iniziamo a recriminare. Cominciamo a far pesare tutto il tempo che abbiamo investito nel Movimento, vorremmo riaverlo indietro (come se non avessimo sempre saputo che i patti non erano questi). Ci lamentiamo che tutti facciano affidamento su di noi, quando siamo stati noi i primi a voler fare tutto per gli altri. Perché degli altri non ci fidavamo. E adesso che siamo stanchi, non ci fidiamo più nemmeno di noi stessi.
Di lì a poco iniziamo a diventare scettici. Vediamo che il mondo va avanti anche durante i nostri periodi di stanchezza, e va male, naturalmente. Le cose vanno sempre peggio e nessuno riesce a farci niente. Certo, noi ai nostri tempi ci abbiamo provato, però… eravamo giovani e inesperti, e per giunta circondati da incapaci. Ci è andata male. Per consolarci impesteremo la generazione dei nostri figli con le nostre nostalgie deprimenti.
***
Io sono contento di aver ricevuto un’educazione cattolica. Ho assunto molti anticorpi in quel periodo.
Per esempio, ho maturato una grande diffidenza verso l’entusiasmo, verso le vocazioni troppo assolute, troppo rapide. Nella fede, come nell’amore, come nell’attivismo (che è quello di cui stiamo parlando), ho sempre avuto paura di essere un fuoco di paglia, lesto ad accendersi e a spegnersi subito dopo.
Certo, anche un fuoco di paglia ha la sua utilità, se vuoi accendere un falò. Ma quello che ti serve veramente è uno di quei ceppi grandi, secchi, che all’inizio non vuol saperne di prender fuoco. E non farà mai una fiamma alta. Ma brucerà e ti terrà caldo tutta la notte.
Così, certe sere che sono stanco, stanco anche di dar la colpa al lavoro, o al movimento, quando la colpa è soltanto mia, mi dico che anche la stanchezza ha i suoi vantaggi: basta accettarla per quello che è, farne il proprio Piave, puntare i piedi e mantenere la posizione. E cerco di pensare a chi è riuscito, in un determinato momento, per una determinata causa, a fare della sua stanchezza la sua forza. Non è che mi vengano in mente tanti esempi. Ma per fortuna c'è Rosa Parks.
Rosa Parks was physically tired, but no more than you or I after a long day's work…
La stanchezza di Rosa Parks
There comes a time that people get tired (M. L. King)
La sera del primo dicembre 1955 Rosa Parks era stanca.
Tornava a casa dal lavoro (sarta in un grande magazzino a Montgomery, Alabama). Sull’autobus che aveva preso non c’erano posti a sedere per lei. Ma Rosa era molto stanca, e aveva deciso di sedersi ugualmente: sui sedili riservati ai bianchi.
Magari non era la prima volta. Magari aveva messo in conto qualche occhiataccia dei passeggeri. Ma alla fermata successiva, quando il conducente (una vecchia conoscenza) le chiese di alzarsi e lasciare il suo posto ai bianchi, Rosa rispose che era stanca, e che non si sarebbe alzata.
La stanchezza non le passò quando il conducente minacciò di fermare il bus e chiamare la polizia.
("Well, I'm going to have you arrested"
"You may go on and do so.")
Così Rosa Parks fu arrestata, il primo dicembre del 1955. Il resto è Storia. L’associazione nazionale per il progresso dei cittadini di colore organizzò un tipo di protesta del tutto nuova, destinata a un insperato successo: il boicottaggio dei trasporti pubblici di Montgomery, che per due terzi erano utilizzati dai neri.
Non fu una passeggiata: il boicottaggio durò 382 giorni. Uno dei promotori, il reverendo battista Martin Luther King, fu arrestato; la sua famiglia subì un attentato. Ma proprio nei giorni del processo la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionali le leggi segregazioniste dell’Alabama. Così, a un anno dal suo arresto, il 21 dicembre 1956, Rosa Parks salì di nuovo su un autobus, ma dalla porta posteriore, fino a quel giorno riservata ai bianchi. Da quel giorno Rosa è diventata un’icona delle lotte per i diritti civili. E un simbolo di quanta forza ci possa essere nella stanchezza.
***
Se ho un rilievo da fare, a me, e in genere a tutto il Movimento, non è l’energia che mettiamo in quello che facciamo, che è benedetta, finché c’è.
Ma ho la sensazione che tanti di noi diano troppo affidamento alle proprie capacità. Ci dicono tutti: siete instancabili, voi attivisti. Ce lo diciamo anche noi. E – quel che è peggio – ci crediamo.
Finché un giorno non succede quello che non sarebbe mai dovuto succedere: ci stanchiamo. Prendiamo sonno alle assemblee. Marchiamo visita alle riunioni. Fin lì è ordinaria amministrazione. Poi cominciamo a dar buca agli appuntamenti, anche quelli fissati da noi: pessimo segno. Oppure nulla di tutto questo: continuiamo imperterriti finché non ci scontriamo coi limiti strutturali del nostro corpo: gastriti, emicranie, esaurimenti.
A quel punto, forse dovremmo chiedere scusa. E invece iniziamo a recriminare. Cominciamo a far pesare tutto il tempo che abbiamo investito nel Movimento, vorremmo riaverlo indietro (come se non avessimo sempre saputo che i patti non erano questi). Ci lamentiamo che tutti facciano affidamento su di noi, quando siamo stati noi i primi a voler fare tutto per gli altri. Perché degli altri non ci fidavamo. E adesso che siamo stanchi, non ci fidiamo più nemmeno di noi stessi.
Di lì a poco iniziamo a diventare scettici. Vediamo che il mondo va avanti anche durante i nostri periodi di stanchezza, e va male, naturalmente. Le cose vanno sempre peggio e nessuno riesce a farci niente. Certo, noi ai nostri tempi ci abbiamo provato, però… eravamo giovani e inesperti, e per giunta circondati da incapaci. Ci è andata male. Per consolarci impesteremo la generazione dei nostri figli con le nostre nostalgie deprimenti.
***
Io sono contento di aver ricevuto un’educazione cattolica. Ho assunto molti anticorpi in quel periodo.
Per esempio, ho maturato una grande diffidenza verso l’entusiasmo, verso le vocazioni troppo assolute, troppo rapide. Nella fede, come nell’amore, come nell’attivismo (che è quello di cui stiamo parlando), ho sempre avuto paura di essere un fuoco di paglia, lesto ad accendersi e a spegnersi subito dopo.
Certo, anche un fuoco di paglia ha la sua utilità, se vuoi accendere un falò. Ma quello che ti serve veramente è uno di quei ceppi grandi, secchi, che all’inizio non vuol saperne di prender fuoco. E non farà mai una fiamma alta. Ma brucerà e ti terrà caldo tutta la notte.
Così, certe sere che sono stanco, stanco anche di dar la colpa al lavoro, o al movimento, quando la colpa è soltanto mia, mi dico che anche la stanchezza ha i suoi vantaggi: basta accettarla per quello che è, farne il proprio Piave, puntare i piedi e mantenere la posizione. E cerco di pensare a chi è riuscito, in un determinato momento, per una determinata causa, a fare della sua stanchezza la sua forza. Non è che mi vengano in mente tanti esempi. Ma per fortuna c'è Rosa Parks.
Rosa Parks was physically tired, but no more than you or I after a long day's work…
martedì 14 gennaio 2003
Tollerando tollerando
Ha ragione il Presidente Galan: il Veneto è una regione tollerante. Fin troppo.
C’è un tale Adel Smith, abruzzese di origini egizio-scozzesi convertitosi all’Islam, che sostiene di poter confutare la religione cristiana. Con una combriccola di amici (tra cui un ex brigatista, Massimo Zucchi) fonda un’associazione dal nome indovinato: Unione Musulmani d’Italia. Comincia con il chiedere la distruzione dell'affresco di San Petronio dove Maometto è dipinto tra le fiamme dell'inferno; diffonde volantini in cui considera la Comunione un "rito antropofago".
Pittoresco com’è, viene nominato da Bruno Vespa rappresentante televisivo dell’Islam italiano. E da lì in poi, ci si può immaginare come tutti i talk show politici non vedano l’ora di ospitarlo per tollerarlo un po’.
Quando arriva in Veneto, Adel Smith trova la gente molto ben disposta nei suoi confronti. “Qui sono tutti gentilissimi con noi”, dice, e c’è da credergli. Negli studi di Teleserenissima (Padova) ha un primo scontro a chi si tollera di più col leghista Pelanda.
Smith fa quel che può per dare una buona immagine di sé e dei Musulmani d’Italia: oltre a confutare come sempre la religione cattolica, annuncia che le torri gemelle sono state abbattute da Bush per darsi un tono, ecc.Vince lui, che si prende per primo un ceffone. Poi, certo, replica con calci e pugni, ma era stato l’altro a non tollerarlo per primo.
Fatto questo, Smith se ne poteva pure tornare in Abruzzo o dovunque. Invece riceve un invito da un'altra emittente locale, Telenuovo (Verona), caso mai qualcuno cominciasse a farsi dei dubbi sulla tolleranza dei veneti.
Poi è successo che per fatalità passassero di lì 23 valorosi attivisti di Forza Nuova.
Dico “valorosi” perché si sa, gli attivisti di Forza Nuova sono guerrieri con la testa sulle spalle e non attaccano mai se non sono sicuri di essere in una situazione, diciamo, di parità col nemico: dodici contro uno. Siccome Smith e il suo compare erano in due, ce ne sarebbero voluti 24, ma ne mancava uno. A questo punto qualcun altro si sarebbe tirato indietro, ma loro no: dando prova di una determinazione e di un coraggio fuori della norma, il manipolo di valorosi eroi si è fatto sotto il campanello di Teleserenissima. “Pronto, siamo di Forza Nuova, vorremmo irrompere in una vostra trasmissione in diretta, abbiamo anche ortaggi e uova marce”.
Anche in questo caso, l’atteggiamento del personale di Teleserenissima è stato improntato a una massima tolleranza e disponibilità al confronto: ai 23 valorosi eroi è stata mostrata la strada più breve verso lo studio dove stava parlando Adel Smith.
Il conduttore dapprima non ha mostrato, se proprio dobbiamo dirlo, quell’atteggiamento tollerante che ci si aspetterebbe da un operatore dell’informazione: per esempio, ha chiesto loro che non si coprissero il volto mentre si avvicinavano ai due musulmani d’Italia e iniziavano a pestarli. Ma poi si è ammansito, e alla fine ha caldamente consigliato ai valorosi di andarsene prima che arrivasse la polizia.
Tutto questo sabato. Nei giorni successivi scopriamo che questo match di tolleranza è solo il primo round della prossima campagna elettorale. Smith, infatti, dichiara che l’Unione Musulmani si candiderà alle elezioni; il segretario di Forza Nuova, dopo aver proposto una decorazione per i suoi valorosi, annuncia che i sei arrestati, "che difendono i valori della patria e del cattolicesimo" saranno candidati a Treviso, altra città rinomata per la sua tolleranza nei confronti di tutti i cittadini, a partire dal primo.
Gli unici a non tollerare Smith, a quanto parte, sono i musulmani, che già dopo la prima serata a Porta a Porta lo avevano cacciato fuori con infamia dalla moschea di Roma. “È un personaggio preoccupante, sedicente presidente di un’associazione che al massimo rappresenta 4-5 persone. La condanna per la sua aggressione non deve far dimenticare che è una figura che fa della provocazione la sua ragion d’essere” (Hamza Piccardo, segretario dell’Unione Comunità Islamiche, sulla Repubblica di domenica). “Siamo dispiaciuti. Dispiaciuti per la violenza inaccettabile… ma anche per la scelta fatta dai media di avvallare un’immagine dell’Islam, quella di Adel Smith, che non corrisponde al vero volto dell’Islam” (Hamdi Guerfi, Imam di Verona, sulla Repubblica di domenica).
Si vede che è gente arretrata, che non ha ancora capito il valore della moderna tolleranza.
Nel frattempo, Teleserenissima aveva già invitato Smith a un’altra serata. Giusto perché non si pensasse che Verona non lo tollera abbastanza.
E tutto questo, noi, lo tolleriamo.
Ma a volte mi chiedo se non tolleriamo un po’ troppo.
Ha ragione il Presidente Galan: il Veneto è una regione tollerante. Fin troppo.
C’è un tale Adel Smith, abruzzese di origini egizio-scozzesi convertitosi all’Islam, che sostiene di poter confutare la religione cristiana. Con una combriccola di amici (tra cui un ex brigatista, Massimo Zucchi) fonda un’associazione dal nome indovinato: Unione Musulmani d’Italia. Comincia con il chiedere la distruzione dell'affresco di San Petronio dove Maometto è dipinto tra le fiamme dell'inferno; diffonde volantini in cui considera la Comunione un "rito antropofago".
Pittoresco com’è, viene nominato da Bruno Vespa rappresentante televisivo dell’Islam italiano. E da lì in poi, ci si può immaginare come tutti i talk show politici non vedano l’ora di ospitarlo per tollerarlo un po’.
Quando arriva in Veneto, Adel Smith trova la gente molto ben disposta nei suoi confronti. “Qui sono tutti gentilissimi con noi”, dice, e c’è da credergli. Negli studi di Teleserenissima (Padova) ha un primo scontro a chi si tollera di più col leghista Pelanda.
Smith fa quel che può per dare una buona immagine di sé e dei Musulmani d’Italia: oltre a confutare come sempre la religione cattolica, annuncia che le torri gemelle sono state abbattute da Bush per darsi un tono, ecc.Vince lui, che si prende per primo un ceffone. Poi, certo, replica con calci e pugni, ma era stato l’altro a non tollerarlo per primo.
Fatto questo, Smith se ne poteva pure tornare in Abruzzo o dovunque. Invece riceve un invito da un'altra emittente locale, Telenuovo (Verona), caso mai qualcuno cominciasse a farsi dei dubbi sulla tolleranza dei veneti.
Poi è successo che per fatalità passassero di lì 23 valorosi attivisti di Forza Nuova.
Dico “valorosi” perché si sa, gli attivisti di Forza Nuova sono guerrieri con la testa sulle spalle e non attaccano mai se non sono sicuri di essere in una situazione, diciamo, di parità col nemico: dodici contro uno. Siccome Smith e il suo compare erano in due, ce ne sarebbero voluti 24, ma ne mancava uno. A questo punto qualcun altro si sarebbe tirato indietro, ma loro no: dando prova di una determinazione e di un coraggio fuori della norma, il manipolo di valorosi eroi si è fatto sotto il campanello di Teleserenissima. “Pronto, siamo di Forza Nuova, vorremmo irrompere in una vostra trasmissione in diretta, abbiamo anche ortaggi e uova marce”.
Anche in questo caso, l’atteggiamento del personale di Teleserenissima è stato improntato a una massima tolleranza e disponibilità al confronto: ai 23 valorosi eroi è stata mostrata la strada più breve verso lo studio dove stava parlando Adel Smith.
Il conduttore dapprima non ha mostrato, se proprio dobbiamo dirlo, quell’atteggiamento tollerante che ci si aspetterebbe da un operatore dell’informazione: per esempio, ha chiesto loro che non si coprissero il volto mentre si avvicinavano ai due musulmani d’Italia e iniziavano a pestarli. Ma poi si è ammansito, e alla fine ha caldamente consigliato ai valorosi di andarsene prima che arrivasse la polizia.
Tutto questo sabato. Nei giorni successivi scopriamo che questo match di tolleranza è solo il primo round della prossima campagna elettorale. Smith, infatti, dichiara che l’Unione Musulmani si candiderà alle elezioni; il segretario di Forza Nuova, dopo aver proposto una decorazione per i suoi valorosi, annuncia che i sei arrestati, "che difendono i valori della patria e del cattolicesimo" saranno candidati a Treviso, altra città rinomata per la sua tolleranza nei confronti di tutti i cittadini, a partire dal primo.
Gli unici a non tollerare Smith, a quanto parte, sono i musulmani, che già dopo la prima serata a Porta a Porta lo avevano cacciato fuori con infamia dalla moschea di Roma. “È un personaggio preoccupante, sedicente presidente di un’associazione che al massimo rappresenta 4-5 persone. La condanna per la sua aggressione non deve far dimenticare che è una figura che fa della provocazione la sua ragion d’essere” (Hamza Piccardo, segretario dell’Unione Comunità Islamiche, sulla Repubblica di domenica). “Siamo dispiaciuti. Dispiaciuti per la violenza inaccettabile… ma anche per la scelta fatta dai media di avvallare un’immagine dell’Islam, quella di Adel Smith, che non corrisponde al vero volto dell’Islam” (Hamdi Guerfi, Imam di Verona, sulla Repubblica di domenica).
Si vede che è gente arretrata, che non ha ancora capito il valore della moderna tolleranza.
Nel frattempo, Teleserenissima aveva già invitato Smith a un’altra serata. Giusto perché non si pensasse che Verona non lo tollera abbastanza.
E tutto questo, noi, lo tolleriamo.
Ma a volte mi chiedo se non tolleriamo un po’ troppo.
venerdì 10 gennaio 2003
Noi vagamente intuiamo che la nostra vita potrebbe cambiare ogni giorno, compreso domani, 10 gennaio ’03.
Ma per ora è molto più plausibile che si tratterà di un giorno come un altro. I giornali parleranno di Cofferati che replica a Fassino, e in tv Fassino ri-replicherà a Cofferati. Qualcuno, in mancanza di migliori argomenti, proporrà una riforma costituzionale a caso. Magari Berlusconi racconterà una barzelletta, di cui ci ricorderemo per mesi. Ci sarà qualche morto in Cisgiordania e qualche altra calamità nel resto del mondo. E la vita continuerà, senza pretese.
O forse no.
Per noi cittadini europei il 10 gennaio ’03 è il termine ultimo per dare il proprio parere sulla privatizzazione indiscriminata dei servizi pubblici. Lo sapevate? No, scommetto di no.
Magari qualche giorno fa avete sentito dire che è stato liberalizzato il riscaldamento, e non aveva l’aria della notizia che vi cambia la vita. D’ora in poi le società del gas sono libere di farsi la concorrenza per scaldarvi la casa. Caleranno le tariffe? Forse (quanto avete risparmiato in bolletta da quando hanno privatizzato la Telecom?).
E forse taglieranno i costi, licenzieranno qualche tecnico per assumere precari, smetteranno di servire quel paesino di montagna perché è uno spreco, e gli sprechi si tagliano: è l’economia.
O forse no. Non è che tutte le privatizzazioni debbano finire per forza come le ferrovie britanniche, ma è giusto chiedersi: chi ha deciso di liberalizzarci il gas? Siamo stati noi italiani? I nostri rappresentanti in Parlamento? Ma ce ne avevano parlato?
No. Non tanto. I nostri politici sanno quello che c’interessa: in primo luogo, i dibattiti sulle riforme, i premierati e i presidenzialismi. Poi le grandi opere: la quarta corsia dell’Autosole, per non sollevare l’accelleratore da casello a casello. Il ponte sullo Stretto. E così via. Il gas… non è un argomento che appassiona gli italiani. Del resto per il gas (e la luce, e tante altre cose), il parlamento si attiene alle direttive della Commissione Europea.
La Commissione Europea, dal canto suo, si attiene alle indicazioni del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Quanto al WTO, non è ben chiaro a chi si attenga. È un’istituzione internazionale di dubbia democraticità, nata nel 1994, che non ha mai fatto mistero di voler liberalizzare il mercato dei servizi. Per “Servizi” intendiamo Luce, acqua, istruzione, sanità, trasporti, e altri 160 settori economici che insieme valgono un terzo del commercio mondiale, più di un migliaio di miliardi di fatturato.
Un bel bocconcino, da immettere nel Mercato Globale, proprio adesso che langue. A chi giova? A noi cittadini-utenti? Forse, chissà. Ma sicuramente gioverà alle multinazionali (64 tra le prime 100 multinazionali nel mondo si occupano di servizi).
Finora la liberalizzazione globale dei servizi non c’è stata, per una serie d’impedimenti, tra i quali il malcontento popolare. Forse vi ricordate solo le vetrine rotte, ma a Seattle si protestava proprio contro i disegni del WTO.
Sono passati quattro anni, ormai, dal naufragio del famigerato Accordo Multilaterale degli Investimenti (MAI). I vertici WTO non si svolgono più in città affollate, i delegati preferiscono posticini appartati, come Doha (Qatar).
È in questi rifugi fortificati, al riparo dai teppisti e dei giornalisti (che senza teppisti non si scomodano) che dalle ceneri del MAI è nato il GATS.
In italiano GATS si direbbe Agcs: accordo generale sul commercio dei servizi. È una trattativa complessa, che parte nel 2000 e dovrebbe terminare nel 2004. Ogni membro del WTO ha la possibilità di chiedere qualcosa, ma alla fine dovrà concedere qualcos’altro. Al grande round l’Italia non partecipa da sola, ma fa squadra con l’Unione Europea.
Bene. E cosa chiede l’Unione Europea agli altri Paesi? Qualcuno lo sa? E chi l'ha deciso?
Ma soprattutto: cosa ha intenzione di concedere?
Credo che in quanto cittadino europeo dovrei essere al corrente di queste cose. Di più: dovrei aver partecipato alla decisione, perché l’Europa è una democrazia. È stato così? Qualcuno ha chiesto il mio parere?
La risposta è sì: qualcuno ha richiesto il mio parere.
Dal novembre scorso la Commissione Europea ha sottoposto al “pubblico” un cospicuo documento intitolato RICHIESTE DEI MEMBRI DELL'Organizzazione Mondiale del Commercio alla Commissione Europea E AI SUOI STATI MEMBRI RELATIVE AD UN MIGLIORE ACCESSO AL MERCATO PER I SERVIZI. Dove? Ma che domande, su internet! Di modo che tutti possano accedere più facilmente.
In cima Pasqual Lamy, Commissario al Commercio, si presenta:
Da quando sono entrato in carica, nel 1999, ho sempre cercato di operare all'insegna della trasparenza e di mantenere un dialogo permanente con tutte le parti interessate su tutte le questioni, più o meno fondate, sollevate dalla liberalizzazione del commercio […] Vi invito pertanto ad esaminare attentamente il presente documento e a comunicarci i Vostri commenti in proposito entro il 10 gennaio 2003.
Ma a chi sta parlando, Lamy? Chi sono le “parti interessate”? I cittadini d’Europa, i loro rappresentanti politici, la società civile, le ONG? Lamy non s’indirizza a nessuno. Curioso lapsus. (Nella versione inglese, le “parti interessate” sono gli stakeholders, “soci azionisti”).
Beh, in ogni caso non abbiamo scuse. Avevamo due mesi di tempo per leggere le 58 pagine di richieste e comunicare le nostre valutazioni a Lamy. Perché non le abbiamo notate? Forse perché i giornali parlavano di presidenzialismo e di Byron Moreno?
Chi ha avuto il tempo, ha notato qualche lacuna. Una macroscopica: mancano le richieste formulate dall’UE agli altri Paesi: sono 109. Non abbiamo il diritto di sapere quello che vogliamo, oltre a quello a cui dobbiamo rinunciare?
Il GATS è una cosa seria. Rivoluzionerà il rapporto tra pubblico e privato. Il modello è il mercato comune di Canada, USA e Messico, dove le imprese private possono citare in giudizio i governi che si attentino a privilegiare il loro servizio pubblico rispetto a un concorrente privato. Statisticamente, la giustizia dà torto al governo. Recentemente L’UPS ha denunciato le Poste Canadesi (teste Ralph Nader).
Ora vi chiedo una cortesia. Parliamoci chiaro: io non l’ho letto, il dossier di Lamy. Forse non ne sarei in grado nemmeno avendo il tempo. Ma ho la sensazione che quel tempo non ci sia stato concesso, e trovo che questo sia molto grave. Anche se fossi un fan sfegatato delle liberalizzazioni.
Per questo scriverò una mail a Lamy, manifestando il mio disappunto, e vi chiedo di fare lo stesso. Qui trovate un testo già pronto.
Poi potremo tornare alla nostra vita quotidiana, a Fassino che si lamenta perché tutti gli remano contro (nel frattempo due esponenti del suo partito fanno passare un emendamento che obbliga i Comuni a privatizzare gli acquedotti).
Torneremo a parlare di quanto sarebbe bello avere un presidente eletto dal popolo invece che dal parlamento -- come se cambiasse qualcosa, quando l'agenda dei nostri politici la compila il WTO.
E così il 10 gennaio passerà, come passano tanti altri giorni, senza cambiarci la vita.O forse sì. Non lo sapremo mai -- ma togliamoci il pensiero.
Ma per ora è molto più plausibile che si tratterà di un giorno come un altro. I giornali parleranno di Cofferati che replica a Fassino, e in tv Fassino ri-replicherà a Cofferati. Qualcuno, in mancanza di migliori argomenti, proporrà una riforma costituzionale a caso. Magari Berlusconi racconterà una barzelletta, di cui ci ricorderemo per mesi. Ci sarà qualche morto in Cisgiordania e qualche altra calamità nel resto del mondo. E la vita continuerà, senza pretese.
O forse no.
Per noi cittadini europei il 10 gennaio ’03 è il termine ultimo per dare il proprio parere sulla privatizzazione indiscriminata dei servizi pubblici. Lo sapevate? No, scommetto di no.
Magari qualche giorno fa avete sentito dire che è stato liberalizzato il riscaldamento, e non aveva l’aria della notizia che vi cambia la vita. D’ora in poi le società del gas sono libere di farsi la concorrenza per scaldarvi la casa. Caleranno le tariffe? Forse (quanto avete risparmiato in bolletta da quando hanno privatizzato la Telecom?).
E forse taglieranno i costi, licenzieranno qualche tecnico per assumere precari, smetteranno di servire quel paesino di montagna perché è uno spreco, e gli sprechi si tagliano: è l’economia.
O forse no. Non è che tutte le privatizzazioni debbano finire per forza come le ferrovie britanniche, ma è giusto chiedersi: chi ha deciso di liberalizzarci il gas? Siamo stati noi italiani? I nostri rappresentanti in Parlamento? Ma ce ne avevano parlato?
No. Non tanto. I nostri politici sanno quello che c’interessa: in primo luogo, i dibattiti sulle riforme, i premierati e i presidenzialismi. Poi le grandi opere: la quarta corsia dell’Autosole, per non sollevare l’accelleratore da casello a casello. Il ponte sullo Stretto. E così via. Il gas… non è un argomento che appassiona gli italiani. Del resto per il gas (e la luce, e tante altre cose), il parlamento si attiene alle direttive della Commissione Europea.
La Commissione Europea, dal canto suo, si attiene alle indicazioni del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Quanto al WTO, non è ben chiaro a chi si attenga. È un’istituzione internazionale di dubbia democraticità, nata nel 1994, che non ha mai fatto mistero di voler liberalizzare il mercato dei servizi. Per “Servizi” intendiamo Luce, acqua, istruzione, sanità, trasporti, e altri 160 settori economici che insieme valgono un terzo del commercio mondiale, più di un migliaio di miliardi di fatturato.
Un bel bocconcino, da immettere nel Mercato Globale, proprio adesso che langue. A chi giova? A noi cittadini-utenti? Forse, chissà. Ma sicuramente gioverà alle multinazionali (64 tra le prime 100 multinazionali nel mondo si occupano di servizi).
Finora la liberalizzazione globale dei servizi non c’è stata, per una serie d’impedimenti, tra i quali il malcontento popolare. Forse vi ricordate solo le vetrine rotte, ma a Seattle si protestava proprio contro i disegni del WTO.
Sono passati quattro anni, ormai, dal naufragio del famigerato Accordo Multilaterale degli Investimenti (MAI). I vertici WTO non si svolgono più in città affollate, i delegati preferiscono posticini appartati, come Doha (Qatar).
È in questi rifugi fortificati, al riparo dai teppisti e dei giornalisti (che senza teppisti non si scomodano) che dalle ceneri del MAI è nato il GATS.
In italiano GATS si direbbe Agcs: accordo generale sul commercio dei servizi. È una trattativa complessa, che parte nel 2000 e dovrebbe terminare nel 2004. Ogni membro del WTO ha la possibilità di chiedere qualcosa, ma alla fine dovrà concedere qualcos’altro. Al grande round l’Italia non partecipa da sola, ma fa squadra con l’Unione Europea.
Bene. E cosa chiede l’Unione Europea agli altri Paesi? Qualcuno lo sa? E chi l'ha deciso?
Ma soprattutto: cosa ha intenzione di concedere?
Credo che in quanto cittadino europeo dovrei essere al corrente di queste cose. Di più: dovrei aver partecipato alla decisione, perché l’Europa è una democrazia. È stato così? Qualcuno ha chiesto il mio parere?
La risposta è sì: qualcuno ha richiesto il mio parere.
Dal novembre scorso la Commissione Europea ha sottoposto al “pubblico” un cospicuo documento intitolato RICHIESTE DEI MEMBRI DELL'Organizzazione Mondiale del Commercio alla Commissione Europea E AI SUOI STATI MEMBRI RELATIVE AD UN MIGLIORE ACCESSO AL MERCATO PER I SERVIZI. Dove? Ma che domande, su internet! Di modo che tutti possano accedere più facilmente.
In cima Pasqual Lamy, Commissario al Commercio, si presenta:
Da quando sono entrato in carica, nel 1999, ho sempre cercato di operare all'insegna della trasparenza e di mantenere un dialogo permanente con tutte le parti interessate su tutte le questioni, più o meno fondate, sollevate dalla liberalizzazione del commercio […] Vi invito pertanto ad esaminare attentamente il presente documento e a comunicarci i Vostri commenti in proposito entro il 10 gennaio 2003.
Ma a chi sta parlando, Lamy? Chi sono le “parti interessate”? I cittadini d’Europa, i loro rappresentanti politici, la società civile, le ONG? Lamy non s’indirizza a nessuno. Curioso lapsus. (Nella versione inglese, le “parti interessate” sono gli stakeholders, “soci azionisti”).
Beh, in ogni caso non abbiamo scuse. Avevamo due mesi di tempo per leggere le 58 pagine di richieste e comunicare le nostre valutazioni a Lamy. Perché non le abbiamo notate? Forse perché i giornali parlavano di presidenzialismo e di Byron Moreno?
Chi ha avuto il tempo, ha notato qualche lacuna. Una macroscopica: mancano le richieste formulate dall’UE agli altri Paesi: sono 109. Non abbiamo il diritto di sapere quello che vogliamo, oltre a quello a cui dobbiamo rinunciare?
Il GATS è una cosa seria. Rivoluzionerà il rapporto tra pubblico e privato. Il modello è il mercato comune di Canada, USA e Messico, dove le imprese private possono citare in giudizio i governi che si attentino a privilegiare il loro servizio pubblico rispetto a un concorrente privato. Statisticamente, la giustizia dà torto al governo. Recentemente L’UPS ha denunciato le Poste Canadesi (teste Ralph Nader).
Ora vi chiedo una cortesia. Parliamoci chiaro: io non l’ho letto, il dossier di Lamy. Forse non ne sarei in grado nemmeno avendo il tempo. Ma ho la sensazione che quel tempo non ci sia stato concesso, e trovo che questo sia molto grave. Anche se fossi un fan sfegatato delle liberalizzazioni.
Per questo scriverò una mail a Lamy, manifestando il mio disappunto, e vi chiedo di fare lo stesso. Qui trovate un testo già pronto.
Poi potremo tornare alla nostra vita quotidiana, a Fassino che si lamenta perché tutti gli remano contro (nel frattempo due esponenti del suo partito fanno passare un emendamento che obbliga i Comuni a privatizzare gli acquedotti).
Torneremo a parlare di quanto sarebbe bello avere un presidente eletto dal popolo invece che dal parlamento -- come se cambiasse qualcosa, quando l'agenda dei nostri politici la compila il WTO.
E così il 10 gennaio passerà, come passano tanti altri giorni, senza cambiarci la vita.O forse sì. Non lo sapremo mai -- ma togliamoci il pensiero.
giovedì 9 gennaio 2003
La verità sul supplente di italiano
C’è gente che è passata di qui, ha letto il pezzo sulla lezione di Ungaretti, e si è commossa: che sensibilità, che stile, che fine pedagogia. Chissà com’è bravo, questo prof. E chissà come gli vogliono bene i suoi studenti.
La realtà, naturalmente, è ben’altra.
La realtà è che io sono un povero incompetente, con la tendenza a cacciarsi nei guai e ad accettare le offerte di lavoro più inverosimili. La realtà è che dopo cinque mesi ho la netta sensazione di non aver cavato un ragno dal buco.
L’unico sensibile miglioramento: da un po’ di tempo in qua non mi capita più di chiudere la porta dell’aula a chiave e minacciare di buttar la chiave dalla finestra. Ma è dura. È così dura.
Sapete quand’è che uno capisce che non ama il suo lavoro (coliche a parte)?
Quando si mette a fantasticare di come sarebbe bello, tutto sommato, fare il commesso in un ipermercato, girare coi pattini tra gli scaffali tutto il santo giorno, e d’estate c’è l’aria condizionata. O il benzinaio – che preoccupazioni ha un benzinaio, se non fuma? Se facessi l’autista di furgone potrei ascoltare la radio tutto il giorno. E anche in fonderia pagano bene…
A volte mi sembra di aver davanti dei marziani. Simpatici, per carità, ma io non ho l’abilitazione per insegnare italiano ai marziani. Ammesso che serva a qualcosa l’italiano su Marte.
E vado a letto col batticuore, e mi sveglio con l’angoscia. Ho fatto il carabiniere, e non andava bene; ho fatto il pagliaccio, e non andava ancora. Ho urlato ed era inutile, sono stato zitto e loro urlavano. Vien voglia di corrompere il bidello, che suoni la benedetta campana, o fuggire sulla tazza del cesso, come Lodoli, che è quello il posto del letterato nella scuola dell’obbligo.
Quanto al famoso Ungaretti, ieri sono arrivati i compiti delle vacanze. Sentite un po’ – giusto per ristabilire la verità storica:
1) Secondo te, è una poesia allegra o triste?
triste
2) Cosa fa Ungaretti la notte di Natale?
Fa che non ha voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade
3) “Ho tanta stanchezza sulle spalle”. Perché è stanco?
Perché scrive molte poesie
4) “Gomitolo di strade”. Questa immagione è molto strana. Cosa vuole dire?
Doveva morire, invece no
Morale: sono più bravo a scrivere le cose che faccio che a farle. Non fidatevi di me, specie quando scrivo in prima persona.
***
Postilla su Wittgenstein (Ludwig):
Mi è venuta in mente un’altra cosa di lui: a un certo punto cercò di fare l’insegnante in una scuola media, ma non ce la fece. Fuggì, dopo aver bussato uno dei suoi scolari. Si rimise a fare il filosofo del linguaggio.
Beh, non è poi male, fare il filosofo del linguaggio. Almeno, dal di fuori parrebbe… bisognerebbe chiedere a Momo.
C’è gente che è passata di qui, ha letto il pezzo sulla lezione di Ungaretti, e si è commossa: che sensibilità, che stile, che fine pedagogia. Chissà com’è bravo, questo prof. E chissà come gli vogliono bene i suoi studenti.
La realtà, naturalmente, è ben’altra.
La realtà è che io sono un povero incompetente, con la tendenza a cacciarsi nei guai e ad accettare le offerte di lavoro più inverosimili. La realtà è che dopo cinque mesi ho la netta sensazione di non aver cavato un ragno dal buco.
L’unico sensibile miglioramento: da un po’ di tempo in qua non mi capita più di chiudere la porta dell’aula a chiave e minacciare di buttar la chiave dalla finestra. Ma è dura. È così dura.
Sapete quand’è che uno capisce che non ama il suo lavoro (coliche a parte)?
Quando si mette a fantasticare di come sarebbe bello, tutto sommato, fare il commesso in un ipermercato, girare coi pattini tra gli scaffali tutto il santo giorno, e d’estate c’è l’aria condizionata. O il benzinaio – che preoccupazioni ha un benzinaio, se non fuma? Se facessi l’autista di furgone potrei ascoltare la radio tutto il giorno. E anche in fonderia pagano bene…
A volte mi sembra di aver davanti dei marziani. Simpatici, per carità, ma io non ho l’abilitazione per insegnare italiano ai marziani. Ammesso che serva a qualcosa l’italiano su Marte.
E vado a letto col batticuore, e mi sveglio con l’angoscia. Ho fatto il carabiniere, e non andava bene; ho fatto il pagliaccio, e non andava ancora. Ho urlato ed era inutile, sono stato zitto e loro urlavano. Vien voglia di corrompere il bidello, che suoni la benedetta campana, o fuggire sulla tazza del cesso, come Lodoli, che è quello il posto del letterato nella scuola dell’obbligo.
Quanto al famoso Ungaretti, ieri sono arrivati i compiti delle vacanze. Sentite un po’ – giusto per ristabilire la verità storica:
1) Secondo te, è una poesia allegra o triste?
triste
2) Cosa fa Ungaretti la notte di Natale?
Fa che non ha voglia di tuffarmi in un gomitolo di strade
3) “Ho tanta stanchezza sulle spalle”. Perché è stanco?
Perché scrive molte poesie
4) “Gomitolo di strade”. Questa immagione è molto strana. Cosa vuole dire?
Doveva morire, invece no
Morale: sono più bravo a scrivere le cose che faccio che a farle. Non fidatevi di me, specie quando scrivo in prima persona.
***
Postilla su Wittgenstein (Ludwig):
Mi è venuta in mente un’altra cosa di lui: a un certo punto cercò di fare l’insegnante in una scuola media, ma non ce la fece. Fuggì, dopo aver bussato uno dei suoi scolari. Si rimise a fare il filosofo del linguaggio.
Beh, non è poi male, fare il filosofo del linguaggio. Almeno, dal di fuori parrebbe… bisognerebbe chiedere a Momo.
mercoledì 8 gennaio 2003
Wittgenstein e wittgenstein
Poi alla fine vorrei dire una cosa: blog è una parola che non mi piace
Franco Bellacci
In questo pezzo si parla di due wittgenstein ben distinti, e a parte il nome non c’è proprio modo di confonderli.
E poi si parla di blog. Ogni tanto è inevitabile. Forse sapete già come il blog sia un virulento parassita dell’ego: si apre un blog per parlare di sé stessi, e col tempo si finisce di parlare soltanto del proprio blog. C’è chi prova a smettere, ma è dura. Io calo la dose, pian piano…
I due wittgenstein, dunque. Il primo è il blog di Luca Sofri, uno dei più letti e apprezzati in Italia. Sofri ha un’idea chiara su cosa sia (e cosa non sia) un blog, e la porta avanti da un po’ di tempo (senza nessuna acrimonia, bisogna dire):
Si ha ragione quando si dice che è difficile spiegare che cos'è un blog, ma è vero che dei punti fissi ci sono, condivisi da tutti quelli che ne hanno scritto e discusso. Un blog deve avere degli aggiornamenti periodici continui e attuali e deve contenere dei links […]
È chiaro che una definizione così taglia fuori qualche centinaio di blog italiani, compreso forse questo qui, che non linca qualcosa di decente da settimane.
Il che non è un dramma, in fin dei conti. Tra l’altro non ci ho mai tenuto a chiamarlo così. È un nome come un altro e non è nemmeno un granché. E il discorso potrebbe finire qui: non chiamatemi più blog, non aspettatevi da me un link al giorno e nemmeno uno alla settimana, fine.
Mi va invece di prolungarlo, perché leggendo la definizione di Sofri mi è venuto in mente (indebitamente) Wittgenstein: non il blog, ma quell’altro, il filosofo austriaco del linguaggio.
Dal quale io – che non sono mai stato una cima in filosofia – ho ricavato forse quest’unico insegnamento: le definizioni sono cose inevitabili, ma stupide. Nel senso che, dovendo usare una parola (“blog”, in questo caso), è inevitabile prima o poi chiedersi che cosa veramente questa parola significhi. Quale sia il suo significato preciso e definito. Beh, non se ne esce fuori. Almeno, questo è quello che cerca di spiegare Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche.
66. Consider for example the proceedings that we call "games". I mean board-games, card-games, ball-games, Olympic games, and so on. What is common to them all? -- Don't say: "There must be something common, or they would not be called 'games' "-but look and see whether there is anything common to all. -- For if you look at them you will not see something that is common to all, but similarities, relationships, and a whole series of them at that. To repeat: don't think, but look! --
(Non trovate che sia molto espressivo e scorrevole, Wittgenstein tradotto in inglese? In italiano l’ho sempre trovato piuttosto pesante).
Don’t think, but look!, ci dice Wittgenstein. E prosegue dimostrando come nessuna definizione di “game” possa includere tutte le cose che chiamiamo con quel nome. In certi giochi si vince o si perde, in altri no; alcuni si fanno da soli, altri in competizione; e così via.
And we can go through the many, many other groups of games in the same way; can see how similarities crop up and disappear.
And the result of this examination is: we see a complicated network of similarities overlapping and cries-crossing: sometimes overall similarities.
“Un complicato tessuto di somiglianze che si sovrappongono e si intrecciano”, in luogo di una definizione chiara e concisa, data una volta per tutti da un vocabolario o da un consiglio di saggi. Wittgenstein parlava di “gioco”, ma con i blog non è la stessa cosa? Ci sono blog con i link, blog senza link, con commenti, senza commenti, personali, collettivi, blog di personaggi più o meno famosi, blog di gente qualunque. Se potessimo esaminarli tutti, probabilmente non troveremmo nessuna caratteristica comune. Eppure, in un qualche modo distinguiamo in ciascuno di loro quello che lo stesso Wittgenstein chiamava “aria di famiglia”: il complicato tessuto di somiglianze (e dissomiglianze) di cui sopra.
Da Wittgenstein in poi io non mi sono più preoccupato molto di definire le cose che faccio. Preferisco fare quello che mi riesce di fare. L’ansia delle definizioni credo che andrebbe lasciata ai lanciatori di tendenze, che a scadenze fisse devono scoprire qualcosa di nuovo e farci un titolo. Un paio di anni fa si parlava di E/N, oggi di blog, domani sarà la volta di qualcos’altro: con tutto il rispetto, è una cosa che non mi appassiona (tanto io continuerò più o meno a fare le stesse cose, temo). Lo stesso Creatore del cielo e della terra – se mi passate l’immodesto paragone – non si è mai preoccupato di dare un nome a nessuna creatura. Ha preso il primo scimpanzé spelacchiato che passava e gli ha detto: pensaci tu (Genesi 2,19).
Ma torniamo all’altro Wittgenstein, cioè Sofri: perché ha tanto a cuore i link?
(sempre dal ludk web): ... I blogs, invece, hanno i links, e questa è la loro ricchezza: il rimando al mondo fuori dal sito, al resto delle cose che circolano, alle notizie, a quello che avviene altrove).
Che è una cosa condivisibile: un sito con link al mondo esterno dà sempre una migliore impressione, come d’aria fresca (purché sia davvero il mondo esterno, e non una cerchia più o meno ristretta di bloggatori sodali). Ma non so se sia quell’impressione a tenerci davanti al monitor alla costante ricerca di nuovi blog.
Prendiamo lo stesso Wittgenstein (il blog). Perché ha tanto successo? Perché contiene ottimi rimandi alla stampa anglosassone? Perché sa dare risalto anche ai blog degli umili mortali? Può darsi. Personalmente io lo visito quasi tutti i giorni, e clicco forse sul cinque per cento dei suoi link. Eh, non vi aspetterete che mi sciroppi un fondo del Washington Post al giorno (mi domando chi sia in grado di farlo).
È chiaro che a me (solo a me?) interessa qualcos’altro. E che quel qualcos’altro è un certo tipo di stile, che trovo lì, (e altrove), nel modo di metter già i titoli, le battute, le cazzate e le cose un po’ più importanti. Una scrittura. Che è quello che m’interessa, ahimé, forse più dei contenuti.
Insomma, i blog possono parlare di sé o parlare d’altro – e probabilmente è meglio quando parlano d’altro – ma sono comunque individui. Non ci si affeziona a loro per quello che dicono, ma per il modo in cui lo dicono. Che poi dicano qualcosa d’interessante, è un piacevole optional (io ci sto lavorando).
Poi alla fine vorrei dire una cosa: blog è una parola che non mi piace
Franco Bellacci
In questo pezzo si parla di due wittgenstein ben distinti, e a parte il nome non c’è proprio modo di confonderli.
E poi si parla di blog. Ogni tanto è inevitabile. Forse sapete già come il blog sia un virulento parassita dell’ego: si apre un blog per parlare di sé stessi, e col tempo si finisce di parlare soltanto del proprio blog. C’è chi prova a smettere, ma è dura. Io calo la dose, pian piano…
I due wittgenstein, dunque. Il primo è il blog di Luca Sofri, uno dei più letti e apprezzati in Italia. Sofri ha un’idea chiara su cosa sia (e cosa non sia) un blog, e la porta avanti da un po’ di tempo (senza nessuna acrimonia, bisogna dire):
Si ha ragione quando si dice che è difficile spiegare che cos'è un blog, ma è vero che dei punti fissi ci sono, condivisi da tutti quelli che ne hanno scritto e discusso. Un blog deve avere degli aggiornamenti periodici continui e attuali e deve contenere dei links […]
È chiaro che una definizione così taglia fuori qualche centinaio di blog italiani, compreso forse questo qui, che non linca qualcosa di decente da settimane.
Il che non è un dramma, in fin dei conti. Tra l’altro non ci ho mai tenuto a chiamarlo così. È un nome come un altro e non è nemmeno un granché. E il discorso potrebbe finire qui: non chiamatemi più blog, non aspettatevi da me un link al giorno e nemmeno uno alla settimana, fine.
Mi va invece di prolungarlo, perché leggendo la definizione di Sofri mi è venuto in mente (indebitamente) Wittgenstein: non il blog, ma quell’altro, il filosofo austriaco del linguaggio.
Dal quale io – che non sono mai stato una cima in filosofia – ho ricavato forse quest’unico insegnamento: le definizioni sono cose inevitabili, ma stupide. Nel senso che, dovendo usare una parola (“blog”, in questo caso), è inevitabile prima o poi chiedersi che cosa veramente questa parola significhi. Quale sia il suo significato preciso e definito. Beh, non se ne esce fuori. Almeno, questo è quello che cerca di spiegare Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche.
66. Consider for example the proceedings that we call "games". I mean board-games, card-games, ball-games, Olympic games, and so on. What is common to them all? -- Don't say: "There must be something common, or they would not be called 'games' "-but look and see whether there is anything common to all. -- For if you look at them you will not see something that is common to all, but similarities, relationships, and a whole series of them at that. To repeat: don't think, but look! --
(Non trovate che sia molto espressivo e scorrevole, Wittgenstein tradotto in inglese? In italiano l’ho sempre trovato piuttosto pesante).
Don’t think, but look!, ci dice Wittgenstein. E prosegue dimostrando come nessuna definizione di “game” possa includere tutte le cose che chiamiamo con quel nome. In certi giochi si vince o si perde, in altri no; alcuni si fanno da soli, altri in competizione; e così via.
And we can go through the many, many other groups of games in the same way; can see how similarities crop up and disappear.
And the result of this examination is: we see a complicated network of similarities overlapping and cries-crossing: sometimes overall similarities.
“Un complicato tessuto di somiglianze che si sovrappongono e si intrecciano”, in luogo di una definizione chiara e concisa, data una volta per tutti da un vocabolario o da un consiglio di saggi. Wittgenstein parlava di “gioco”, ma con i blog non è la stessa cosa? Ci sono blog con i link, blog senza link, con commenti, senza commenti, personali, collettivi, blog di personaggi più o meno famosi, blog di gente qualunque. Se potessimo esaminarli tutti, probabilmente non troveremmo nessuna caratteristica comune. Eppure, in un qualche modo distinguiamo in ciascuno di loro quello che lo stesso Wittgenstein chiamava “aria di famiglia”: il complicato tessuto di somiglianze (e dissomiglianze) di cui sopra.
Da Wittgenstein in poi io non mi sono più preoccupato molto di definire le cose che faccio. Preferisco fare quello che mi riesce di fare. L’ansia delle definizioni credo che andrebbe lasciata ai lanciatori di tendenze, che a scadenze fisse devono scoprire qualcosa di nuovo e farci un titolo. Un paio di anni fa si parlava di E/N, oggi di blog, domani sarà la volta di qualcos’altro: con tutto il rispetto, è una cosa che non mi appassiona (tanto io continuerò più o meno a fare le stesse cose, temo). Lo stesso Creatore del cielo e della terra – se mi passate l’immodesto paragone – non si è mai preoccupato di dare un nome a nessuna creatura. Ha preso il primo scimpanzé spelacchiato che passava e gli ha detto: pensaci tu (Genesi 2,19).
Ma torniamo all’altro Wittgenstein, cioè Sofri: perché ha tanto a cuore i link?
(sempre dal ludk web): ... I blogs, invece, hanno i links, e questa è la loro ricchezza: il rimando al mondo fuori dal sito, al resto delle cose che circolano, alle notizie, a quello che avviene altrove).
Che è una cosa condivisibile: un sito con link al mondo esterno dà sempre una migliore impressione, come d’aria fresca (purché sia davvero il mondo esterno, e non una cerchia più o meno ristretta di bloggatori sodali). Ma non so se sia quell’impressione a tenerci davanti al monitor alla costante ricerca di nuovi blog.
Prendiamo lo stesso Wittgenstein (il blog). Perché ha tanto successo? Perché contiene ottimi rimandi alla stampa anglosassone? Perché sa dare risalto anche ai blog degli umili mortali? Può darsi. Personalmente io lo visito quasi tutti i giorni, e clicco forse sul cinque per cento dei suoi link. Eh, non vi aspetterete che mi sciroppi un fondo del Washington Post al giorno (mi domando chi sia in grado di farlo).
È chiaro che a me (solo a me?) interessa qualcos’altro. E che quel qualcos’altro è un certo tipo di stile, che trovo lì, (e altrove), nel modo di metter già i titoli, le battute, le cazzate e le cose un po’ più importanti. Una scrittura. Che è quello che m’interessa, ahimé, forse più dei contenuti.
Insomma, i blog possono parlare di sé o parlare d’altro – e probabilmente è meglio quando parlano d’altro – ma sono comunque individui. Non ci si affeziona a loro per quello che dicono, ma per il modo in cui lo dicono. Che poi dicano qualcosa d’interessante, è un piacevole optional (io ci sto lavorando).
lunedì 6 gennaio 2003
You don't have to put on the red light
Non tutta la telefonia mobile viene per nuocere, comunque.
Prendi l'auricolare. Io non ce l'ho, e non lo desidero, ma sono contento che ci sia gente che lo usi, nelle strade e negli abitacoli. Non solo perché ha meno scuse per metterti sotto agli incroci, ma per tutta una serie di ricadute positive sui nostri codici di comportamento.
Infatti, io ricordo molto bene come fino a pochi anni fa la gente che camminava parlando da sola non fosse vista di buon occhio. Parlare senza un interlocutore è tuttora considerata una cosa molto sconveniente, ai limiti dell'insania mentale, e dire che pochi vizi sono così innocui e poco dannosi per il prossimo. (Non è già più fastidioso il voler trovare a tutti i costi ascoltatori per le cose che diciamo?)
Oggi, però, se calcando un marciapiede t'imbatti in un signore in giacca e cravatta che chiacchiera nervoso con sé stesso, non pensi più a chiamare l'ambulanza, perché dai per scontato che stia discutendo di cose molto importanti via satellite.
Ed è solo l'inizio. Pensatori ad alta voce, ancora un po' di pazienza, ma se l'economia si rimette a girare in primavera potrete uscire allo scoperto e raccontare le vostre cose agli alberi in fiore, senza che nessuno ci faccia più caso.
Quanto a me, non posso che essere grato agli auricolari, per la gioia che mi dà cantare in macchina a ogni ora del giorno, con la pioggia e col bel tempo, e soprattutto in coda ai semafori. E ci do dentro, sapete, piango, rido, tiro tutti i muscoli della faccia, e se per radio ci sono i Police, io non mi tiro indietro.
Roooooox-èn,
non dovevi aspettare la red light
se ti sbrigavi era yellow
non dovevi aspettare la red light
Sicuramente fino a qualche tempo fa gli automobilisti intorno a me ci facevano caso, ma ormai quei tempi tristi sono finiti. Oggi se qualcuno mi nota pensa senz'altro che è tutto ok, sto solo litigando con qualcuno, qualcuno che si fa mettere sotto al telefono, e quindi non sono un matto, bensì uno che nella vita si fa rispettare.
E questo è un gran regalo che mi ha fatto la telefonia mobile. Gratis. Grazie.
Non tutta la telefonia mobile viene per nuocere, comunque.
Prendi l'auricolare. Io non ce l'ho, e non lo desidero, ma sono contento che ci sia gente che lo usi, nelle strade e negli abitacoli. Non solo perché ha meno scuse per metterti sotto agli incroci, ma per tutta una serie di ricadute positive sui nostri codici di comportamento.
Infatti, io ricordo molto bene come fino a pochi anni fa la gente che camminava parlando da sola non fosse vista di buon occhio. Parlare senza un interlocutore è tuttora considerata una cosa molto sconveniente, ai limiti dell'insania mentale, e dire che pochi vizi sono così innocui e poco dannosi per il prossimo. (Non è già più fastidioso il voler trovare a tutti i costi ascoltatori per le cose che diciamo?)
Oggi, però, se calcando un marciapiede t'imbatti in un signore in giacca e cravatta che chiacchiera nervoso con sé stesso, non pensi più a chiamare l'ambulanza, perché dai per scontato che stia discutendo di cose molto importanti via satellite.
Ed è solo l'inizio. Pensatori ad alta voce, ancora un po' di pazienza, ma se l'economia si rimette a girare in primavera potrete uscire allo scoperto e raccontare le vostre cose agli alberi in fiore, senza che nessuno ci faccia più caso.
Quanto a me, non posso che essere grato agli auricolari, per la gioia che mi dà cantare in macchina a ogni ora del giorno, con la pioggia e col bel tempo, e soprattutto in coda ai semafori. E ci do dentro, sapete, piango, rido, tiro tutti i muscoli della faccia, e se per radio ci sono i Police, io non mi tiro indietro.
Roooooox-èn,
non dovevi aspettare la red light
se ti sbrigavi era yellow
non dovevi aspettare la red light
Sicuramente fino a qualche tempo fa gli automobilisti intorno a me ci facevano caso, ma ormai quei tempi tristi sono finiti. Oggi se qualcuno mi nota pensa senz'altro che è tutto ok, sto solo litigando con qualcuno, qualcuno che si fa mettere sotto al telefono, e quindi non sono un matto, bensì uno che nella vita si fa rispettare.
E questo è un gran regalo che mi ha fatto la telefonia mobile. Gratis. Grazie.
giovedì 2 gennaio 2003
Maestri di vita (4) – Giorgio Gaber (1939-2003)
Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene, e invece tu…
E oggi un anno nuovo ci regala il calendario
si accendono le luci e si tira su il sipario
ognuno fa la sua parte e incomincia il blablabla
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
E alle 8 e mezza mi presento puntuale
lavoro tutto il giorno e non mi trattano mica male
si spera nell'aumento che la vita risolverà
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene…
…e invece tu mi guardi storto
e mi dici una parolaccia
poi mi carichi a corpo morto
e mi tiri due pugni in faccia
ahi ahi ahi ahi
Se io non so di un fatto la versione originale
ci sono i quotidiani, c'è la radio e il telegiornale
mi basta seguire un momento e ho già chiara la verità
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
non può risolver tutto neanche la democrazia
ma è l'unico strumento che ci dà una garanzia
viviamo finalmente con una certa dignità
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene…
…e invece tu non sei clemente
e mi picchi in un ginocchio
io mi piego perché sofferente
tu mi morsichi in un orecchio
ahi ahi ahi ahi
a scuola ai buoni un premio, ai cattivi la punizione
ma in seguito nella vita è meno chiara la divisione
si parla di giustizia, di uguaglianza e blablabla
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
e quando sarò morto mi faranno il funerale
per una volta ancora sarò l'interprete principale
finita la triste funzione poi la vita continuerà
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
(A la moda del varietà, 196?)
Un buon proposito per il 2003 potrebbe essere: basta coccodrilli, almeno per un po', eh?
Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene, e invece tu…
E oggi un anno nuovo ci regala il calendario
si accendono le luci e si tira su il sipario
ognuno fa la sua parte e incomincia il blablabla
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
E alle 8 e mezza mi presento puntuale
lavoro tutto il giorno e non mi trattano mica male
si spera nell'aumento che la vita risolverà
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene…
…e invece tu mi guardi storto
e mi dici una parolaccia
poi mi carichi a corpo morto
e mi tiri due pugni in faccia
ahi ahi ahi ahi
Se io non so di un fatto la versione originale
ci sono i quotidiani, c'è la radio e il telegiornale
mi basta seguire un momento e ho già chiara la verità
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
non può risolver tutto neanche la democrazia
ma è l'unico strumento che ci dà una garanzia
viviamo finalmente con una certa dignità
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
Margherita,
lo sai che tu sei tutta la mia vita?
Lo sai che ormai il mio cuore ti appartiene?
Ti voglio tanto bene…
…e invece tu non sei clemente
e mi picchi in un ginocchio
io mi piego perché sofferente
tu mi morsichi in un orecchio
ahi ahi ahi ahi
a scuola ai buoni un premio, ai cattivi la punizione
ma in seguito nella vita è meno chiara la divisione
si parla di giustizia, di uguaglianza e blablabla
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
e quando sarò morto mi faranno il funerale
per una volta ancora sarò l'interprete principale
finita la triste funzione poi la vita continuerà
alla moda
alla moda
alla moda del varietà
(A la moda del varietà, 196?)
Un buon proposito per il 2003 potrebbe essere: basta coccodrilli, almeno per un po', eh?
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